LAVORO DI DIPLOMA DI
GÖTZ CARLO
DIPLOMA DI INSEGNAMENTO PER LE SCUOLE DI MATURITÀ
ANNO ACCADEMICO 2017/2018
LETTURA E SCRITTURA COME ELEMENTI
DELLA PEDAGOGIA FILOSOFICA
SULL’ESEMPIO DI FRANÇOIS FÉDIER
RELATRICE
Abstract
La ricerca propone, quale elemento d’interesse pedagogico, lo studio dell’approccio didattico del filosofo francese François Fédier. L’individuazione dei tratti caratteristici del suo particolare stile d’insegnamento liceale è volta, attraverso l’elaborazione di un esercizio di lettura presentato nel contesto di un’Unità didattica, a saggiarne l’attendibilità pedagogica nella crescente complessità dell’odierno contesto scolastico e culturale. A partire dalle indicazioni fenomenologiche del filosofo e pedagogista italiano Piero Bertolini, e nel rispetto delle indicazioni contenute nel Piano degli
studi liceali, l’Unità didattica delinea una prospettiva di ricerca empirica che intende corrispondere
all’esperienza di senso che accade con la lettura filosofica. Abbandonata ogni spontanea prassi operativa, ogni fantasia d’immediatezza pedagogica, così come ogni astratta teoresi, lettura e scrittura sono proposte quali elementi indispensabili della didattica della Filosofia, declinata in chiave di fenomenologia ermeneutica.
Lettura e scrittura come elementi della pedagogia filosofica Sull’esempio di François Fédier
Indice
1. Introduzione 1
2. Quadro teorico 4
2.1 Sul metodo 4
2.1.1 Lettura: spiegazione orale del testo 5
2.1.2 Scrittura: il protocollo 7
2.2 Esercizio di lettura 12
2.2.1 Riflessioni sulla didattica della Filosofia 13
2.2.2 Lettura filosofica 15
2.2.3 La ricerca empirica in educazione 15 2.2.4 Insegnamento della Filosofia
e approccio di ricerca qualitativo 17
2.2.5 Riflessione sul questionario 18
2.2.6 L’Unità didattica 20
2.2.7 Interpretazione dei dati 25
3. Conclusioni 28
4. Bibliografia 30
5. Allegato I: Questionari 31
1. Introduzione
Lo studio dell’approccio pedagogico di un filosofo, trovato sul piano della concreta pratica didattica, potrebbe indicare alcuni attendibili principi guida. A partire da uno studio di questo genere, potrebbe infatti emergere, in ordine all’insegnamento liceale della Filosofia, un modello ermeneutico che, pur tenendo conto dei tratti caratteristici dell’odierno contesto scolastico, non rinunci a un rigoroso approccio di autentica indole filosofica.
Il filosofo François Fédier (1935), allievo di Jean Beaufret e importante traduttore, in lingua francese, di alcuni testi di Martin Heidegger e di Friedrich Hölderlin, ha svolto fino al 2001, anno del suo pensionamento, il mestiere di Professeur agrégé di Filosofia, nelle Classes préparatoires
littéraires, presso il Lycée Pasteur di Neuilly-Sur-Seine. La sua attività didattica, d’indole
fenomenologica, è oggi parzialmente documentata dalla pubblicazione, a cura delle sue allieve e dei suoi allievi, di alcuni corsi.
Nell’anno 2011, la casa editrice Lettrage Distribution ha pubblicato, a cura di Philippe Arjakovsky, Le Ménon. Quatre cours. Cinquante et une explications de texte, volume che presenta quattro corsi liceali, tenuti tra il 1981 e il 1999 nella classe di Rhétorique supérieure in vista della preparazione dell’accesso all’École Normale Supérieure (Fédier, 2011). A partire dall’Anno scolastico 1981-1982, Fédier ha letto quattro volte il Menone di Platone con le sue allieve e con i suoi allievi. Come ricorda Arjakovsky nell’Avant-propos, questo «professeur de lente lecture» (professore di lenta lettura), diversamente dalla maggior parte dei suoi colleghi liceali, ha sempre dato molta importanza al testo filosofico. In tal senso, il lavoro didattico di Fédier ha privilegiato due “strumenti”: la stesura del protocollo e la spiegazione orale del testo.
La stesura del protocollo, che consiste semplicemente nel riassumere per iscritto quanto è stato detto durante la lezione precedente, si configura come esercizio di avviamento, che trova nella precisione, nella chiarezza, nell’attenzione e nella cura dell’integrità del testo gli elementi di un’autentica etica della scrittura. Durante le lezioni, Fédier fornisce numerose indicazioni metodologiche, che consentono alle allieve e agli allievi di praticare rigorosamente questa forma di scrittura, in vista dell’articolazione di un pensiero che, di volta in volta, sostenga l’esperienza della lettura del testo preso in considerazione.
La spiegazione orale del testo è invece volta all’apprendimento della lettura. Questo momento del lavoro didattico presenta diverse “tappe”: a) la situazione del testo; b) la lettura del testo; c) l’individuazione dell’idea generale del testo, ossia dell’unità generatrice del pensiero; d) l’articolazione del testo; e) la spiegazione dettagliata del testo; f) la conclusione. In particolare, la
spiegazione dettagliata del testo, che consiste nel movimento della lettura minuziosa, parola per parola, costituisce un vero esempio di disostruzione, ossia d’intesa filosofica. Tale intesa filosofica non è mai data una volta per tutte, e non è ripetibile; esige dunque, ogni volta di nuovo, il tentativo di tradurre il testo. I cinquantuno esercizi di lettura proposti da Fédier, che, per così dire, mettono tra parentesi il platonismo quale “atteggiamento” tradizionale, consentono di condividere una prima lettura liceale dei tratti caratteristici del mondo greco.
La parte “sperimentale” del Lavoro di Diploma elabora un esercizio di lettura, un saggio di lettura di un brano della tradizione metafisica, da svolgere in una classe a partire da quanto puntualizzato nella prima parte della ricerca, e volto, sulla base dei principi guida emersi dallo studio dell’esperienza didattica proposta da Fédier, all’individuazione di un metodo di lettura, di scrittura e di “verifica” dell’intesa filosofica.
Allo scopo di trovare una metodologia di ricerca attendibile rispetto al fenomeno educativo della condivisione di una lettura filosofica, è necessario interrogarsi preliminarmente sul senso stesso dell’esperienza di ricerca in ambito pedagogico. Qual è, in generale, il ruolo della ricerca empirica in Pedagogia? Per tentare di immaginare una prospettiva di ricerca che possa corrispondere all’esperienza di senso che accade con la lettura filosofica, è possibile fare riferimento alla tradizione fenomenologica, iniziata, come noto, dalle ricerche di Edmund Husserl. La tradizione fenomenologica trova nel contegno “descrittivo” e “intuitivo” (che non significa “immediato”), che si genera in grazia della sospensione delle tradizionali e abituali “tesi” sul mondo, la possibilità di cogliere in modo originario i tratti caratteristici «universali» delle esperienze di senso.
Piero Bertolini, pedagogista e filosofo italiano di formazione fenomenologica, allievo di Enzo Paci, ha raccolto il suo pensiero e la sua esperienza in un trattato intitolato L’esistere
pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata
(Bertolini, 1988). Nel tentativo di elaborare una Pedagogia scientifica a partire dalle ricerche filosofiche di Husserl, guardando in particolare alla puntualizzazione fenomenologica della «crisi delle scienze europee», Bertolini giunge a interrogarsi sulla «legittimità della ricerca empirica in pedagogia» (Bertolini, 1988, pp. 203-214)1.
Per articolare brevemente l’esito di questa interrogazione, è necessario richiamare il motivo stesso della ricerca di Bertolini: la «soluzione» proposta consiste in una Pedagogia scientifica che tiene conto della «base empirico-materiale», collocandola tuttavia entro una costitutiva «struttura di senso» (Bertolini, 1988, pp. 204-205). In tal modo la Pedagogia scientifica prende le distanze dallo
1 Questa parte della ricerca di Bertolini è caratterizzata altresì dal riferimento a G. De Landsheere (1973),
«scientismo oggettivistico», interpretazione ideologica del contributo delle scienze positive:
L’umanità […] ha bisogno delle scienze, […] ma non può mai arrestarsi ad una visione del mondo che emerga, chiudendosi in essa, dalla tecnica scientifica di un dato periodo. Così, ci pare di poter affermare che, anche nell’ambito dell’esperienza educativa, c’è bisogno di […] ricerche empiriche […]. Ciò che, neppure in questo ambito, possiamo accettare è di ridurre tutto il significato dell’educazione e quindi il suo stesso orientamento operativo ai dati di fatto forniti attraverso quel procedimento scientifico […] (Bertolini, 1988, pp. 205-206).
Entro questo progetto scientifico, Bertolini propone di pensare la ricerca empirica – purché metodologicamente rigorosa, vale a dire ben fondata teoreticamente e lontana dai pigri ossequi rivolti alla contingenza – «come condizione necessaria seppur non sufficiente» per avviare lo studio attendibile dell’esperienza educativa in ordine ai suoi principi pedagogici e alla prassi stessa.
La ricerca empirica ha il compito di raccogliere elementi di realtà con i quali il pensiero e la prassi dell’educatore sono chiamati a confrontarsi in modo sensato, evitando tuttavia di immaginare che meri “dati di fatto” siano già, in quanto tali, costitutivi di un’autentica prospettiva pedagogico-educativa. Questa prospettiva necessita infatti ogni volta della capacità di lettura dei dati, affinché la «regione» di senso dell’educazione possa essere abitata in modo attendibile. Bertolini sottolinea come, per ogni educatrice/educatore, una delle principali difficoltà consista proprio nell’imparare a leggere i fenomeni, ossia nell’imparare a pensare.
2. Quadro teorico 2.1 Sul metodo
Il lavoro filosofico che Fédier svolge in classe si colloca nella tradizione francese dell’insegnamento liceale della Filosofia2. Tale tradizione fu inaugurata dall’impegno istituzionale del filosofo Victor Cousin (1792-1876) che, a partire dal 1830, si fece promotore dell’insegnamento laico della Filosofia nelle Scuole francesi.
Come ricorda Ruffaldi, oggi in Francia la Filosofia viene insegnata nella classe terminale delle diverse Sezioni del Lycée. Per conseguire il Baccalauréat, allieve e allievi devono sostenere una prova scritta, la dissertation, «principale finalizzazione dell’insegnamento della filosofia in Francia», e una prova orale.
La codificazione del principi guida di questo insegnamento si trovano nelle Istruzioni
Ufficiali dell’Ispettore dell’Istruzione pubblica Anatole de Monzie3, che risalgono al 1925, e nel
Programma di filosofia.
Il testo di de Monzie sta «nel solco dei principi laici e liberali della repubblica francese» (Ruffaldi, 2012, p. 69), secondo i quali l’insegnamento della Filosofia appare quale occasione di elaborare una sintesi razionale degli stessi studi liceali e quale possibilità di apprendere «un metodo di riflessione». Obiettivo di questo insegnamento è offrire la possibilità di fare «esperienza della libertà attraverso l’esercizio della riflessione» in virtù del «carattere universale della ragione». Sul piano metodologico viene evitato l’«approccio strettamente storico», così come «l’erudizione fine a se stessa». Nel dare corpo all’esperienza della libertà filosofica, è invece centrale la lezione ex
cathedra, sempre volta ad assecondare anzitutto lo spirito di ricerca di allieve e allievi. La «lezione
partecipata» – così Ruffaldi definisce questa situazione didattica – prende spunto dalla lettura del testo filosofico, accompagnata da «un’organica stesura di appunti».
Il Programma di filosofia ribadisce «il richiamo alla libertà di pensiero e la fiducia nel carattere universale della ragione»(Ruffaldi, 2012, p. 71), e fornisce alcune indicazioni di ordine contenutistico. Vengono indicati tre temi fondamentali: «l’uomo e il mondo», «la conoscenza e la ragione», «l’attività pratica e i suoi fini». Alcune opere della tradizione filosofica vengono indicate come letture da svolgere regolarmente.
Questa è la tradizione entro la quale si muove il lavoro didattico di Fédier. Nel rispetto di
2 Una breve descrizione delle caratteristiche di questa tradizione didattica è contenuta in Ruffaldi (2012), pp. 68-73. 3 Le Istruzioni sono state pubblicate in traduzione italiana, a cura di Trombino, in Bollettino della Società Filosofica
questa tradizione (dal punto di vista “formale”, l’insegnamento di Fédier è pienamente conforme alla tradizione francese), il filosofo osa interpretare il compito universale della «ragione» filosofica a partire dall’esperienza della fenomenologia ermeneutica: la centralità dell’esperienza partecipata della lettura del testo filosofico, così come l’insistenza sull’apprendimento della scrittura, apre a un primo ascolto della lingua madre4. A partire da una ferma visione del tratto caratteristico del pensiero metafisico, il confronto con il parlare stesso della lingua madre costituisce un contributo originale, sia sul piano filosofico, sia sul piano didattico.
2.1.1 Lettura: spiegazione orale del testo
La Explication de texte presenta quattro momenti ermeneutici: 1. «Situation du texte» (Situazione del testo); 2. «Idée directrice» (Idea direttrice); 3. «Articulation du texte» (Articolazione del testo); 4. «Explication de détail» (Spiegazione dettagliata). A proposito di queste “tappe” della explication
de texte, nel corso dell’Anno scolastico 1997-1998, durante la lezione svolta Lundi 20 octobre 1997,
Fédier fornisce alcune importanti indicazioni metodologiche (Fédier, 2011, pp. 240-243).
La premessa necessaria di ogni spiegazione del testo viene individuata nella «appréhension
solide de ce qu’est en réalité un texte» (apprendere in modo solido che cosa sia, in realtà, un testo).
Fédier allora indica alle sue allieve e ai suoi allievi gli elementi dell’ermeneutica fenomenologica (Fédier, 2011, pp. 240-241):
Il primo che spiega un testo è l’autore stesso. In un testo, c’è la pretesa di dire e, al contempo, di essere in rapporto con una lingua. In un testo, il fatto di parlare sta nel cuore di ciò che è detto. Un testo fa apparire che cosa significhi dire. Un testo parla in una lingua. Parlare veramente, implica l’attenzione al genio della lingua, vale a dire al pensiero della lingua. Un testo deve lasciarvi interdetti, togliervi la parola per lasciare parlare la vera parola. Di solito parliamo per non dire niente; un testo si pone subito al di fuori di questa situazione. Bisogna lasciare parlare il testo; ciò significa anche interrogare il testo. Il testo parla quando viene interrogato come si deve. Questa situazione è tipicamente umana: per comprendere e saper domandare, bisogna in un certo modo aver già compreso.
Un testo dipende necessariamente da circostanze. […] Come tutto ciò che è veramente umano, un testo oltrepassa l’individuo. Con la profondità del suo senso, esso oltrepassa il pensiero di colui che l’ha scritto. Di conseguenza oltrepassa altresì colui che lo interpreta, poiché ogni interpretazione dipende altrettanto da una
4 Per una rigorosa puntualizzazione del fenomeno della lingua madre, cfr. § 34. Da-sein und Rede. Die Sprache, in Heidegger (1986), pp. 160-167.
situazione.5
Il primo passo della explication de texte consiste nella «Situation du texte» (Situazione del testo), poiché il testo, come spiega Fédier, non può essere «comme un aérolithe tombé du ciel» (come un aerolito caduto dal cielo). La parola ‘situazione’ qui va intesa nel suo senso comune: ‘condizione’, ‘stato di qualcuno o di qualcosa’, ‘circostanza’, ‘complesso di circostanze’6. Il testo deve essere correttamente collocato nel suo «site» (sito) di appartenenza, «pour laisser le texte se
développer de lui-même» (per lasciare che il testo si sviluppi da se stesso). Fin dall’inizio Fédier
invita dunque a prestare attenzione al testo, a ciò che il testo dice in tutta semplicità. Si tratta, infatti, di imparare a leggere un testo filosofico, non di costruire una rassicurante pseudoerudizione. La pratica storiografica della cosiddetta contestualizzazione, spesso volta a impedire un autentico rapporto con il testo, viene perciò “scartata”; viene presa la strada dell’ermeneutica filosofica. Ciò che appare subito visibile, è un insegnamento importante: la lettura di un testo filosofico getta il lettore, fin dall’inizio, in medias res, dove presunti saperi e abitudini di “pensiero” si rivelano sempre fuorvianti.
Dopo avere dato una prima lettura letterale del testo (lecture du texte), svolta secondo la cura dell’intelligibilità, Fédier formula l’«Idée directrice» (Idea direttrice) che ne sta a fondamento. Questo momento del lavoro, che è «le plus risqué» (il più rischioso) rispetto all’intesa del pensiero, individua l’idea generale del testo, l’«unité génératrice» (unità generatrice) di quanto portato alla parola.
L’«Articulation du texte» (Articolazione del testo) è chiara. Fédier, che ritiene che questo momento del lavoro sia il più “facile”, suddivide il brano in parti. L’articolazione del testo, che Fédier propone in occasione di ogni esercizio di lettura, ha un’evidente portata pedagogica, poiché, anziché illudere rispetto a presunte possibilità di disinvolto “sorvolo” del testo, o rispetto a pratiche riassuntive avulse dal senso, consente di seguire la genesi (nel caso di Platone, dialettica) del pensiero, e di imparare che il pensiero filosofico si muove in modo tutt’altro che “immediato”, o istantaneamente “ispirato”, bensì, a misura della cosa in causa, in modo lento e strutturato, rigorosamente metodico.
Il momento più importante del confronto con il testo filosofico, momento preparato dal lavoro appena indicato, è l’«Explication de détail» (Spiegazione dettagliata). Questo momento del
5 Tutte le traduzioni dei brani originali francesi – purtroppo, a causa dello spazio assegnato, non sono stati riportati nel presente lavoro – sono di C. Götz.
6 Cfr. la voce ‘situazióne’ in Cortellazzo e Zolli (2004), Dizionario etimologico della lingua italiana, edizione minore a cura di Cortellazzo e Cortellazzo. Bologna: Zanichelli editore s.p.a.
lavoro viene illustrato dal curatore Ph. Arjakovsky nell’Avant-propos (Fédier, 2011, pp. 7-15). Arjakovsky ritiene che questo sia il «cœur de la question» (cuore dell’interrogazione). La spiegazione dettagliata, pur procedendo parola per parola, non consiste nella pedantesca spiegazione di dettagli, di minuzie testuali. Di che cosa si tratta allora? La parola francese ‘détail’ (particolare, dettaglio) deve, secondo l’interpretazione di Arjakovsky, essere intesa nel senso del ‘partage’, della divisione, spartizione, partizione, che è costitutiva dell’unità del testo. Arjakovsky, sulla scorta del riferimento alla voce ‘tailler’ contenuta nel dizionario Robert historique de la
langue française, suggerisce un significato che appartenne al francese antico (e che si trova ancora
nel secolo XVI): «écheveler» (scapigliare, scarmigliare), «séparer les mèches de cheveux comme en
les taillant» (separare i ciuffi di capelli come per “sfrondarli”), «mettre en pièces» (spezzare). In tal
senso, secondo Arjakovsky (Fédier, 2011, p. 10),
[…] nella spiegazione dettagliata vibra ancora tutta la dimensione mondante della mondatura […].
Il verbo francese ‘tailler’ fa dunque risuonare, oltre al senso comune del tagliare (dal basso latino ‘taliare’), spezzare, anche (Fédier, 2011, p. 11) il
[…] dare una certa forma tagliando ciò che è inutile, […] disostruire […] con ogni volta la possibilità che questa mondatura sia innanzitutto sempre la mia […].
In modo tale che dettagliare [de-tagliare] sia compiere questa mondatura […] alla lettera – affinché essa dia luogo: a mondo.
2.1.2 Scrittura: il protocollo
Il primo compito “pratico” delle allieve e degli allievi di Fédier è, come già ricordato, la stesura del protocollo. Secondo la definizione di Ph. Arjakovsky, si tratta del «résumé rédigé du cours
précédent» (riassunto redatto della lezione precedente). Nell’Avant-propos, Arjakovsky riporta
alcuni brani nei quali Fédier stesso illustra il senso di questa pratica di scrittura (Fédier, 2011, p. 8).
tutto ciò che è stato detto. È per voi l’occasione di verificare ciò che è stato compreso.
È ora di imparare a scrivere. Bisogna bandire dal vostro vocabolario l’espressione “si può”, perché “si può” scrivere qualsiasi cosa. Bandite il condizionale. Ogni volta che avete voglia di scrivere “si potrebbe dire” o “si può dire”, scrivete “bisogna dire”. Vedrete allora se avete veramente qualcosa da dire! Bisogna farsi carico di ciò che si scrive. Non dovete scrivere nella timidezza. Non è possibile scrivere un testo con l’atteggiamento di “colui che si scusa di chiedere scusa”. Quando scrivete, diventate il vostro proprio lettore. Domandatevi se ciò che dite faccia da schermo o sia invece rivelatore. Le congiunzioni non devono esserci per fare piacere al correttore, ma per indicare il rapporto tra due frasi che stanno insieme. (13 ottobre 1997)
Che cosa ricaviamo da questo brano? La prima funzione del protocollo consiste nel conservare in modo chiaro e comprensibile tutto ciò che è stato detto durante la lezione. Questa pratica di scrittura è immediatamente messa in relazione con l’intesa del senso filosofico. Il senso filosofico ha bisogno della scrittura quale pratica che consente, di volta in volta, di “verificarne” l’intesa, di “verificare” la qualità dell’ascolto. Tuttavia la scrittura non può essere improvvisata: è necessario, urgente, dice Fédier ad allieve e allievi che stanno per iniziare gli studi universitari, imparare a scrivere. La prima indicazione del maestro di scrittura filosofica riguarda perciò la necessità della scrittura: la scrittura è sensata unicamente in vista di qualcosa che deve essere detto. La “scrittura per la scrittura” è un controsenso. La scrittura filosofica, infatti, “ricade” sempre sull’essere umano che scrive, costituendone l’e[qo, ossia, in traduzione approssimativa, il modo di essere, a partire dalla necessità del dire. Tale necessità non è mai avulsa dalla “ricaduta” sull’esistenza di chi scrive. Ora, la scrittura filosofica risponde alla chiamata di un che di “estraneo” alla scrittura filosofica, di un che di “strano”. La stranezza che chiama la scrittura filosofica richiede dunque fermezza e attenzione. La fermezza è contegno necessario in relazione all’elemento straniante; l’attenzione consiste nel chiedersi, in ordine all’esigenza di chiarezza e semplicità, se le parole scelte sostengano il dire rigoroso. Questo dire rigoroso – ecco il senso del riferimento all’uso delle congiunzioni – non è mai “retorico”: non si tratta di dire le cose in modo brillante, piacevole, efficace, persuasivo, ossia sofistico, bensì di dire in modo preciso ciò che, di volta in volta, si mostra da sé (Fédier, 2011, p. 8).
[…] La fine del protocollo deve permettere di cominciare subito la lezione. Si tratta in fondo di dare una forma alle cose.
Bisogna smettere di stare comodamente seduti nel ruolo di allieva/o. Dovete riuscire a dire ciò che pensate e ad assumerne la responsabilità. Per questo bisogna essere sempre più attente/i a ciò che si dice. Pensate a ciò che dice la locuzione “presenza di spirito”. (…) La presenza di spirito può essere raggiunta solo
Fédier richiama allieve e allievi a un ruolo “attivo” nell’ambito dello svolgimento stesso delle lezioni. Il protocollo, quale opportunità di mettere in forma ciò che viene detto, pensato, è un vero esercizio di scrittura filosofica, che va svolto, fin dai primi tentativi, secondo una chiara e semplice etica della scrittura: a partire dalla disponibilità all’ascolto, si tratta di prestare attenzione a ciò che
si scrive; tale attenzione implica necessariamente un movimento, una particolare motilità, che Fédier indica quale essere presenti. Soltanto essendo presenti, allieve e allievi possono tentare di scrivere in modo filosoficamente attendibile, dire le cose in modo preciso, rigoroso, “lasciando essere” ciò che esse sono e come esse sono (Fédier, 2011, p. 8):
Nel protocollo bisogna riuscire a essere unicamente obiettivi. All’inizio non bisogna prendersi alcuna libertà. E una volta compreso questo, bisogna imparare a essere liberi. (26 novembre 1998)
Il dire preciso è elemento di libertà, pensata quale possibilità umana di evitare l’arbitrio fondato sui diversi fenomeni di offuscamento dell’apparire dell’essente. La precisione comporta altresì la completezza, ossia il tentativo di raccogliere in parola tutto ciò che viene detto, e l’attenzione per tutto ciò che, di volta in volta, dà il tono alle lezioni, a partire dalla presenza degli uditori e dal luogo “fisico” in cui l’insegnamento si svolge (Fédier, 2011, p. 8):
[…] C’è veramente un interesse nel fare il protocollo di tutto ciò che è stato detto. Il semplice fatto che tal dei tali sia presente o no può completamente cambiare il movimento della lezione. Ai miei occhi è essenziale, per esempio, annotare che la lezione di oggi non ha avuto luogo nell’aula abituale […]. (9 novembre 1998)
Durante la lezione del 7 gennaio 1999 Fédier precisa (Fédier, 2011, p. 11):
Sul protocollo: bisogna riuscire a unificare. Più è breve, meglio è. Tagliare corto – è ciò che richiede più tempo. Non bisogna nemmeno lasciarsi andare alle abitudini. Dire una buona volta per tutte che ajrethv vuol dire eccellenza, non è più interessante della traduzione consacrata da virtù: bisogna pensarlo ogni volta. Non bisogna nemmeno prendere l’abitudine di prendere abitudini.
Le cose non sono stabilite in anticipo. (7 gennaio 1999)
Questo brano sottolinea la necessità di scrivere in modo chiaro e conciso. Tale modo di scrivere, come già ricordato, richiede un apprendimento, un esercizio continuo: si tratta, ogni volta, di
pensare di nuovo, di cercare le parole più attendibili. Il pensiero filosofico appare dunque secondo la sua più intima indole: la rottura della spontanea, “naturale” inerzia umana rispetto al rapporto con ciò che è. La stranezza dell’apparire dell’essente, la stranezza del fenomeno del senso, rompe già sempre, rendendole inattendibili, le nostre abitudini di pensiero. L’apparire dell’essente scardina ab
origine ogni presunta acquisizione filosofica, ogni rassicurante categoria del pensare. A questo
proposito, anche il 4 febbraio 1999 Fédier auspica rigore e severità; in particolare, evocando l’insidioso fenomeno del luogo comune, la stupidità (inerzia) che consiste nel “pensare” abituale (Fédier, 2011, p. 413):
[…] Bisogna redigere il protocollo in modo tale che si possa servirsene tra trent’anni. In altre parole, bisogna scrivere con la più grande precisione possibile, evitare i luoghi comuni […], non essere troppo letterari (nel senso peggiore del termine), uscire da tutte le forme abituali della comprensione, del “prêt à penser” – in breve, bisogna scrivere essendo feroci con se stessi […], pugnaci, e smettere di immaginare che si avrà il tempo di fare meglio la prossima volta. C’è una massima debilitante che dice che «la perfezione non è di questo mondo»; bisogna pensare al contrario che la perfezione è di questo mondo e sforzarvisi, obbligarvisi.
Il dire preciso ha bisogno di un contegno “equilibrato”, capace di trovare la giusta distanza rispetto a ciò che è in causa nel pensiero filosofico (Fédier, 2011, p. 421):
[…] Attenzione a non prendere troppa distanza dalle cose e a non dire qualunque cosa. Bisogna trovare
l’equilibrio: cessare di essere dentro, altrimenti non potete più staccarvi e nessuno può seguirvi; cessare di
essere fuori, altrimenti tutto diventa flottante. (15 febbraio 1999)
In conclusione dell’Avant-propos Arjakovsky riporta un brano della lezione del 12 settembre 1997 (Fédier, 2011, p. 14):
[…] A proposito del vostro lavoro di allieva e di allievo, è bene riassumere dopo ogni lezione ciò che è stato detto, fare il protocollo. È un esercizio che consiste nel dire da se stessi e dunque anche nel comprendere da se stessi, e nel fare proprio ciò che è stato in questione. Far finta di comprendere ciò che si sottrae, è, come dice Péguy, “fare il furbo”, parlare come se si sapesse tutto e come se non si potesse mai essere presi alla sprovvista (…).
È molto importante che le allieve e gli allievi pongano delle domande, delle domande del tutto semplici, quelle che vengono immediatamente e non le domande che si pongono quando si cerca di fare i furbi. Le domande vengono da sé, quando si comincia a lavorare […].
È una chiara indicazione della singolare motilità del pensiero, che è sempre pensiero di un essere umano. In tal senso la chiamata al dire in modo preciso è sempre singolare: il rapporto con il senso dell’essere, qualora venga scorto in quanto tale, non consente di delegare ad altri il nostro incarico. La furbizia sofistica si stanzia a partire dalla chiusura, dall’immaginaria delega dell’inaggirabile mestiere del pensare. Ora, il mestiere di pensare espone alla dimensione interrogativa, alla già evocata rottura della spontanea inerzia umana: il dialogo maestra/o-allieva/o, sostenuto ogni volta dalla scrittura, potrebbe allora essere una delle occasioni in cui, socraticamente, si genera il raro fenomeno dell’accorgimento del senso e del suo stesso costitutivo e ancora impensato ritraimento.
2.2 Esercizio di lettura
Nell’ambito dell’elaborazione e della sperimentazione di una particolare impostazione didattica, emerge la possibilità di verificare la “tenuta” dello stile d’insegnamento praticato da François Fédier. Una prima domanda-guida verte dunque sulla traducibilità dell’esperienza didattica del filosofo francese in un contesto, quello della Scuola pubblica ticinese, diverso.
Il tratto caratteristico dell’insegnamento di Fédier è l’esperienza condivisa della lettura del testo filosofico, sostenuta dalla pratica della scrittura, svolta in classe nella modalità della stesura del protocollo. Non si tratta di raccontare o di ricostruire il “contenuto” del testo, bensì di avviare allieve e allievi al pensiero filosofico, prestando attenzione anzitutto al senso delle parole e al tentativo di articolarne pienamente il tenore entro la propria lingua madre attraverso la scrittura. La pratica della scrittura filosofica si configura dunque quale possibilità di precisa articolazione del pensiero a partire dal rapporto “diretto” con la propria lingua madre. Questa articolazione si genera quale esperienza di traduzione del pensiero: ciò che il testo chiede di articolare può ogni volta essere detto unicamente in grazia della traduzione in lingua madre. La traduzione filosofica è tuttavia attendibile unicamente nell’ambito della ricerca di «parole proprie» (secondo la dizione di Giacomo Leopardi), ambito interamente estraneo alla costruzione terminologica. L’ermeneutica fenomenologica di Fédier insegna l’inattendibilità della terminologia “filosofica” in ordine alla necessità di dire con rigore ciò che appare. La pratica della lettura-scrittura vanifica quindi fin da subito ogni illusione terminologica, ogni immaginazione di istantanee “prese” concettuali sull’essente. A questo proposito, è necessario fare riferimento alla riflessione di Maurizio Borghi, che si trova nella sezione Allegato II (p. 37 sgg.).
Questo breve ritratto dello stile d’insegnamento di Fédier rimanda ad alcuni elementi che dovranno essere tradotti quali linee guida per l’elaborazione dello strumento di ricerca empirica. È possibile raccoglierli nel modo seguente:
l’insegnamento della Filosofia non consiste nella divulgazione di presunti “contenuti” disponibili, ossia di nozioni; non serve a “portare” allieve e allievi all’arrogante immaginazione della padronanza concettuale dell’essente; non insegna a costruire con abilità punti di vista generali, ossia visioni del mondo;
filosofico; in altre parole, non si tratta di fornire contestualizzazioni pseudoerudite e agili riassunti pseudoargomentativi;
l’insegnamento della Filosofia è volto all’intesa delle dizioni fondamentali della tradizione metafisica; tale intesa si genera attraverso la traduzione (disostruzione, mondatura) del senso delle parole (dizioni) dei testi della tradizione del pensiero metafisico (la tradizione del tentativo di determinare l’essentità di ciò che è); tale traduzione – attendibile solo quando si generi anche attraverso l’esperienza del dialogo con allieve e allievi liberi di formulare sentiti interrogativi – consente di cominciare a intravedere l’inapparente dimensione di senso che regge le posizioni che, durante la nostra tradizione, le comunità umane hanno assunto rispetto all’essente; le lingue madri, che i grandi pensatori filosofici abitano in modo singolare, sono la dimensione entro la quale, di volta in volta e per tratti, tali posizioni vengono alla luce, dicendo l’essente in modo originario, inaudito;
l’insegnamento della Filosofia consiste nell’avviamento alla pratica della scrittura filosofica, che si configura quale possibilità di “verifica” dell’intesa del senso filosofico delle dizioni fondamentali dei testi della tradizione; la forma che tale scrittura dovrebbe assumere è il protocollo, stesura rigorosa di un testo riassuntivo che consenta, di volta in volta, di riprendere il lavoro.
2.2.1 Riflessioni sulla didattica della Filosofia
Nello studio che E. Ruffaldi ha dedicato all’insegnamento della Filosofia nelle Scuole superiori (Ruffaldi, 2012), un ampio capitolo è dedicato a Problemi e modalità nell’uso dei testi (Ruffaldi, 2012, pp. 301-343). In esso si trova una rassegna dei principali modi di leggere il testo filosofico sviluppati nell’ambito della riflessione italiana più recente. Già il titolo del capitolo, nel quale risuona il verbo ‘usare’, colloca il testo filosofico nella dimensione della prassi; come afferma Ruffaldi, «[i] testi […] sono il punto di riferimento per una serie di attività» (Ruffaldi, 2012, p. 301). Il presupposto delle varie attività è un concetto operativo che definisce il testo filosofico: «[l’] aspetto specifico dei testi filosofici è rappresentato dal loro carattere argomentativo» (Ruffaldi, 2012, p. 301). Questa definizione non viene problematizzata7. Senza entrare nella questione
7 Un tentativo di definire il tratto di fondo argomentativo dei testi filosofici si trova in E. Berti (1991), La classicità di
un testo, in Il testo e la parola, «Atti del convegno L’insegnamento della filosofia nell’Europa contemporanea»
filosofica dell’inerte accettazione di concetti operativi, inerte autorizzazione di luoghi comuni, è possibile riassumere i tratti caratteristici degli usi proposti dai didatti ai quali Ruffaldi fa riferimento.
Questa prospettiva didattica vuole essere nuova, «diversa da quella senza testi». La lettura dei testi avviene tuttavia a partire dal riferimento a un altro concetto operativo: «[u]n testo non è mai esaurito in sé, ma rimanda ad altro, la cui conoscenza è essenziale per […] una comprensione effettiva e, soprattutto, per una interpretazione esauriente» (Ruffaldi, 2012, p. 302). Questo altro, meglio, questi altri si chiamano «con-testo» e «co-testo», termini che rimandano a elementi esterni al testo (la cultura dell’epoca, le caratteristiche della società dell’epoca, il contesto problematico ecc.) e a nozioni appartenenti all’ambito di pensiero dell’autore del testo (la conoscenza del sistema di pensiero dell’autore, la conoscenza di altre opere dell’autore ecc.). Gli elementi e le nozioni appena evocati devono necessariamente «integrare» la lettura del testo filosofico, che resta comunque in posizione centrale nel lavoro didattico. Secondo modalità diverse, il principale obiettivo didattico consiste, per un verso, nell’assecondamento della capacità di ricostruzione del «piano argomentativo» (approccio per problemi), per un altro verso nello sviluppo dell’«abitudine a fondare le proprie tesi su argomentazioni». Così è intesa e a ciò si limita, secondo i didatti proposti da Ruffaldi, l’esperienza liceale dell’apprendimento filosofico:
[u]n’analisi testuale nel senso proprio della parola è un’operazione estremamente complessa, che non può essere proposta a livello di scuola media superiore. Anche mettendo tra parentesi le problematiche linguistiche, semiotiche ed ermeneutiche, la semplice e per molti versi irrinunciabile contestualizzazione presenta problemi praticamente insormontabili (Ruffaldi, 2012, p. 314).
Ruffaldi presenta dunque alcune possibili «operazioni didattiche sul testo», elaborate nel contesto italiano a partire dalle indicazioni didattiche contenute nei Programmi Brocca8. Ecco le principali indicazioni:
Le scelte metodologiche rispondono alla convinzione che l’insegnamento della filosofia nella scuola secondaria superiore sia da intendersi non come trasmissione di un sapere compiuto, ma come educazione alla ricerca, cioè acquisizione di un abito di riflessione e di una capacità di dialogare con gli autori, che costituiscono la viva testimonianza della ricerca in fieri. […] il docente dovrà curare e motivare l’approccio degli studenti al pensiero ed al linguaggio filosofico, realizzando la continuità tra l’esperienza dei giovani e la 8 Si tratta di programmi didattici elaborati, a cavallo fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, nell’ambito degli studi per
tradizione culturale. La didattica ha, infatti, un ruolo decisivo nella funzione di mediazione tra i testi dei filosofi e il mondo culturale giovanile […].
1. Gli argomenti dovranno essere affrontati attraverso la lettura dei “testi” cioè delle opere dei filosofi studiati […]. È da escludersi il ricorso a semplici riassunti o sillogi. […]
2. La lettura del testo va programmata sulla base della competenza lessicale (comprensione dei termini), semantica (approfondimento delle idee e dei nodi problematici) e sintattica (ricostruzione dei procedimenti argomentativi).
3. Il testo dovrà essere letto ed interpretato nel suo contesto storico […]9.
A partire da queste indicazioni, alcuni didatti, come M. De Pasquale, P. Bianciardi e M. Trombino, hanno elaborato «modelli di analisi del testo». Il tratto comune di questi modelli di analisi è, oltre al tentativo di contestualizzare il pensiero evitando gli “eccessi” delle tradizioni storiciste, l’insistenza – sempre nel quadro dell’apparato argomentativo del pensiero e in vista dell’acquisizione di autonome capacità di riflessione (e di valutazione delle strutture argomentative stesse) – sugli elementi concettuali e terminologici del testo.
2.2.2 Lettura filosofica
La lettura filosofica di un testo filosofico si genera unicamente a partire dallo scardinamento dei riferimenti operativi, che pregiudicano fin da subito la possibilità di volgere lo sguardo alla dimensione interrogativa della tradizione del pensiero occidentale. Lo sguardo della fenomenologia ermeneutica tenta invece di restare all’altezza dell’interrogazione filosofica, scorgendo nel confronto con la lingua madre un inedito compito del pensiero filosofico.
2.2.3 La ricerca empirica in educazione
La ricerca empirica in educazione10, che nasce dal confronto con l’odierna mutevole contingenza
9 AA. VV. (1992), Piani di studio della scuola secondaria superiore e programmi dei trienni. Le proposte della
Commissione Brocca, Firenze: Le Monnier, pp. 231-233.
delle realtà scolastiche, si configura come efficace strumento di conoscenza scientifica della realtà educativa stessa, e consente, di volta in volta, di «valutare gli esiti dell’azione educativa» alla luce di evidenze coglibili “mettendo tra parentesi” ciò che appare d’impatto sul piano del «senso comune». La possibilità di ricorrere a «metodologie legittimate, affidabili e oggettive» consente di affrontare lo studio dei fenomeni educativi a partire dall’«osservazione sistematica».
In ordine agli «approcci di ricerca», emergono alcuni elementi costitutivi della struttura stessa dell’indagine metodologicamente rigorosa, che parte dall’impostazione iniziale per giungere alla presentazione dei risultati: il tema della ricerca; l’obiettivo della ricerca; il problema della ricerca; gli oggetti/soggetti della rilevazione; i fattori rilevati; la strutturazione della raccolta dati; le tecniche di analisi dei dati raccolti; la portata dei risultati, tipo di conclusioni; l’approccio delle metodologie utilizzate.
In generale, la ricercatrice/il ricercatore può ricorrere a due approcci di ricerca: ricerca quantitativa e ricerca qualitativa. Naturalmente i due approcci sono complementari, poiché, qualora vengano praticati in modo rigoroso, consentono il reciproco arricchimento del livello di ricerca.
La ricerca quantitativa, secondo la tradizione scientifica «post-positivista (realista)», consente di cogliere i fenomeni secondo «regolarità generalizzabili», di trovare le relazioni che vigono tra diversi fattori della realtà, ossia di «spiegare» (dal tedesco erklären), secondo la «logica causale» e/o «statistica» (basti pensare all’uso di grafici e di tabelle), i fenomeni studiati rispetto a «campioni estesi». Tale ricerca può essere «validata» dalla comunità scientifica.
La ricerca qualitativa, secondo la tradizione «interpretativista», viene svolta nel caso di fenomeni singoli o singolari, su «campioni ristretti», ossia non consente alcuna generalizzazione oggettiva. In questo caso, non si tratta di «spiegare», individuando nessi causali, bensì di comprendere (dal tedesco verstehen), di interpretare fenomeni di «senso», di «significato», tentando di costruire «profili e tipi ideali». Tale ricerca non è sostenuta da pretese di validazione scientifica, ossia di «quantificazione numerica», bensì è volta all’affinamento della riflessione sulla pratica educativa. Come sottolinea Paolo Sorzio, tratto caratteristico della ricerca educativa è
[…] l’integrazione del piano dell’astrazione, che fornisce uno schema di orientamento nella complessità delle attività educative indagate e del piano empirico, frutto di un accurato lavoro sul campo, che fornisce i dati di realtà; […] le ricerche qualitative non si limitano alla presentazione di una serie di dati, ma si sostengono su disegni di ricerca, certamente di natura aperta e in costante evoluzione (Sorzio, 2015, p. 51).
In tal senso è in gioco la possibilità di individuare il «significato soggettivo delle esperienze» in vista dell’attendibile «configurazione delle attività educative».
Sorzio indica alcuni elementi metodologici che caratterizzano una buona ricerca qualitativa: la scelta dei casi; la raccolta dei dati; l’analisi dei dati (Sorzio, 2015, pp. 58-66).
In questo ambito emerge una possibilità interessante, volta a individuare, in modo differenziale (Sorzio, 2015, p. 60), i risultati di determinate prassi educative.
La raccolta dei dati deve essere metodologicamente sorvegliata in ordine agli strumenti e alle procedure, poiché è sempre in gioco l’eventualità di
[…] fondare le convinzioni educative su modelli che non colgono le sfumature e le articolazioni della realtà (Sorzio, 2015, p. 61).
L’analisi dei dati trova il suo momento più significativo (Sorzio, 2015, p. 62) nell’accorta pratica dell’interpretazione, attenta a “mettere tra parentesi” le aspettative del ricercatore .
2.2.4 Insegnamento della Filosofia e approccio di ricerca qualitativo
L’insegnamento liceale della Filosofia ispirato alla tradizione fenomenologica trova la sua metodologia di ricerca nell’ambito dell’approccio qualitativo, poiché in questo caso la relazione educativa è intonata alla singolarità e alla puntualità di ciò che di volta in volta si genera rispetto alla lettura del testo filosofico e al dialogo ermeneutico. La relazione educativa d’indole fenomenologica è “intrisa” di temporalità, dunque di elementi che sfuggono al loro stesso apparire, che restano nel nascondimento, “refrattari” alla spiegazione secondo nessi causali. Ciò che accade nella relazione educativa d’indole fenomenologica si sottrae, per così dire, a priori, alla immediata constatabilità; si genera lentamente, nel tempo, e, come ogni fenomeno originario, non appare mai in piena visibilità, in trasparenza. Attraverso l’approccio qualitativo della ricerca, è tuttavia possibile tentare di corrispondere a questo lento ritmo, evitando avulse generalizzazioni, ossia guardando sempre anzitutto alle emergenze di «senso» che, rare, costellano l’esperienza dell’apprendimento/insegnamento. Così, oltre alle indicazioni che l’insegnante riceve, di volta in volta, dall’accadere del dialogo ermeneutico svolto in classe, è possibile raccogliere ciò che si
genera attraverso la riflessione su quanto detto. In questo caso il piano della riflessione potrebbe essere colto a) attraverso la lettura dei protocolli stesi durante la lezione, b) attraverso la somministrazione di un questionario, ulteriore esercizio di scrittura.
2.2.5 Riflessione sul questionario
Come spiega Roberto Trinchero,
[i]l questionario è una delle tecniche di rilevazione dei dati più utilizzate nelle scienze umane. Esso rileva dati caricabili in una matrice casi per variabili detta matrice dei dati […], e trattabili con le tecniche di elaborazione offerte dalla statistica e dall’analisi dei dati in genere […]. Il vantaggio principale del questionario è la rapidità con cui è possibile ottenere informazioni in estensione […] su un dato tema e come queste siano facilmente sintetizzabili con le tecniche di elaborazione dati a nostra disposizione, grazie all’alto grado di strutturazione con cui il dato viene accolto. Lo svantaggio di questa alta strutturazione è quello di non cogliere aspetti e sfumature del problema, le quali potrebbero essere d’ausilio per una migliore comprensione della realtà studiata. In questi casi è preferibile utilizzare tecniche che rilevino dati con un grado di strutturazione minore, quali ad esempio l’intervista libera e semistrutturata, volte però ad un’indagine in profondità e non in estensione (Trinchero, 2002, p. 196).
Alla luce di questa puntualizzazione, e volendo tuttavia svolgere una ricerca qualitativa che passi attraverso un esercizio di scrittura, è necessario interpretare l’uso del questionario come soluzione di “compromesso”: per quanto possa essere strutturata, infatti, l’intervista, che forse consentirebbe un’indagine più approfondita, raggiunge la sua piena efficacia solo entro la dimensione dell’oralità. Il questionario strutturato secondo domande aperte potrebbe invece rivelarsi comunque attendibile in ordine a una prima rilevazione riguardante l’esperienza di apprendimento e la qualità dell’intesa del testo filosofico:
[l]e domande aperte non prevedono alternative predefinite di risposta. L’informazione rilevata da questo tipo di domande è particolarmente ricca ed è utile se l’obiettivo del ricercatore è giungere alla comprensione di un fenomeno, più che alla spiegazione di un fattore sulla base di altri. Lo svantaggio è quello di avere risposte a bassa strutturazione (Trinchero, 2002, p. 199).
In sede interpretativa, il ricercatore dovrà dunque lavorare su dati “testuali”, che andranno adeguatamente analizzati in vista di una parziale “chiusura” delle domande aperte:
[…] per il ricercatore la risposta aperta, essendo priva di standardizzazione, è più difficilmente analizzabile […]. In sintesi, occorre, dopo aver letto tutte la domande aperte, individuare fra le varie risposte gruppi omogenei di risposta e per ogni gruppo attribuire un codice (generalmente numerico) e procedere quindi con l’organizzazione in macrocategorie.
In altre parole, con le domande aperte si fa una categorizzazione ex post, mentre, con le domande chiuse la categorizzazione è ex ante (Felisatti-Mazzucco, 2013, p. 146).
Il questionario strutturato secondo domande aperte trova la sua motivazione negli elementi della ricerca sopra indicati (cfr. 2.2.3), che ora saranno definiti in ordine allo stile d’insegnamento proposto.
Tema della ricerca: a partire dalle riflessioni di Ruffaldi, si può parlare, in generale, del problema e delle modalità dell’uso dei testi filosofici in classe.
La finalità conoscitiva perseguita, ossia l’obiettivo della ricerca, consiste nel tentativo di verificare il tenore didattico della lettura “diretta” del testo filosofico, unita all’esercizio di scrittura del protocollo.
Il problema della ricerca, o domanda guida, può essere formulato così: la lettura “diretta” del testo filosofico, unita all’esercizio di scrittura del protocollo, genera un’intesa più attendibile di quella che invece sorge nell’ambito di didattiche più interessate a dimensioni contestuali (approccio storico) e argomentative (approccio per problemi)?
Oggetti/soggetti della rilevazione sono i testi elaborati in sede di stesura del protocollo e di risposta alle domande aperte proposte attraverso il questionario.
Fattori rilevati: in vista della verifica dell’intesa del testo filosofico, la ricerca è volta a saggiare la generale competenza linguistica di allieve e allievi nell’ambito della scrittura in lingua madre. Gli indicatori che consentono di valutare tale competenza sono i seguenti: qualità del lessico; correttezza grammaticale, solidità delle strutture sintattiche; correttezza morfologica; accortezza etimologica (nel caso di allieve e allievi che seguono il corso di latino, ed eventualmente di greco antico). Tale competenza generale è elemento imprescindibile in ordine alla possibilità di intendere il senso del testo filosofico.
Strutturazione della raccolta dati: i dati vengono raccolti attraverso la lettura dei protocolli e delle risposte date in sede di somministrazione di un questionario strutturato secondo domande aperte.
Tecniche di analisi dei dati raccolti: il principale accorgimento è l’analisi linguistica, approfondita attraverso un’interpretazione basata sulla categorizzazione ex post.
Portata dei risultati, tipo di conclusioni: come già ricordato, ciò che accade nella relazione educativa d’indole fenomenologica si sottrae alla immediata constatabilità, si genera lentamente, nel tempo, e, come ogni fenomeno originario, non appare mai in piena visibilità, in trasparenza. Attraverso l’approccio qualitativo della ricerca è tuttavia possibile tentare di corrispondere a questo lento ritmo, evitando avulse generalizzazioni, ossia guardando sempre anzitutto alle emergenze di «senso» che, rare, costellano l’esperienza dell’apprendimento/insegnamento.
Approccio delle metodologie utilizzate: la ricerca si svolge sul piano qualitativo, facendo uso dello strumento del questionario strutturato secondo domande aperte.
2.2.6 L’Unità didattica
Due diversi stili d’insegnamento stanno alla base dell’Unità didattica alla quale il questionario fa riferimento. Tale Unità didattica è pensata come strutturata in due lezioni e in una parte di una terza lezione, dedicata alla somministrazione dello strumento d’indagine. L’Unità didattica, che è pensata quale esercizio di lettura e di scrittura, è volta precisamente a fare emergere la differenza tra questi stili (a; b), e, per quanto possibile, a verificarne le qualità e i limiti sul piano dell’apprendimento. Il tema filosofico scelto per svolgere questo “esperimento” è la puntualizzazione della tradizionale determinazione platonica dell’essere dell’essente in quanto ei\do.
a) La forma abituale della didattica della Filosofia trova ancora oggi il suo modello, nonostante gli “aggiustamenti” provenienti dal cosiddetto «approccio per problemi», nello stile manualistico di esposizione. Ecco dunque due esempi riguardanti il tema scelto. I brani seguenti sono tratti da due illustri manuali della tradizione scolastica italiana. Giovanni Reale e Dario Antiseri:
Le Idee di cui parlava Platone non sono […] dei semplici concetti, ossia delle rappresentazioni puramente mentali […], ma sono “entità”, “sostanze”. Le idee, insomma, non rappresentano semplici pensieri, ma sono ciò che il pensiero pensa, quando si sia liberato dal sensibile, sono “il vero essere”, “l’essere per eccellenza”. In breve: le Idee platoniche sono le essenze delle cose, ossia ciò che fa di ogni cosa quello che è.
Platone […] con “Idea” intendeva una realtà ontologica a sé stante, intellegibile (cioè oggetto specifico del pensiero), incorporea, immutabile. Essa rappresenta l’archetipo su cui vengono modellate le cose terrene (Reale-Antiseri, 2007, p. 105).
Mario Vegetti:
A differenza che nel pensiero moderno, in cui ‘idea’ designa soprattutto i contenuti dell’attività soggettiva del pensiero, in quello antico il termine si riferisce primariamente all’aspetto visibile delle cose, alla loro ‘forma’ nel senso di figura. Poiché la forma e la figura restano stabili pur nel variare degli individui e nel loro mutare nel tempo (la forma del cavallo è riconoscibile in qualsiasi singolo cavallo, e indipendentemente dal fatto che sia giovane o vecchio), ‘idea’ ha finito per significare (soprattutto a partire da Platone) la forma essenziale e invariante di cui i singoli individui percepibili con i sensi sono copie o riproduzioni. Questa forma essenziale gode quindi di uno statuto non-empirico (non materiale e dunque non percepibile con i sensi), l’organo che ci permette di coglierla non è più, come all’origine, la vista, ma il pensiero, che sa scorgere l’essenziale, il permanente, l’invariabile, sotto il mutare delle figure sensibili (così un triangolo potrà essere disegnato grande o piccolo, nero o bianco, scaleno o isoscele, ma al di sotto di ogni sua figura il pensiero scorgerà sempre la sua essenza immutabile, la sua ‘idea’, che consiste nell’essere una figura la somma dei cui angoli è uguale a due retti) (Vegetti-Alessio-Papi, 1992, p. 154).
[…] un oggetto non linguistico, dotato di esistenza autonoma […]; questo oggetto, in prima approssimazione, è ciò che Platone chiama idea (Vegetti-Alessio-Papi, 1992, p. 155).
I brani addotti riassumono quanto un’allieva/un allievo dovrebbe sapere a seguito della trattazione di questo argomento del pensiero di Platone. Ma che cosa significa, qui, sapere? Che cosa sa l’allieva/l’allievo capace di ripetere questi contenuti? Qual è l’indole stessa di questi contenuti?
Leggendo attentamente i brani, nei quali il riferimento (addirittura sul piano dell’iniziale indicazione di qualche tratto caratteristico) alla lingua greca è assente, emerge l’uso didattico di nozioni il cui senso viene dato per acquisito, l’uso spontaneo di concetti operativi non interrogati e
non delucidati in ordine al loro eventuale tenore fenomenologico, ermeneutico. Ecco le principali nozioni usate in tal “senso”: «concetto»; «rappresentazione mentale»; «entità»; «sostanza»; «pensiero»; «sensibile»; «essere»; «essenza»; «cosa»; «realtà ontologica a sé stante»; «intellegibile»; «oggetto»; «incorporeo»; «immutabile»; «archetipo»; «aspetto visibile delle cose»; «forma»; «figura»; «tempo»; «copia»; «riproduzione»; «forma essenziale»; «statuto non-empirico»; «materiale»; «organo». Tali nozioni, usate con maestria dagli autori, provengono dalla tradizione filosofica del platonismo, ossia dalla principale interpretazione degli scritti di Platone, che ha trovato il suo decisivo potenziamento nell’esperienza teologico-politica del Medioevo latino. Sono dunque nobili nozioni, senz’altro “spendibili” entro la tradizione scolastica liceale. Entro questa tradizione, peraltro oggi fortemente indebolita, accade tuttavia una modalità di apprendimento che sembra accontentarsi della mera ripetizione, escludendo l’eventualità che qualcuna/qualcuno possa essere chiamata/chiamato in causa, sul piano esistenziale, dal fenomeno di cui i concetti operativi sono disinvolti surrogati.
La presente ricerca consiste nell’ipotesi che a fondamento di tale indebolimento, di tale “esaurimento”, si trovi un vero e proprio «no!» rivolto all’ascolto e allo studio della propria lingua madre.
b) Lo stile d’insegnamento di Fédier emerge, nella sua originalità, quale tentativo di sospendere questo atteggiamento negativo e di destare, nelle allieve e negli allievi, attenzione per ciò che la lingua madre dice e per i “modi di dire” (les tournures) della lingua madre. La didattica filosofica trova la sua specificità nel lavoro di lettura e di scrittura volto a esplicitare e a interrogare l’intesa di senso alla quale ogni dire, per eccellenza il dire filosofico, è già sempre intonato. Tale lavoro si configura quale accompagnamento: la didattica filosofica accompagna allieve e allievi, tenta di educarli in vista di un attendibile venire al mondo. Tale venire al mondo trova nella spiegazione dettagliata del testo una modalità attendibile.
Per esemplificare questo stile d’insegnamento, è possibile fare riferimento a due lezioni che Fédier ha dedicato alla puntualizzazione della parola filosofica ei\do.
Nel corso svolto nell’Anno scolastico 1990-1991 (Fédier, 2011), Fédier si sofferma su Menone 71d – 72d. Nella 3e Explication de texte viene ripresa la puntualizzazione della posizione metafisica di
Platone. Fédier inizia la lettura dal luogo in cui Socrate propone a Menone l’esempio delle api. In questo caso, l’analisi inizia dalla sottolineatura di una frase del giovane interlocutore:
[…] oujde;n diafevrousin, h| mevlittai eijsivn, hJ eJtevra th' eJtevra. […] non differiscono l’una dall’altra come api.
Fédier è meravigliato dalla presenza del pronome h|, che Acri (Platone, 1970 e 2000) ha tradotto con l’avverbio ‘come’. Il dativo femminile del pronome relativo o, h, o, qui con valore di avverbio, apparirà in un luogo fondamentale della filosofia: Aristotele, domandando ti; to; on h| on, formulerà la questione della metafisica. Fédier propone di tradurre in questo modo: «qu’est-ce que l’étant par où [en tant que] il est étant?» (Fédier, 2011, p. 121). (che cos’è l’ente in grazia dell’elemento a
partire dal quale [in quanto] è essente?) Ora, per scorgere l’elemento in grazia del quale le api non
differiscono come api, ossia in quanto api, l’una dall’altra, è necessario un movimento di «dépassement», di superamento meta; tau'ta, dove la preposizione meta;;, che qui regge l’accusativo, significa «après» (dopo). Il plurale neutro tau'ta dice le cose di cui gli interlocutori stanno parlando. Che cosa significa, dunque, mettere in opera un superamento che conduca allo scorgimento di un che di situato, per così dire, “dopo” le api? E qual è l’indole propria di questo che? Si tratta, pensa Fédier, di individuare «la “pure” forme» (la “pura” forma) delle api, poiché esse, come dice Socrate-Platone, «en gev ti ei\do taujto;n apasai e[cousin, di o eijsi;n […]». Fédier traduce così: «Elles ont toutes une même unité [un certain “un”], le même eïdos grâce à quoi elle
sont […]» (Fédier, 2011, p. 122). (Esse hanno tutte una stessa unità [un certo “uno”], lo stesso eïdos
grazie al quale esse sono […]) In questa frase appaiono alcuni «mots essentiels» (parole essenziali) della filosofia. La traduzione di queste parole consente di approfondire lo scorgimento di ciò che Platone chiama ei\do. La parola en indica l’elemento unitario che “fa sì” che un essente sia l’essente-che-è; la parola ei\do, «le mot de Platon» (la parola di Platone), dice l’essere dell’essente (nella lingua del platonismo, l’essenza dell’essente), e, più precisamente (Fédier, 2011, p. 122-123),
[…] il “ciò che ha subito già visto” ogni visione di alcunché – non fosse che per riconoscere ciò che si vede ogni volta. [Pensiamo semplicemente al fatto che non cessiamo di riconoscere; per esempio, il canto di un uccello, il suono del telefono (che non è il rumore della porta), un autobus, che distinguiamo da un’autocorriera, una finestra dipinta su una facciata, che non scambiamo a lungo per una vera finestra. Tutto ciò perché abbiamo subito chiaramente in vista, chiaramente nella memoria, ciò che era e che di conseguenza continua a essere un canto d’uccello...].
La parola taujtovn dice invece «le même» (lo stesso); la parola diva dice il tratto del «grâce à» (in grazia di, grazie a ); eijsivn dice il verbo «être» (essere). Fédier tuttavia presta particolare attenzione
al verbo e[cw. Non è sufficiente tradurre con «avoir» (avere); è preferibile tradurre con «tenir» (tenere) o «se tenir» (tenersi). In questo modo è possibile vedere che Platone sta semplicemente pensando che le api tengono grazie al loro ei\do, ossia che l’elemento che “fa sì” che le api siano api, che trovino la loro consistenza nell’essere api, è appunto il loro ei\do.
Questo brano del Menone consiste dunque, secondo Fédier, nel passaggio da uno sguardo inerte, rivolto unicamente al piano “sensibile”, non pienamente essente, contingente, presente d’impatto, alla filosofia, ossia allo scorgimento dell’ei\do, che è pienamente essente e i cui tratti di fondo sono l’essere en ti, un che di uno, e l’essere taujtovn, lo stesso.
Nel sottolineare questo movimento, Fédier considera anche, quasi en passant, incidentalmente (ricordiamo che anche Aristotele spesso colloca “per inciso” essenziali scorgimenti fenomenologici), il rapporto tra ei\do e parola, in particolare «une parole pleine de vérité» (una parola piena di verità) (Fédier, 2011, p. 124):
Le parole sono dei prototipi dell’ei\do; una parola piena di verità cerca di cogliere il tenore dell’ei\do. Il linguaggio ha una capacità di avvistamento: arrivare a un parlare che sia la scoperta di ciò che bisogna riuscire a dire.
Questo difficile brano richiederebbe una puntualizzazione fenomenologica dettagliata, che aprirebbe impegnative considerazioni filosofiche. D’altra parte, le implicazioni pedagogiche di questa determinazione della lingua madre, seppure qui ricavate dalla posizione metafisica di fondo della vicenda occidentale, sono molto importanti: l’etica della lettura/scrittura, ossia il modo di pensare/essere che Fédier esemplifica per le sue allieve e per i suoi allievi, trova nel fenomeno dell’avvistamento di «ciò che bisogna riuscire a dire» il proprio elemento.
È tuttavia necessario prestare attenzione al modo in cui viene spiegato il senso della parola «teneur» (tenore). Di nuovo “per inciso”, appare in tutta chiarezza e semplicità l’indole stessa dell’ei\do (Fédier, 2011, p. 124):
L’ei\doè ciò che fa tenere ciò che è visto, il viso – ma nel senso di ciò che “fa viso”, il riconoscibile “darsi a vedere”, l’a priori di ciò che è riconoscibile, l’elemento che dà vista. Il fare-viso è prima (d’anticipo) della cosa.
(comprensione) e «traduction» (traduzione). Si tratta di provare a tradurre la parola greca ei\do, per comprendere la determinazione platonica dell’essere dell’essente. Questa traduzione può essere tentata con «offre de vue» (offerta di vista), che tenta di dire «ce qui offre la possibilité inépuisable
de voir ce qu’est la chose en question» (ciò che offre la possibilità inesauribile di vedere ciò che è la
cosa in questione). In questo modo comincia ad apparire che l’ei\do non è un “concetto” pensato, in senso moderno, come essente presente nella nostra “mente”; ei\do «est ce qui rassemble le divers» (ciò che raccoglie il diverso), «ce qui fait tenir le commun» (ciò che fa tenere il comune). È dunque in gioco un elemento che concede una «mêmeté» (un essere stesso, una “stessità”).
Due questionari, alla luce delle due esperienze didattiche appena richiamate, che vengono proposte in successione, potrebbero essere somministrati a una classe liceale (in questo caso, in conformità del Piano degli studi liceali, a una classe 3a). Come già ricordato, essi sono pensati come esercizi di scrittura, da svolgere nell’arco di 35 minuti, che integrano i testi già elaborati sotto forma di protocollo. La lettura, ossia la raccolta dei dati, attenta ai fattori rilevati indicati sopra, avrà modo di muoversi in senso differenziale, confrontando gli elaborati e i testi dei due questionari. I questionari proposti si trovano nella sezione Allegato I (p. 31 sgg.).
2.2.7 Interpretazione dei dati
Nel volume intitolato I metodi della ricerca educativa (Trinchero, 2004), in particolare nell’ambito dell’esposizione degli elementi della ricerca interpretativa, Trinchero affronta la difficile questione dell’analisi dei dati (Trinchero, 2004, pp. 124-136). Nel caso della nostra ricerca, si tratta di testi. Questo «materiale empirico» va dunque interpretato. Quali sono allora i fondamentali accorgimenti ermeneutici che consentono di leggere in modo attendibile gli elaborati scritti?
Secondo Trinchero, che sottolinea la problematicità dell’«attribuzione di senso all’evidenza empirica» (Trinchero, 2004, p. 124), la lettura deve essere aperta alla «revisione dei significati attribuiti alle affermazioni». «Obiettivo dichiarato» della lettura dei testi è, infatti,
[…] la comprensione del significato […] dei testi […] prodotti (Trinchero, 2004, p. 125).
fenomenologico (la cosiddetta «codifica a posteriori del testo»), entrambi di manifesta origine filosofica, dunque particolarmente vicini all’approccio stesso della nostra ricerca.
Criterio fondamentale dell’«analisi ermeneutica» è
[…] la sistematica messa in atto, da parte di chi interpreta, di un continuo processo di ridefinizione di
significato fra le parti e il tutto: la comprensione di un testo […] è caratterizzata da un circolo ermeneutico
[…], ossia un processo di assegnazione di significato in cui il significato delle singole parti è determinato dal significato assegnato al tutto, ma nel quale una ridefinizione più precisa del significato delle singole parti può cambiare il significato originario attribuito al tutto, che a sua volta ridetermina di nuovo il significato delle singole parti e così via, fino a giungere a un’interpretazione unitaria, priva di contraddizioni interne (Trinchero, 2004, pp. 125-126).
In tal senso il testo viene inteso a partire da un tratto di interezza; tale tratto è vigente in modo esplicito nei testi filosofici, le cui “parti”, come insegna Fédier, provengono dall’intesa di senso, per lo più implicita, che ne costituisce l’«unità generativa». È tuttavia importante ricordare che
[l’]operazione di interpretazione non è mai libera dai presupposti e dal background teorico di partenza di chi interpreta, dal quadro teorico che guida la ricerca e dalle modalità con cui i dati sono stati raccolti (Trinchero, 2004, p. 127).
Questa “implicazione” di chi interpreta è, d’altra parte, analoga a quella che accompagna l’insegnamento stesso della Filosofia, nel quale la “posizione” della/del docente, delle allieve e degli allievi dovrebbe ogni volta essere “oggetto” di comune interrogazione filosofica.
La «codifica a posteriori del testo», d’indole fenomenologica, è invece volta a trovare nei testi, categorizzandole opportunamente, «unità naturali di significato». Per giungere a tali unità originarie (l’«essenza dei fenomeni»), che non appaiono a partire dalla mera raccolta di dati empirici, la ricercatrice/il ricercatore deve, secondo il metodo husserliano della «sospensione del giudizio», «mettere tra parentesi i suoi preconcetti», ossia le «precomprensioni» che “naturalmente” indirizzano il suo sguardo. Come sottolinea Trinchero,
[l’]obiettivo è andare al di là del semplice contenuto verbale del testo, non considerando mai ovvia un’affermazione, ma chiedendosi costantemente quale significato dà il soggetto studiato a quel termine […] e
soprattutto cercando di mettere continuamente in dubbio le proprie interpretazioni (Trinchero, 2004, p. 128-129).
Lo sguardo fenomenologico è dunque attento al puro apparire delle «unità naturali di significato» presenti nei testi, ossia a ciò che, di volta in volta, sorge dal ritratto piano dell’intesa di senso. La “categorizzazione” deve tuttavia mantenersi all’altezza dell’apertura di senso costitutiva del testo filosofico. Il problema che la lettura fenomenologica deve affrontare, e che la nostra stessa ricerca ha incontrato fin dall’inizio, consiste dunque nella difficoltà di “categorizzare” le unità di senso evitando la reificazione, la fissazione, l’astrazione. La grande ricerca filosofica di Husserl ha infatti mostrato che la tradizione occidentale stessa, che in un certo senso si compie nel progetto matematico della “natura” istituito dalla scienza fisica galileiana, è portatrice di una profonda tendenza reificante, ossia di categorie (prima fra le altre la categoria di quantità) che non lasciano essere pienamente, ossia apparire, l’essente. Quale elemento indispensabile dell’insegnamento della Filosofia, la ricerca educativa è dunque chiamata a confrontarsi con le categorie occidentali.