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Gabriele D'Annunzio e le varianti del rito

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Gabriele D’Annunzio e le varianti del rito

1. Introduzione

2. L’Abruzzo, culla dell’essere

3. Le novelle, folclore e fantasia, rito e

sacrificio

4. Il trionfo della morte, l’uomo moderno e

il rito

5. Le donne e il rito nelle tragedie La figlia

di Iorio e La fiaccola sotto il moggio

6. Conclusioni

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1.INTRODUZIONE

Ho avuto la fortuna di “incontrare” D’Annunzio e cogliere l’essenza del suo messaggio poetico senza avere nessuna conoscenza pregressa e nessun pregiudizio verso di lui. Le mie prime impressioni sull’opera dannunziana sono state diverse, percependo la complessità tematica che si apre e si moltiplica ad ogni passo, l’amore, la religione, il conflitto tra le generazioni, la morte. Egli sa benissimo combinare modelli antichi e moderni, rielaborandoli secondo la propria sensibilità e fantasia. Per D’Annunzio, l’estetismo è l’aspirazione ad un’esistenza di

eccezione, al vivere inimitabile, a fare della propria vita un’opera d’arte. Infatti egli aspira alla fusione della vita con la scrittura, dove la sua vita assume pose estetizzanti e la sua arte ricalca di continuo esperienze esistenziali. Per

D’Annunzio, l’estetismo è anche il culto del corpo e dell’istinto primitivo, della vita dell’uomo rinchiusa dentro alla vita della natura. Il poeta si vede come “supremo artefice” che produce “oggetti” dopo averli sottoposti a una lunga elaborazione –gestazione tecnica.

La mia ricerca si propone di analizzare i riti che Gabriele D’Annunzio ricrea nelle sue opere, le descrizioni e i racconti collegati a questi riti e come sviluppano nei suoi testi narrativi, a partire dalle Novelle della Pescara, passando attraverso il romanzo Il trionfo della morte e chiudendo con le tragedia La figlia di Iorio e La

fiaccola sotto il moggio.

L’Abruzzo rappresenta per D’Annunzio la sua “madre terra” e il luogo dove nasce la sua creatività, una regione in cui il popolo e la terra sono legati in modo

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D’Annunzio si sentiva in dovere di illustrare al mondo, a modo suo, gli usi ed i costumi di un popolo per molti aspetti ignoto alla nuova società italiana, una mentalità popolare curiosa e creativa che è stata identificata con una regione esotica, mitica e leggendaria. Lungo tutto il precorso letterario dannunziano si può percepire una certa tensione interiore, come una lotta nell’animo dello scrittore che non riesce a tenere una ferma attitudine nell’esprimere la vera natura della sua gente, e manifesta perciò attrazione e repulsione allo stesso tempo. È proprio questo dilemma che spinge l’autore ad evocare eventi reali ed esperienze personali, trasfigurate in forma letteraria e arricchite da originali elementi

folclorici. D’Annunzio fu ossessionato dalla morte durante tutta la sua esistenza, ne fu

attratto e spaventato allo stesso modo. Fin dai tempi della scuola, il giovane poeta si interrogava sul senso della vita e della morte, progettando e diverse volte tentando il suicidio. Sicuramente amava anche la vita in tutti i suoi aspetti, ma la lampada della fede veniva soffocata dallo spirito analitico e scientifico del poeta. Se da una parte nutriva dei forti richiami della sensualità umana, dall’altra parte, il poeta confessava il suo bisogno di fede, di spiritualità, dichiarando apertamente la

sua devozione a Gesù, a San Francesco e tanti altri santi.1 D’Annunzio ha affrontato con audacia argomenti delicati come la morte, la

violenza, la sensualità, la lascivia, la gelosia, cercando di andare oltre il significato apparente, investigando quali fossero i veri elementi da considerare immorali ed osceni della natura umana. Con la sua penna magica, D’Annunzio ha liberato i

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suoi personaggi dalle restrizioni etiche, ponendoli al centro di un contesto mitico, gli ha in un certo senso autorizzati ad obbedire direttamente agli stimoli generati dall’ambiente che li circonda, dove le percezioni dei sensi determinano la loro impulsività. D’Annunzio descrive dei paesaggi emozionanti, montagne maestose, foreste vergini, quasi un paradiso terrestre, anche se i personaggi che li abitano sono parte di una società povera, premoderna e sottomessa. Il poeta credeva che fosse necessario ripristinare da un grande passato remoto e indistinto, l’antica comunione fra l’artista e l’anima popolare, la culla della cultura. L’artista è

sempre al centro di un rapporto conflittuale con tutto, con la propria terra, con Dio e con la religione, con la propria famiglia, con l’amore, con la patria e la politica, e questo conflitto si riflette anche nelle opere dannunziane.2 La religiosità di D’Annunzio è un aspetto fondamentale che vorrei approfondire per sottolineare la complessità del pensiero del poeta, per poter comprendere il ritorno al rito e la funzione che i riti hanno all’interno delle sue opere. Molti critici hanno affrontato questo argomento, ovviamente esprimendo pareri diversi, ma sintetizzando le posizioni emerse vorrei utilizzare le parole di Curzia Ferrari e affermare che:

D’Annunzio non fu un ateo classicheggiante come il Carducci o bestemmiatore come Nietzsche, ma un credente infedele, capace di amare ed anche di aspirare ad accettare, praticare, servire, qualità che renderebbero fattivi e attivi il suo culto e la professione della fede.3

2 D’Annunzio e l’Abruzzo, Atti del X Convegno di Studi Dannunziani, Centro Nazionale di Studi

Dannunziani, Pescara, 1988.

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D’Annunzio dichiaro apertamente la volontà di avere un rito funebre religioso, anche se le sue relazioni con il Vaticano non erano delle migliori, ricordiamo in fatti che la sua condotta era stata giudicata immorale, e le opere, considerate corruttrici e pericolose per i giovani, erano state messe all’Indice da parte della Congregazione del Santo Uffizio per ben quattro volte, senza che lui fosse

scomunicato.4 Nel 1943 Giorgio Nicodemi raccolse in un libro le confidenze che aveva ricevuto

da D’Annunzio:

La Chiesa non mi vuole capire […] Chi non crede non è degno di vivere. Credere e vivere sono due atti che si identificano5.

E alla domanda sulla sua abitudine alla preghiera, il poeta rispose: Sempre quando l’anima è in pena o in solitudine. L’invocazione a Dio è nel mio spirito stesso. D’Annunzio ebbe una sensibilità fortemente religiosa, come si evince anche dal grande rispetto che manifestava per i morti, per sua madre, per lo zio, per i compagni, per la sua povera gente. Ma definire la sua religiosità risulta difficile. Il poeta aveva aderito alla religione della sua gente d’Abruzzo, una tradizione cristiana che accoglieva anche l’eredità di tanti riti pagani preesistenti. La sua opera letteraria è piena di preghiere verso i santi, di canti e lamenti funebri, croci, urne, quadri di santi, statue, piante e profumi che creano un mondo mistico e molto intimo. Molti oggetti descritti nelle sue pagine hanno una precisa

corrispondenza nelle collezioni del Vittoriale.

4 A. Mazza, La religione di D’Annunzio, Ianieri Editore, Pescara, 2015.

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Il poeta ebbe un fortissimo rapporto con la madre, Luisa De Benedictis, e fu lei a dargli un’educazione religiosa e a fargli conoscere anche le superstizioni

abruzzesi, creando un po’ di confusione nella mente del piccolo Gabriele e una percezione ambigua delle manifestazioni religiose che sarà la base della sua incessante ricerca e della sua incertezza nella fede. Anche la nonna e la zia Maria, sorella del padre, fecero conoscere a D’Annunzio il mondo cristiano. Poi la zia Onofria, badessa del monastero di Ortona, lo portò nella pace del convento, alimentando sempre superstizione e religione. È su questa base che si sviluppa la creazione letteraria dannunziana, costantemente collegata all’esistenza del poeta. I testi diventano così scrigno di tesori, dove i ricordi delle feste e dei santi

dimostrano il legame indissolubile con la sua terra e con la sua gente. Analizzando i testi di D’Annunzio, il critico Giuseppe Pecci osservò come lo

scrittore ricorreva, quasi in modo ossessivo, ai nomi dei santi e alla memoria di riti6. Ma la sua smania di sapere non gli dava pace e la religione cristiana non riusciva a spiegare sufficientemente il grande mistero della vita. Per questo D’Annunzio ha cercato risposte anche altrove.

Durante gli anni passati nel Collegio Cicognini conobbe i due fratelli

Spezzafumo, Ugo e Ubaldo, provenienti dalla colonia italiana di Tunisi, che gli parlarono per primi dell’Africa musulmana e della religione islamica. È lo stesso D’Annunzio che confessa l’interesse per l’Oriente:

L’odore dell’Africa musulmana, odor di greggia e di sabbia e di palma e di

gruogo, che mi risaliva dal fondo di non so quale altra mia vita, sempre aveva la

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virtù di rapirmi verso una remota origine. Dalla smania del deserto e dell’oasi talvolta ero preso alle viscere, come un corsaro barbaresco menato a prigione a Pisa, che dalle sbarre veda rosseggiare i cocomeri toscani sgozzati sul carretto dal

cocomeraio urlante. Ah Sidi, le cose che tu mi porti, io le ho già in me, le ho sotto la pelle, le ho nelle

arterie del collo. Mi sembra di essere una favola di laggiù, che non fu raccontata ancora. Qualche volta io mi li racconto a me stesso, e ci credo; e mi dispero d’averci vissuto, e d’esser venuto a finir qui miseramente, da un’Arabia scrosciante di profumi […] Per ritrovarmi stasera in cima a un minareto, mi

conterei di essere un muezzino discepolo della cicogna!7

L’interesse di natura antropologica e filosofica che D’Annunzio nutriva per le

religioni lo spinse anche ad avvicinarsi alla cultura e alla religione ebraica. Nel 1887 pubblicò un articolo “La Sancta Kabbalah”8 dove dimostro di conoscere le tradizioni e l’antica religione del popolo ebreo e di essere, ancora una volta

affascinato dalla componente esoterica e magica della càbala stessa. La sua sete di conoscenza della religione non ebbe confini. Gabriele D’Annunzio

si era avvicinato anche all’induismo e alla cultura cinese, soprattutto nel periodo di esilio in Francia, come lo testimoniano oltre settanta testi conservati nella biblioteca della Prioria e tantissimi oggetti di queste culture esotiche, per esempio una coppia di draghi, simbolo di fertilità, la statua di una tartaruga, simbolo di eternità, o degli elefanti di porcellana portatori di fortuna. Nell’induismo è centrale uno dei concetti che maggiormente affascinava D’Annunzio e che nella tradizione filosofica occidentale si usa definire col termine generico di panteismo:

7 G. D’Annunzio, Le faville del maglio, Fratelli Treves editori, Milano, 1924, p.569-570 in A.

Mazza, La religione di D’Annunzio, Ianieri Editore, Pescara, 2015, pag.81.

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l’unità di Dio, dell’uomo e della natura. D’Annunzio fu colpito da tanti aspetti della cultura indù, fra cui la concezione della sessualità espressa da un punto di vista molto simile al suo, e dall’ideale della bellezza femminile: grande chioma nera fluente, grandissimi occhi, il seno colmo, la vita sottile; tutti elementi che

ritroviamo nelle femmine delle sue opere. Nella biblioteca dannunziana esiste una sezione di libri dedicati alla cultura

indiana che presentano ancora i segni di lettura; tra questi c’è India e buddismo

antico9 di Giuseppe de Lorenzo, dove viene spiegato il concetto di identità del

proprio essere con la mente universale, e come gli asceti indiani, molto prima di Cristo, contemplassero e rappresentassero la natura e le loro anime purificate, esprimendosi con parole sublimi che dopo più di mille anni si ritroveranno nel

Cantico delle creature di San Francesco d’Assisi.

Nel 1884 D’Annunzio scrisse un articolo sul giornale romano “La Tribuna” che conferma la sua capacità di osservazione e di riflessione dei fenomeni di culto e il suo interesse per il sincretismo religioso:

La rassomiglianza dei riti buddistici con i riti della chiesa romana è causa di alcune singolarità figurative che alla prima vista generano stupore. Infatti voi vedrete tramezzo ai mostri e a tutta la grottesca umanità elefantica dei vasi, una figura di Satzuma dolcissima, in un atteggiamento di una madonna cattolica, china il capo pudicamente, piegata sul petto le mani. O voi vedrete una foukousa, un gran vecchio adorante che tiene levati gli occhi verso un’apparizione di santo cinto dall’aureola cristiana.10

9 G. de Lorenzo, India e buddismo antico, Laterza Figli, Bari, 1911.

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La figura di Cristo ha esercitato un grande fascino su D’Annunzio, che vedeva in lui il lato umano, ma anche il lato divino che lo allontanava dalle sofferenze umane, amico e nemico allo stesso tempo. Da una lettera al suo editore, Emilio Treves, nel 1893, sappiamo che D’Annunzio avrebbe voluto scrivere la vita di Gesù:

Accennavo ieri anche a una Vita di Gesù che medito e preparo e alla quale mi darò con ardore nell’estate prossima perché il libro sia pronto nell’autunno. Nella vita di Galileo c’è una meravigliosa materia d’arte. Come mai nessun artefice della parola ha pensato che si potrebbe fuor di ogni critica e di ogni esegesi, scrivere una vita di Gesù secondo la leggenda e la tradizione, ma ornandola con tutta la bellezza di uno stile possente? Io vorrei scrivere la vita di Gesù con lo stesso metodo con cui scrivo i miei romanzi: cercare di rendere quella figura quanto più viva possibile.11

Giuseppe Pecci ricordava che spunti evangelici ricorrono frequentemente nei testi

dannunziani, per esempio tante figure di santi a cui vari personaggi si rivolgevano

per chiedere aiuto e pietà. Il misticismo di D’Annunzio è particolare, sempre presente nelle opere, ma

sempre in contrasto con lo spirito analista e scientifico del poeta, attento

osservatore della realtà. La sua prosa è impregnata di naturalismo, decadentismo e folclore. Sicuramente D’Annunzio dimostrò una profonda sensibilità religiosa, ma la sua esaltazione del cristianesimo assume spesso i caratteri della profanazione. Anche la dimora del Vittoriale, come già accennato, diede spazio ad oggetti che esprimevano la sua religiosità sincretica. All’ingresso della Prioria furono

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collocati i simboli della Passione di Cristo e una colonna francescana che divideva

alla sommità di sette gradini, la parte sacra da quella profana della casa. Al Vittoriale sono raccolte anche tante statue e icone di San Francesco, che

testimoniano lo speciale interesse di D’Annunzio per la religiosità francescana. Il primo incontro di D’Annunzio con la terra natale del Santo era avvenuto nel settembre 1897, in occasione della visita ad Assisi con Eleonora Duse e con Angelo Conti. Nei “Taccuini”, D’Annunzio annotò le sue impressioni, i suoi pensieri e spiegò la sua ammirazione per San Francesco, trovando in lui una alta sensibilità poetica espressa nel Cantico delle creature, che diventerà una preziosa fonte per le liriche del ciclo dannunziano Laudi del cielo, del mare, della terra e

degli eroi. D’Annunzio ammirava in San Francesco la sua comunione con la

natura e la sua scelta di vivere in povertà. Anche su San Francesco, D’Annunzio voleva scrivere un libro, lo confidò lui stesso al suo traduttore francese Georges Hérelle, in una lettera del 22 luglio 1898:

Mi sono occupato molto di San Francesco, in questi ultimi tempi, perché voglio comporre una tragedia francescana, nei modi della poesia popolare umbra edelle antichissime laudi drammatiche, intitolata Frate Sole. Ho pensato e penso assai spesso a voi, in questi studi. V’è in voi qualcosa di francescano; e nessuno meglio di voi può comprendere lo spirito che il Serafico diffuse nel paese umbro.

Quando verrete qui, vi condurrò ad Assisi. Credo che proverete una delle più alte

commozioni della vostra vita.12

Il volume su San Francesco non fu mai scritto, come non fu scritto quello su Gesù; in cambio pubblico nel 1923 gli appunti, I nuovi fioretti di San Francesco

rinvenuti nella bocca del lupo d’Agobio. Nel 1911, D’Annunzio aveva scritto

12 E. Ledda, Gabriele D’Annunzio terziario francescano del Quarto Ordine, in E. Ledda e A.

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La crociata degli innocenti, dove un diverso Francesco interpretava un pellegrino

crociato capace di gesti eroici e di parole di fede. Fu lo stesso D’Annunzio a precisare che il suo Francesco non era più quello presente nell’immaginario

collettivo, ma un altro, più combattente e più audace. Il mio misticismo è mio, singolarissimo. Scrivo un libro per disingannare gli

sciocchi che mi credono francescano…Sono francescano del ’Quarto Ordine’.13

D’Annunzio si professava francescano ma di un Ordine inesistente. I frati Minori, fondati da San Francesco, furono chiamati di Primo Ordine, poi Le Clarisse

svilupparono il Secondo Ordine e I Terziari Regolari il Terzo Ordine. Nella sua vita, come nella sua opera, D’Annunzio proclamò con qualche

ostentazione di essere attratto dalla vita monastica, lontana dalla frenesia della città, dal silenzio dei chiostri, dalla possibilità di raccogliersi in sé stesso e di meditare. Al Vittoriale, la Stanza del Lebbroso era quasi una cella; la Prioria aveva le pareti rivestite di pelle scamosciata per ricordare il saio di San Francesco. A capo del letto aveva collocato il quadro di San Francesco che abbraccia il Lebbroso, un personaggio che assomigliava moltissimo al poeta. Il quadro era stato dipinto da Guido Cadorin nel 1924, anno in cui fu chiamato da D’Annunzio

al Vittoriale per decorare la Zambra del Misello, cioè la stanza da letto del poeta. Molto particolare era il letto, bara e culla insieme, un altro rimando a ritualità

segrete, forse riti esoterici o liturgie occulte. I santi a cui D’Annunzio si proclama devoto sono tanti, San Francesco, Santa

Chiara D’Assisi, Santa Caterina da Siena, San Cetteo, San Gabriele

dell’Addolorata, San Onofrio, tutti i santi della sua gente d’Abruzzo.

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La sua devozione a Sant’ Onofrio sembra la più ardua e risale al 1881, quando D’Annunzio fu ospite, a Sulmona, di Antonio de Nino, etnologo, ricercatore di tradizioni popolari abruzzesi. Con altri due amici, il pittore Francesco Paolo Michetti e lo scultore Costantino Barbella, fanno un’escursione sul Marrone, un gruppo montuoso sopra Sulmona, tra la Valle Peligna, il fiume Aterno e la

Majella, per visitare l’eremo di San Pietro Celestino. Fu lì che il poeta vide, per la prima volta, l’eremo di Sant’Onofrio, la grotta del Cavallone, molto suggestiva

che ispirerà nella Figlia di Iorio, la descrizione della grotta di Aligi. Francesco Paolo Michetti, pittore e fotografo abruzzese, Francesco Paolo Tosti,

musicista, Costantino Barbella, scultore, e tanti altri artisti formarono, il 26 ottobre 1878 a Francavilla al Mare, il famoso Cenacolo francavillese o michettiano. All’inizio degli anni ottanta, D’Annunzio aderì a questa piccola comunità di artisti riuniti per celebrare la terra abruzzese, ognuno con i propri mezzi espressivi nella comune idea di complementarità delle arti. Nel 1893, il comune di Francavilla appoggiò il cenacolo artistico, concedendogli l’uso del Convento di Santa Maria del Gesù, che diventò cosi dimora e atelier per gli artisti. D’Annunzi ritornò spesso al convento di Michetti, per trovare pace, ispirazione e

sopporto.14 D’Annunzio ha avuto molti dei e idoli, perché era un’anima assetata di religione e

di conoscenza, ma se la religione metteva limiti, lui invece era uno spirito libero che cercava nuovi orizzonti, nuove esperienze e significati che la vita gli offriva:

Dinanzi, nel Cenacolo delle Reliquie, fra i Santi e gli Idoli, fra le immagini di tutte le credenze, fra gli aspetti di tutto il divino, ero quasi sopraffatto dall’empito

14 F. Di Tizio, D’Annunzio e Michetti. La verità sui loro rapporti, Mario Ianieri Editore, Pescara,

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lirico della mia sintesi religiosa. Santo Francesco apparito, dritto sul collo formidabile dell’Elefante sacro, apparito ai Testimoni del Buddismo, ai

Legislatori del buddismo, ai mostri della mitologia asiatica! […] un senso infinito dell’ansia religiosa nei secoli, e ne’ secoli de’ secoli, mi amplia infinitamente il petto scarnito; non mi muovo in una selva di figure e di simboli: palpito e

m’esalto in un folto di verità formate e di divinazioni inespresse. Sono dunque un profanatore musicale? No. Aspiro al dio unico, cerco il dio soprano. E sento come’ quel che è in me divino ’ tenda a ricongiungersi col dio inaccessibile, si

sforzi a possederlo. 15 Nelle sue opere narrative e teatrali, D’Annunzio crea un nuovo mondo,

trasfigurando il suo Abruzzo, trasformandolo in una terra esotica, soggetta a le sue proprie leggi, un Abruzzo mitico, metafora di un mondo vergine che precede la civiltà. Il poeta si muove con dimestichezza in questo mondo fatto di religione e superstizione, senza giudicare i suoi personaggi. Sicuramente è il bagaglio

culturale del suo Abruzzo che gli infonde quell’idea ossessionante della morte, un concetto legato indissolubilmente alle credenze, alle usanze e ai riti della sua gente, pratiche religiose ma anche superstiziose che accompagnavano ogni momento significativo dell’esistenza. A volte mi chiedo quale fosse il messaggio che D’Annunzio voleva trasmettere, che non è mai molto chiaro: forse che la morte vince su tutto e su tutti, forse l’amore vero purifica anche le anime perdute, o le leggi sociali incombono sull’individuo schiacciandolo, forse non esiste

rimedio al mondo per il mal di vivere, né nella religione, né nell’amore. Credo che la risposta rimanga aperta.

15 G. D’Annunzio, Libro segreto, in A. Mazza, La religione di D’Annunzio, Ianieri Editore, Pescara,

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2.L’Abruzzo culla dell’essere nella vita e nell’opera

Partendo dalla raccolta di Novelle della Pescara, attraversando il romanzo Il

trionfo della morte e chiudendo con la tragedia La figlia di Iorio cercherò di

mettere in luce vari elementi collegati ai riti, alla religione, alle superstizioni, alla cultura dell’Abruzzo ricca di folclore, miti e leggende che Gabriele D’Annunzio ha saputo trasfigurare sapientemente in opere letterari originali e moderne. Il poeta si muove con naturalezza tra paganesimo e religiosità popolare, tra

matriarcato e culto mariano, ricostruendo la fisionomia di un mondo lontano dalla civiltà, un mondo esotico e fantastico in cui le persone vivono con intensità ogni aspetto della vita. Per D’Annunzio, l’Abruzzo rappresenta la sua madre-terra e sarà motivo

ricorrente nella maggior parte delle opere letterarie. Si può osservare come nelle

Novelle della Pescara, l’intenzione dell’autore non sia quella di raccontare

obiettivamente questa realtà, ma quella di rielaborare un Abruzzo mitico

composto da paesaggi idillici dove i personaggi rispondono al richiamo dei loro istinti materiali. È nelle novelle che D’Annunzio si esercita, è lì che nascono i bozzetti di personaggi memorabili che diventeranno simboli di una terra

prosperosa. È interessante come D’Annunzio riprenda in mano le novelle scritte in gioventù, per riportarle a nuova vita nel 1902, dopo aver passato a Pescara le feste di Natale del 1901.

Quella gita in Abruzzo dopo cinque anni di assenza gli ricordò le novelle abruzzesi contenute nel Libro delle vergini e nel San Pantaleone. Di ritorno

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alla Cappocina le scelse, le ritoccò, e ne fece una nuova edizione sotto il titolo

Le novelle della Pescara.16

Il poeta ritornò in Abruzzo, e ogni volta trovò dei nuovi stimoli per la sua

scrittura, che conobbe l’apice nell’estate del 1903, quando compose in meno di un mese la tragedia La figlia di Iorio, massima celebrazione del vincolo che lega

D’Annunzio alla terra natale. Il poeta è affascinato dal folclore della sua regione, dalle canzoni popolari, dai riti

messi in scena durante le feste religiose o nei momenti più importanti della vita della comunità, nascita, matrimonio e morte. L’Abruzzo rappresenta per

D’Annunzio “il paradiso perduto”, la terra e l’epoca delle sue prime scoperte, della sua prima e soave felicità, che non ritroverà altrove, che rimpiangerà sempre, e che da uomo adulto oramai, capirà di non poter più rivivere essendosi staccato

definitivamente da quel modo sincero di sentire. Se da una parte il paesaggio dell’Abruzzo è bellissimo, pieno di luce, di profumi e

di pace, dall’altra parte, esso incombe con la sua eterna potenza sui destini passeggeri delle misere persone. Ad ogni passo nella narrativa dannunziana incontriamo il tema del sacrificio, come sottolineava Rosamaria La Valva, sotto ogni forma possibile: la brutalità del lavoro e delle fatiche che tolgono ogni dignità all’essere umano, la brutalità della malattia che corrode anima e corpo, l’amore tragico che distrugge legami e vite, passioni folli che uccidono la ragione e l’essere.17

Il ricordo commosso dei paesaggi abruzzesi non rappresenta il motivo centrale delle opere, ma è come un humus per le radici dei personaggi principali: pastori,

16 G. D’Annunzio, Tutte le novelle, Arnaldo Mondadori Editore, Milano, 1992, pag.16.

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contadini, pescatori, nomadi o nobili, uomini e donne semplici ma particolari nel loro sentire, persone che agiscono seguendo i loro istinti e si sottopongono a leggi arcaiche e immutabili, intransigenti. I personaggi principali delle opere analizzate,

Le novelle della Pescara, Il trionfo delle morte e la Figlia di Iorio, sono individui

semplici che sono attorniati da altre figure enigmatiche, per esempio il mago Iorio, Cosma il santo dei monti, la vecchia delle erbe, Anna Onna, nella Figlia di

Iorio, il mago Spacone della novella La vergine Orsola, Mungià, o il Messia

Oreste, del Trionfo, tutti personaggi che convivono in una dimensione insieme

sacra e superstiziosa. La vita della comunità abruzzese segue regole ancestrali, in base alle quali il

giudice regola le vicende umane della comunità, un insieme di persone che hanno le stesse credenze e abitudini, un coro di parenti, di mietitori, di lamentatrici, secondo il bisogno della specifica situazione. Questa voce prepotente agisce sulle vite delle persone, decidendo quale sia il bene e il male, al di là di un senso logico delle cose. È da qui che poi nascono le situazioni tragiche, dal momento in cui un individuo entra in conflitto con le decisioni e le scelte che la famiglia, la comunità

fa al posto suo, togliendo cosi la libertà individuale.

Il rifiuto: D’Annunzio ha saputo disegnare i caratteri della sua terra nonostante

avesse vissuto per molto tempo lontano dall’Abruzzo e cercato svariate volte a distaccarsi da questa dimensione tanto rude e primitiva. D’Annunzio ha vissuto tanti momenti difficili, di sofferenza, di negazione delle proprie origini, rifiuto più volte confessato anche nelle lettere inviate a Giselda Zucconi:

Ti scrivo con la testa rintronata orribilmente da rumori di quattro bande musicali (molto bande e poco musicali), dagli urli de’ venditori, dagli scoppi de’

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mortaletti, dallo scalpitio de’ cavalli, dal…diavolo che si porti via tutti i promotori di feste popolari. Lo dico sul serio: sono qui semivivo, tre giorni, capisci? Tre giorni di fracasso febbrile, infernale, come non ho sentito mai, la strada rigurgitavano di gente antipatica e forestiera; qui di faccia un organino non si chieta mai con quella noiosissima ‘Casta diva’; più in là, in piazza, una

compagnia di saltimbanchi mi lacera le orecchie a furia di trombettate; in fondo, il maledettissimo campanile con le tre campane esultanti…insomma è un inferno, l’ho detto. E la festa di San Cetteo cittadino!18

Le parole quasi riecheggiano la voce di Giorgio Aurispa, il protagonista del romanzo, Il trionfo della morte, intrappolato in una festa della sua città, che egli tuttavia non riesce a capire. Ci sono vari elementi che poi torneranno nelle opere dannunziane: i santi, le processioni, la musica, le campane, elementi famigliari che dopo essere stati rielaborati diventeranno simboli dalla sua amata e odiata terra.

Come osservava Ivanos Ciani, D’Annunzio, da giovane cercò di allontanarsi e di nascondere le sue origini, mostrando indifferenza verso l’Abruzzo e verso le tradizioni della sua gente, sforzandosi, con successo, di imparare a parlare un

buon italiano, perdendo i tratti dialettali. Ma l’atteggiamento di D’Annunzio verso la sua terra e verso la sua gente era

destinato a cambiare soprattutto in seguito alla frequentazione del Cenacolo francavillese.

Ritorno: Nel 1880, D’Annunzio ha conosciuto Francesco Paolo Michetti, amico e mentore che gli fa scoprire nuovi aspetti dell’Abruzzo, nuovi paesaggi naturali, il mare, la montagna, nuovi uomini e autentiche tradizioni. Il cenacolo

18 I. Ciani, L’abruzzese Gabriele D’Annunzio, in D’Annunzio e l’Abruzzo, Atti del X Convegno di

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francavillese diventa cosi, il punto di riferimento per D’Annunzio, sia nella vita personale, sia per la sua attività letteraria. In una lettera del 2 dicembre 1880 informava l’amico De Cecco, che stava lavorando a un volume di figure abruzzesi e gli chiedeva l’aiuto di Michetti :

Cicillo non potrebbe aiutarmi con la sua matita? Dovrebbe fare degli studietti, come gli sa fare soltanto lui, sulle mie figurine, e pubblicheremo il volume dal Treves, il quale prenderebbe la proprietà letteraria, intitolandolo: ’Figure abruzzesi’, Studi di F. P. Michetti e G. D’Annunzio. Che ne dici?19

L’interesse rinnovato di D’Annunzio per la sua gente si evolve e si trasforma, evidenziando sempre un rapporto conflittuale di amore e odio. D’Annunzio cercava con attenzione persone e momenti emblematici, donne e uomini adatti ad essere presentati come simboli per l’umanità, depositari di esperienze di vita. D’Annunzio era impressionato dai cori delle donne che sentiva cantare in

lontananza, durante i lavori nei campi o nelle processioni religiose. In una lettera a Giselda Zucconi, del luglio 1881, confessa di studiare quasi analiticamente le persone abruzzesi per trasformarle in “figurine”. I personaggi dannunziani si muovono nei luoghi conosciuti dal narratore e conducono una vita semplice, ma scandita da riti religiosi e superstiziosi allo stesso tempo. All’inizio della carriera letteraria di prosatore, D’Annunzio osa molto nelle

novelle disegnando figure particolari, che spesso presentano delle caratteristiche animalesche, per esempio, Dalfino aveva la schiena incurvata come un delfino, o Cincinnato che aveva la testa “leonina”, e Toto che sembrava un orsacchiotto. Nel naturalismo delle pagine si percepisce il desiderio del narratore di creare una

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simbiosi tra l’essere umano e la natura che lo circonda.20

Sicuramente D’Annunzio non si accontenta di lavorare solo elementi offerti dall’Abruzzo e allarga sempre di più il suo sguardo verso altri orizzonti offerti dal naturalismo di Verga, dal simbolismo e dal decadentismo francese che si

sviluppano intensamente in quell’epoca come annotava G. Tosi:

Ha cercato e trovato altrettanto nella sua biblioteca e nella natura e nella propria esperienza, […] Ha sempre fuso nella sua opera la cosa letta e la cosa vissuta.21

Le opere narrative dannunziane, nonostante attingono da diverse fonti già conosciute all’epoca, sono sorprendenti e originali, in quanto D’Annunzio ha saputo abilmente fondere le suggestioni letterarie con quelle paesaggistico folcloriche abruzzesi. Le opere narrative dannunziane sono ricche di personaggi deformi, fisicamente e moralmente, di scene violente e di ambienti degradati, ma è altrettanto vero che il protagonista principale di tante pagine memorabili è

l‘Abruzzo, reale e immaginario, con le sue bellezze naturali, con la sua bella gente, genuina e sincera, con le sue tradizioni religiose e superstiziose, che fanno

parte della vita di tutti i giorni. La maturazione dello spirito dannunziano si percepisce attraverso le sue opere.

Partendo dalle prime novelle, che si sviluppano in poche pagine e sono un concentrato di vitalità, possiamo osservare un’evoluzione sempre più decisa ad ampliare le opere con nuovi elementi come per esempio l’analisi psicologica che si fa più ampia nelle pagine della Vergine Orsola e della Vergine Anna e che

diventerà centrale nelle pagine del Trionfo della morte.

20 A. Andreoli, Introduzione a G. D’Annunzio, Tutte le Novelle, Arnaldo Mondadori editore,

Milano,1992.

21 G. Tosi, Il trionfo della morte, Atti del III Convegno Internazionale di Studi Dannunziani, 22/24

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Le figure più interessanti che D’Annunzio crea nelle sue opere in prosa sono spesso collegate alle persone che lui ha conosciuto, a partire dalla sua famiglia, come per esempio le madri che si leggano a sua madre, donna Luisa, che diventa Candia nella Figlia di Iorio o donna Silveria, la madre di Giorgio, nel Trionfo

della Morte.

Il padre, Francesco Paolo, persona colta che aveva intuito e coltivato il genio del

figlio, si riflette nella figura prepotente di Lazaro, padre e antagonista di Aligi. Demetrio, l’amato zio del Trionfo della morte, racconta un po' dell’amicizia e

dell’affetto che legava D’Annunzio al suo zio paterno che lo portava a pescare alla foce del fiume pescarese, e che è morto suicida, sia nella vita che nel romanzo. Un’altra figura particolare è quella della Vergine Anna, che D’Annunzio crea

partendo da sua zia, Onofria, badessa del convento di Ortona. Poi, ci sono tutta una serie di uomini e donne del popolo abruzzese che presentano

delle caratteristiche interessanti per lo scrittore, personaggi fuori dal comune che vivono con intensità, tante volte morbosa, i diversi momenti della vita, come

scopriremo nei capitoli successivi di quest’ analisi. Il protagonista assoluto della prosa fu D’Annunzio stesso. Nelle novelle, la sua

presenza si percepisce nei messaggi che la narrazione trasmette, dove prevalgano la violenza e l’ignoranza di una comunità da cui D’annunzio vuole prendere le

distanze. Un secondo momento essenziale della scrittura dannunziana, dove avviene un

riavvicinamento e la riscoperta dell’Abruzzo, lo rappresenta il romanzo Il trionfo

della morte, dove D’Annunzio si immedesima nel personaggio principale Giorgio

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Pietro Pancrazi, nel 1938 divide l’attività narrativa dannunziana in due parti, la prima definita prosa diurna, solare, che include le novelle, i romanzi della Rosa ed il Fuoco, e la seconda parte, una prosa esoterica, allusiva, notturna e

memoriale, che inizia nel 1911 con l’uscita delle Faville del maglio, 1912,

La contemplazione della morte, dedicata alla scomparsa di Giovanni Pascoli, poi

La Leda senza cigno del 1916 e chiudendo con il Notturno del 1921.22 È importante tenere conto di questa divisione delle opere perché si può capire

meglio il rapporto che D’Annunzio aveva con l’Abruzzo, in un certo momento della sua vita. D’Annunzio parte con il tentativo di distacco dalla terra nativa, per poi riavvicinarsi e riscoprire i valori della cultura popolare, e, in fine, la

rievocazione, con profonda nostalgia, dei momenti felici e dei legami di affetto

indissolubili che lo univano ancora alla sua gente. In un passaggio nelle Faville del maglio, D’Annunzio ricorda commosso il padre

quasi dimenticato nella frenesia della vita di tutti i giorni: Ho dimenticato anche te? Ho potuto vivere giorni e giorni senza di te? E mesi e mesi, forse anni? L’erba è cresciuta sul tuo sepolcro, là sulla collina che guarda il mare, dove io non sono più tornato. Volii che sul tuo sepolcro non fosse posto se non un sasso rude e il tuo nome, per venire un giorno io stesso a porvi un più grande segno. E non sono venuto ancora. E non ho adempiuto il voto. E l’oblio

nutre l’erba.23

D’Annunzio ha fatto delle esperienze vissute insieme alla sua famiglia e ai suoi amici, la base delle sue opere più importanti. Oltre le persone realmente

conosciute, nelle pagine dannunziane emergono anche il luoghi del Abruzzo che

22 P. Pancrazi, Nascita del D’Annunzio notturno, Corriere della sera, Torino, 1938, in G.

D’Annunzio, Prose scelte, antologia d’autore, Giunti Editore, Firenze, 1995, pag. 10.

23 G. D’Annunzio, Le Faville del maglio, in F. Desiderio, L’Abruzzo memoriale, Atti del X

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D’Annunzio ha visitato. Per esempio, la casa natale di Pescara, la casa dei parenti della madre ad Ortona,

piena di logge e di camere addobbate con statue e oggetti incantevoli, che dentro di sé richiudevano tante storie sacre e profane, tante allegorie e tante favole. Il patriarca della casata, don Mingo, che viveva in quel palazzo, morì durante un soggiorno di Gabriele, e la contemplazione del suo cadavere offrì al giovane la

prima occasione per lo studio della morte. Ad Ortona, passo del tempo con la zia Onofria, badessa del convento, che lo

accoglieva nel suo parlatorio e gli faceva mangiare una pasta bianca chiamata “vipere”, e dove ascoltava i ragionamenti delle suore sulla religione, sui sogni, sulle superstizioni, tutti elementi che ritroviamo nelle opere dannunziane. I primi luoghi naturali che spiccano nelle opere narrative sono la Maiella, la montagna madre, “una montagne sorgeva al centro come un immenso ceppo originale, in forma di una mammella”, ricoperta sempre dalle nevi bianche, segno di purezza e di castità, poi il mare Adriatico, “un mare mutevole e triste su cui le

vele portavano i colori del lutto e della fiamma”. Le esperienze vissute nell’Abruzzo, all’inizi degli anni Ottanta, e soprattutto la

comunione artistica che lo scrittore vive insieme al pittore Michetti, allo scultore Barbella, ai folcloristi De Nino e Finamore e al musicista e compositore Tosti, danno al giovane D’Annunzio nuova linfa per creare altre opere: nel 1883-1884 pubblica le raccolte di novelle Il libro delle vergini e San Pantaleone, dove lo sguardo del narratore si posa sui paesaggi, sugli uomini e sulle loro abitudini. È lo

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Fuori, il sole, il mare, una festa di colori, un’orgia di vita; dentro, il sole, il mare, la vita degli alberi, dei fiori, degli uomini, l’amore, il grande inno epitalamico modulato, rappresentato, fermato in tutte le forme sulle tele, sulla carta, nella

creta; e fuori, la Natura, dentro, l’Arte.24

Il tempo passato al Convento michettiano, oltre che a mettere D’Annunzio in contatto con importanti artisti, gli fa scoprire nuovi luoghi abruzzesi che prima non conosceva. Insieme agli amici, D’Annunzio va in treno a Sulmona, a cavallo nella Valle del Gizio, facendo diverse soste a Popoli, a San Clemente a Casauria, a Tocco, paese natale del pittore Michetti. In tutte queste escursioni D’Annunzio si nutre dello spettacolo del mare, del fiume, della vicinanza degli amici e delle

vecchie cantilene abruzzesi. In una lettera a Barbara Leoni, D’Annunzio racconta un’esperienza fondamentale

per la sua creazione artistica: Ieri mattina partimmo a cavallo per Guardiagrele , dov’è santa Maria Maggiore, antico duomo gotico, tutto coperto di fiori marmorei e di fiori vivi. Di là, per Rapino, il paese delle majoliche, e per Fara Cipollara, il paese tutto canoro d’acque e di uccelli. Le montagne ci seguivano variando: la gran madre Majella ci proteggeva con la sua ombra solenne, al fondo tutta azzurra e dorata. Di sotto a Semivicoli scendemmo nel bosco del Convito, su la riva destra del fiume Foro. Amore mio che prodigio! – hai tu mai sognato boschi magici dove vivere amando e cantando? Hai tu mai sognato luoghi solitari e profondi dove tutto sia

armonioso come una musica, il tremito delle foglie e il fremito delle acque, le luci e le ombre, i profumi e gli aliti del terreno umido e caldo, l’azzurro dei cieli e il verde delle piante, i canti degli ucceli e i colpi ritmici della scure d’un boscaiolo? Io potrò forse un giorno esprimere con l’arte mia questa meraviglia? Ora sono ancora tutto vibrante di entusiasmo.25

24 G. D’Annunzio, Lettere a Giselda Zucconi, in I. Ciani, L’Abruzzese Gabriele D’Annunzio, pag.18. 25 G. D’Annunzio, Lettere a Barbara Leoni, in I. Ciani, L’Abruzzese Gabriele D’Annunzio, in

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In questa lettera D’Annunzio confessa chiaramente le sue intenzioni: trasfigurare la natura, le persone, la musica, l’armonia, la pace interiore che solo lì ha

conosciuto e vissuto. “Il paese tutto canoro d’acque e di uccelli e di canti” è il paese di Fra Lucerta e di Mena, un paesaggio pieno di luce, di colori e di musica. “La grande madre Maiella” è la montagna che protegge nella sua grotta l’amore di Mila e di Aligi. La terra abruzzese diventa mitica, chiusa in un tempo ed uno spazio lontano e senza fine, dove la nuova religione ha mantenuto le antiche credenze e superstizioni. In Abruzzo si ritrovano ancora antichi mestieri, come il serparo, o maghi e santi, simboli particolari di una cultura sorprendente.

D’Annunzio fa conoscere i suoi luoghi del cuore anche all’amata Barbara Leoni, con la quale visita Casalbordino in occasione del Corpus Domini, una festa religiosa particolarmente sentita a livello popolare, e Guardiagrele, un paesino sotto la Maiella:

Un paesino di pietra abitato da uomini vestiti di lino bianco e da donne vestite

d’azzurro e di sanguigno. Guardiagrele diventa nel Trionfo della morte il rifugio per l’amore di Giorgio e

Ippolita. Dopo le figure e i luoghi, D’Annunzio ritrova un terzo elemento essenziale nella

cultura abruzzese, il rito. È Ivanos Ciani che riferisce un episodio singolare che D’Annunzio ha vissuto insieme all’amico Michetti, partecipando con lui ad una festa di nozze, contadinesche, il 22 ottobre 1882, a Chieti:

Fu una festa tutta al sole; fu un barbaglio di vesti e seta, di fazzoletti di broccato, di grandi orecchini d’oro, di grandi medaglie filigranate; fu uno scoppiettio stranissimo di brindisi senza senso comune accompagnati dal ronzio dilaniante

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dei chitarroni; fu una selva di schioppettate, di grandinate di confetti, di grida gioconde; fu un bel baccanale di giovinezza in mezzo alla morte bella e serena della campagna, in mezzo alle vigne rosse […]Tornai ieri da Pentima…Che splendida natura in quei monti, in quelle vallate! Che città fantastiche di rocce

titaniche a perpendicolo sull’Aterno spumeggiante, rumoreggiante, tumultuante.26

Si tratta con tutta evidenza di tasselli descrittivi messi a frutto nelle opere future: il matrimonio nella Figlia di Iorio, il baccano delle folle, gli elementi naturali

principali, la montagna Maiella, il fiume Sagittario nella Fiaccola sotto il moggio, gli orecchini d’oro della sposa in processione alla Madone di Casalbordino, nel

Trionfo della morte.

Una fonte d’ispirazione essenziale per D’Annunzio fu il maestro Antonio De Nino, attento ricercatore di folclore abruzzese, che aveva raccolto in sei volumi gli

Usi e costumi abruzzesi, libri ricchi di riti e tradizioni popolari a cui il narratore

attingerà per la realizzazione di alcuni episodi fondamentali delle sue opere, di cui

parlerò nei prossimi capitoli. Il gruppo di talenti riunito sotto la direzione di Michetti cercava di creare una

nuova espressione artistica che fosse collegata direttamente con la tradizione popolare abruzzese, una nuova espressione in cui unire pittura, scultura, musica e

letteratura. Il maestro di musica che ha fatto conoscere a D’Annunzio le canzoni popolari è

stato Francesco Paolo Tosti, anche lui “cavatore di tesori” della cultura abruzzese, è lui stesso a raccontarlo nelle lettere a Giselda Zucconi:

Sono una meraviglia, sono le più belle canzoni popolari d’Italia. C’è fra le altre una ch’è composta d’una frase breve e semplicissima, poche note; sentile e

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proverai un rimescolamento, e ti salirà il pianto agli occhi. Forse te le manderò;

sono state raccolte dal Tosti, […] Sono proprio gli studi sulla cultura popolare di Antonio de Nino e di Gennaro

Finamore che ispirarono episodi essenziali di opere come il romanzo, Il trionfo

della morte, e le tragedie, La figlia di Iorio e La fiaccola sotto il moggio.

D’Annunzio ringrazierà sempre gli amici per il grande aiuto che gli fu dato, come lo dimostrano lettere e dediche dei libri agli amici abruzzesi.

In una lettera inviate a Barbara Leoni, nel 1887, D’Annunzio testimonia un evento particolare che gli rimarrà impresso per sempre:

Ieri mattina, prima dell’alba partimmo per Casalbordino. La Chiesa della Madonna dei Miracoli è in mezzo a una pianura limitata dal mare. Una moltitudine immensa di fanatici si agitava intorno alla chiesa gridando. Lo spettacolo era terribile. Dinanzi all’Immagine centinaia di femmine cenciose, tutte sanguinanti, si trascinavano nella polvere. Gli urli, i pianti, gli strepiti salivano al cielo. Una polvere ardente avvolgeva ogni cosa e il sole bruciava con una viva fiamma sulla pianura aperta. […]

Stanchi siamo andati in ricerca d’ombra. Ho lasciato i miei amici all’ombra di certe grandi querci sul ciglio di un fossato e sono andato a Casalbordino a cavallo.

La strada era bianchissima, d’una bianchezza accecante, a traverso i campi di frumento. Il sole ardeva a sommo del cielo, nell’azzurro crudele. Ai lati della strada, di tratto in tratto, stavano distesi in mezzo alla polvere certi esseri deformi che non avevano più apparenza di creature umane: uomini malati di elefantiasi, uomini storpi, ciechi, lebbrosi, donne idropiche, tutte le più miserabili deformità e le infermità più ridondanti erano là, tra la polvere, al pieno sole.

Quelli esseri chiedevano l’elemosina urlando e avvoltolarsi nella polvere con gesti cosi disperati ch’io mi senti d’un tratto invadere da una specie di sbigottimento. Spronai il cavallo…Ripassai per la strada dei

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tendendomi i loro moncherini, guardandomi con i loro occhi bestiali dalle palpebre infiammate. Intorno, la campagna ondeggiava nella sua bella opulenza…27

Come si può ben capire, D’Annunzio aveva già pronte nella mente le pagine del pellegrinaggio a Casalbordino che poi vedranno la luce nel 1894, nel Trionfo della

morte. Le credenze popolari abruzzesi, i riti religiosi, le superstizioni e le usanze

pagane, la religione, il fanatismo e la forza delle folle, sono tutti elementi essenziali che hanno dato originalità a tante opere dannunziane.

D’Annunzio era affascinato dai riti di religioni morte ma che erano sopravvissuti, simboli che erano stati usati dai popoli primitivi, i riti dei pastori che provenivano dagli inizi del mondo, riti che testimoniano la nobiltà e la bellezza di una vita anteriore. Il poeta era attratto dalle feste dei contadini che anticamente donavano il frumento alle divinità pagane e ora ai santi cristiani. La sua gente, forte e bella, gentile e nobile, confessava e praticava una religione cristiana storica, biblica,

dove la libertà era misurata da un capo famiglia. Il narratore rievoca i riti della religione cristiana: una religione umana, non

necessariamente cattolica, fondata su un’etica morale in cui i valori si trasmettono di generazione in generazione, insegnando il rispetto della vita, della famiglia, della comunità. Secondo la tradizione popolare abruzzese, i maschi celebravano con veemenza bacchica la terra e i suoi frutti, mentre le donne celebravano le liturgie, i riti religiosi, ed erano l’elemento che manteneva l’equilibrio della comunità.28

27 G. D’Annunzio, Lettere a Barbara Leoni, in I. Ciani, L’Abruzzese Gabriele D’Annunzio, pag.20. 28 D’Annunzio e l’Abruzzo, Atti del X Convegno di Studi Dannunziani, Pescara, 1988.

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La musica rappresenta un altro elemento importantissimo per le tradizioni abruzzesi, una musica primitiva e rustica, fatta di poche canzoni dominanti, trasmesse di generazione in generazione come una preziosa eredità:

Il mistero e il ritmo, i due elementi essenziali di ogni culto, erano per ovunque sparsi. Uomini e donne esprimevano di continuo la loro anima col canto, accompagnavano col canto tutte le loro opere al chiuso e all’aperto, celebravano col canto la vita e la morte.29

Nella terra abruzzese, cosi come nelle opere dannunziane, sono le donne a

coltivare e a portare avanti le tradizioni, sono loro che gestiscono i riti, come Candia nella Figlia di Iorio, madre sacerdotessa, custode del focolare, suprema guida per i figli, insieme alle altre donne del parentato, che celebra il matrimonio, il giudizio di Aligi, la punizione di Mila, poi il funerale di Lazaro.

D’Annunzio desiderava sempre di ritornare alla sua terra, in mezzo alla sua gente, anche dopo essersi sentito tanto distante da quel modo di vivere e di pensare, come lo ha fatto attraverso l’esperienza di Giorgio Aurispa nel Trionfo della

morte. Il poeta ribadisce le sue radici abruzzesi nella Figlia di Iorio, dove ricuce i

legami con la sua collettività, confessando:

Io sono di remotissima stirpe. I miei padri erano anacoreti della Maiella; si flagellavano a sangue, masticavano la neve onde s’empivan’ le pugna,

strozzavano i lupi, spennavano le aquile, intagliavano la siglia nei massi con un chiodo della Croce raccolto da Elena.30

29 Gabriele D’Annunzio, Il trionfo della morte, pag.214. 30 G. D’Annunzio, Libro segreto, pag.364.

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D’Annunzio narra i miti della sua terra attraverso le vicende delle persone,

attraverso delle favole umane. Il poeta è cosciente del duplice rapporto che ha con la terra natale e lo confessa diverse volte, come ha fatto in una lettera anche Ennio Flaiano, tracciando un catalogo ideale dei dati positivi della sua eredità abruzzese:

La tolleranza, la pietà cristiana, la benevolenza dell’umore, la semplicità, la franchezza nelle amicizie e anche il senso di ospitalità dovuto alla conformazione di una terra isolata, diciamo addirittura un’isola […] schiacciata tra un mare esemplare e due montagne che non è possibile ignorare.31

Il senso di appartenenza, tuttavia non impedisce a Flaiano di cogliere anche le caratteristiche negative della sua tradizione:

Il sentimento che tutto è vanità, ed è quindi inutile di portare a termine le cose, inutile far valere i propri diritti; e tutto ciò misto ad una disapprovazione muta, antica, a una sensualità disarmante, a un senso profondo della giustizia e della grazia, a un’accettazione della vita come preludio alla sola cosa certa, la morte. […] Bisogna prenderci come siamo, gente rimasta di confine, con una sola morale: il lavoro. E con le nostre Madonne vestite a lutto e le sette spade dei dolori ben confitte nel seno.32

È una lettera che avrebbe potuto scrivere anche Giorgio Aurispa con il suo male di vivere; e allo stesso tempo, essa ci riporta alla memoria, le vite di Mila e di Aligi sopra le quali incombe la giustizia tribale.

31 O. Giannangeli, D’Annunzio e l’Abruzzo del mito, in D’Annunzio e L’Abruzzo, Atti del X

Convegno di studi dannunziani, Centro Nazionale di Studi Dannunziani in Pescara, Pescara, 1988, pag. 65.

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La nostalgia ed il ricordo commosso dell’Abruzzo tornano nei momenti più difficili della sua esistenza, nei momenti bui e di solitudine passati nel Collegio Cicognini, quando chiudeva gli occhi ed immaginava di ritrovarsi nella sua terra,

nella sua casa o su un veliero nell’Adriatico ad osservare i delfini. Anche durante la guerra, D’Annunzio rimpiange il tempo felice passato nella terra

natale. C’è un frammento nel Notturno, dedicato espressamente alla morte straziante di un soldato abruzzese, il marinaio Giovanni Federico, che lo aveva riconosciuto:

Sono della tua razza; e soffro il tuo dolore con una vastità smisurata che non so dire, da tutta quanta l’infanzia, a tutta quanta la vecchiezza, e per tutti i fiumi dalle sorgenti alle foci, e per tutte le montagne dalle radici ai vertici…Mia madre per la mia bocca gli parla come gli parlava sua madre. E il più lieve dei sorrisi appare all’estremità del suo strazio.33

D’Annunzio, di fronte alla morte del compagno, mostra tutta la compassione della sua anima, dove si fa posto la malinconia che trasforma la memoria dell’Abruzzo in un sogno pieno di disperata nostalgia:

Di là dalle stagioni, di là dalle Opere e dai Giorni, tutti i riti e tutti i simboli si presentano nel sogno; e ancora le rondini sotto le volte delle cantine; le pecore bellano, i bovi mugghiano, il grano cricchia all’urto delle palle nel granaio. La villa del Fuoco al tempo del mio soggiorno con Maria Gallese, con Marioska,

nella luna di miele; la nascita del primo figliuolo; la desolazione e la paura tra le grida della partoriente; i primi strazi umani nei precordi, i primi affanni della pietà; le novelle della Pescara; tutto mi torna in sogno.

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Premuto contro il guanciale il cuore si fende, si scioglie, si duole; è come un sogno precursore di agonia.34

34 G. D’Annunzio, Il libro segreto in F. Desiderio, L’Abruzzo memoriale, Atti del X Convegno,

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3. Le novelle, folclore e fantasia, rito e sacrificio

Cominciando dalle novelle raccolte in Terra vergine, San Pantaleone e Il libro

delle vergini, scritte tra 1880 e 1888, che rappresentano l’esordio di D’Annunzio

come narratore, è possibile osservare l’evoluzione della poetica dannunziana che va a scavare nell’anima della sua gente, per cercare di capire il mistero della vita, rinchiuso in tanti simboli terreni. Il suo interesse per i fenomeni religiosi è indiscusso e la ricerca del mistero include:

lo spirito scientifico, lo spirito religioso, la pietà per la sofferenza, il sentimento di giustizia, il misticismo sociale, il fascino dei fatti misteriosi, forse anche

rischiosi, un bisogno di armonia universale; 35

Così il poeta, con la sua sensibilità, si sente l’unico capace di penetrare il mistero

e di rivelarlo come un mistico profeta, come un prodigioso suggeritore. Ho cercato di rintracciare nelle novelle le immagini dei rituali religiosi, delle

processioni, delle preghiere, delle bestemmie, degli esorcismi, dei lamenti funebri, delle pratiche superstiziose, che emergono entro i confini del sacro, da una vasta, multiforme e caotica esperienza umana, dei suoi impulsi, delle sue violenze, delle sue redenzioni, delle sue interpretazioni istintive e collettive della vita e

dell’universo. A diciotto anni, D’Annunzio si era trasferito a Roma nel 1881 per iscriversi alla

Facoltà di Lettere della Sapienza, ma la vita mondana della capitale lo distolse presto dalle lezioni universitarie. Il D’Annunzio di quel periodo era un giovane

35 F. Paulham, Nouveau Mysticisme, in Stefano Iacomuzzi, D’Annunzio e il simbolismo, il

linguaggio liturgico- sacramentale, Atti Del Convegno su D’Annunzio e il simbolismo europeo,

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ambizioso, che aspirava ad entrare a pieno titolo nella vita culturale capitolina e che subito si impone come interprete dello spirito della Roma di fine secolo, impegnandosi nei salotti mondani e nelle redazioni di numerose riviste dove si distingue come “il cronista del bel mondo”, secondo la definizione di Piero Chiara.36

Nel 1882 vedono la luce, dal Sommaruga, la prima raccolta di novelle, Terra

vergine, un libro dove la natura vitale dell’Abruzzo prende forma.

Nel 1884 esce la seconda edizione, dove ai primi nove racconti originali (Terra

vergine, Dalfino, Fiore Fiurelle, Cincinnato, Campane, Lazzaro, Toto, Fra’Lucertola, La gatta) vanno ad aggiungersi altri due, Bestiame ed Ecloga fluviale.

Nel 1884 esce anche Il libro delle vergini, e dei quattro testi iniziali, solo due La vergine Orsola e La vergine Anna, ne faranno parte della raccolta finale, Le

Novelle della Pescara, del 1902.

A Napoli, nel 1892, D’Annunzio pubblica Gli idolatri, presso Pierro Editore. Poi, nel 1902, dopo il ritorno in Abruzzo a distanza di cinque anni, pubblica presso il Treves, a Milano, il volume, Le novelle della Pescara, dopo un’accurata selezione delle novelle precedentemente scritte. Sicuramente il ritorno in Abruzzo non fu l’unico incentivo a rivedere e ripubblicare le novelle. D’Annunzio aveva anche bisogno di denaro per far fronte ai debiti che aveva lasciato suo fratello fuggito in America. Tuttavia, come abbiamo già accennato nel capitolo precedente, il peso della

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suggestione legata alla riscoperta delle radici abruzzesi non può essere

sottovalutato.

Terra vergine e Novelle della Pescara, racchiudono i topoi che poi ritroveremo

nelle prose successive, i germogli dell’opera futura. La prima raccolta rimane immutata nei testi e nel titolo, mentre la seconda ripropone racconti già pubblicati, escludendo solo cinque novelle considerate, per la loro tematica, non adatte al contenuto popolare e di ambientazione abruzzese. D’Annunzio aveva pensato di intitolare Terra vergine, Figure abruzzesi, presentando più esplicitamente la raccolta come il risultato del lavoro a quattro mani, condotto insieme a Michetti, lui con la penna e il pittore con il pennello, per rappresentare un mitico Abruzzo. Il poeta osserva l’umanità ai suoi margini, il muto, lo storpio, l’idiota, che si muove nei paesaggi colorati e intensi della campagna:

Vedremmo rappresentati con vigore e con sobrietà alcuni tragici idilli piscatori e campestri dove le persone dai detti e dai gesti veementi si muovevano all’urto di una passione semplice e brutale.37

Annamaria Andreoli ha cercato di spiegare il ritorno di D’Annunzio “alle novelle degli esordi improntate a un verismo di maniera, bozzettistico e locale” in un momento di rinnovamento estetico sotto gli influssi simbolisti, e ha mostrato come il poeta rimetta in gioco l’immagine e la memoria dell’Abruzzo,

concentrandosi sul mito e sul folclore. Ricordiamo che solo dopo un anno della pubblicazione delle Novelle della Pescara, nel 1903, egli scrive la tragedia pastorale La figlia di Iorio, la storia di Mila a Aligi ambientata in uno scenario abruzzese arcaico, che viene evocato mettendo in evidenza l’immutabilità della

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natura umana e l’andamento ciclico delle vicende che da essa derivano. Nella tragedia, l’Abruzzo è uno spazio mitico ancora vivo nel presente e aperto. Come sempre nell’opera dannunziana, le ragioni della produzione passata vengono riprese e piegate alle motivazioni delle opere più recenti, seguendo delle linee portanti di sviluppo dell’intera opera.

La critica ha ampiamente dimostrato l’importanza che hanno avuto nella composizione delle novelle, i modelli stranieri, - Zola, Maupassant, Flaubert, - e i modelli italiani, come Boccaccio e Verga, soprattutto in quanto autore di Vita

dei campi, raccolta pubblicata nel 1880. Ma l’asse portante della produzione

novellistica dannunziana sta nella tendenza di materializzare il profondo legame dell’autore con la terra natale, racchiudendo nella cornice naturalistica un quadro pieno di elementi tipici di quella carne, di quella mentalità, de quel sentire. La natura dell’Abruzzo forma l’ossatura di tutte le novelle, ma anche del romanzo Il

trionfo della morte e delle tragedie La figlia di Iorio e La fiaccola sotto il moggio.

Nelle novelle, D’Annunzio ha già descritto il mare, le montagne, le colline, rappresentandole in tutte le variazioni giornaliere e stagionali possibili e questo ha rappresentato per lui una sorta di esercizio, in prospettiva della composizione di

romanzi storici e psicologici. In un primo momento dell’analisi delle novelle, sembrerebbe che la scrittura di

esse richiedesse meno sforzo, meno impegno da parte del narratore, in quanto sono più brevi dei romanzi o delle opere drammatiche, ma non è così. Lo sforzo è maggiore in quanto D’Annunzio deve concentrare l’azione e i personaggi in poche pagine, epurando la narrazione da elementi superflui.

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Annamaria Andreoli ha fatto notare come e quanto D’Annunzio si sia ispirato ai quadri di Michetti per scrivere le novelle Gli idolatri e L’eroe, soprattutto

rifacendosi alla pittura del “Voto” e naturalmente al dipinto intitolato “La figlia di Iorio” per l’omonima tragedia. Nelle Novelle della Pescara, l’attitudine di D’Annunzio nei confronti della sua appartenenza alla terra abruzzese diventa più distaccata e critica rispetto a quella esibita in Terra Vergine, e a tratti sfoggia in una denuncia, venata di sarcasmo, del

mal costume di quella società primitiva da cui egli si sentiva tanto distante. Non si può dimenticare , del resto, che D’Annunzio fu accusato di plagio diverse

volte, sulla base delle indiscutibile affinità che certe sue novelle presentano rispetto alle opere di Flaubert, Un coeur simple che sembra, per esempio, una fonte diretta per La vergine Anna, e di Maupassant , Saint Julien l’Hospitalier, dal quale avrebbe tratto direttamente ispirazione Veglia funebre, Il traghettatore,

La fine di Candia, L’eroe.38 Per valutare criticamente le novelle, tuttavia, bisogna ricordare - come già si

accennava - che D’Annunzio mescola l’esperienza diretta, la memoria personale e le suggestioni di quello che aveva letto altrove. Prevale ovviamente, nella sua rappresentazione, un Abruzzo figurativo, michettiano, indagato anche attraverso i controlli effettuati sugli studi etnografici delle tradizioni popolari di De Nino e di

Finamore39. Durante gli anni Ottanta, come già si accennava nel II capitolo, il poeta trascorse

38 M. Bani, Note onomastiche su Terra vergine, in Il nome nel testo, Rivista internazionale di

onomastica letteraria. Il Nome Manipolato, Atti del XII Convegno Internazionale di Onomastica e Letteratura, Università degli Studi di Pisa, 31 Maggio-1 Giugno2007.

39 De Nino, Usi e costumi abruzzesi, sei volumi, 1879-1897.

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lunghi periodi in Abruzzo, spesso ospite dell’amico Michetti. Dalle esperienze vissute in questi soggiorni nella terra natale nascono pagine commosse, ricordo delle cavalcate, dei bagni nel mare, delle feste e della sua gente. Durante una di queste escursioni che D’Annunzio e Michetti affrontano, un con il taccuino e l’altro con la macchina fotografica, i due amici incontrano la figlia di Iorio di persona:

vedemmo irrompere una donna urlante, scarmigliata, giovane e formosa,

inseguita da una torma di mietitori imbestiati dal sole, dal vino e dalla lussuria. 40

In una lettera all’amico Nencioni, D’Annunzio parla con emozione delle le sue esperienze:

Ho assistito a certe strane feste nei santuari dei dintorni. Se tu vedessi che singolari spettacoli barbarici! Incredibili!41

Le tradizioni popolari sono un nucleo tematico essenziale nelle novelle, nel

Trionfo della morte e nella Figlia di Iorio. Sicuramente l’interesse di D’Annunzio

per la cultura della sua gente, per le tradizioni cristiane e pagane che convivono nel mito e nel folclore si evolve dopo l’incontro con l’estetica di Nietzsche e di Wagner, ma il momento delle novelle rimane il punto di partenza nella creazione di un’idea personale di mitologia e di ritualità.

D’Annunzio, consapevole dell’ambigua eredità della sua terra, sposta

continuamente l’attenzione del lettore da una dimensione favolosa, idillico e quasi sacrale, ad una brutalità barbarica in cui è difficile vivere, lavorare, amare, dove l’individuo perde ogni dignità ed è egli stesso metafora della morte. Il fascino

40 G. D’Annunzio, Tutte le novelle, Mondadori, Milano, 1992, pag.37.

41 G. D’Annunzio, Lettere a Nencioni, in Catalogo delle Lettere di G. D’Annunzio al Vittoriale,

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della narrativa dannunziana consiste proprio in questa sua naturale abilità di creare atmosfere paniche e simboliche alle quali si mescolano elementi realistici e

folclorici che arricchiscono e rendono autentico il testo. Il primo elemento folclorico essenziale per D’Annunzio è il canto popolare,

l’espressione considerata più autentica del suo popolo; poi la musica, che nei romanzi successivi sarà presentata come il mezzo principale di elevazione

dell’animo umano. Il poeta racconta i suoi pensieri che riguardano la musica nelle pagine del Libro Segreto:

La canzone popolare è quasi una rivelazione popolare del mondo. In ogni canzone popolare, vera, terrestre, nata dal popolo, è un’immagine di sogno che interpreta l’Apparenza. La melodia primordiale che si fa nelle canzoni popolari ed è modulata in diversi modi dall’istinto del popolo, mi sembra la più profonda parola sull’Essenza del mondo.42

Attraverso il canto, l’individuo riesce ad esprimere le proprie emozioni soggettive, pur restando nel solco della tradizione. Attraverso l’interpretazione personale di una canzone i protagonisti si esprimono e affermano la loro individualità. Spesso è proprio la musica che rende speciali alcuni personaggi, caratterizzandoli per la loro sensibilità: e in questo modo D’Annunzio li sottrae alla “massificazione” del

gruppo, conferendo loro un’identità ben distinta. D’Annunzio proietta il lettore in un Abruzzo quasi magico che si nutre di mito,

dove la natura di alcuni personaggi è instabile. Molte volte questi personaggi tendono ad autodistruggersi poiché non sono capaci di resistere ai loro

irrefrenabili impulsi.

42 G. D’Annunzio, Cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire,

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Per esempio, Mena, nella novella Fra’ Lucerta, torna dai campi insieme ad altre donne e tutte insieme cantano per alleggerire la fatica:

Tutte le fundanelle se so’ sseccate, pover’amor mi! ’more de sete, Tromma larì lirà,vvivà ll’amore!43

In questo coro però, la voce di Mena è sempre l’ultima a spegnersi, ed è quella che conquista il frate, che lo spinge a rompere tutte le inibizioni. Fra’ Lucerta risponde involontariamente al richiamo erotico del canto delle contadine e la fresca e primitiva energia delle donne turba il povero monaco che si ritrova intrappolato nella severità della sua vita clericale. L’effetto del canto sul

personaggio è quello di ricreare un collegamento fra il suo stato emotivo e quello fisico che lo riporta ad una condizione di verginità giovanile in cui egli risente il violento stimolo dei sensi. Il canto di Mena può essere paragonato al canto di una sirena, che incanta e distrugge.

Angela Tumini, nella sua monografia, Il mito nell’anima: magia e folklore in

D’Annunzio, osservava come il canto fosse utilizzato nelle novelle per tracciare

una linea divisoria fra la realtà socio - culturale maschile e quella femminile. I canti popolari intonati dagli uomini riguardano delle situazioni ed esperienze che si svolgono al di fuori del focolare domestico. Il canto femminile invece ha la funzione di ridurre la tensione causata dalla posizione di inferiorità in cui la donna vive rispetto all’ uomo e di concederle momenti di supremazia, attimi di potere sul maschio.

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Ad un certo punto la canzone di Mena si pone in contrasto diretto con le preghiere e le litanie monastiche e sulle quali prevale con forza, rispecchiando di conseguenza il trionfo dell’istinto carnale sul misticismo di Fra’ Lucerta:

Il frate ascoltava inebriato; Quelle note gli giungevano lì nella cella buia come voci della Natura; quella melodia molle in tono minore gli risvegliava mille fantasmi dormienti entro il cervello. […] prese il libro delle preghiere, e

s’inginocchio davanti al Cristo inchiodato. Ma sentiva che qualche cosa, lì tra il Cristo e lui, che lo rigettava indietro: si curvò ancora più, quasi con ira; volle pregare: ’Signore Dio mio, non ti allontanare da me; volgiti per aiutarmi: poiché mi sono levati contro pensieri vani e gran paure’…Inutile: quel benedetto ‘mi’ l’aveva ancora nell’orecchio, lungo, insistente, sfumato.

Tromma larì lirà,vvivà ll’amore!44

È importante ricordare che nell’invenzione dannunziana Fra’ Lucerta è giovane, ha 35 anni ed è diventato monaco per necessità, quando - morta la madre, - il padre lo ha mandato a studiare in convento, dove il suo stato d’animo è cambiato, trasformandolo in un individuo “ cupo, solitario, pensoso” e ancora più solo dopo la morte del padre. La scelta di ritirarsi in convento, insomma, non è stata dettata dalla fede, da una particolare inclinazione per quella vita di preghiera e di

rinuncia. E infatti, la carne si ribella e lo mette alla prova, così egli cerca di resistere e chiede pietà a Cristo:

Ma eran calme brevi; la battaglia interiore ricominciava più dolorosa: egli la covava con una forza pertinace ed intensa; e negl’ stati supremi stringeva i denti come un soldato sotto i ferri del chirurgo.[…] Dopo circa quindici anni resto solo

nel convento.[..] In un’alba di maggio, Dio gli si confuse con la buona Natura.45

44 G. D’Annunzio, Tutte le novelle, pag. 40-41. 45 G. D’Annunzio, Tutte le novelle, pag. 43.

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