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All’origine dell’istituzionalismo giuridico: la concezione del diritto di Émile Durkheim

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ALL’ORIGINE DELL’ISTITUZIONALISMO GIURIDICO: LA CONCEZIONE DEL DIRITTO DI ÉMILE DURKHEIM

Francesco Pallante

1. Vita e pensiero1

David Émile Durkheim nacque il 15 aprile 1858 a Épinal, nel cuore della Lorena francese, ultimo di quattro figli di una famiglia ebraica di stretta osservanza religiosa, che annoverava tra i suoi antenati diverse generazioni di rabbini. Nei desideri del padre, rabbino lui stesso, Émile avrebbe dovuto continuare la tradizione familiare; in questa direzione il genitore impostò l’austera educazione del figlio, inculcandogli un senso del dovere e uno spirito di sacrificio che non l’avrebbero più abbandonato (Durkheim stesso, in età adulta, confessò di non riuscire a provare un piacere senza essere subito sopraffatto dal senso di colpa). Il giovane Émile frequentò la scuola rabbinica, conducendo però, in parallelo, gli studi anche presso il college di Épinal. Non è ben chiaro quando decise di abbandonare la formazione religiosa, ma sembra che ciò non causò particolari frizioni con la famiglia, che anzi, pur nei limiti delle sue modeste risorse, assecondò l’aspirazione del ragazzo a completare gli studi per divenire insegnante2.

È da ritenere che l’esperienza di questi primi anni di vita, in un contesto chiuso e ripiegato su se stesso – come quello di una comunità minoritaria di provincia, inserita in un ambiente a tratti ostile – abbia lasciato il segno sulla formazione di Durkheim, che toccò con mano i condizionamenti che i gruppi esercitano (o pretendono di esercitare) sugli individui, in particolare per quanto attiene alla sfera della religiosità3.

Gli anni dell’adolescenza influirono sulla formazione di Durkheim anche a causa del clima politico e culturale che segnò la Francia di quel periodo: la guerra franco-prussiana, con la sconfitta francese del 1870 e la conseguente perdita dell’Alsazia e della Lorena (la stessa Épinal subì l’occupazione prussiana fino al 1873), e gli sconvolgimenti interni conseguenti alla nascita della Terza Repubblica e alla Comune di Parigi (1871), sono tutti avvenimenti che lasciarono una traccia profonda sulla generazione di intellettuali alla quale appartenne Durkheim, suscitando in essa un sentito

1 Per una visione d’insieme sulla vita e l’opera di Durkheim cfr. S. Lukes, Émile Durkheim: His Life and Work,

Stanford University Press, Stanford 1985, nonché il sito internet http://durkheim.uchicago.edu/.

2 Cfr. S. Lukes, op. cit., pp. 39 ss.

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patriottismo basato sulla convinzione della necessità di un impegno diretto nella rigenerazione della nazione francese4.

Terminati brillantemente gli studi secondari5, nel 1876, all’età di diciotto anni, Durkheim si trasferì

a Parigi per preparare i selettivi esami di ammissione all’École Normale Supériore. Riuscì nel suo intento al terzo tentativo6 e, nel 1879, iniziò a frequentare le lezioni, avendo come compagni di

corso, tra gli altri, Henri Bergson, Maurice Blondel, Jean Jaurès, Pierre Janet, con i quali intrattenne rapporti di stretta amicizia (sembra che il definitivo abbandono dell’ebraismo da parte di Durkheim sia, tra l’altro, dovuto all’influenza di Jaurès e Bergson)7. Stimolato dal vivace, anche se rigoroso,

clima culturale della scuola, Durkheim iniziò a definire con maggiore precisione i propri interessi intellettuali, manifestando una predisposizione per la filosofia politica e sociale e, sul piano del metodo, un precoce disagio per i lavori di taglio esclusivamente teorico. Il confronto con i professori e i compagni di corso contribuì, inoltre, a perfezionare la formazione politica di Durkheim, portandolo a schierarsi, in polemica con i monarchici e la destra cattolica, tra i difensori della neonata Terza Repubblica e, più in generale, ad aderire alle posizioni del riformismo laico e progressista. Tra gli insegnanti dell’École che maggiormente influenzarono i suoi studi, un posto di rilievo spetta allo storico Numa Denis Fustel de Coulanges e al filosofo Émile Boutroux. Dal primo il giovane normaliano recepì il metodo di lavoro, basato sul rifiuto di ogni generalizzazione e idea precostituita a favore della ricerca attenta e rigorosa di ogni elemento del proprio oggetto di studio, nonché la tesi della centralità della religione nella spiegazione dei fenomeni sociali; dal secondo ricevette lo stimolo fondamentale all’approfondimento dello studio del pensiero di Auguste Comte e l’idea che ogni scienza ha un proprio campo di ricerca peculiare e irriducibile a quello delle altre (di qui, probabilmente, l’ostinazione con cui Durkheim cercherà per tutta la vita di conquistare un’autonoma identità accademica alla sociologia). A riconoscimento del debito intellettuale contratto, Durkheim dedicherà ai suoi due maestri le proprie dissertazioni dottorali. Sempre sul piano formativo, notevole influenza sul giovane normaliano ebbero, in questo stesso periodo, le idee del filosofo Charles-Bernard Renouvier, da molti considerato l’ispiratore intellettuale della Terza Repubblica, il quale, sulla base di un fermo razionalismo, propugnava la necessità di valorizzare, nel contempo, l’autonomia morale degli individui e l’instaurazione di solide e strutturate relazioni interpersonali, auspicando uno Stato capace di agire, specie attraverso un programma di istruzione

4 Cfr. S. Lukes, op. cit., pp. 41–42.

5 Durkheim conseguì un doppio diploma superiore, in Lettere nel 1874 e in Scienze l’anno successivo.

6 Secondo S. Lukes, op. cit., pp. 44–45, le difficoltà incontrate nell’accedere alla Scuola Normale Superiore – dovute

soprattutto alla necessità di perfezionare la padronanza della cultura classica – lasciarono Durkheim esposto all’ansia della competizione e al timore del fallimento per il resto dei suoi anni.

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laica, in vista della realizzazione della libertà individuale e della giustizia sociale. Su un piano più strettamente scientifico, da Renouvier Durkheim trasse due nozioni fondamentali: che le categorie culturali di base (la razionalità, lo spazio, il tempo, la causalità …) sono socialmente determinate e quindi relative; che, nel campo delle scienze sociali, l’insieme è sempre un qualcosa di diverso e più grande dei singoli elementi che lo compongono8.

Ottenuta nel 1882 l’abilitazione all’insegnamento della filosofia, Durkheim prestò servizio fino al 1887 presso alcuni licei di provincia, con un’interruzione nell’anno scolastico 1885/1886, quando ottenne dal Ministero della Pubblica Istruzione una borsa di studio per approfondire lo studio del sistema di istruzione tedesco nel campo delle scienze sociali. Nel corso del suo soggiorno in Germania entrò in contatto con il c.d. socialismo della cattedra, i cui esponenti – in particolare Adolph Wagner e Gustav von Schmoller – si proponevano di studiare i fenomeni economici non ricorrendo esclusivamente a spiegazioni individualiste, e, soprattutto, con lo psicologo Wilhelm Wundt, che riteneva di poter individuare criteri oggettivi in grado di chiarire, anche dal punto di vista morale, i meccanismi sottostanti i comportamenti umani, a prescindere da ogni spiegazione individual-utilitarista9. Più in generale, dal soggiorno tedesco Durkheim trasse il convincimento

della complessità della realtà sociale e degli stretti collegamenti esistenti tra le varie scienze dedite al suo studio, sviluppando l’idea della necessità di una scienza prettamente «sociologica» che si occupasse di costume, morale, diritto, religione, credenze e pratiche sociali10.

Rientrato in Francia, dove riprese l’esperienza dell’insegnamento liceale, nel 1887 pubblicò due articoli sulla sua esperienza tedesca – uno incentrato sull’insegnamento della filosofia, l’altro, di più ampio respiro, sullo stato della ricerca nelle scienze sociali – che vennero molto apprezzati, per il loro taglio propositivo, da Louis Liard, alto dirigente del Ministero della Pubblica Istruzione. Probabilmente fu anche grazie all’interessamento di Liard che, in quello stesso anno, Durkheim ottenne l’incarico per insegnare «Scienza sociale e Pedagogia»11 all’Università di Bordeaux, città

dove si stabilizzò professionalmente (vi rimase per i successivi 15 anni) e personalmente (grazie al matrimonio con Louise Dreyfus, figlia di un ricco industriale di origini alsaziane, che gli darà due figli, André e Marie).

Dal punto di vista scientifico, gli anni di Bordeaux furono i più produttivi della vita di Durkheim, quelli in cui elaborò tutte le sue opere più rilevanti e pose le basi per la costruzione di una vera e

8 Per queste notizie e considerazioni cfr. A. Giddens, Durkheim, il Mulino, 1998 Bologna, p. 13 e S. Lukes, op. cit., pp.

44 ss. e 54 ss.

9 Cfr. S. Lukes, op. cit., pp. 89 ss. 10 Cfr. A. Giddens, op. cit., p. 12.

11 Secondo S. Lukes, op. cit., p. 95 , il riferimento alla scienza sociale nel nome del corso venne inserito appositamente

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propria scuola di sociologia. Furono, tuttavia, anche anni contrastati, soprattutto a causa dell’insofferenza che negli ambienti accademici umanistici suscitò l’assegnazione a uno scienziato sociale di una cattedra – come quella di pedagogia – tradizionalmente di loro appannaggio. Lo stesso Durkheim non contribuì ad addolcire il clima, enfatizzando la portata delle sue lezioni sui temi sociologici (la solidarietà sociale, la famiglia, il suicidio, il crimine, la religione, il diritto, l’incesto, il totemismo), che, diversamente da quelle dedicate alla pedagogia, era solito tenere il sabato mattina in aule aperte al pubblico. Egli si batté, inoltre per rendere obbligatorio il corso di sociologia agli studenti di filosofia e giurisprudenza, suscitando tensioni anche con i cultori di queste materie. È da ritenere che tali contrasti accademici siano stati all’origine del ritardo con cui Durkheim vide soddisfatto il suo desiderio di essere chiamato alla Sorbona; d’altro canto, però, le scelte da lui compiute risposero, più che alle sue aspirazioni accademiche, all’intenzione di assicurare un solido radicamento alla nuova scienza sociologica. In quest’ottica, oltre che a una contesa tra aderenti a diversi raggruppamenti disciplinari, lo scontro accademico che vide coinvolto Durkheim può essere ricondotto alla contrapposizione tra i fautori dell’intuizionismo (à la Bergson), tra i quali spiccava senz’altro Gabriel Tarde12, e i sostenitori dell’approccio scientifico e

razionale all’analisi dei fenomeni sociali. Su questo secondo fronte, Durkheim si ritrovò a Bordeaux

12 Molto noto, al tempo, per i suoi studi criminologici e sulla psicologia della folla, Tarde pervenne, negli ultimi anni

della sua carriera, all’elaborazione di una teoria sociologica generale che spiegava la società come il frutto di un’invenzione fortunata («socialmente tutto consiste in invenzione»), e individuava nel principio di imitazione il meccanismo fondamentale attraverso il quale spiegare il consolidarsi e il successivo evolversi delle istituzioni sociali. Durkheim riconosceva la validità scientifica delle analisi tardiane sull’imitazione, apprezzandone in particolare l’autonomia dalle spiegazioni teleologiche e utilitariste della società, ma contestava radicalmente a Tarde l’impiego del concetto di invenzione, un concetto che – essendo basato su una rappresentazione irrazionale e «miracolosa» della vita aggregata – implicava, a suo giudizio, la rinuncia a ogni tentativo di spiegare scientificamente l’origine della società e delle istituzioni. Questa frattura nell’ambito della sociologia francese – che si sarebbe presto ricomposta con il pieno prevalere della prospettiva durkheimiana – ebbe nondimeno profonde conseguenze sulla cultura dell’epoca, a causa della centralità che la scienza sociologica aveva assunto in quegli anni. Come si vedrà, le conseguenze di quella contrapposizione si fecero sentire anche in ambito giuridico, dove all’opera di Maurice Hauriou, di impostazione tardiana, venne a contrapporsi il pensiero elaborato, in coerenza con le teorie di Durkheim, da Léon Duguit. Sul prolungato confronto tra Durkheim e Tarde cfr. S. Lukes, op. cit., pp. 302 ss. e L. Mangoni, op. cit., pp. 35, 128–129 e 144–148. Ricorda la contrapposizione tra i due sociologi francesi anche R. Aron, Le tappe del pensiero sociologico.

Montesquieu Comte Marx Tocqueville Durkheim Pareto Weber, Mondadori, Milano 1972, pp. 310–311. Quanto ai

lavori di Gabriel Tarde che possono essere considerati maggiormente significativi in merito ai temi qui trattati si devono almeno ricordare: Les lois de l’imitation. Étude sociologique, Alcan, Paris 1890 e Les lois sociales. Esquisse d’une

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in buona compagnia, intessendo proficui rapporti di collaborazione con il giurista Léon Duguit13, lo

storico Camille Jullian, i filosofi Octave Hamelin e Georges Rodier14.

Quanto alla produzione scientifica degli anni bordolesi, del 1892 è la tesi di dottorato secondaria (redatta in latino), dedicata a Fustel de Colouanges, su La contribution de Montesquieu à la

constitution de la science sociale15, nella quale Durkheim si propone di nobilitare la sociologia

presentando il pensiero di Montesquieu come quello di un vero e proprio scienziato sociale; dell’anno successivo è la tesi principale, dedicata a Boutroux16, intitolata De la division du travail social17, nella quale Durkheim si interroga su come la società possa mantenere la propria coesione

in un contesto, come quello moderno, in cui l’industrializzazione comporta la crescente differenziazione delle attività lavorative e professionali. Seguirono quattro articoli di taglio metodologico, raccolti in volume nel 1895 con il titolo Règles de la méthode sociologique18. Infine,

del 1897 è Le Suicide, étude de sociologie19 dedicato allo studio di un fenomeno – il suicidio,

appunto – considerato di allarmante attualità e sintomatico della crisi prodotta nell’individuo contemporaneo dalla trasformazione dei legami sociali20.

Gli anni successivi furono da Durkheim dedicati al consolidamento della sociologia attraverso la fondazione, nel 1898, della rivista Année sociologique, intorno alla quale si raccolsero fin da subito molti dei giovani studiosi che si erano formati nei corsi durkheimiani. L’attività di direzione della rivista assorbirà, di qui in avanti, molte delle energie intellettuali di Durkheim – anche per via della decisione di impostare collegialmente il lavoro, sulla base dello stabile coinvolgimento di un gruppo di collaboratori – fino alla cessazione delle pubblicazioni che avverrà nel 1912 (la rivista verrà poi

13 R. Aron, op. cit., p. 295 precisa che Duguit fu allievo del primo corso tenuto da Durkheim nel 1887 all’Università di

Bordeaux.

14 Cfr. S. Lukes, op. cit., pp. 99 ss.

15 Cfr. É. Durkheim, Quid Secondatus Politicae Scientiae Instituendae Contulerit, Gounouilhou, Bordeaux 1892 (in

francese: Montesquieu: sa part dans la fondation des sciences politiques et de la science des sociétés, in «Revue

d’histoire politique et constitutionnelle» n. 1, julliet-septembre 1937, pp. 405-63; in italiano: É. Durkheim, Il contributo di Montesquieu alla fondazione della scienza politica, Il tripode, Napoli 1989).

16 Come scrive S. Lukes, op. cit., p. 296, Boutroux, che non condivideva il contenuto del lavoro, accettò la dedica «con

una smorfia».

17 Cfr. É. Durkheim, De la division du travail social: étude sur l’organisation des sociétés supérieures, Alcan, Paris

1893 (in italiano: La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano 1962).

18 Cfr. É. Durkheim, Les Règles de la méthode sociologique, Alcan, Paris 1895 (in italiano: Le regole del metodo

sociologico, Edizioni di Comunità, Milano 1963).

19 Cfr. É. Durkheim, Le Suicide: étude de sociologie, Alcan, Paris 1897 (in italiano: Il suicidio, Rizzoli, Milano 1987). 20 A detta di S. Lukes, op. cit., pp. 49–50, la scelta di studiare il suicidio fu influenzata non marginalmente dalla

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resuscitata dopo la fine della prima guerra mondiale dall’allievo, e nipote, Marcel Mauss). Attraverso la rivista, Durkehim si proponeva di dare annualmente conto della produzione scientifica di interesse direttamente o indirettamente sociologico (in particolare interessandosi della ricerca in quelle che considerava le scienze sociali «specialistiche», vale a dire l’economia, la demografia, la geografia, l’etica e il diritto), oltre che di offrire uno spazio di pubblicazione ad articoli e monografie originali21.

Nel 1902 arrivò – non senza contrasti – la tanto attesa chiamata alla Sorbona di Parigi, dove Durkehim assunse l’insegnamento di «Scienze dell’educazione» (denominazione alla quale, solo nel 1913, venne aggiunto «e sociologia», a coronamento di un disegno intellettuale perseguito per tutta la vita). Durkheim si dedicò senza risparmiarsi allo svolgimento del nuovo incarico, acquisendo ben presto una discreta influenza presso l’accademia parigina, sia per quanto riguarda l’insegnamento (il suo corso divenne obbligatorio per i futuri insegnanti di filosofia, storia, letteratura e lingue), sia per quanto riguarda l’amministrazione universitaria (sostenuto dal Rettore, entrò rapidamente a far parte degli organi di governo dell’Ateneo). Più in generale, Durkheim – rimasto fedele all’insegnamento di Renouvier – esercitò un ruolo importante nell’influenzare, pur senza mai assumere direttamente incarichi politici, le scelte educative del Governo, venendo a svolgere un rilievo pubblico che gli attirò l’ostilità di tutti coloro che, per motivi diversi, erano contrari al suo approccio educativo improntato al positivismo, alla laicità e al razionalismo22.

Parallelamente all’attività didattica e all’impegno amministrativo, Durkheim dedicò gli anni parigini allo studio della religione come fenomeno sociale, un impegno da cui, nel 1912, scaturì la sua ultima grande opera, Les formes élémentaires de la vie religieuse23. In tale lavoro la religione –

studiata nelle sue manifestazioni essenziali, a partire dalle ricerche antropologiche sulle società più semplici – viene interpretata come il collante fondamentale della coscienza sociale, suscettibile di valere come tale anche presso le società maggiormente complesse. Sulla scia delle implicazioni di tale studio – che chiamavano in gioco il rapporto tra verità e credenza sociale nella verità – Durkheim dedicò le lezioni dell’anno accademico 1913/1914 alla discussione delle tesi pragmatiste sull’irrazionalismo e sul relativismo, criticando la loro inclinazione verso un atteggiamento filosofico eccessivamente soggettivista24.

Così come era stato per l’inizio, anche la fine della vita di Durkheim venne drammaticamente condizionata dalle vicende storiche. Lo scoppio della prima guerra mondiale lo vide pubblicamente

21 Sull’Année sociologique cfr. S. Lukes, op. cit., pp. 289 ss. 22 Cfr. S. Lukes, op. cit., pp. 363 ss.

23 Cfr. É. Durkheim, Les Formes élémentaires de la vie religieuse: le système totémique en Australie, Alcan, Paris 1912

(in italiano: Le forme elementari della vita religiosa, Edizioni di Comunità, Milano 1971).

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schierato contro il nazionalismo tedesco, cui riteneva andasse contrapposto un patriottismo temperato dalle ragioni della convivenza e della pace tra i popoli. Diede vita a un comitato volto alla diffusione di studi e documenti sulla guerra e intervenne in prima persona per denunciare le responsabilità, politiche e culturali, della Germania nel precipitare degli eventi. L’impegno a sostegno della patria aggredita gli richiese un coinvolgimento extraprofessionale senza precedenti – fatta forse eccezione per la presa di posizione innocentista ai tempi dell’affaire Dreyfus (1898)25

da cui fu letteralmente sopraffatto (la sua stessa salute ne risentì in almeno due occasioni). D’altro canto, l’entusiasmo per l’insegnamento e la ricerca scientifica perse di vigore a fronte della chiamata alle armi della maggior parte dei suoi studenti e dei suoi allievi: a causa della guerra, moltissimi di coloro che Durkheim aveva negli anni raccolto attorno a sé perdettero la vita, compreso il figlio André, che nel 1915 trovò la morte combattendo sul fronte balcanico. Per Durkheim, legato al figlio da una particolare sintonia intellettuale, fu un colpo da cui non riuscì a riprendersi. Continuò a lavorare (aveva in progetto un libro sulla morale, una sorta di rielaborazione conclusiva di tutta la sua attività scientifica), ma richiudendosi progressivamente in se stesso, finché, dopo un primo grave malore che lo costrinse al riposo per alcuni mesi, morì a Fontainebleau il 15 novembre 1917, all’età di 59 anni.

La mancanza, nella produzione scientifica durkheimiana, di opere di carattere istituzionale, didattico o di profilo generale – dovuta fondamentalmente all’aspirazione di Durkheim di dimostrare, attraverso lavori puntuali, la consistenza della sociologia come scienza autonoma, fondata su basi empiriche indipendenti e dotata di un proprio peculiare metodo di ricerca26 – fu

colmata dopo la morte del Maestro dai suoi allievi, sulla base delle dispense preparate per le lezioni, degli appunti raccolti dagli studenti e dei numerosi scritti minori pubblicati dallo studioso francese nel corso degli anni.

2. La concezione del diritto

Il tema del diritto viene trattato da Durkheim in particolare nel libro sulla divisione del lavoro (De

la division du travail social), che, pur essendo il suo primo importante scritto, già affronta tutti gli

argomenti che connoteranno la sua successiva ricerca intellettuale.

Punto di partenza è la considerazione che nessuna solidarietà sociale, e dunque nessuna coesione di gruppo, sarebbe possibile se i membri di una collettività non fossero uniti da un comune sentimento morale, che permette di valutare positivamente le forme della loro vita associata. Ma qual è la fonte di tale sentimento? Da dove nasce il consenso necessario all’esistenza della società?

25 Sul caso Dreyfus cfr. S. Lukes, op. cit., pp. 332 ss. In quest’occasione Durkheim aderì alla Ligue pour la Défense des

Droits de l’Homme, divenendo il segretario della sezione di Bordeaux.

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Appoggiandosi agli studi di Auguste Comte27, e riprendendo, anche nel linguaggio, alcuni dei temi

affrontati in quegli stessi anni da Ferdinand Tönnies28, Durkheim distingue due ipotesi di

solidarietà, a seconda della complessità dei gruppi sociali presi in esame. Nel caso delle società più semplici – di modeste dimensioni, scarsamente differenziate al loro interno, non strutturate sulla base dalla divisione del lavoro – il consenso sociale origina dal sentimento di «somiglianza» che unisce reciprocamente i singoli membri: gli individui sono uniti da una comunanza di pensieri, condividono valori comuni, si riconoscono nella medesima concezione del sacro. Ciascuno percepisce gli altri come suoi simili, e di qui, dal riconoscimento di questa somiglianza, scaturisce il sentimento di solidarietà che consente al gruppo di rimanere insieme. Diverso è il caso delle società avanzate, la cui caratteristica peculiare è, appunto, la divisione del lavoro29. Sono, queste, società

maggiormente complesse, popolose, articolate: se prima il sentimento che istintivamente permeava i singoli individui era la somiglianza, ora il dato che emerge spontaneo è quello della «differenza» tra le persone. Gli individui svolgono lavori diversi, si trovano ad affrontare difficoltà peculiari, hanno orizzonti di pensiero condizionati dalle loro specificità. Guardandosi le une con le altre, le persone si riconoscono come diverse. E tuttavia, anche in questo caso, il risultato è il prodursi della solidarietà sociale: il riconoscimento delle differenze legittima infatti la divisione del lavoro, dando vita a una forma di coesione basata sui rapporti di scambio interindividuali e sul sentimento della reciproca complementarietà.

Durkheim distingue i due tipi di solidarietà denominandoli, rispettivamente, «solidarietà meccanica», per le società semplici, e «solidarietà organica», per le società complesse. La prima definizione («meccanica») indica un tipo di solidarietà derivante da una «coscienza collettiva

27 In tal senso R. Aron, op. cit., pp. 289 e 297.

28 Cfr. A. Giddens, op. cit., pp. 12–13 e p. 43 e A. Pizzorno, Introduzione, in É. Durkheim, La divisione del lavoro

sociale cit., p. XVII. Quest’ultimo autore, peraltro, pur ricordando che Durkheim fu tra i primi recensori del libro in cui

Tönnies delineava la distinzione tra comunità e società, nega che le tesi del sociologo francese si pongano in continuità con quelle dello studioso tedesco. Dal canto suo – ricorda sempre Pizzorno – Tönnies rimase deluso per il fatto di non essere stato almeno citato nel libro di Durkheim.

29 Il riferimento di Durkheim al principio della divisione del lavoro, effettuato allo scopo di individuare l’elemento

distintivo dei diversi tipi di collettività umane, non esaurisce ovviamente le considerazioni degli effetti sociali del principio stesso. L’importanza dell’argomento e l’influenza degli autori che se ne sono occupati tra il XVIII e il XIX secolo hanno condotto la riflessione in materia a lambire anche l’ambito giuridico, com’è testimoniato anche dalla ricostruzione kelsensiana della rappresentanza politica. Pur senza farne un elemento costitutivo della teoria pura del diritto, Kelsen prende atto della complessità organizzativa delle società a lui contemporanee affermando che «la differenziazione delle condizioni sociali porta a una divisione del lavoro non solo nella produzione economica, ma anche nel campo della creazione del diritto» e precisando che «la funzione di governo è trasferita dai cittadini organizzati in assemblea popolare ad organi speciali» (H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Etas Kompass, Milano 1966, p. 294).

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comune [che] trascende gli individui, e tanto più essa è forte quanto meno forti sono le personalità dei singoli, e meno “individuate” ne sono le coscienze»30. Le coscienze individuali, che non hanno

occasione di distinguersi le une dalle altre, si ritrovano quasi come «fuse» in un’unica coscienza generale, nella quale tutte si identificano. La seconda definizione della solidarietà («organica») dà invece conto della situazione in cui, assolvendo compiti diversi, i ruoli sociali degli individui si sono differenziati e le persone hanno assunto consapevolezza della propria individualità, così provocando il contestuale affievolimento della forza della coscienza collettiva: se prima gli individui erano come assorbiti dalla collettività, ora si rendono conto che è proprio la somma delle differenze a produrre l’unità del gruppo. È in questo senso che la divisione del lavoro può essere considerata, nelle società avanzate, il fondamento della solidarietà. Il che, garantendo i presupposti etici necessari a mantenere, attraverso l’organizzazione dello Stato, l’ordine sociale, fa della divisione del lavoro «un fenomeno moralmente normativo» (nel senso che gli individui hanno il dovere di aderirvi, rispettando il sistema di regole che governa questa articolata divisione di funzioni)31.

Una conseguenza importante di questa ricostruzione è che solo nelle società complesse l’individuo può essere realmente libero: diversamente dalle collettività più semplici, nelle quali la dimensione individuale è dominata dalla coscienza collettiva, le organizzazioni sociali maggiormente avanzate, grazie all’articolazione determinata dalla divisione del lavoro, consentono l’emergere delle condizioni idonee all’espansione delle libertà individuali. Gli stessi apparati dello Stato, chiamati a svolgere compiti sempre crescenti al fine di governare la complessità sociale, non costituiscono una minaccia per gli individui, ma, presiedendo alla divisione del lavoro, consentono l’emancipazione delle coscienze individuali. Durkheim non si nasconde il rischio che gli apparati statali sviino dal proprio ruolo, così divenendo un pericolo per gli individui. Ma a controbilanciare il potere dello Stato non sono solo gli individui: un ruolo di primo piano nel funzionamento delle società moderne deve essere infatti riconosciuto ai gruppi secondari (corporazioni, sindacati, associazioni professionali), che, frapponendosi tra lo Stato e i singoli membri della collettività, operano come ammortizzatori dei pubblici poteri, a protezione della sfera delle libertà personali32.

30 A. Pizzorno, op. cit., p. XXI.

31 Cfr. A. Pizzorno, op. cit., p. XXIII. Più in generale, sulla distinzione tra solidarietà meccanica e solidarietà organica,

e sul ruolo svolto dalla coscienza collettiva nei due contesti, cfr. R. Aron, op. cit., rispettivamente pp. 297–298 e 299– 301.

32 Cfr. R. Aron, op. cit., pp. 308 e 318–319 e A. Giddens, op. cit., pp. 51–52. Oltre che ne La divisione del lavoro

sociale, Durkheim approfondisce il tema dei gruppi professionali ne Il suicidio e in Représentations

individuelles et représentations collectives, in «Revue de métaphysique et de morale», n. 6,

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Ad ogni modo, in entrambi i tipi di società – ed è questo il cuore del pensiero durkheimiano – la radice della coesione sociale è analoga: nonostante le differenze strutturali tra gruppi semplici e complessi, e nonostante le differenze di posizione degli individui nei due contesti, l’ordine sociale può essere comunque spiegato sulla base dell’esistenza di un sentimento di solidarietà comune a tutta la collettività, la «coscienza sociale»33. È per questo che è sbagliato considerare la società solo

l’equivalente della somma degli individui che ne fanno parte: una sua componente essenziale va infatti individuata nell’insieme delle «rappresentazioni che indicano il quid e il quomodo dell’agire e del pensare individuale», rappresentazioni che «non vengono poste in essere dagli individui stessi su base privata, per proprio uso e consumo» né «sono caratterizzate precipuamente dalla loro obiettiva strumentalità rispetto a fini di natura privata», ma sono invece «esterne all’individuo ed esercitano su di esso una pressione di natura morale»34.

Quello delle rappresentazioni è un tema che Durkheim riprende da Kant, su sollecitazione dei neokantiani a lui contemporanei (Renouvier in particolare). Com’è noto, per Kant la conoscenza del reale non è, di per sé, possibile. Ponendosi al di fuori del soggetto, la realtà è conoscibile soltanto attraverso la mediazione del pensiero, che si realizza o tramite le condizioni a priori dell’intelletto, quando la cosa in sé è conoscibile come fenomeno, o tramite l’idea della cosa in sé elaborata dalla ragione (il noumeno), quando la cosa in sé non è conoscibile come fenomeno. Durkheim riprende da Renouvier l’interrogativo – eluso da Kant – circa l’origine della condizioni a priori dell’intelletto, ma non si accontenta della risposta, in definitiva individualista, sviluppata da colui che gli fu Maestro (secondo Renouvier l’origine delle condizioni a priori va ricercata nell’esperienza e nella volontà dei singoli). Durkheim sostiene, invece, l’origine sociale (e dunque

Edizioni di Comunità, Milano 1979).

33 Sebbene non sia sempre facile distinguere, negli scritti di Durkheim, tra i concetti di «coscienza collettiva» e

«coscienza sociale» – e non vi sia concordia, sul punto, tra i commentatori dell’opera del sociologo francese – una chiave interpretativa potrebbe essere quella che distingue tra «coscienza collettiva», «coscienze individuali» e «coscienza sociale» nel modo seguente: (a) la «coscienza collettiva» è quella propria delle società basate sulla solidarietà meccanica, nelle quali la dimensione comunitaria domina sui singoli e le individualità personali ancora non si sono sviluppate; (b) le «coscienze individuali» sono quelle che emergono nelle società organizzate sulla solidarietà organica, nelle quali, in forza della divisione del lavoro, gli individui si emancipano progressivamente dal controllo comunitario e riducono l’ambito occupato dalla coscienza collettiva; (c) la «coscienza sociale» rappresenta il risultato della sintesi degli altri due tipi di coscienza, così che tende a coincidere con la coscienza collettiva nelle società più semplici e con la somma delle coscienze individuali nelle società più complesse (sebbene, anche in queste, la coscienza collettiva non scompaia mai del tutto). Sul punto cfr. R. Marra, Il diritto in Durkheim. Sensibilità e riflessione nella

produzione normativa, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1986, pp. 38–39.

34 G. Poggi, Immagini della società. Saggi sulle teorie sociologiche di Tocqueville Marx e Durkheim, il Mulino,

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la variabilità) delle condizioni a priori – che, non a caso, definisce «rappresentazioni collettive» – e, come detto, individua in esse, assieme agli individui, una delle componenti essenziali della società. Peraltro, nella prospettiva durkheimiana le rappresentazioni collettive sono fenomeni sociali non solo a causa della loro origine, ma anche in virtù della loro funzione (ed è questo il profilo che qui più interessa): tali rappresentazioni costituiscono, infatti, il fondamento stesso del diritto. Esse sono alla base della creazione delle regole di condotta e della loro osservanza, che sarà tanto più solida quanto più le regole appariranno agli individui in sintonia con le rappresentazioni collettive nelle quali si esprime la morale sociale. In Durkheim, in definitiva, il diritto può aspirare all’effettività (e dunque essere kelsensianamente valido) solo se corrisponde alle rappresentazioni sociali, le quali svolgono la funzione di dare ordine alla società esattamente come le condizioni a priori kantiane svolgono la funzione di dare ordine alle esperienze della conoscenza35.

Dal punto di vista della filosofia politica, obiettivo polemico di Durkheim è il contrattualismo (in particolare nelle versioni di Spencer e Rousseau)36, che pretenderebbe di spiegare la nascita della

società sulla base della mera convergenza degli interessi individuali. Particolarmente interessante – a conferma della tesi, che verrà avanzata più avanti, di una continuità tra la riflessione durkheimiana e le teorie giuridiche istituzionaliste – è la confutazione che il sociologo francese propone della teoria contrattualistica di Spencer37. Secondo tale teoria, la società nascerebbe dall’incontro

spontaneo degli interessi individuali, senza bisogno alcuno di interventi dall’esterno, e l’unico strumento di cui necessiterebbe per potersi mantenere è il contratto, attraverso il quale gli individui possono liberamente accordarsi in merito ai loro reciproci affari. Il solo aspetto sociale – ma forse sarebbe meglio dire interindividuale – della vita delle persone (almeno nelle società avanzate) è quello economico e, poiché, date le premesse individualiste assunte da Spencer, nessuno deve essere limitato nelle proprie libertà, lo strumento idoneo a regolare le relazioni che ne derivano può essere solo il contratto: un’ottica – questa – nella quale nemmeno ridotto ai minimi termini lo Stato avrebbe, almeno in prospettiva, una qualche ragion d’essere. Durkheim replica a questa tesi sostenendo, tra l’altro, che, così come lo concepisce Spencer, il contratto in realtà non esiste. Il contratto – dice lo studioso francese – non è uno strumento che consente alle parti di accordarsi nella più assoluta libertà, ma è un istituto giuridico collocato in un contesto ordinatorio che stabilisce vincoli di forma e di sostanza, prevede sanzioni, regola le conseguenze della stipulazione,

35 Tratta dell’influenza di Kant sul pensiero di Durkheim D. Tekiner, German Idealist Foundations of Durkheim’s

Sociology and Teleology of Knowledge, in «Theory and Science», n. 1, 2002, consultabile all’indirizzo internet:

http://theoryandscience.icaap.org/content/vol003.001/tekiner.html

36 Cfr. É. Durkheim, La divisione del lavoro sociale cit., pp. 209 sgg.

37 Cfr., in argomento, R. Aron, op. cit., pp. 304–305, R. Marra, op. cit., pp. 124 sgg. e A. Pizzorno, op. cit., pp. XIX–

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attribuisce diritti. «Non tutto nel contratto è contrattuale», scrive Durkheim, precisando che, «dovunque esiste, il contratto è sottoposto a una regolamentazione che è opera della società e non dei singoli individui, e che diventa sempre più voluminosa e complicata»38. All’origine di ogni

rapporto contrattuale si pone la libera volontà dell’individuo, ma le conseguenze che la stipulazione dell’accordo produce vanno al di là di ogni volontà: «cooperiamo perché l’abbiamo voluto, ma questa cooperazione volontaria ci crea doveri che non avevamo voluto»39. Queste argomentazioni

non solo vengono riprese dai teorici del diritto istituzionalisti, ma risultano straordinariamente vicine alla ricostruzione delle norme giuridiche come fatti istituzionali proposta dai neoistituzionalisti contemporanei40.

Come già accennato, la distinzione tra società semplici e società complesse, con il corollario delle due forme di solidarietà, meccanica e organica, è alla base della concezione durkheimiana del diritto41. Secondo lo studioso in esame, le prescrizioni giuridiche, formali e informali, rappresentano

la faccia visibile dei codici morali esistenti in una determinata società. È vero che possono prodursi sfasature tra il diritto e le sottostanti regole morali (per esempio perché una legge o una consuetudine non è più o non è ancora sentita come giusta, e quindi risulta inosservata), ma alla lunga il sistema giuridico viene sempre armonizzato alla visione etica socialmente condivisa. La prova di questa stretta connessione tra diritto e morale sta nella reazione sanzionatoria che la società riserva ai trasgressori delle regole giuridiche: la pena è la vendetta della comunità nei confronti di chi ne ha messo in discussione i valori di riferimento, com’è dimostrato dal fatto che la punizione non è commisurata alle motivazioni del reo (nel qual caso agirebbe come deterrente), ma alla gravità della violazione commessa42.

Occorre però distinguere tra sanzioni «penali» e sanzioni «restitutive»: le prime, associate – evidentemente – al diritto penale, consistono nell’infliggere delle sofferenze al colpevole (per esempio la perdita della libertà); le seconde, operanti nel campo del diritto civile, mirano al ripristino della situazione esistente prima del comportamento scorretto. È chiaro che, dei due tipi di sanzioni, le prime sono più severe, e in effetti più severa è la riprovazione sociale che viene

38 É. Durkheim, La divisione del lavoro sociale cit., p. 218. 39 É. Durkheim, La divisione del lavoro sociale cit., p. 221.

40 Su questi ultimi sia consentito rimandare a F. Pallante, Il neoistituzionalismo nel pensiero giuridico contemporaneo,

Jovene, Napoli 2008, capitolo quinto.

41 Per l’approfondimento della concezione e del ruolo del diritto in Durkheim, cfr. R. Aron, op. cit., pp. 302 sgg., R.

Marra, op. cit., G. Poggi, op. cit., pp. 28–296 e J–D. Raynaud, La formation des Règles sociales, in P. Besnard, M. Borlandi e P. Vogt (a cura di), Division du travail et lien social: la thèse de Durkheim un siècle après, Presses universitaires de France, Paris 1993, pp. 295–317.

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generalmente riservata ai comportamenti penalmente rilevanti (detto altrimenti, il diritto penale è maggiormente radicato nella coscienza morale della società). Il diritto penale risulta, inoltre, strutturalmente più semplice del diritto civile: mentre quest’ultimo, infatti, contiene previsioni che disciplinano dettagliatamente la fattispecie presa in esame, precisando gli obblighi che gravano sulle parti e le sanzioni in cui i contraenti incorreranno in caso di inosservanza, il diritto penale prevede solo le sanzioni, senza precisare il comportamento corretto da tenere, dando evidentemente per scontato che questo sia chiaro e ben noto a tutti (si pensi, per esempio, alle regole sull’omicidio, che prevedono la punizione senza che sia necessario esplicitare l’obbligo di rispettare la vita)43.

Anche questa caratteristica conferma, agli occhi di Durkheim, il maggior radicamento, in ogni società, del diritto penale rispetto al diritto civile44.

Se ne può dedurre che il diritto penale precede, nella storia delle società umane, il diritto civile ed è pertanto il tipo di diritto che caratterizza le società più semplici, quelle basate sulla solidarietà meccanica. Come si ricorderà, nella ricostruzione durkheimiana, tali società sono connotate da un pervasivo sostrato di credenze e valori condivisi, che sancisce il predominio della coscienza collettiva sulle coscienze individuali: è per questo che eventuali comportamenti difformi vengono percepiti come particolarmente minacciosi, perché colpiscono le fondamenta stesse sulle quali si appoggia l’edificio sociale. Lo sviluppo storico porta le società a evolvere verso una sempre maggiore complessità45 e, come la solidarietà meccanica lascia progressivamente il posto alla

solidarietà organica, così anche il diritto penale cede gradatamente il passo al diritto restitutivo. Con l’emergere delle individualità personali e, soprattutto, con l’avvento della divisione del lavoro, nasce, infatti, una nuova esigenza: quella di mettere gli individui in rapporto tra loro, disciplinandone le reciproche relazioni. In effetti, il diritto penale non scompare, l’esigenza di sanzionare i comportamenti gravemente contrastanti con i valori sociali maggiormente radicati permane immutata46; il suo peso relativo però diminuisce, perché con il crescere della complessità 43 Un’approfondita trattazione di questi temi è in R. Marra, op. cit., rispettivamente capitolo primo, per quanto riguarda

il diritto repressivo, e capitoli secondo e terzo, per quanto concerne il diritto restitutivo.

44 Cfr. A. Giddens, op. cit., pp. 21–22 e R. Marra, op. cit., p. 38.

45 Nonostante le finalità perseguite in queste sede non consentano l’approfondimento di molti passaggi del pensiero di

Durkheim, sembra tuttavia opportuno precisare quantomeno che, nella teoria dello studioso francese, a spiegare l’evoluzione delle società umane verso forme di crescente complessità è, in ultima analisi, l’espansione demografica. In conseguenza di questa, la lotta per la vita tra i membri di uno stesso gruppo – nozione di evidente derivazione darwiniana – diventa più serrata, e solo la progressiva specializzazione delle funzioni sociali rende possibile la coesistenza di una popolazione numerosa (la specializzazione differenzia i simili, depotenziando le ragioni della lotta per la vita). Per un approfondimento in argomento si veda R. Aron, op. cit., pp. 305 sgg.

46 Anche se, con il passaggio da un tipo di società all’altra, tali valori possono, almeno in parte, cambiare: l’emergere

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sociale cresce la necessità di regolare giuridicamente i nuovi rapporti che si vengono a instaurare tra le persone47. Data la divisione del lavoro, tali rapporti sono fondamentali per l’esistenza del nuovo

tipo di società, ma, tolte le regole generali che ne consentono l’instaurazione, risultano tra di loro equivalenti: quel che conta è che vi siano gli scambi, non tra chi concretamente si svolgano né quale contenuto preciso vengano ad assumere. È per questo che il diritto restitutivo non ha la stessa carica morale del diritto penale: tende al risarcimento, e non alla punizione, perché in definitiva, nell’ambito della propria sfera d’interesse, le persone sono sempre libere di decidere come accordarsi. Diverso è solo il caso dei comportamenti fraudolenti, tendenzialmente riconducibili al diritto penale perché, essendo le società complesse basate sulla divisione del lavoro, e quindi sugli scambi, sono anch’essi, al pari dei comportamenti tradizionalmente banditi, suscettibili di minare pericolosamente le basi della convivenza48.

Durkheim prova anche a definire, a livello generale, le norme dal punto di vista del contenuto che possono assumere, sostenendo che in ogni società ricorrono, sia pure in una combinazione differente, tre categorie principali di regole: (a) quelle che impongono all’individuo di far prevalere, anche a costo di sacrifici personali, gli interessi della società cui appartiene rispetto ai propri; (b) quelle che impongono all’individuo di assecondare lo sviluppo della propria personalità, assumendosi la responsabilità della propria esistenza; (c) quelle che impongono all’individuo di non rimanere vittima delle routine imperanti, esplorando in ogni circostanza tutte le possibilità che gli si offrono. Il concreto equilibrio normativo di ciascuna società dipende da quale categoria di norme guadagna il predominio sulle altre e l’effettiva combinazione dei tre tipi di norme connota altresì l’evoluzione nel tempo dell’organizzazione sociale (per esempio, nelle società più semplici le norme appartenenti alla prima categoria predomineranno sulle altre, mentre nelle società più avanzate avverrà il contrario)49.

In definitiva, nella concezione di Durkheim il diritto, rispondendo alle più profonde esigenze della vita associata (è la «faccia visibile» della morale socialmente condivisa, il «simbolo visibile della solidarietà»)50, si configura come «l’apparato mediante il quale si esercita essenzialmente l’azione

sociale»51. Tanto nelle società più semplici, quanto in quelle più complesse, l’esistenza di un nucleo

di valori e credenze comuni – in assenza dei quali la società si disgregherebbe – si fa sentire dei loro diritti da parte dell’ordinamento (così R. Marra, op. cit., pp. 50–51).

47 Cfr. R. Marra, op. cit., p. 49. 48 Cfr. A. Giddens, op. cit., p. 25.

49 Cfr. G. Poggi, op. cit., pp. 289–291. Durkheim affronta il tema del possibile contenuto delle norme in particolare ne

Il suicidio.

50 Cfr. R. Marra, op. cit., p. 13.

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configurando a propria misura il corpo delle regole giuridiche. Volendo sintetizzare il pensiero durkheimiano sul diritto in una sola espressione, si potrebbe dire che, nell’ambito della sua teoria, il diritto rappresenta la formalizzazione, più o meno riflessiva, dell’elemento che sta alla base stessa della vita associata: la coscienza sociale52.

Proprio questa idea dell’intima connessione tra diritto e ordine sociale rappresenta il nucleo fondamentale attorno al quale vennero in seguito sviluppate le teorie giuridiche istituzionaliste.

3. L’influenza sull’istituzionalismo giuridico53

52 Sviluppando la prospettiva durkheimiana, Charles Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009 (ed. orig. 2007) ha

aggiunto alla bipartizione delle collettività umane proposta dal sociologo francese un terzo tipo di collettività, più idonea – a suo giudizio – a dar conto della contemporaneità. Prendendo a riferimento il loro livello di secolarizzazione, Taylor distingue le società in paleo-, neo- e post-durkheimiane (curiosamente, manca nel suo modello una definizione di società durkheimiana «pura»). Le società paleo-durkheimiane sarebbero quelle tenute insieme da una concezione del sacro univoca e pervasiva, che non distingue tra sfera privata e sfera pubblica, imponendo agli individui un unico modo lecito di credere. Le società neo-durkheimiane sarebbero invece quelle in cui la sfera religiosa inizia a separarsi dalla sfera politica e a differenziarsi al suo interno tra Chiese diverse, introducendo in parallelo una qualche forma di libertà religiosa. Nella ricostruzione di Taylor, i due tipi di società corrisponderebbero, rispettivamente, all’Europa dei periodi 1500-1700 e 1800-1950. A questi periodi il filosofo canadese aggiunge l’età contemporanea, che definisce post-durkheimiana per dar conto della radicale individualizzazione della vita umana, anche nei suoi profili religiosi (il rapporto con la divinità tende sempre più a divenire una relazione personale che ogni singolo credente imposta a prescindere da ogni relazione con gli altri credenti e con le stesse strutture ecclesiastiche). In quest’ottica, Taylor spiega la crisi attuale non solo della Chiesa cattolica (che pure, con il Concilio Vaticano II era riuscita ad adeguarsi al passaggio dalla prima alla seconda fase), ma anche delle principali ideologie secolari (il comunismo, il socialismo, il liberalismo laico). Quel che, però, resta poco chiaro è quale sia, nella visione tayloriana, la forza capace di tenere insieme le società contemporanee, una volta ammesso il venir meno di valori e credenze comuni. Proprio su questo punto si concentrano le critiche del sociologo durkheimiano statunitense Robert N. Bellah, che, con riferimento agli Stati Uniti, suggerisce di prendere in considerazione il ruolo di integrazione sociale svolto dalla religione civile (cfr. R.N. Bellah, Secularism of a new kind, in «The Immanent Frame», 2007 (http://blogs.ssrc.org/tif/2007/10/19/secularism-of-a-new-kind/); il più noto lavoro di Bellah sulla religione civile è La

religione civile in America, in S.S. Acquaviva e G. Guizzardi (a cura di), La secolarizzazione, Bologna, il Mulino 1973,

pp. 145-166 (ed. orig. 1967, ora ripubblicata in: http://www.robertbellah.com/articles_5.htm)).

53 Nelle pagine che seguono ci si limiterà a tracciare un quadro dell’influenza esercitata dal pensiero di Durkheim sui

più rappresentativi autori riconducibili all’istituzionalismo giuridico (Haouriou e Romano) e sul più diretto erede del pensiero giuridico di Durkheim (Duguit, che deve essere annoverato tra gli istituzionalisti – essendo indubitabilmente un giurista, ed essendo indubitabilmente stato uno dei più stretti collaboratori di Durkheim a Bordeaux – malgrado tale sua ascendenza e formazione venga talora dimenticata). Naturalmente questo non significa che l’opera durkheimiana possa essere considerata l’unica fonte ispiratrice dell’istituzionalismo, né – tanto meno – che la sua influenza si sia consumata esclusivamente nei confronti del pensiero istituzionalista. La riflessione di Durkheim e le teorie istituzionalistiche si inseriscono, infatti, a pieno titolo nel contesto culturale europeo dell’epoca, segnato dal progressivo superamento – grazie all’opera di autori quali Sigmund Freud, Carl Gustav Jung, Georges Sorel, Benedetto Croce, Ernst

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Gli autori principali che, solitamente, vengono ricondotti al pensiero istituzionalista in campo giuridico sono Maurice Hauriou e Santi Romano. Nessuno dei due riconosce, tuttavia, espressamente l’esistenza di una rilevante derivazione intellettuale delle proprie elaborazioni teoriche dal pensiero di Durkheim. Aperta e diretta è invece la discendenza durkheimiana del lavoro di Léon Duguit, autore che, ciononostante, viene più raramente accostato al filone dell’istituzionalismo giuridico.

L’idea di fondo che accomuna il pensiero dei tre autori citati – e che opera come linea di continuità tra la loro opera e quella di Durkheim – è che non vi possa essere diritto se non in rapporto all’organizzazione sociale. Hauriou, Romano e Duguit si distinguono, nel dettaglio delle loro ricostruzioni, per l’importanza che attribuiscono, rispettivamente, alle nozioni di idea direttrice, istituzione e solidarietà interindividuale; ma tutti e tre gli studiosi propongono di tali nozioni una definizione che deriva dall’idea durkheimiana di società, vale a dire dall’idea che la società sia un qualcosa di ulteriore rispetto alla mera somma degli individui che la compongono. Lo stesso Hauriou, che pure – rifacendosi a Tarde – nei suoi scritti dichiara di voler prendere le distanze da Durkheim, finisce di fatto per ragionare in sintonia con il quadro generale da questi delineato. La tesi che a fondamento di ciascun gruppo sociale vi sia un sentimento morale di solidarietà che trascende i singoli associati sino a trasformarsi in una vera e propria «coscienza sociale»; la critica al contrattualismo e a tutto quel che ne deriva sul piano della centralità dell’individuo nelle teorie sociali; la tesi dell’inscindibile legame tra prescrizioni giuridiche formali e sottostanti codici morali condivisi socialmente; la concezione – in definitiva – del diritto come apparato attraverso cui si svolge l’azione collettiva alla luce delle indicazioni ricavabili dalla coscienza sociale: tutto ciò, che costituisce il nucleo della concezione durkheimiana del fenomeno giuridico, è riscontrabile, sia pure con differente gradazione, nelle teorie istituzionaliste del diritto.

Troeltsch, Friedrich Meinecke, Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca, Roberto Michels, Gabriel Tarde, Max Weber e Karl Marx; e, tra i giuristi, di Rudolf Jhering, Eugen Ehrlich, Hermann Kantorowicz, François Gény, Otto von Gierke – dell’«immagine che dell’uomo avevano offerto il Settecento e il primo Ottocento, come di un essere razionale ed autocosciente, capace di scegliere liberamente tra alternative opportunamente vagliate» (cfr. H. Stuart Hughes,

Coscienza e società, Einaudi, 1967 (ed. orig. 1958), p. 12), con la conseguente riscoperta della società come terreno

obbligato di indagine scientifica. Per un inquadramento dell’istituzionalismo giuridico nell’ambito della cultura dell’epoca, e della sua tendenza all’oggettivizzazione dei fenomeni umani, sia consentito rinviare a F. Pallante, op. cit., capitolo secondo.

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È il caso dell’idea di istituzione elaborata da Hauriou54, che – nonostante le critiche rivolte alla tesi

durkheimiana dell’organizzazione sociale come fondamento della società55 – incorpora quale suo

elemento costitutivo, accanto all’idea dell’opera da realizzare (l’«idea direttrice») e al potere organizzato al servizio di quell’idea, il sostegno giuridicamente formalizzato del gruppo sociale alla realizzazione dell’idea (elemento che, tra l’altro, consente a Hauriou di configurare il potere organizzato come un potere, almeno in senso lato, rappresentativo). È vero che in Hauriou il nesso più stretto è quello che si instaura tra società e istituzione, e non tra società e diritto (giacché le regole giuridiche non intervengono nella fase costitutiva dell’ordinamento, ma rivestono un ruolo regolativo dell’esistente), ma è altresì vero che il diritto rimane pur sempre una derivazione necessaria dell’organizzazione sociale.

Ancora più incisivamente, è il caso della concezione del diritto di Santi Romano56, basata anch’essa

sull’idea che non vi possa essere diritto se non in rapporto all’organizzazione sociale, quale che sia il livello di raggruppamento sovraindividuale preso in considerazione (dalle forme associative

54 Sul pensiero di Maurice Hauriou cfr., tra gli altri, Aa.Vv., La pensée du doyen Maurice Hauriou et son influence.

Journées Hauriou, Toulouse, mars 1968, A. Pedone, Paris 1969; J. Fernando de Castro Farias, La reformulation de l’État et du droit à la fin du 19ème siècle et au debut du 20ème siècle. Les enoncés de Leon Duguit et de Maurice Hauriou,

Université de Lille 3, Lille 1992; M. La Torre, Norme, istituzioni, valori. Per una teoria istituzionalistica del diritto, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 120 sgg. e 181 sgg.; N. MacCormick e O. Weinberger, Introduzione, in Id. Il diritto come

istituzione, Giuffrè, Milano 1990 (ed. orig. 1986), pp. 34-37. Sull’idea di istituzione cfr., più in specifico, M. Hauriou, L’institution et le droit statutaire, in «Recueil de législation de Toulouse», vol. 11, 1906, pp. 134-182 e Id., Précis de droit administratif et de droit public, Sirey, Paris 1907, anche se la prima esposizione compiuta della sua teoria

istituzionale si trova in Id., Principes de droit public, Librairie de la Société du Recueil Sirey, Paris 1910.

55 Cfr M. Hauriou, Lo stato attuale della scienza sociale in Francia, in «La Riforma sociale», fasc. 7-8, 1894, pp.

632-636. Più in generale, le critiche di Hauriou a Durkheim vanno inquadrate nel già ricordato confronto che oppose Durkheim a Tarde, di cui Hauriou era allievo (e dal quale riprese il ruolo dell’«invenzione» come forza motrice dei fenomeni sociali).

56 Per un inquadramento generale dell’opera di Santi Romano, anche in rapporto alla cultura giuridica del tempo, cfr.,

tra gli altri, P. Biscaretti di Ruffia (a cura di), Le dottrine giuridiche di oggi e l’insegnamento di Santi Romano, Giuffrè, Milano 1977; S. Cassese, Ipotesi sulla formazione de «L’ordinamento giuridico» di Santi Romano, in Id., La

formazione dello Stato amministrativo, Giuffrè, Milano 1974, pp. 21-61; M. Fioravanti, Per l’interpretazione dell’opera giuridica di Santi Romano: nuove prospettive della ricerca, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero

giuridico moderno», n. 2, 1973, pp. 169-219; L. Mangoni, La crisi dello Stato liberale e i giuristi italiani, G. Cianferotti, La crisi dello Stato liberale nella giuspubblicistica italiana del primo Novecento, M. Fioravanti, Stato di

diritto e Stato amministrativo nell’opera giuridica di Santi Romano, M. Montanari, Santi Romano: la politica tra “spazio” e “immaginario”, A. De Gennaro, “Istituzionalismo”, “corporazione proletaria”, “diritto dell’economia” tra gli anni ‘20 e ‘30, tutti in A. Mazzacane (a cura di), I giuristi e la crisi dello Stato liberale in Italia fra Otto e Novecento, Liguori, Napoli 1986, rispettivamente pp. 29-56, 157-170, 309-346, 363-378, 429-442.

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esponenziali di interessi economici individuali57 allo Stato). Romano esplora il nesso tra diritto e

società considerandone le componenti individuali, normative e istituzionali e arriva a ricavarne la convinzione della perfetta equivalenza tra istituzione, diritto e organizzazione sociale. Diversamente da Hauriou, che separa il concetto di diritto da quello di istituzione e società, Romano sostiene la perfetta equivalenza dei tre elementi, così ponendo le basi della teoria del pluralismo degli ordinamenti giuridici58.

Ed è il caso, infine, del pensiero di Duguit59, la cui nozione di diritto dipende dal suo modo di

concepire la società come aggregato insieme necessario e volontario di individui: la socialità dell’uomo – che può esprimersi non solo a livello statale, ma anche (sulla scia di Durkheim) attraverso gruppi sociali intermedi – è, al contempo, una necessità (isolato dagli altri l’essere umano non sarebbe in grado di sopravvivere) e una volontà (l’uomo aspira a evitare la sofferenza e il modo più sicuro per farlo è stare assieme agli altri). Di qui l’idea del diritto come prodotto necessario della solidarietà che gli uomini devono e vogliono instaurare tra di loro, del diritto come insieme di norme scaturenti dalla solidale interdipendenza delle parti sociali, del diritto come prodotto sociale rispetto al quale lo Stato si pone più come interprete che come creatore.

Nonostante le differenze di impostazione, in tutti e tre gli autori ora ricordati si può, dunque, riscontrare la matrice durkheimiana di un diritto inteso come fenomeno anzitutto sociale. Il che non dovrebbe sorprendere, se si considera che l’istituzionalismo fu uno dei filoni di pensiero in cui, nel passaggio tra Ottocento e Novecento dello scorso millennio, si articolò la reazione culturale alla visione individualistica allora dominante nelle scienze sociali. Dal punto di vista giuridico, obiettivo critico degli istituzionalisti fu la concezione liberale dello Stato e dell’ordinamento giuridico, frutto della sovrapposizione delle teorie imperativiste e positiviste del diritto. Le idee dell’ordine come prodotto del comando del sovrano; della sanzione come tratto distintivo del diritto; della preminenza dello Stato sulla società; dell’unitarietà, coerenza e completezza dell’ordinamento giuridico; della personificazione del legislatore; della legge come espressione della volontà generale formatasi attraverso la rappresentanza; dell’interpretazione come ritorno alle intenzioni del legislatore storico; del giudizio come applicazione al caso concreto della regola generale e astratta; della rigorosa separazione tra diritto e morale; ...: sono tutti componenti essenziali delle spiegazioni

57 La stessa attenzione alle formazioni sociali intermedie è un dato del pensiero romaniano che trova un antecedente

nelle teorie elaborate da Durkheim (cfr. supra).

58 Sottolinea la «socialità» come tratto distintivo – assieme all’«ordinamentalità» e alla «pluralità» –

dell’istituzionalismo romaniano M. Fotia, L’istituzionalismo in Santi Romano tra diritto e politica, in «Democrazia e diritto», n. 1-2, 2011, pp. 103 ss.

59 Su Léon Duguit cfr. la ricca bibliografia riportata in L. Duguit, Le trasformazioni dello Stato. Antologia di scritti,

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individualiste dei fenomeni sociali, che, specie se rigidamente intesi, rappresentarono il bersaglio polemico delle argomentazioni giusistituzionaliste.

In quest’ottica, il terreno che forse consente più agevolmente di cogliere i legami tra l’opera di Durkheim e l’istituzionalismo giuridico – nonché quello nel quale l’influenza degli autori sopra ricordati sembra essere stata maggiormente duratura – è rappresentato dalla riflessione sul fondamento di validità dell’ordinamento giuridico, con il connesso nodo del rapporto tra validità ed effettività. In proposito, l’istituzionalismo evidenziò i limiti delle concezioni formaliste, basate sull’idea dell’autosufficienza del dato giuridico. Dire che l’ordinamento è valido perché è conforme a quanto giuridicamente prescritto è – nell’ottica istituzionalista – un’inutile tautologia, che nulla dice sul funzionamento concreto dei meccanismi attraverso i quali la validità si afferma e si mantiene. Gli istituzionalisti pativano l’autoreferenzialità delle spiegazioni positiviste e scoprirono, interrogandosi sui loro limiti, la necessità di andare oltre l’orizzonte dello Stato. Influenzati dal clima culturale dell’epoca, dominato dallo sviluppo delle scienze della società, affermarono la preminenza della dimensione sociale su quella statale, riconducendo principalmente alla prima le vicende della vita del diritto. Quella statale è solo una delle possibili forme che può assumere l’organizzazione collettiva, senza che questo vada a incidere negativamente sulla giuridicità di tutte le altre. Problema centrale della riflessione istituzionalista è l’effettività del diritto, non la sua validità; o, per meglio dire, nella concezione degli autori ricordati la validità dipende dall’effettività, nel senso che è diritto quello che vige, quello che si impone effettivamente come parametro dei comportamenti dei consociati, e non quello che corrisponde esclusivamente alle regole dettate dalle fonti sulla produzione normativa, a prescindere dalla sua concreta applicazione. Questa idea che l’ordine giuridico non possa essere inteso se non in relazione all’ordine sociale rappresenta, con ogni probabilità, il principale lascito dell’istituzionalismo alla cultura giuridica successiva.

Il pensiero di Émile Durkheim anticipa chiaramente questa tendenza culturale: la sua concezione antropologica, fondata sull’impossibilità di pensare l’uomo come un soggetto a sé stante, scisso dalla propria dimensione sociale, implica una nozione di società che va al di là dei singoli apporti individuali che pure concorrono a costituirla, imponendo il riconoscimento di un’intima connessione tra regole giuridiche e morale sociale, che rappresenta esattamente la chiave interpretativa attraverso cui i giusistituzionalisti risolvono il problema del fondamento di validità dell’ordinamento giuridico.

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