La costituzione della Repubblica
italiana
La fine della guerra e “di una certa idea di
Italia”
“La primavera del 1945 […] segna il tramonto di
una certa idea di Italia, d’un primato da ricostruire,
d’una missione al tempo stesso nazionale e
universale da affidare alla Terza Roma, la Roma del
popolo, dopo quella dei Casari e dei Papi (cfr. G.
Mazzini, n.d.r.), con la sguardo teso in avanti, ma la
memoria volta fino ai lontani tempi dei Romani …”
(G. Accame, Una storia della Repubblica. Dalla fine
Il movimento di liberazione
“… Mentre la liberazione riportò in primo piano le
aspirazioni di progresso civile nell’allargamento
dei dirit, delle libertà, della partecipazione
popolare, che appartennero anch’esse al bagaglio
risorgimentale e apparvero insufficientemente
realizzate nell’Italia prefascista, poi represse in
quella fascista, nonostante la crescita sociale dei
nuovi ceti medi e la nazionalizzazione delle masse
da cui fu caratterizzato quel periodo” (Ivi, p. 10).
Dalla fine del fascismo al 48: Badoglio
Dopo il 25 luglio 1943 e la caduta del fascismo,
nascono i primi governi Badoglio. Si tratta di
“governi della corona” con la quale la
monarchia cerca di rifarsi una certa illibatezza,
promuovendo la cancellazione della struttura di
potere fascista e, al tempo stesso, quella
condotta ambigua che porterà dall’annuncio “la
guerra continua”, all’ armistizio con gli americani
e all’otto settembre.
Il Regno del Sud
Dal 9 settembre 1943, dopo la fuga del re a Brindisi, di fatto
nasce un Regno del Sud, su iniziativa del sovrano e sorveglianza
degli alleati (Commissione Alleata di Controllo), che lasceranno
poi al maresciallo Badoglio il compito di continuare a governare
formalmente: “Nonostante la sua autoqualificazione il c.d.
Regno del Sud non era in effetti, dal punto di vista del diritto
internazionale pubblico, uno Stato vero e proprio, ma soltanto
un mero protettorato che, come la maggior parte dei
protettorati, occultava, almeno inizialmente un’annessione
larvata” (A. Reposo, Storia e critica comparata della costituzione
La RSI
Come il Regno del Sud, anche la RSI, fondata da
Mussolini dopo la sua liberazione avvenuta il
12/9/1943, scontava un forte deficit di sovranità,
essendo i suoi atti sottoposti di fatto all’approvazione
di plenipotenziari tedeschi. Cionondimeno il successo
del prestito pubblico lanciato dalle autorità
repubblicane a Milano nel marzo 1944, e quello della
coscrizione per la formazione dell’esercito, mostrano
un certo livello di consenso che ancora manteneva il
fascismo al Nord.
Continuità: RSI
I provvedimenti legislativi presi dalla RSI furono
considerati, dal decreto legislativo luogotenenziale
(D.lgs. Lgt.) 249 del 1944 “che si sforzava di mettere
ordine nella farraginosa produzione normativa
prodotta ‘sotto l’impero del governo di fatto cessato’”,
all’interno delle seguenti categorie:
- atti illegittimi e privi di efficacia;
- atti inefficaci ma convalidabili;
- atti efficaci (sentenze) ma invalidabili;
- atti perfettamente efficaci e validi.
Continuità: RSI e Regno del sud
Così se sulla base della considerazione di validità
(parziale) degli at della RSI, era stabilita una
continuità tra il vecchio e il nuovo regime; allo
stesso modo il Regno del sud aveva rappresentato
la cerniera di collegamento e lo strumento di
transizione, mediante la sopravvivenza della
corona (luogotenenza di Umberto II dal 5/6/1944
e poi regno dal 9/5 al 10/6/1946), tra il vecchio
ordinamento e quanto sarebbe avvenuto dopo.
Da Badoglio a De Gasperi
Nel Regno del sud, man mano che gli Alleati avanzano, prendono
forma i governi di transizione che preparano il passaggio al
periodo del dopoguerra. A tali governi prendono parte i partiti
liberali, liberal-socialisti (PdA) cattolici (DC) e di sinistra (PSI-PSIUP,
PCI) che al tempo stesso nel CLNAI coordinano le attività della
resistenza al Nord. Ciò - per quanto riguarda la sinistra comunista,
egemone nel movimento di resistenza settentrionale - è reso
possibile dalla svolta di Salerno di Togliatti (marzo-aprile 1944) che
fa cadere la pregiudiziale contro l’ex fascista Badoglio e rimanda a
dopo la guerra ogni ulteriore decisione sulle configurazioni di
governo che l’Italia avrebbe dovuto assumere, dopo la fine
definitiva del fascismo. Dopo Badoglio si succedono altri governi.
Bonomi (18/6/1944-19/6/1945)
Egli, dando attuazione all’indirizzo della Conferenza interalleata di Mosca dell’ottobre 1943 (“ al Popolo Italiano venga concessa ogni opportunità per instaurare una nuova forma di governo istituzionale fondato su principi democratici”), emana il decreto legge luogotenenziale (D.L. Lgt.) 151 del 4/1944 che prevede “dopo la liberazione del territorio nazionale”, l’elezione popolare “a suffragio universale diretto e segreto” di un’“Assemblea costituente per deliberare la costituzione del nuovo Stato”. Questo decreto, escludendo un ritorno allo Statuto albertino, si pone di fatto come una costituzione transitoria, istituendo una frattura costituzionale con il precedente ordinamento. Il governo giura significativamente fedeltà alla nazione e non al re il quale, dal canto suo, sarebbe eventualmente stato legittimato in futuro non dalla “grazia di Dio” come nello Statuto, ma dalla “volontà del popolo” (cfr. ivi , pp. 37-38).
F. Parri 19/6 – 20/12/1945
Durante il suo governo si completa la risalita alleata del nord Italia e crolla la RSI. Egli, sotto il profilo politico, tenta nel suo governo la conciliazione del “Vento del
Nord” cioè delle istanze dei combattenti partigiani – prevalentemente di sinistra -
votate ad un radicale rinnovamento sociale del Paese e la visione realistica, più matura e smaliziata della politica dei partiti già inaugurata al Sud. Nella compagine ministeriale sono rappresentati tutti i partiti del CLN, tra i quali già emergono i conflitti determinati dalle profonde divergenze culturali e progettuali che dividevano le sue componenti (la sinistra con la sua prospettiva di una rivoluzione socialista e i cattolici con i liberali, ancorati, con diversi accenti, alla liberaldemocrazia di matrice occidentale e americana). Parri tenta inutilmente anche di fermare le esecuzioni illegali e le violenze diffuse contro ex fascisti o presunti tali, e anche i regolamenti di conti che vedono coinvolti diverse fazioni partigiane. Sarà lui, antifascista radicale, a esecrare l’ignobile episodio dell’esposizione dei cadaveri di Mussolini, di Claretta Petacci e di altri gerarchi a piazzale Loreto a Milano con la locuzione “macelleria messicana” (alludendo a simili atti di violenza e vilipendio compiuti durante la rivoluzione messicana del
De Gasperi (I) 10/12/1945 – 14/6/1946
De Gasperi è il primo capo del governo cattolico dall’unità d’Italia ed è anche l’ultimo primo ministro del Regno d’Italia. Con lui
- entra in vigore il d.lgs.lgt. (decreto legislativo luogotenenziale)
n. 98 del 3/1946 con cui si sottrae alla futura Assemblea
costituente la decisione sulla forma di governo per affidarla ad un referendum istituzionale da svolgersi contemporaneamente all’elezione dell’Assemblea stessa. Ciò avviene su “consiglio” degli Alleati per “ridimensionare la carica costituente (cioè il potere decisionale dell’Assemblea stessa, n.d.r.) e probabilmente anche per favorire la corona” (Reposo, cit., p. 43), più apprezzata a livello popolare (almeno nel Sud) che non tra i nuovi partiti politici. Tale decreto, per il suo valore di fondamento legislativo è considerato una costituzione transitoria (la seconda).
De Gasperi e il referendum istituzionale
Al referendum istituzionale è affidata la scelta del futuro assetto istituzionale italiano: o monarchico-costituzionale o repubblicano. La vittoria repubblicana con 12.700.000 voti (54,3%) contro i 10.700.000 monarchici avviene in un clima di ambiguità e reciproci sospetti.
-Si lamenta che molte categorie di cittadini siano state escluse dal voto perché impossibilitati a esercitare il loro diritto (reduci, abitanti della Venezia-Giulia e dell’Alto Adige);
-Si denunciano i difetti della macchina elettorale che hanno favorito brogli;
-Si deplora il fatto che i presidenti dei seggi hanno celermente distrutto le schede votate, in ciò sollecitate dal ministero, in modo da rendere impossibili riconteggi.
-Si ritiene inaccettabile il fatto che i risultati definitivi vengano diffusi ben 13 giorni dopo le elezioni, quando il Ministero degli interni ha già comunicato i risultati.
- Si accusano i repubblicani del clima intimidatorio creato ad arte contro i monarchici. -Si contesta il criterio dello spoglio che, contro il dettame della legge, elabora le percentuali sulla base dei voti validi e non dei votanti.
Il re in esilio e la presidenza De Nicola
Dopo i primi disordini, soprattutto nel Sud
monarchico, re Umberto II, per evitare nuovi e più
disastrosi conflitti dopo la fine di una guerra
sanguinosa, decide di accogliere i risultati del
referendum e andare in esilio, mentre l’Assemblea
costituente, per compensare i monarchici e cercare
una riconciliazione nazionale, elegge il monarchico
Enrico De Nicola alla presidenza provvisoria della
neonata Repubblica (fino alla conclusione della fase
costituente cioè dall’ 1/10 al 31/12/1947).
De Gasperi II-III (14/2/1946 – 1/6/1947)
Con la fine della monarchia, si insediano il secondo e poi il terzo governo De Gasperi, che lavorano parallelamente all’Assemblea costituente. In tale occasione si delineano i contrasti sempre più marcati tra la componente democristiana e moderata del governo e quella di sinistra, mentre il Partito d’Azione, di orientamento liberale di sinistra, ridottissimo nei ranghi, comincerà un’opera di penetrazione nei gangli istituzionali ed economici dello Stato. Molto importante è il 22/6/1946 l’amnistia per i reati politici, che intendeva superare le persecuzioni cui erano stati sottoposti gli ex fascisti e favorire il loro reinserimento nella società a patto che ne avessero accettato i principi (molti giovani intellettuali e militanti ex fascisti entrano nel PCI che sembra loro erede dell’ultimo fascismo socialisteggiante).De Gasperi IV (1/6/1947 – 24/5/1948)
Con la crisi del III governo De Gasperi, si determina l’uscita dei socialcomunisti
dal governo, che va di pari passo allo stabilirsi di un solido legame tra Italia e Stati Uniti, corrispondente alla collocazione atlantica del Paese. Ciò significa
che l’Italia, in occasione del profilarsi della guerra fredda e del confronto tra est comunista/sovietico e ovest capitalista/americano, viene inserita dagli Alleati nel contesto occidentale. Essi puntano sulla DC, confidando in un partito solidamente ancorato alla democrazia liberale, sostenuto dalla Chiesa cattolica e in grado di escludere i partiti socialcomunisti dal governo, mantenendo il consenso nella società. Teniamo conto che fino ad ora il governo, a norma del d.lgslgt. 98/1946, come tutti i governi dal 1943 in poi, detiene anche i poteri ordinari legislativi, in attesa dell’elezione di un nuovo parlamento, secondo i nuovi dettami costituzionali. Intanto dal gennaio 1947
sono arrivati i primi 100 milioni di dollari dagli Usa per affrontare la grave
Che cosa significa la “conventio ad
escludendum” anticomunista
Significa che in Italia vi sarà una liberal-democrazia in cui sarà rappresentato un partito molto votato dagli elettori come il PCI. A tale partito, che mai raggiungerà la maggioranza relativa dei consensi, non sarà comunque concesso di giungere a governare, per il timore che possa determinare un cambio di schieramento dell’Italia e la trasformazione del Paese in uno Stato socialista. Del socialismo infatti già si conoscevano, pur ampiamente sottodimensionati dalla propaganda delle sinistre, le condotte disastrose sotto il profilo economico e liberticide sotto quello politico. Nondimeno una simile condotta priverà la liberal-democrazia del suo “sale”, cioè dell’alternanza tra governo e opposizione. Per circa quarant’anni il PCI sarà “condannato” all’opposizione e la DC sarà il nerbo di tutti i governi.
L’Assemblea costituente
Eletta il 2 giugno 1946 a suffrago universale, la Costituente si riunisce per la prima
volta a Montecitorio il 25 giugno dello stesso anno e subito elegge il suo presidente Giuseppe Saragat (poi sostituito, nel febbraio 1947, da Umberto
Terracini). Il 28 giugno l’Assemblea elegge Enrico De Nicola "Capo provvisorio
dello Stato“. L’Assemblea delibera altresì la nomina di una commissione ristretta (Commissione per la Costituzione), composta di 75 membri scelti dal Presidente sulla base delle designazioni dei vari gruppi parlamentari (tra loro G. Dossetti, G. La Pira, A. Fanfani, A. Moro) , cui viene affidato l'incarico di predisporre un
progetto di Costituzione da sottoporre al plenum dell'Assemblea. I membri
dell’Assemblea sono così suddivisi:
• Democrazia Cristiana 207; Mov. Indip. Sicilia 4;Partito Socialista 115; Concentr. Dem Repub. 2; Partito Comunista 104; Partito Sardo d'Azione 2; Unione Dem. Naz 41; Movim. Unionista It. 1; Uomo Qualunque 30; Part. Cristiano Sociale 1; Partito Repubblicano 23; Part. Democr. Lavoro 1; Blocco Naz. Libertà 16; Part. Contadini Italiani 1; Partito d'Azione 7; Fr. Dem. Progres. Rep.1
Le commissioni
Nominata dal Presidente il 19 luglio 1946 e presieduta dal
demolaburista Meuccio Ruini, la Commissione dei 75, si articola
in tre sottocommissioni: la prima sui “diritti e doveri dei
cittadini”, la seconda sull‘ “ordinamento costituzionale della
Repubblica” (divisa a sua volta in due Sezioni, per il potere
esecutivo e il potere giudiziario, più un comitato di dieci deputati
per la redazione di un progetto articolato sull'ordinamento
regionale), la terza sui “diritti e doveri economico-sociali”. La
redazione concreta, dopo la discussione, è affidata a un comitato
ristretto di 18 membri, cui partecipano 11 deputati della
Il dibattito e l’entrata in vigore
Il dibatto si svolse dal 4 marzo al 22 dicembre 1947 (la vita
dell’assemblea fu prorogata tre volte) e “nonostante qualche sacrificio della logica, squarci di non fulminante eloquenza e anche di preoccupante ingenuità” (Reposo, cit., p. 53) fu possibile una sintesi “accettabile”, dovuta al contributo e alla competenza di qualche giurista e di politici tecnici. Cionondimeno il Reposo sottolinea che la costituzione, più che il “parto professorale” di alcuni grandi giuristi (come H. Preuss a Weimar o H. Kelsen in Austria) fu “il frutto di intese stipulate tra le forze politiche durante l’ordinamento provvisorio/transitorio” (ibidem). La difficoltà
risedette tutta nel contemperare le diverse impostazioni ideologiche dei
partiti, le cui differenze si stavano facendo via via più radicali all’emergere dei contrasti tra le superpotenze americana e sovietica, punti di riferimento rispettivamente del cartello cattolico-liberale e di quello socialcomunista. Dopo la discussione, il testo definitivo viene approvato il 22 dicembre. La Costituzione pronta, entra in vigore il 1 gennaio 1948.
I primi dodici articoli
I primi dodici articoli della costituzione, ne stabiliscono i
principi generali e vanno a sostituire quello che
tradizionalmente era il preambolo (secondo quanto
affermato dallo stesso presidente della commissione dei 75,
Ruini), forse perché da un lato non si è voluto trattare dei
valori ispiratori della carta – come avviene di solito nei
preamboli – giacché sul piano etico-filosofico-politico
troppo distanti tra i costituenti; forse perché ai principi che
danno più concretamente “il volto della Repubblica” (Ruini)
si è voluto dare la forza di leggi costituzionali e non di una
semplice dichiarazione preventiva.
La forma di governo e il fondamento della
Repubblica (art. 1)
Viene nell’art. 1 affermata la natura democratica
e repubblicana dello Stato italiano, e specificato
che democrazia significa che la sovranità
appartiene al popolo. Al principio democratico
viene però subito affiancato un principio
liberale che limita la precedente affermazione: il
popolo “esercita” la sovranità “nelle forme e nei
limiti della Costituzione” (cfr. il Glossario 1, nella
parte finale di questa presentazione).
Il lavoro fondamento della Repubblica
(art.1, art. 9)
Su questo tema c’è stato molto dibattito tra i democristiani e i socialcomunisti che volevano dare all’articolo un significato classista parlando di “lavoratori” e contrapponendoli ai datori di lavoro. La scelta del termine lavoro ha quindi voluto indicare che la Repubblica è in certo qual modo interclassista. Ulteriori precisazioni possono andare nelle più diverse direzioni. Da un lato però è da sottolineare che i costituenti consideravano il lavoro come un fattore primario di partecipazione alla vita della comunità; dall’altro bisogna dire che come fondamento della cittadinanza, l’enfasi sul lavoro sconta il riferimento a una certa cultura economicista e produttivista propria del positivisimo e del marxismo ottocenteschi: quasi che nell’opera di plasmazione tecnologico-industriale della natura risieda l’essenza non solo del vivere associato, ma anche dell’uomo stesso. Le filosofie del Novecento hanno ampiamente criticato questa prospettiva antropologica, collocando qui anche le radici dell’odierno degrado ecologico. Va qui posto il problema del
Il lavoro è un diritto-dovere (art. 4)
A integrazione dell’art. 1, vi è l’art. 4 che stabilisce che ciascuno ha diritto a
lavorare ed anche il dovere di farlo. La Repubblica, garantendo il diritto, con
lo sforzo per rimuovere gli ostacoli al suo godimento (per esempio con politiche contro la disoccupazione), non sanziona però il mancato assolvimento del dovere con la decadenza dei diritti politici, come avrebbe voluto la sinistra dell’Assemblea costituente. I problema è che a
complemento di questo diritto andrebbe evidenziata la libertà d’impresa
che è il necessario corollario alla libera scelta dell’attività da svolgere. Tuttavia la Costituzione, pur non negando l’iniziativa economica privata (art. 41), sembra diffidarne “ignorando del tutto i concetti di mercato e concorrenza, e ricomprendendo la stessa proprietà tra i dirit funzionali o
affievoliti” (Reposo, cit., p. 55). Qui essa sconta la pregiudiziale opposizione
tra proprietà-mercato e distribuzione equa della ricchezza, sostenuta dalla cultura marxista.
Altri orientamenti della costituzione (art. 2)
Accanto ad un’antropologia positivista e marxista, si trovano
nella costituzioni ampi legami con una prospettiva cattolica e
personalista. “Il modello dell’etica cristiana intendeva infatti
attribuire un valore ‘assoluto’ e ‘trascendente’ alla persona
umana, quale che fosse la condizione sociale e la posizione
occupata; e per raggiungere tali obiettivi, proponeva il
coinvolgimento dei singoli all’interno delle ‘formazioni sociali’
(art. 2). Nella visione di La Pira (politico e intellettuale cattolico
di orientamento progressista, n.d.r.), mutuata dalla filosofia
rosminiana (Antonio Rosmini è filosofo cattolico-liberale del
XIX sec.), la persona e le collettività organizzate erano
anteposte al diritto ‘artificioso’ dello Stato, senza annullarsi in
Il personalismo (art.2)
…E attraverso questa inversione del rapporto
Stato-individuo, l’ ‘umanesimo integrale’ teorizzato da Jaques
Maritain ed Emmanuel Mounier (due filosofi cattolici
francesi autori rispettivamente del saggio “Umanesimo
integrale” – 1936, e del saggio “Il personalismo ” - 1949),
veniva tradotto nell’articolo 2 della costituzione, quale
‘norma aperta’ che […] non accorda ma soltanto
‘riconosce e garantisce i dirit inviolabili dell’uomo’,
assolutizzati in quanto pre-giuridici, come valori vincolanti
dinnanzi ai quali anche la sovranità popolare dovrebbe
arretrare” (Reposo, cit., p. 58).
La Chiesa (art. 7, 8, 29)
I cattolici hanno chiesto e ottenuto non solo che la costituzione riflettesse i loro valori, pur nel continuo compromesso con i socialcomunisti, ma hanno inteso garantire costituzionalmente i rapporti Chiesa e Stato, impedendo, come era avvenuto nel periodo risorgimentale, ogni forma di anticlericalismo di Stato e trovandosi dunque costretti ad accogliere i Pat Lateranensi di mussoliniana memoria nella carte fondamentale, poiché essi rappresentavano la regolazione ufficiale e mai sconfessata dalle parti, delle reciproche relazioni. Tale regolazione è stata rinegoziata nel 1985 sotto il governo Craxi e il pontificato di Giovanni Paolo II. Ai cattolici la costituzione offre il riconoscimento della famiglia naturale come cellula fondamentale della società (art. 29), un riconoscimento del diritto all’esistenza di scuole
cattoliche (“Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di
educazione”, art. 33), tuttavia, riconoscendo la libertà religiosa negli articoli 8, 19 e 20 rifiuta di determinarsi come Stato confessionale.
Liberalismo (art. 2)
Ma accanto alla cultura marxista e cattolica, fa capolino
all’articolo 2 quella liberale. È infatti nel riconoscimento di
alcuni “dirit naturali” che lo Stato deve difendere e mai
violare, che si fonda la limitazione della sovranità auspicata da
Locke e lo stesso pactum subjectionis (patto di soggezione) tra
cittadini e governo: il governo è legittimo e può operare finché
difende i diritti naturali (“vita libertà e proprietà” in Locke),
quando li dimenticasse o li violasse, violerebbe il patto che gli
consente di governare e i cittadini non sarebbero più obbligati
a obbedire. Questo articolo, dunque, più d’ogni altro mostra
un carattere antifascista, nella misura in cui il fascismo
determina i diritti in funzione della sovranità e non viceversa.
I concetti di uguaglianza e libertà (art. 3)
Nell’art. 3 si esprimono i concetti di pari dignità della persona, senza distinzione di sesso, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. In tale eguaglianza è implicita anche la libertà del cittadino, poiché sembra affermare implicitamente l’articolo, ogni disuguaglianza è una forma di schiavitù. Ciò altresì richiama ad un concetto sostanziale e non formale di libertà: non basta affermare che i cittadini posseggono una serie di diritti e libertà, ma bisogna anche appurarne l’effettivo godimento che talora peculiari condizioni di difficoltà o esclusione sociale rendono impossibile. Questo concetto di libertà sostanziale promuove quindi un superamento della sua nozione borghese, che, mentre era tradizionalmente oggetto del rifiuto da parte dei comunisti, pure era stata criticata dal fascismo.
Diritto internazionale, guerra, sovranità (?)
L’articolo 10 parla del diritto internazionale e della
condizione giuridica dello straniero, affermando la
disponibilità dell’Italia ad accogliere chiunque veda
impedito nella sua patria l’esercizio delle libertà
costituzionalmente garantite dalla presente carta.
L’articolo 11 parla della guerra, del suo ripudio come
“strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e
come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali” e delle cessioni di sovranità per
assicurare pace e giustizia fra le nazioni.
Un programma “utopico” (art. 10)
L’art. 10, offrendo la recezione automatica del diritto
internazionale, comporta questioni di sovranità di cui si
parlerà anche a proposito dell’articolo 11. Ma il punto più
problematico è quello relativo all’accoglienza di coloro che
non possono esercitare le libertà costituzionalmente
garantite in Italia. Già all’epoca della redazione della
costituzione il numero di persone cui l’Italia avrebbe dovuto
dare ospitalità era potenzialmente enorme, tale numero nel
corso degli anni è altresì andato aumentando. È evidente che,
di fronte agli individui, il programma di ospitalità indicato
dall’articolo è realizzabile, di fronte a masse di persone è
molto più difficile e potrebbe provocare serissimi problemi di
Guerra e pace
L’articolo 11 per certi versi è tautologico: nessuno ha mai
ammesso di volere con la guerra “aggredire”, “recare offesa alla
libertà di un popolo”, altrimenti si sarebbe ingenuamente
collocato nell’ambito del torto e nessuno ha mai fatto una guerra
sostenendo di essere nel torto. D’altronde, anche una guerra
difensiva, in quanto atvamente condotta, è “un mezzo di
risoluzione di una controversia internazionale”. Tali affermazioni
possono dunque, in sede di relazioni internazionali, essere
sottoscritte da tutti, anche dagli Stati più guerrafondai, o essere
viceversa trasgredite da tutti, anche da quelli più pacifici, che se
attaccati non possono rinunciare a difendersi.
La guerra come polizia internazionale
La conferma delle difficoltà logico-normative dell’articolo è dimostrata dalla storia
recente, come hanno sottolineato diversi commentatori in campo politico e giuridico. L’Italia ha infat partecipato ad una serie di operazioni militari, senza dichiarazione e
camuffate da operazioni di “polizia internazionale” (come è accaduto nella prima e soprattutto nella seconda Guerra del Golfo). Quest’ultimo, alla luce di un’autorevole tradizione giusinternazionalistica (riferentesi, fra gli altri al testo Il nomos della terra di C. Schmitt), è un concetto estremamente aggressivo perche destituisce alcuni Stati appartenenti all’ONU della loro sovranità, con accuse artificiose, e li rende oggetto di operazioni che si svolgono al di fuori del diritto di guerra e quindi potenzialmente criminose. Come prova della estrema manipolabilità dell’articolo 11 valga inoltre l’utilizzo da parte del presidente del consiglio italiano M. D’Alema del concetto di
“difesa preventiva” (mutuato dall’ambito anglosassone) per giustificare le incursioni
aeree italiane contro la Serbia in occasione della Guerra del Kosovo nel 1999: a tutti gli effetti l’ennesima operazione bellica condotta dall’ Italia fuori dal suo territorio. Su questi temi è sintomatica la ricerca di nuovi approfondimenti teorici, che implicitamente ammette l’insufficienza dell’apparato giuridico e costituzionale tradizionale: cfr. G. De Vergottini, Guerra e costituzione. Nuovi confltti e sfide alla
Cessioni di sovranità: chi è sovrano?
Gli articoli 10 e 11 si riferiscono al diritto internazionale e a cessioni di sovranità che, qualora divengano automatiche o siano imposte all’Italia dalla sua appartenenza a organismi internazionali come l’Unione Europea, sollevano un importante problema. Se l’Italia “deve” cedere la sua sovranità a enti terzi, chi è sovrano nel Paese? L’articolo 1 dice che la sovranità appartiene al popolo italiano e ciò sembra implicare che questo non solo sia un diritto inviolabile, ma anche indisponibile (non vi si può rinunciare). Dunque se l’adeguamento della legislazione italiana a quella internazionale avviene senza una precisa ratifica e un controllo di costituzionalità dei provvedimenti accolti, ciò comporta la violazione dell’articolo 1, cioè l’accettazione che le decisioni politiche in Italia non trovano più la loro legittimazione nel popolo. Se viceversa ci si rifà all’obbligo imposto dagli artt. 10 e 11 a tale cessione, ciò significa che gli artt. 10 e 11 sono in potenziale contraddizione con l’art. 1.
Italia ed Europa
Nel processo di formazione e assestamento giuridico dell’Unione Europea “è da individuare un vero e proprio tornante delle istituzioni, nella misura in cui lo Stato italiano, autolimitando la sua autonomia sovrana, ne delegava all’Unione Europea una larga porzione in materia di dazi, politica industriale e agricola, commercio, concorrenza, disciplina antitrust, aiuti di Stato, imprese pubbliche, bilancio, gestione della moneta… e, di conseguenza, la stessa Costituzione era resa vassalla di un ordinamento che subordina ai suoi ‘vincoli’ quello interno […]. Una cospicua evoluzione centripeta, comprendente ben 27 Stati, è venuta determinando via via un graduale trasferimento del diritto interno ad un ente giuridicamente sopraordinato che, ispirandosi a una logica burocratico-mercantilistica e bordeggiando i temi istituzionali, ha sempre presentato gravissimi deficit come forma di governo, della quale sono state messe in rilievo le incertezze anche
Parte prima, titolo I-II: Le libertà
In questa parte della costituzione sono elencate le libertà che la
Repubblica difende:
personale, di domicilio, di corrispondenza e comunicazione, di circolazione, di riunione, di associazione, di culto religioso, di parola
e stampa, di ricerca, di espressione artistica e di insegnamento, di accesso all’istruzione.
Accanto a ciò vi sono articoli sul possesso della capacità giuridica, sulla difesa nei processi e sul giudice naturale, sulla responsabilità penale, sull’umanità della pena e sulla responsabilità dei funzionari pubblici in ordine al rispetto dei diritti dei cittadini.
Le libertà e lo Stato borghese di diritto (1)
“La peculiarità dell’ideale di costituzione [dello Stato borghese di diritto] consiste nel fatto che l’organizzazione dello Stato è posta sotto un punto di vista negativo e critico nei confronti del potere statale - protezione dei cittadini dall’abuso del potere statale -. Lo Stato stesso è meno organizzato dei mezzi e metodi del suo controllo; sono create garanzie contro gli interventi statali e si cerca di introdurre ostacoli nell’esercizio del potere statale. Una costituzione che non contenesse altro che queste garanzie dello Stato borghese di diritto sarebbe impensabile; giacché lo Stato stesso, l’unità politica, ossia ciò che è da controllare, deve pure esistere, ovvero al tempo stesso essere organizzato. Lo sforzo dello Stato borghese di diritto va a ricacciare indietro il politico, a limitare tutte le manifestazioni della vita statale in una serie di normative ...
Le libertà e lo Stato borghese di diritto (2)
…e a trasformare ogni attività statale in competenze, cioè in attribuzioni esattamente circoscritte e in linea di principio limitate. Ne risulta che lo Stato borghese di diritto può rappresentare solo una parte della costituzione complessiva dello Stato, mentre un’altra parte contiene la decisione positiva sulla forma dell’esistenza politica. Le costituzioni degli attuali Stati borghesi sono perciò composte di due elementi: da un lato i principi dello stato di diritto posti a difesa delle libertà, dall’altro l’elemento politico, dal quale si deve dedurre la vera forma di Stato (monarchia, aristocrazia, democrazia, status mixtus)” (C. Schmitt, Dottrina della costituzione, tr. .it., Giuffré, Milano 1984, p. 64). Ciò riflette esattamente la prima e la seconda parte dell’art. 1, rispettivamente la decisione positiva sulla forma dell’esistenza politica, e la limitazione legale del potere.
La costituzione e l’economia (parte prima, titolo III)
In economia è particolarmente significativa la confluenza nella
costituzione di diverse culture politiche. Anzitutto l’accettazione della
proprietà privata come diritto limitato dalla sua funzione sociale (art. 42). Siamo in presenza di una visione lontana dal liberalismo liberista, in cui confluiscono le idee cattoliche di solidarietà sociale e il sospetto
socialcomunista per la proprietà privata. La proprietà deve condurre al
bene comune. Il profitto individuale è ammesso come epifenomeno del bene comune prodotto da una certa impresa e attività lavorativa. Perciò è anche ammesso l’intervento dello Stato nell’economia - per esempio con espropri per “pubblica utilità” e con nazionalizzazioni di industrie e settori strategici (artt. 42-43) – al fine di regolare e reindirizzare eventuali storture e sperequazioni prodotte dal mercato. Lo Stato inoltre garantisce costituzionalmente una serie di prerogative e dirit dei lavoratori che comportano l’equa organizzazione della produzione industriale e agricola e il rispetto della dignità del salariato (artt. 36-38) e financo la
Eredità fascista
“Il compromesso fra cattolici e marxisti che trova una solenne consacrazione […]in tutta la normativa sociale della Costituzione repubblicana, non è improntato solo a un generico solidarismo e a una mediazione, una limatura, un impasto dei rispettivi apporti dottrinali che vengono a colmare una zona vuota oppure a coprire una terra di nessuno: si riallaccia alla tradizione del
gius-lavorismo fascista (cfr. Glossario 2) – attraverso la quale è stata
accantonata per la prima volta la visione quiritaria, cara a Ludovico Barassi e alla sua scuola, della locazione d’opera (cfr. Glossario 2) come istituto giuridico non diverso da qualsiasi altra stipulazione bilaterale – formalizzato dagli articoli 2060-2077 e 2099-2125 del Codice civile del 1942, dove si prevede la durata a tempo indeterminato del rapporto di lavoro, la validità
erga omnes dei contratti collettivi, la giusta causa in caso di licenziamento, la
retribuzione delle ferie annuali, la previdenza obbligatoria, l’indennità di anzianità a fine servizio, il mantenimento del posto in caso di infortunio, malattia o gravidanza etc.” (S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 1992, p. 48).
Eredità della RSI
“Nel movimento scientifico e giurisprudenziale maturatosi in un cinquantennio rientrano a pieno titolo anche le correnti meno povere del corporativismo
fascista al punto che gli articoli 35-47 (Dei rapporti economici) della
Costituzione entrata in vigore il 1 gennaio 1948 fanno registrare accavallamenti e consonanze con gli articoli 102-124 (La produzione e il lavoro) della bozza di magna charta commissionata il 24 novembre 1943 a Carlo Alberto Biggini dal
Consiglio dei ministri della Repubblica di Salò, e rinvenuta solo di recente
nell’archivio dell’ex ministro dell’Educazione nazionale: soprattutto a proposito del ‘diritto al lavoro’, della ‘funzione sociale’ della proprietà privata e dell’esproprio per pubblica utilità (rispettivamente artt. 4 e 42 e artt. 105, 106 e 116), e dell’obbligo di corrispondere salari che consentano al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza decorosa (art. 38 e art. 123, con quest’ultimo che stabilisce il diritto all’assistenza pubblica anche per il periodo del ‘richiamo alle armi’)” (Ivi, p. 49).
Parte seconda l’organizzazione del governo
La seconda parte della costituzione è dedicata al
funzionamento della “cosa pubblica”, alle sue
istituzioni e ai meccanismi che permettono il
governo e l’amministrazione della vita associata.
In particolare si delineano le prerogative, i limiti
dei tre poteri, esecutivo, legislativo e giudiziario e
gli organi deputati alla loro gestione. Questi tre
poteri, in omaggio all’orientamento liberale della
Repubblica, sono separati.
Il parlamentarismo italiano
La costituzione italiana affida un primato politico
al parlamento, che detiene la “rappresentanza
della nazione” in ogni suo deputato (art. 67),
detiene la funzione legislativa nelle sue due
camere (art. 70), e dà la propria fiducia al governo
(art. 94) permettendogli di entrare nelle proprie
funzioni. Il Parlamento è articolato in Camera e
Senato che hanno pressoché le medesime funzioni
Il governo
Il governo è costituito dal consiglio dei ministri - il cui
presidente (presidente del consiglio dei ministri) e i cui
ministri sono nominati dal presidente della Repubblica,
questi ultimi su proposta del presidente del consiglio – che
detiene ed esercita il potere esecutivo (cioè quello di dare
esecuzione
alle
leggi
attraverso
gli
organi
dell’amministrazione pubblica) una volta ricevuta la fiducia
del parlamento. Il suo presidente ne coordina l’atvità, ma
il consiglio ha il primato sul presidente (legge 400/1998),
benché nell’art. 95 sia specificato che il presidente “dirige”
l’attività del consiglio.
La magistratura
La magistratura è l’organo che detiene il potere
giudiziario,
rimanendo
autonoma
e
indipendente dagli altri poteri (art. 104).
Possiede a sua volta un organo di
autogoverno: il consiglio superiore della
magistratura, presieduto dal presidente della
Regioni e decentramento
ll titolo V della seconda parte della costituzione è stato modificato con la legge costituzionale n. 3 del 18/10/2001 che insiste sul decentramento del potere in un’ottica di modifica delle istituzioni in senso federale. Il tema del
federalismo era cavallo di battaglia di un partito come la Lega nord che ha
contribuito a rimetterlo al centro del dibattito politico, sottolineando come la lontananza del potere dai cittadini fosse stata una delle componenti della crisi della politica dopo gli anni Ottanta. Ciò anche a causa della lentezza con la quale il potere democristiano aveva applicato il precedente titolo V che parimenti prevedeva l’istituzione di regioni, per dare soddisfazione maggiore alle esigenze dei diversi territori dello Stato. Il fatto che un timido passo in questo senso fosse stato compiuto solo nel 1970, dimostra come avesse prima prevalso una concezione centralistica e
La corte costituzionale
La corte costituzionale valuta la costituzionalità
delle leggi e i “conflit di attribuzione” tra gli
organi dello Stato e tra Stato e Regioni (art.
134) ed “è composta di quindici giudici nominati
per un terzo dal Presidente della Repubblica, per
un terzo dal Parlamento in seduta comune e per
un terzo dalle supreme magistrature ordinaria
ed amministrative” (art. 135). I giudici
Il sistema di governo previsto dalla
costituzione
La costituzione affida, nella strutturazione degli organismi di gestione della cosa pubblica, un indubbio primato al potere legislativo, cioè al parlamento, che il fascismo aveva depresso a favore dell’esecutivo. Così è nata in Italia una repubblica parlamentare, i cui capisaldi sono la mozione di fiducia e di sfiducia da parte delle camere, cui è sottoposto il governo e da cui dipende la sua attività e durata. Il rigetto di “un esecutivo coeso e decisionista” (Reposo cit., p. 62), insieme
1) alla scelta elettorale proporzionale (sebbene non costituzionalizzata) che rende la composizione del parlamento assai variegata ed eterogenea, con la conseguente difficoltà di emersione di maggioranze stabili;
2) al meccanismo farraginoso della produzione legislativa attraverso due camere dalle attribuzioni pressoché identiche (cfr. ivi p. 67)
3) alle attribuzioni imprecise benché molto vaste del presidente della Repubblica, (ivi, p. 62-63); sospese tra i due estremi del presidente-simbolo dell’unità nazionale e quella del presidente-dominus dell’indirizzo politico
Ha di fatto schiacciato il potere esecutivo in modo che il sistema politico italiano fosse concepito come un a forma di IMPOTENZA ISTITUZIONALIZZATA. E’ il problema annoso del difetto italiano di “governabilità”
L’impotenza istituzionalizzata (Reposo)
La locuzione “impotenza istituzionalizzata” definisce un potere che è concepito più attraverso la delineazione dei suoi limiti che delle sue possibilità e competenze, soprattutto per quanto riguarda la prerogativa di prendere decisioni, che sembra in tutti modi imbrigliata in un meccanismo troppo lento e complesso. Ciò è stato confermato nel corso della vita della Repubblica dalla instabilità dei governi e dal loro frequente cambiamento, dovuto alla ricattabilità di maggioranze deboli e ostaggio delle trattative e della politica dei corridoi messa in atto dai partiti (associazioni private. Questi ultimi sono diventati i veri arbitri della vita politica e in essa si sono spesso trasformati da mezzo a fine della prassi di governo stessa. Così la democrazia è degenerata in partitocrazia: un sistema di governo che muta indirizzo a seconda degli interessi dei partiti, offrendo maggiore attenzione al vantaggio di unaLe radici della partitocrazia
“Numerose disposizioni costituzionali sui partiti politici riconoscono, infatti, il ruolo di cerniera dei partiti tra società e istituzioni, ma il modo in cui la norma summenzionata definisce il rapporto tra Stato e partiti appare decisamente più complesso. Da una parte, infatti, rifiutando la concezione organicistica del partito politico, è valorizzato il radicamento dei partiti nella società, ponendo l’art. 49 tra i diritti fondamentali dei cittadini, e quindi nella Parte I della Costituzione, dando così rilievo ai partiti nella loro dimensione associativa. Dall’altra, però, il concorso ‘alla determinazione della politica nazionale’, pur con formula ambigua – che ha ben presto consentito di degradare il concorso dei cittadini a quello dei partiti – prospetta la loro incorporazione nei pubblici poteri, ponendo, in tal modo, il fondamento di quella che è stata efficacemente definita la Repubblica dei partiti, o lo Stato partitocratico (G. Rivosecchi, I partiti politici nella
giurisprudenza costituzionale, “Amministrazione in cammino. Rivista elettronica di
diditto pubblico, di diritto dell’economia e di scienza dell’amministrazione a cura del
Centro di ricerca sulle amministrazioni pubblica ‘ Vittorio Bachelet’”,
http://www.amministrazi
Un costituzione nata vecchia (Fantechi)
Il deputato del Partito d’Azione Mario Paggi, prevedendo i
difetti di funzionamento dell’architettura costituzionale
ebbe a parlare del “delitto di una costituzione vecchia
prima di nascere” incapace di sotterrare quello che lo
storico M. Fantechi ha definito “lo spirito di quel
parlamentarismo degenerato dal quale ebbe origine il
fascismo” (M. Fantechi, Fra terza via e conservatorismo in
AaVv, Cultura politica e partiti nell’età della Costituente,
tomo I, L’area liberal-democratica, il mondo cattolico e la
Democrazia Cristiana, Il Mulino, Bologna, 1979, pp.
Un modello sorpassato (Calamandrei)
Il giurista Piero Calamandrei, tra i fondatori del Partito d’Azione, a proposito della costituzione e del suo modello di governo così si esprime:
“La struttura degli organi centrali non si allontanerà di molto dagli schemi tradizionali del sistema parlamentare, quale è nato e cresciuto (e ormai invecchiato) nelle costituzioni europee del secolo scorso (il XIX n.d.r.): e proprio su questo punto c’è da temere che i preparatori della nuova costituzione abbiano mancato di coraggio e fantasia e forse anche […] di sensibilità storica, quando hanno preferito orientarsi sui modelli
costituzionali di cento anni fa, piuttosto che sulla realtà politica dell’Europa e dell’Italia di oggi” (P. Calamandrei, Come nasce la nuova
costituzione, “Il Ponte”, 3(1947) pp. 1-8 ora in
http://www.costituzionalismo.it/download/Costituzionalismo_201503_536. pdf
Gli esecutivi deboli non rappresentano una
valida alternativa al fascismo (Cossiga)
Ciò che i padri costituenti non avevano probabilmente compreso è quanto invece ha potuto con enfasi sottolineare il giurista e presidente della Repubblica Francesco Cossiga: “La dittature non sono mai state il frutto di governo forti, ma soltanto di regimi deboli” (F. Cossiga,
Dichiarazione del Presidente della Repubblica dopo l’invio del messaggio al Parlamento, 26/6/1991 in Discorsi e interventi del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, p. 1448 in
https://archivio.quirinale.it/discorsibookreader//discorsi/Cossiga.h tml#page/1650/mode/2up
), intendendo con ciò che la scelta parlamentare, in luogo di quella presidenziale (cfr. Glossario 1), che affida al presidente eletto a suffragio universale un potere esecutivo forte, benché adeguatamente bilanciato (come avviene negli USA), lungi da caratterizzare una prospettiva stabilmente liberal-democratica, la indeboliva.
Una provocazione: “La costituzione peggiore del
mondo” (Cossiga)
Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga (politicamente nato all’interno corrente centrista della DC) era un giurista di fama e aveva un profondo rispetto per la costituzione repubblicana. Proprio per questo, tuttavia, non poteva fare a meno di notare i difetti e le difficoltà di una Carta nata in un contesto profondamente diverso da quello di fine secolo in cui egli si è trovato a occupare la più alta carica dello Stato. Si trattava di problemi legati all’evoluzione della realtà politica italiana ed europea ma anche di debolezze costitutive della Carta, cioè rinvenibili sin dalla sua origine. Tra queste vi era il compromesso tra diverse culture e orientamenti politici, alcuni
dei quali molto lontani dallo spirito della democrazia liberale, cioè i socialcomunisti. Peraltro si
può altresì notare che nemmeno il mondo cattolico appariva per tradizione così vicino alle matrici ideologiche della suddetta liberaldemocrazia, che viceversa avrebbe dovuto caratterizzare indelebilmente l’impianto e lo spirito della Carta. Così la costituzione gli appare alla fine della sua lunga carriera in tutti gli organi del potere delle repubblica, frutto di una mediazione che ha prodotto più un accostamento di affermazioni diverse e di diverso tono che non una sintesi
organica e coerente. Di qui il suo giudizio provocatorio che, contro il santino autoincensatorio
della “costituzione più bella del mondo”, spesso presentato dalle autorità a proprio uso e consumo in tutti i livelli del potere e in molte occasioni celebrative e autocelebrative, arriva a formulare l’icastico giudizio di “costituzione peggiore del mondo” (cfr. l’intervista filmato Quando
Cossiga picconava la costituzione, in www.ilgiornale.it) per sottolineare con forza la necessità di
GLOSSARIO 1
-Democrazia: sistema di governo che promuove l’identità dei governanti e dei governati (cfr.
Rousseau).
-Liberalismo: sistema di governo che separa i poteri, limita la sovranità sulla base di alcuni diritti
naturali (vita, libertà, proprietà – Locke, cui si aggiungono quelli contenuti nelle dichiarazioni dei diritti contenute nella costituzione americana e francese (1791, 1793 e segg.), promuove il “governo delle leggi” e in generale la rappresentanza e l’elettività delle cariche (a suffragio più o meno esteso)
-Governo repubblicano: “Riguardo alla forma di governo “‘il governo repubblicano è quello nel
quale il popolo tutto, o almeno una parte di esso, detiene il potere supremo’ (Montesquieu). Nel primo caso si tratterà di una repubblica democratica o popolare, nel secondo di una repubblica aristocratica od oligarchica. Una tale definizione presuppone ovviamente che il capo dello Stato repubblicano sia elettivo e temporaneo. In questo senso lato la repubblica si contrappone alla monarchia (in cui il regnante è di solito ereditario e perpetuo)” (C. Malandrino, sv Repubblica. AAVV, Storia digitale, Dizionari Zanichelli, https://dizionaripiu.zanichelli.it/storiadigitale/p/voce/
5152/repubblica).
-Repubblica parlamentare: è quella repubblica in cui il potere politico promana dal parlamento. -Repubblica presidenziale: è quella repubblica in cui il potere politico promana dal presidente
GLOSSARIO 2
-Visione quiritaria della locazione d’opera = una visione legata al diritto romano (i Quiriti sono gli antichi cittadini romani) del contratto per cui qualcuno fa un lavoro per qualcun altro (locazione d’opera). Secondo Barassi il rapporto del locatore d’opera, cioè del lavoratore dipendente rispetto al datore di lavoro è essenzialmente strumentale e passiva: “ Quando il creditore del lavoro è a contatto col lavoro, lo dirige, lo sorveglia, lo indirizza a quei risultati cui egli, mercè le pre stazioni del debitore, intenda arrivare, vi ha locazione di opere. In tal caso il lavoratore è un istrumento, e un istrumento in un certo senso passivo, nel senso. che
presta le proprie attitudini fisiche e intellettive perché l’altra parte le abbia a plasmare e dirigere e indirizzare come egli intende. Questo avviene così per l’operaio come per il direttore di una Banca. L’uno e l’altro non hanno di mira un risultato determinato, ma una semplice prestazione delle proprie energie a quei fini cui la guida, il controllo e la sorveglianza del capo-fabbrica o del consiglio di amministrazione della Banca intende condurle. Esiste dunque un contatto immediato, diretto tra il creditore del lavoro e i mezzi di lavoro offerti dall’altra parte. È in questo che spicca l’analogia della locazione di opere colla locazione di cose. In ambedue si offre qualche cosa (cosa, forze fisiche o intellettive) perché altri mercé un contatto immediato ne abbia a godere direttamente usandone a suo talento, benché sempre nei limiti dal contratto designati” ( https://www.diritto.it/il-contratto-di-lavoro-nel-diritto-positivo-italiano-a-cura-di-massimo-viceconte/).
Superare questa visione vuol dire valorizzare la dignità personale e l’apporto umano che il lavoratore, anche operaio e salariato, mette nella sua attività secondo quella propsettiva che già era contenuta nella Carta del
Carnaro art. XIV “il lavoro, anche il più umile, anche il più oscuro, se sia bene eseguito, tende alla bellezza e
orna il mondo”.