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Studio delle abilità di Mindfulness in tre differenti dimensioni psicopatologiche: Disturbo Ossessivo-Compulsivo, Disturbo Depressivo Maggiore e Disturbo Borderline di Personalità

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale Direttore Prof. Mario Petrini

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica Direttore Prof. Paolo Miccoli

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia Direttore Prof. Giulio Guido

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN PSICOLOGIA

CLINICA E DELLA SALUTE

“Studio delle abilità di Mindfulness in tre differenti dimensioni

psicopatologiche: Disturbo Ossessivo-Compulsivo, Disturbo

Depressivo Maggiore e Disturbo Borderline di Personalità”

RELATORE

CHIAR.MO PROF.

Angelo Gemignani

____________________

CANDIDATO

Serena Ciandri

_____________

ANNO ACCADEMICO 2012/2013

(2)

INDICE

A. Riassunto 4

B. Introduzione 6

C. Revisione della letteratura 8

C.1 La Mindfulness 8

C.2 Mindfulness, salute fisica e mentale 10

C.2.1 Effetti neurobiologici e cerebrali della meditazione 10

C.2.2 Effetti della meditazione sulle funzioni cognitive 13

C.2.3 Effetti della meditazione sul benessere psicofisico 14

C.3 Tecniche mindfulness-based 15

C.3.1 Tecniche che utilizzano la mindfulness come componente principale 16

C.3.1.1 Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) 16

C.3.1.2 Mindfulness Based Cognitive Therapy (MBCT) 19

C.3.2 Tecniche che utilizzano la mindfulness insieme ad altre strategie 22

C.3.2.1 Dialectical Behavior Therapy (DBT) 22

C.4 La mindfulness in tre dimensioni psicopatologiche 24

C.4.1 Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) 24

C.4.1.1 Le abilità di mindfulness nel DOC e gli interventi basati sulla mindfulness 26

C.4.2 Il disturbo depressivo maggiore (DDM) 31

C.4.2.1 Le abilità di mindfulness nel DDM e gli interventi basati sulla mindfulness 34

C.4.3 Il disturbo borderline di personalità (DBP) 36

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D. Studio sperimentale 39

D.1 Scopo dell’esperimento 39

D.2 Materiale e metodi 39

D.2.1 Partecipanti 39

D.2.2 Valutazione psicologica mediante test psicometrici 40

D.3 Analisi statistiche 47

D.3.1 Selezione dei parametri psicometrici 47

D.3.1.1 Effetti di genere e età 47

D.3.1.2 Multiple Factor Analysis 48

D.4 Risultati 49

D.4.1 Effetti di genere e età 49

D.4.2 Multiple Factor Analysis 51

D.4.2.1 PCA sul dataset psicopatologico 51

D.4.2.2 PCA sul dataset mindfulness 53

D.4.2.3 Proiezione delle componenti Psicopatologia, Mindfulness1 54

e Mindfulness2 nello spazio della PCA globale D.4.2.4 Componenti della PCA globale nei tre differenti gruppi 55

D.5 Discussione e Conclusione 57

E. Appendici 61

Appendice A: Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo 61

Appendice B: Il Disturbo Depressivo Maggiore 70

Appendice C: Il Disturbo Borderline di Personalità 76

Appendice D: Questionari psicometrici 80

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4

A.

Riassunto

Lo scopo principale di questa tesi di laurea è quello di indagare, sia sul piano teorico che su quello sperimentale, le relazioni esistenti tra la capacità di mindfulness e la psicopatologia, in riferimento a tre differenti disturbi mentali: il Disturbo Depressivo Maggiore (DM), il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC), il Disturbo Borderline di Personalità (DBP).

Nella prima parte della tesi viene effettuata una revisione dei principali studi presenti in letteratura. Negli ultimi anni è stata posta molta attenzione, in ambito clinico, al costrutto psicologico della mindfulness, per questo sono stati messi a punto protocolli ad hoc per l’utilizzo clinico di tecniche meditative ed è stata valutata la possibilità di introdurle all’interno di protocolli terapeutici già esistenti.

Nella seconda parte della tesi viene descritto uno studio sperimentale che prevede la valutazione delle abilità di tratto di mindfulness in 145 soggetti clinici suddivisi nei seguenti gruppi: (i) DOC (n=48 pazienti), (ii) DM (n=50 pazienti), (iii) DBP (n=47 pazienti). I pazienti sono stati caratterizzati mediante un approccio multidimensionale basato sia sulla valutazione clinica che sui risultati dei seguenti test psicometrici: BDI II, SCL-90, TAS-20, DES-II. Inoltre, l'abilità di mindfulness è stata valutata mediante il test Five Facet Mindfulness Questionnaire (FFMQ).

I risultati degli effetti legati al genere hanno riportato che le donne rispetto agli uomini, esibivano un aumento significativo: (i) della psicopatologia generale (SCL-90), (ii) della sintomatologia depressiva (BDI-II), (iii) della dissociazione patologica (DES-II); mentre gli effetti legati all'età hanno evidenziato che i pazienti DM erano significativamente più anziani sia dei DOC che dei DBP. Inoltre, dall'Analisi delle

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5 Componenti Principali, all'interno degli item del FFMQ, sono state estratte due componenti: 1) Descrivere, Agire con Consapevolezza e Non Giudicare, 2) Osservare, Non Reagire.

Da questo lavoro di tesi emerge che i pazienti con DBP rispetto ai DM e ai DOC, erano caratterizzati da livelli più alti di psicopatologia che correlavano con una minor capacità di mindfulness, intesa come ridotta tendenza a descrivere, agire con consapevolezza ed a non essere giudicanti (prima componente). Inoltre, i pazienti DBP, rispetto alle altre due categorie di pazienti, esibivano la più bassa capacità di prestare attenzione agli stimoli interni ed esterni e avevano una minor capacità di reagire alle proprie emozioni (seconda componente). Ulteriori studi si renderanno necessari per definire, in modo più approfondito, come le abilità di mindfulness possano essere legate alle diverse condizioni patologiche, per poter mettere a punto, in ambito clinico, protocolli di tecniche meditative ad hoc da affiancare a quelli tradizionali già esistenti.

(6)

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A.

Introduzione

Negli ultimi decenni, in ambito clinico, è stata posta molta attenzione al costrutto psicologico della mindfulness e agli interventi mirati a potenziare le abilità che lo caratterizzano. Con la parola mindfulness si intende “la consapevolezza non giudicante, nel momento presente dei propri pensieri, azioni e motivazioni” ( Kabat-Zinn, 2003). E' un concetto che è stato estratto dalla psicologia orientale e affonda le sue radici nelle pratiche meditative Buddhiste, si tratta di un costrutto “multi-sfaccettato” costituito da diverse e molteplici abilità (Germer et al., 2005). Come evidenziato nei diversi studi scientifici, la mindfulness, praticata attraverso specifiche tecniche di meditazione, può avere importanti effetti tanto sulla salute fisica che mentale, sia in soggetti sani che con elementi psicopatologici. Per questo sono stati messi a punto protocolli ad hoc per l’utilizzo clinico di queste tecniche meditative, valutando anche la possibilità di introdurle all’interno di protocolli terapeutici già esistenti.

La psicopatologia, in particolare, secondo un approccio mindfulness, può esser considerata come “una mancanza di abilità di mindfulness”, che può essere appresa con opportuno training. La predisposizione individuale ad avere o meno la propensione a sviluppare un “atteggiamento mindfulness” potrebbe essere legata al background multifattoriale genetico insieme al substrato psicobiologico. Ad oggi molti studi si sono focalizzati alla comprensione degli effetti degli approcci “mindfulness-based” in diverse condizioni psicopatologiche allo scopo di identificarne i meccanismi d’azione. Tuttavia, da una accurata revisione della letteratura, solo pochi sono gli studi che hanno indagato l’abilità mindfulness in relazione alle diverse condizioni psicopatologiche.

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Alla luce di ciò, il presente lavoro ha come obiettivo quello di indagare le abilità di

mindfulness in tre condizioni psicopatologiche: i) il Disturbo Ossessivo Compulsivo,

ii) il Disturbo Depressivo Maggiore o Unipolare, e iii) il Disturbo Borderline di Personalità.

Questa tesi si suddivide in due parti: a) revisione dei principali studi presenti in letteratura sugli effetti della mindfulness nelle tre condizioni psicopatologiche; b) fase sperimentale in cui vengono indagate le relazioni tra le tre condizioni psicopatologiche e le abilità di mindfulness di tratto, ossia presenti basalmente nel soggetto.

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C. Revisione della letteratura

C.1 La Mindfulness

Il concetto di mindfulness affonda le sue origini nelle tradizioni contemplative buddhiste, in particolare nella tradizione theravada, nella quale sono contemplati due tipi di meditazione, la samatha esercitata per raggiungere “concentrazione e quiete” e la vipassana, il cui significato può essere espresso dalle parole “chiara visione” o “insight”, utilizzata per raggiungere uno stato di consapevolezza e comprensione della realtà così come appare. Elemento fondamentale di quest’ultima è il concetto di “mindfulness”, termine che deriva dalla parola “sati” dell’antica lingua Pali delle scritture buddhiste, tradotto per la prima volta in lingua inglese in un dizionario nel 1921 (Davids and Stede, 1921/2001). Tale parola può essere tradotta come “consapevolezza, attenzione e ricordo”.

Negli ultimi decenni nelle scienze occidentali è aumentato l’interesse per la pratica della consapevolezza, in particolare nell’ambito della psicoterapia, favorendo così lo sviluppo di numerose ricerche metodologiche e studi scientifici che hanno permesso di superare l’idea che le abilità di mindfulness, fossero una prerogativa riservata a poche persone, o intrinsecamente legata a credenze religiose, spirituali o culturali (Black, 2011).

Il pioniere dell’applicazione della mindfulness in ambito clinico è stato John Kabat-Zinn il quale, alla fine degli anni ’70, presso la Stress Reduction Clinic (Università del Massachusetts) ha per primo utilizzato la mindfulness in soggetti affetti da dolore cronico, elaborando uno specifico programma di intervento, la Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR). Egli ha inoltre elaborato una definizione ampiamente riconosciuta di mindfulness:

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“La consapevolezza che emerge prestando intenzionalmente attenzione, nel momento presente e in modo non giudicante al dispiegarsi dell’esperienza, momento dopo momento.”(J.Kabat-Zinn, 2003).

Più recentemente, Bishop (2004) ha proposto una nuova definizione di mindfulness:

“Autoregolazione dell’attenzione tale da mantenerla sull’esperienza presente e rendendo in tal modo possibile una maggior capacità di riconoscere gli eventi mentali nel momento presente e adottando un particolare atteggiamento nei confronti della propria esperienza, caratterizzato da curiosità, apertura, accettazione.”

Da questa definizione emergono due componenti strettamente interconnesse tra loro ed elementi fondamentali nella pratica mindfulness: (1) l’autoregolazione

dell’attenzione, ossia l’abilità di dirigere l’attenzione al momento presente, (2) l'orientamento all’esperienza, caratterizzato da curiosità, apertura e allo stesso

tempo, accettazione.

Per ultimo Shapiro (2006), ha elaborato un modello descrittivo della mindfulness in cui vengono delineati 3 “assiomi”o “componenti fondamentali” che richiamano l’iniziale definizione data da Kabat-Zinn. Si tratta di elementi che non rappresentano stadi separati, ma processi simultanei e necessari: l’intenzione (porre attenzione intenzionalmente), l’attenzione (porre attenzione al momento presente) e

l’attitudine (in modo non giudicante).

La mindfulness, rappresenta uno stato di coscienza che richiede di essere consapevolmente presenti all’esperienza, sia interna che esterna, momento per momento (Brown and Ryan, 2003). Questo stato di consapevolezza si sviluppa attraverso la pratica meditativa, grazie alla quale si diventa meno reattivi nei confronti di ciò che accade nel momento presente; rispetto alle modalità abituali è

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un modo nuovo di entrare in contatto con l’intera esperienza sia essa positiva, negativa o neutra e che offre le risorse per ridurre il livello generale di sofferenza ed accrescere il livello di benessere. È un processo psicologico che può modificare il modo in cui si risponde non solo alle sfide esistenziali quotidiane, ma alle inevitabili difficoltà della vita ed anche a problemi psicologici gravi come l’ansia e la depressione.

C.2 Mindfulness, salute fisica e mentale C.2.1 Effetti neurobiologici e cerebrali della meditazione

Evidenze sperimentali supportano il fatto che la mindfulness possa avere influenze positive sul sistema immunitario, endocrino e autonomico, portando ad una riduzione della frequenza cardiaca, della frequenza respiratoria, un’attenuata conduttanza cutanea, suggerendo quindi come i meditatori esperti siano in grado di attuare un miglior controllo emotivo sugli eventi negativi esterni rispetto alla popolazione di controllo. In meditatori esperti, infatti, è stata osservata una riduzione del rilascio di ormoni dello stress da parte del sistema endocrino, una riduzione della frequenza cardiaca, respiratoria e della conduttanza cutanea, ed infine una diminuzione del rilascio di molecole pro-infiammatorie da parte del sistema immunitario (Epel et al., 2009; Jacobs et al., 2011). Ciò suggerisce che una pratica costante di “meditazione mindfulness” possa favorire una maggior capacità di modulare le emozioni di fronte a situazioni stressanti. Altre evidenze scientifiche mostrano cambiamenti a livello cerebrale associati alla pratica meditativa. Studi con EEG sostengono che meditatori esperti hanno un’attività basale caratterizzata da onde alfa e teta più elevate, attività che generalmente è associata a condizioni di

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11 rilassamento (Aftanas and Golocheikine, 2005; Andresen, 2000; Jevning et al., 1992; Delmonte, 1985; Shuman, 1980; Woolfolk, 1975). Studi con Risonanza Magnetica (MRI), hanno mostrato che diversi tipi di meditazione promuovono modificazioni cerebrali di stato e di tratto, come ad es. un aumento dello spessore della corteccia prefrontale dorso-laterale e dell’insula (Lazar, 2005). Una modificazione a carico dell’insula assume una connotazione nucleare agli effetti della mindfulness in quanto questa regione è associata all’enterocezione e spesso coinvolta in processi emotivi tipici di patologie mentali, come tristezza, nel disgusto, nel senso di colpa, nella componente affettiva del dolore (Wright et al., 2004; Liotti et al., 2002., Casey et al., 1996). Infine, è stato visto che la meditazione porta ad un aumento di attivazione della corteccia cingolata anteriore, regione chiave a carattere integrativo inserita in un circuito che vede coinvolta l’attenzione, la motivazione e il controllo motorio (Paus, 2001). Non a caso la componente del cingolo anteriore maggiormente attivata è quella sopragenuale o dorsale, che è maggiormente associata a compiti cognitivi e attentivi (Figura 1).

Studi di neuroimaging hanno indagato anche i correlati cerebrali della mindfulness di tratto. La mindfulness di tratto, misurata con questionari auto-somministrati, è stata associata ad una ridotta attività bilaterale dell’amigdala e ad un aumento dell’attivazione della corteccia prefrontale durante compiti di riconoscimento delle emozioni (Creswell, et al., 2007). Ciò suggerisce che la mindfulness sia associata ad una migliore regolazione prefrontale delle risposte limbiche e questo spiegherebbe l’importante utilità in campo clinico. Infine, un recente studio sperimentale basato sulla Risonanza Magnetica funzionale (fMRI) ha dimostrato che la meditazione mindfulness riduce l'attivazione collegata al dolore della corteccia somatosensoriale

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12 primaria controlaterale. Ciò ne suggerisce il possibile utilizzo nella modulazione del dolore, soprattutto nelle condizioni di dolore cronico (Zeidan et al., 2011).

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13 C.2.2 Effetti della meditazione sulle funzioni cognitive

Alcune ricerche scientifiche suggeriscono come la pratica della consapevolezza induca cambiamenti significativi nelle funzioni cognitive, in particolare nell'attenzione, nella memoria e nelle funzioni esecutive (Chiesa et al., 2011). Nello specifico, la meditazione mindfulness in meditatori esperti è stata associata a migliori prestazioni dell’attenzione sostenuta, del monitoraggio del conflitto attentivo e della capacità di shift attenzionale (Chambers et al., 2008; Tang et al., 2007). Studi hanno dimostrato che un ritiro intensivo meditativo della durata di tre mesi aumenta l’abilità di attenzione durante compiti specifici e riduce il fenomeno di “attentional blink”, ossia la difficoltà ad identificare il secondo elemento nella successione rapida di due stimoli (Lutz et al., 2009; Slagter et al., 2009; Schmertz, et al., 2009; Evans, et al., 2009). Recentemente, alcuni studi hanno messo a confronto i sottoprocessi attentivi in tre gruppi di partecipanti: (i) meditatori esperti, prima e dopo un ritiro durato un mese; (ii) meditatori neofiti, prima e dopo il corso di Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) di otto settimane; (iii) soggetti di controllo testati a distanza di otto settimane. Dai risultati è emerso che sia il gruppo di meditatori esperti che i neofiti, rispetto ai soggetti di controllo, hanno esibito miglioramenti nella prova di mantenimento dell’attenzione, mentre per gli altri due tipi di attenzione non si sono evidenziati cambiamenti, dimostrando così la specificità dei risultati.

Altri studi mostrano miglioramenti dell’elaborazione visuo-spaziale (Kozhevnikov et al., 2009) e della memoria a breve termine (McVay et al., 2009; Redick et al., 2006).

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14 C.2.3 Effetti della meditazione sul benessere psicofisico

Molti studi condotti sulla meditazione hanno riportato una correlazione tra la

mindfulness e la salute fisica e mentale. La tecniche meditative sembrano poter

indurre benessere psicofisico sia agendo in maniera diretta (Kabat-Zinn, 2005; Deci and Ryan, 1985), che indiretta mediante un miglioramento delle funzioni di autoregolazione (Brown, et al., 2007; Deci and Ryan, 1985). Questi risultati sono emersi studiando studenti (Baer et al., 2006), popolazione adulta (Chadwick et al., 2008) e popolazione clinica (Walach et al., 2006). In generale, la mindfulness è stata associata ad alti livelli di soddisfazione (Brown and Ryan, 2003), piacevolezza (Thompson and Waltz, 2007), vitalità (Brown and Ryan, 2003), senso di sé (Brown and Ryan, 2003), empatia (Dekeyser et al., 2008), senso di autonomia e ottimismo (Brown and Ryan, 2003). Evidenze sperimentali hanno inoltre dimostrato che la tecnica di meditazione mindfulness correla negativamente con la sintomatologia depressiva (Brown and Ryan, 2003), nevroticismo (Dekeyser et al., 2008), dissociazione (Walach et al., 2006), reattività cognitiva (Raes et al., 2009), ansia sociale (Brown and Ryan, 2003), difficoltà nella regolazione delle emozioni (Baer et al., 2006), e altri sintomi psicologici (Baer et al., 2006).

A questo si aggiunge un crescente numero di evidenze sperimentali che supportano il ruolo terapeutico della meditazione mindfulness, in particolare verso quelle condizioni patologiche tipicamente legate allo stress, come psoriasi (Kabat-Zinn et al., 1998), diabete di tipo 2 (Rosenzweig et al., 2007), fibromialgia (Grossman et al., 2007), artrite reumatoide (Pradhan et al., 2007). Inoltre, numerose ricerche hanno mostrato come la mindfulness riduca i sintomi dello stress aumentando il benessere emotivo e la qualità della vita, sia in soggetti sani che in soggetti affetti da patologie

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croniche (Grossman et al., 2004; Ludwig and Kabat-Zinn, 2008). Sono stati dimostrati effetti benefici della meditazione mindfulness anche in soggetti con patologie cardiache, come ipertensione e ischemia del miocardio, e in pazienti con HIV (Ludwig and Kabat-Zinn, 2008). Fondamentalmente, tali effetti sembrano in parte essere dovuti ad una migliore strategia di coping verso gli eventi stressanti stessi. In altre parole, la capacità di rapportarsi all’evento stressante mettendo in atto delle strategie di adattamento e mitigando le proprie reazioni psicologiche, permette di avere una miglior risposta fisiologica, compromettendo meno tutti quei processi psicofisiologici allostatici, abitualmente attivati in risposta alla sollecitazione stressogena (Garland, 2007).

C.3 Tecniche mindfulness-based

La mindfulness, in virtù della sua influenza sulla salute fisica e mentale, ha ottenuto molta attenzione all’interno della letteratura scientifica, ciò è avvenuto soprattutto in riferimento alla sua applicazione in ambito clinico e alla possibile integrazione con tecniche psicoterapeutiche classiche.

In letteratura sono presenti moltissime evidenze sull’efficacia di questo approccio in una grande varietà di disturbi mentali. Una meta-analisi condotta su 209 studi ha concluso che questi interventi sono efficaci per molti disturbi psicologici, in particolare per la riduzione dell’ansia, della depressione e dello stress (Khoury et al, 2013). Ulteriori studi sostengono la sua efficacia nei disturbi dell’alimentazione (Baer, et al., 2005; Krhisteller and Hallett, 1999), nel dolore cronico (ad es. McCraken et al., 2007), nei disturbi da uso di sostanze (ad es. Dimeff and Koerner, 2007), nel disturbo di attenzione e iperattività (ad es. Zylowska et al., 2008; Philipsen et al.,

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2007) e ricerche preliminari ne suggeriscono un possibile utilizzo nel trattamento del distress associato a sintomi positivi delle psicosi (Chadwick, et al., 2005). Le tecniche di mindfulness attualmente riconosciute dalle pratiche di psicoterapia occidentale sono la Dialectical Behavior Therapy (DBT), l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT), Mindfulness-Based Relapse Prevention (MBRP) e la Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR).

C.3.1 Tecniche che utilizzano la mindfulness come componente principale C.3.1.1 Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR)

Il protocollo Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR, Kabat-Zinn, 1990) è forse il primo modello che introduce un’applicazione clinica della mindfulness. Tale protocollo, messo a punto a partire dal 1979 da Kabat-Zinn come trattamento ancillare nel dolore cronico, consiste di un corso di 8 settimane per gruppi formati da 15 a 40 partecipanti. L’obiettivo è quello di aiutare i soggetti a relazionarsi alla loro condizione fisica o psicologica in maniera più accettante e non giudicante. Tra le varie pratiche della mindfulness ricordiamo:

- L’esplorazione corporea: è un esercizio di 45 minuti, dove il partecipante in

posizione supina chiude gli occhi e indirizza l’attenzione in modo sequenziale a diverse parti del corpo, partendo dai piedi fino ad arrivare alla testa, osservando le sensazioni che insorgono, prestando attenzione al corpo, con consapevolezza, senza giudicare.

- Sitting Meditation: è un esercizio che consiste nel rimanere seduti, in una

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respiro in tutti i suoi dettagli e sulle sensazioni somatiche prodotte dalla sua osservazione. Non si tratta di controllare il respiro, ma di porvi particolare attenzione, nell’ispirazione così come nell’espirazione. Quando la mente si distrae e affiorano pensieri giudicanti, immagini, ricordi, emozioni, questi vanno accolti senza combatterli, senza cercare di allontanarli, senza elaborare su di essi implicazioni o significati aggiuntivi (Teasdale et al., 2002; Kabat-Zinn, 1990). Quindi bisogna osservarne il contenuto con un atteggiamento non giudicante e riportare l’attenzione sul presente, in tal senso il respiro si configura come “un’ancora”, un punto di riferimento per tornare al presente, in equilibrio e centrati su di sé (Kabat-Zinn, 1990).

- Walking Meditation: consiste nel camminare lentamente con una certa

lentezza che aiuta a percepire con nitidezza ogni fase del movimento, seguendo ad ogni passo il respiro e divenendo pienamente consapevoli delle proprie sensazioni fisiche.

- Mindfulness quotidiana: si tratta di praticare la consapevolezza del qui e ora

nella quotidianità, prestando attenzione a ciò che accade nel momento, alle sensazioni che ci pervadono durante le normali situazioni della vita di tutti i giorni. Alla settima settimana è prevista una sessione intensiva di un giorno intero chiamata “la giornata del silenzio” e dedicata al silenzio e alla meditazione.

Questo protocollo ha dato dimostrazione di efficacia nel trattamento di diversi disturbi d’ansia, in modo particolare il Disturbo d’Ansia Generalizzata, il Disturbo d’Attacchi di Panico e la Fobia Sociale. Ci sono evidenze scientifiche che dimostrano come l'utilizzo del protocollo MBSR porti ad una generale diminuzione di disagio

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18 psicologico associato a malattie croniche e ad una riduzione dello stress e un miglioramento del benessere emotivo in contesti clinici e non. Recentemente è stato dimostrato che il protocollo MBSR può aumentare la salute mentale riducendo i sintomi di stress, ansia e depressione (Fjorback et al. 2011). Un gran numero di studi hanno dimostrato che il protocollo MBSR correla con bassi livelli di rabbia (Anderson et al., 2007; Koszycki et al., 2007, Sephton et al., 2007), di distress psicologico generale e di stress percepito (Bränström et al., 2010; Nyklíček & Kuipers, 2008; Oman et al., 2008, Shapiro et al., 2005; Astin, 1997), e una riduzione di ruminazioni (Anderson et al., 2007; Jain et al., 2007). Inoltre, l’MBSR aumenta le emozioni positive (Bränström et al., 2010; Nyklíček and Kuijpers, 2008; Anderson et al., 2007), la capacità empatica (Shapiro et al., 1998), la soddisfazione e la qualità di vita (Grossman et al., 2010; Nyklíček and Kuijpers, 2008; Koszycki et al., 2007; Shapiro et al., 2005).

Gli effetti della MBSR si associano anche a modificazioni biologiche come quelle dell’attività cerebrale mediante fMRI: a) ad es. Davidson et al., nel 2003 hanno identificato un aumento di attività nelle regioni frontali sinistre, suggerendo un effetto sulla elaborazione di emozioni positive; b) Farb et al., nel 2007 hanno messo in evidenza un aumento dell’attività in regioni cerebrali implicate nella focalizzazione sull’esperienza presente; c) Ochsner and Gross nel 2008 e Farb et al., nel 2010 hanno identificato una diminuzione di attività proprio in quelle regioni coinvolte nella rivalutazione e nell’elaborazione concettuale, il cui effetto dovrebbe condurre ad una riduzione della ruminazione mentale.

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C.3.1.2 Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT)

La Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT, Segal et al., 2002) rappresenta un intervento psicologico sviluppato nella cornice teorica delle teorie dell’information processing (Teasdale et al., 1995), che integra aspetti della terapia cognitivo-comportamentale con componenti del trattamento MBSR. È un trattamento breve, manualizzato, di otto sedute settimanali di gruppo, a cui si aggiungono una fase di valutazione, informazione e motivazione, condotta in colloquio individuale e quattro incontri di follow-up nell’anno successivo al trattamento. Questo protocollo si è dimostrato estremamente efficace nel ridurre le ricadute depressive nella Depressione Maggiore Unipolare, nasce infatti come specificamente mirato a intervenire su alcuni processi di vulnerabilità identificati dalla ricerca cognitivista come elementi causali di una ricaduta. In generale insegna “la capacità di riconoscere

e disconnettersi da stati mentali caratterizzati da pattern auto-perpetuanti di pensiero negativo e ruminativo” (Segal et al., 2002). Inoltre, promuove nel paziente

una posizione di apertura, curiosità, accettazione verso l’esperienza piuttosto che un atteggiamento di “evitamento esperienziale”. L’obiettivo principale è quello di aiutare i pazienti a divenire più consapevoli dei contenuti cognitivi e delle emozioni negative che possono innescare dei circoli viziosi che conducono ad un peggioramento del contenuto dei pensieri e dell’umore e a rispondervi in modo diverso. Ciò si discosta dalla terapia cognitiva classica, dove il focus è sul contenuto dei pensieri e sulla rivalutazione del loro significato. Nella MBCT, infatti, i pazienti imparano a distaccarsi dalle ruminazioni e dai pensieri negativi, a osservarli da una prospettiva diversa attraverso la pratica dell’accettazione e del lasciar essere, in modo da prevenire i futuri episodi depressivi. L’aumentata capacità di osservare gli

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eventi mentali mentre si verificano porta allo sviluppo della consapevolezza meta-cognitiva e ciò favorisce l’insight, ossia la capacità di comprendere le relazioni tra pensieri-emozioni-stati corporei.

L’efficacia della Mindfulness-Based Cognitive Therapy per la depressione ricorrente è stata inizialmente valutata da due studi randomizzati controllati. Uno studio multicentrico (Teasdale et al., 2000) ha assegnato in modo randomizzato 145 pazienti, con una storia clinica di due o più episodi depressivi in remissione da almeno tre mesi e che non assumevano antidepressivi, a due condizioni sperimentali: un programma di MBCT e un trattamento tradizionale (ad es., medico di base, trattamento di aiuto all’occorrenza, ecc.). Ad un follow-up di 60 settimane è stato osservato che la MCBT ha significativamente ridotto il tasso di ricadute (relapse) in pazienti con tre o più episodi depressivi precedenti (40% vs 66% trattamento tradizionale). Questo risultato è stato recentemente confermato da uno studio (Ma and Teasdale, 2004) effettuato su un campione di 73 soggetti mediante follow-up a un anno: i risultati di questo studio indicano che solo il 36% dei pazienti trattati con MBCT ha presentato almeno una ricaduta a fronte del 78% del gruppo sottoposto al trattamento tradizionale. Una prima revisione sistematica della letteratura sull’utilizzo della MBCT come trattamento preventivo nella ricaduta nel disturbo depressivo maggiore ha concluso che la MBCT rappresenta un presidio terapeutico da associare ai trattamenti convenzionali in pazienti che in anamnesi presentavano tre o più episodi depressivi (Coelho et al., 2007). Ulteriori ricerche hanno fornito evidenze sull’efficacia della MBCT su sintomi pre-e-post evento depressivo, in soggetti con remissione parziale o completa (Britton et al., 2010, Crane et al., 2008; Kingston et al, 2007). Dati preliminari suggeriscono la possibilità

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di trattare con MBCT anche pazienti con sintomi depressivi in corso (Manicavasgar, et al., 2011; Mathew et al., 2010; Barnhofer et al., 2009; Eisendrath et al, 2008; Kenny and Williams, 2007) o con depressione caratterizzata da grave ideazione suicidiaria (Williams et al., 2006; Lau et al., 2004).

Altri studi si sono focalizzati sulla possibile applicazione della MBCT ad altri disturbi psicopatologici. Ad oggi, grazie anche ai risultati ottenuti da recenti meta-analisi (Hofmann et al., 2010), la MBCT è stata applicata in altri disturbi clinici, ad esempio nel Disturbo Bipolare per la riduzione dei livelli di ansia e dell’umore depresso (Miklowitz et al., 2009; Williams et al., 2008) oppure nel Disturbo d’Ansia Generalizzata per la riduzione dei sintomi residui (Kim et al., 2009; Craigie et al., 2008; Evans et al., 2008) e nella Fobia sociale (Piet et al., 2010). Inoltre, alcuni studi non controllati sostengono iniziali evidenze per l’utilizzo della MBCT nel trattamento della Depressione Maggiore Resistente (Eisendrath et al., 2008; Kenny and Williams, 2007), dell’Insonnia (Ong et al., 2008; Yook et al., 2008; Heidenreich et al., 2006) e del Bing Eating Disorder (Baer et al., 2006; Baer, et al., 2005). L’assenza di un controllo statistico rende necessario disegnare studi clinici controllati al fine di confermare le appena enunciate evidenze empiriche.

Per quanto attiene il protocollo MBCT, sia per il Disturbo Bipolare o per il Disturbo Depressivo Resistente non è richiesto un adattamento del programma originale (Williams et al., 2008; Kenny and Williams, 2007), mentre per pazienti affetti da altri disturbi (in particolare appartenenti alla sfera ansiosa) vengono effettuati degli specifici adattamenti: ad esempio l’inclusione di una psicoeducazione sulle specifiche relazioni tra pensieri, emozioni e comportamenti nei pazienti con

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diagnosi di Disturbo d’Attacchi di Panico o di Disturbo d’Ansia Generalizzato (Kim et al., 2009; Evans et al., 2008).

In conclusione, una recentissima meta-analisi sull’efficacia della MBCT in pazienti psichiatrici (Chiesa and Serretti, 2011) mette in evidenza che: a) l’utilizzo della MBCT in aggiunta ai trattamenti classici riduce la ricaduta depressiva in pazienti con depressione maggiore rispetto al solo trattamento standard, b) l’utilizzo della MBCT e la graduale interruzione degli antidepressivi è associata a tassi di recidiva dopo un anno simili a quelli che si ottengono con la terapia di mantenimento con antidepressivi, c) la MBCT ha un effetto additivo rispetto ai trattamenti classici per la riduzione dei sintomi depressivi residui in pazienti con depressione maggiore, riduce l’ansia in pazienti con Disturbo Bipolare in remissione.

Tuttavia gli studi sulla MBCT, presentano alcuni importanti bias metodologici; 1) la mancanza di una randomizzazione controllata; 2) l’esiguità dei campioni studiati; 3) l’assenza di gruppi di controllo, in modo da distinguere gli effetti specifici da quelli non specifici.

C.3.2 Tecniche che utilizzano la mindfulness insieme ad altre strategie C.3.2.1 Dialectical Behavior Therapy (DBT)

Si tratta di un protocollo cognitivo-comportamentale elaborato da Linehan nel 1993 per intervenire su specifici comportamenti che caratterizzano il Disturbo Borderline di Personalità. Consiste in tecniche cognitivo-comportamentali associate ad un training mirato ad aumentare le abilità in quattro domini: mindfulness, efficacia interpersonale, regolazione emotiva e tolleranza allo stress. L’intervento, inoltre, si struttura su quattro componenti: psicoterapia individuale settimanale,

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sedute di gruppo, consultazione telefonica al bisogno e incontri settimanali di intervisione tra i terapeuti. L’obiettivo è quello di aiutare il paziente ad aumentare l’accettazione e ridurre l’evitamento delle emozioni difficili attraverso comportamenti autolesivi. La mindfulness in questo protocollo è concettualizzata in sette abilità “nucleari” ossia essenziali per praticare tutte le altre abilità. Un’abilità definita “mente saggia”, ossia uno stato mentale che rappresenta una via di mezzo tra l’eccessiva razionalità e l’eccessiva emotività. Tre abilità di contenuto, che descrivono le azioni che la persona intraprende quando pratica la mindfulness: 1)

Osservare, ossia la percezione dell’esperienza interna o esterna senza l’aggiunta di

concetti o categorie; 2) Descrivere, ossia aggiungere un’etichetta verbale puramente descrittiva a ciò che si osserva; 3) Partecipare, ossia entrare pienamente e completamente dentro l’esperienza. Tre abilità formali; 1) assumere un

atteggiamento non giudicante 2) concentrarsi su una sola cosa alla volta 3) essere efficace, ossia fare solo ciò che è necessario ad ottenere l’obiettivo desiderato. Studi

che hanno valutato gli effetti del trattamento hanno concluso che la DBT può essere efficace per ridurre in soggetti borderline la frequenza e gravità dei parasuicidi e comportamenti autolesivi (Linehan et al., 2006; Verheul, 2003; Koons et al., 2001) e riduce il numero di ospedalizzazioni e l’abuso di sostanze. Protocolli modificati di DBT sono stati utilizzati anche in disturbi del comportamento alimentare (Telch et al., 2001) e nella depressione cronica in anziani (Lynch et al., 2003).

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24 C.4 La mindfulness in tre dimensioni psicopatologiche

Essendo lo scopo sperimentale di questo lavoro di tesi mirato a valutare le abilità di

mindfulness in tre condizioni psicopatologiche distinte, il Disturbo

Ossessivo-Compulsivo, il Disturbo Depressivo Maggiore e il Disturbo Borderline di Personalità, i prossimi paragrafi saranno dedicati alla descrizione degli effetti della mindfulness nell'ambito delle psicopatologie suddette.

C.4.1 Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC)

Il disturbo ossessivo-compulsivo è caratterizzato da un’attività continua che occupa il soggetto per buona parte del suo tempo e che si esprime sul piano mentale e/o comportamentale attraverso ossessioni e compulsioni. Le ossessioni sono idee (ad es., idee di contaminazione), immagini (ad es., immagini di scene immorali), impulsi (ad es., impulso a comportamenti violenti) che si presentano ripetitivamente e vengono vissute come intrusive e inappropriate, causando ansia e disagio. L’individuo risponde con le compulsioni, ossia comportamenti (come lavarsi le mani, controllare, riordinare), o azioni mentali (come pregare, contare, effettuare rituali mentali), che hanno il fine di alleviare il disagio o di prevenire eventi o situazioni temute (Rachman et al., 2005). Questo disturbo è stato classificato nella categoria dei disturbi d’ansia nella quarta edizione del “Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali” (DSM IV-TR, APA, 2000), ma con lo sviluppo del recente approccio dimensionale ai disturbi psichiatrici esso è attualmente incluso nello spettro “Obsessive-Compulsive and Related Disorders” del DSM-V, APA, 2013. Si tratta di una condizione patologica che può assumere manifestazioni cliniche eterogenee; sono stati infatti identificati diversi sottotipi che possono differire tra loro per i processi

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25 psicologici implicati e per i contenuti delle ossessioni e compulsioni. Per i criteri diagnostici e approfondimento della psicopatologia si rimanda alla Appendice A. Tra gli interventi più efficaci per il DOC la Terapia Cognitivo Comportamentale (National Institute for Clinical Excellence Guidelines for the treatment of OCD - NICE, 2005) rappresenta il “gold standard” psicoterapico. Questa tecnica prevede l’esposizione del paziente a situazioni ansiogene, adeguatamente graduate e la prevenzione del comportamento compulsivo, unita a strategie di ristrutturazione cognitiva. Questo trattamento ha mostrato la sua efficacia nel 75% dei pazienti trattati, con il mantenimento dei risultati in studi di follow up (Menzies and De Silva, 2003). Tuttavia sia una percentuale significativa di drop-out (25%) che pazienti con ossessioni pure rendono la Terapia Cognitiva Comportamentale non scevra da insuccessi (Kyrios, 2003). Oltre alle terapie psicologiche, sono efficaci, soprattutto nei pazienti più gravi, gli interventi farmacologici, in particolare con antidepressivi SSRIs, anche se alcuni studi hanno dimostrato percentuali di ricaduta del 80-90% in seguito alla sospensione della terapia farmacologica (Pato et al., 1998). Recentemente è stata valutata la possibilità di integrare i programmi di trattamento standard con gli interventi basati sulla mindfulness, in modo da migliorarne l’efficacia. Questa integrazione porta come vantaggio un approccio più “olistico”, non focalizzato esclusivamente sui sintomi primari, ma che tratta l’intera persona e che promuove un nuovo stile mentale e un diverso approccio all’esperienza interna-esterna dell’individuo (Didonna, 2012). Il DOC secondo un approccio mindfulness può essere concettualizzato come uno stato di grave “mindlessness” ossia come una carenza di abilità o fattori di tratto, collegata agli aspetti fenomenologici del disturbo.

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26 C.4.1.1 Abilità di mindfulness nel DOC e interventi basati sulla mindfulness In un recente studio, Didonna e Bosio hanno somministrato il questionario multifattoriale Five Facet Mindfulness Questionnaire (FFMQ, Baer et al., 2006) ad un gruppo di pazienti DOC e ad un gruppo di controllo. Questo questionario valuta la capacità generale o di tratto ad avere una modalità mindfulness nella vita quotidiana, definita attraverso cinque fattori: osservare, descrivere, agire consapevolmente, non giudicare l’esperienza interna e non reagire agli stati interni (per approfondimento vedi appendice D). I pazienti DOC hanno ottenuto punteggi più bassi in tre fattori: 1) agire con consapevolezza, 2) non reattività agli stati interni 3) non giudicare l’esperienza interna. Quest’ultima si è inoltre mostrata correlare inversamente con la gravità della sintomatologia ossessiva. Secondo gli autori di questo studio questi deficit sono collegabili ad alcune caratteristiche cliniche o bias presenti nel disturbo, che quindi si presume vengono influenzate positivamente dal training di mindfulness esperito attraverso l’intervento mindfulness based. Tuttavia, poche ricerche scientifiche si sono focalizzate sui meccanismi d’azione della mindfulness nel DOC.

Ruminazione ossessiva: si tratta di un processo meta-cognitivo reattivo, non è un’esperienza passiva, ma consiste nel “far girare in continuazione la mente” e quindi non può essere un’ossessione, ma piuttosto rappresenta un’attività cognitiva compulsiva eseguita in risposta a un pensiero ossessivo (De Silva, 2003). La ruminazione è “un comportamento mentale” (Didonna, 2012) contribuisce al mantenimento del disturbo aumentando i livelli d’ansia, di stress e di disagio emotivo. In tal senso gli interventi che utilizzano la mindfulness sono utili perché rappresentano un “addestramento mentale finalizzato a ridurre la vulnerabilità

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27 cognitiva alle modalità reattive della mente” (Didonna, 2012), ossia promuovono un controllo intenzionale dell’attenzione e una modalità cognitiva diversa e incompatibile con i fattori di mantenimento del disturbo. Attraverso il training di mindfulness, infatti, il paziente impara a stare a contatto con i pensieri intrusivi senza reagirvi in modo disfunzionale.

Senso di responsabilità ipertrofico: rappresenta una caratteristica cognitiva di base nel DOC (OCCWG, 1997), l’individuo si sente in dovere di prevenire ogni possibile danno o colpevole nell’averlo determinato. La pratica della consapevolezza, in questo caso, aiuta il paziente a divenire più consapevole del suo reale coinvolgimento nella situazione problematica e quindi a sviluppare un reale e funzionale senso di responsabilità.

Bias attentivi: ci sono alcune caratteristiche attentive del disturbo che possono essere interpretate come deficit di mindfulness. Alcuni studi dimostrano che nel DOC è presente un bias attentivo relativo alla minaccia (Lavey et al., 1994), caratterizzato da un’incapacità a inibire informazioni irrilevanti e da un’incapacità a distrarsi da stimoli rilevanti per la minaccia stessa (Amir and Kozak, 2002). Più in generale, la difficoltà riguarda la capacità di autoregolazione dell’attenzione, la quale fa si che l’individuo sia focalizzato sui contenuti mentali per lui rilevanti e incapace di spostare l’attenzione su elementi che, se presi in considerazione, potrebbero non confermare l’importanza stessa che egli attribuisce alle proprie paure. La mindfulness in quanto pratica di attenzione consapevole può migliorare questi deficit attentivi attraverso un auto regolazione del focus attentivo sull’esperienza immediata.

Fusione pensiero azione: questo meccanismo di pensiero tipico del DOC fa seguito all’importanza eccessiva data ai pensieri e consiste nel considerare il

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28 pensiero come una rappresentazione fedele e permanente della realtà e del sé. Avviene cioè una sorta di identificazione con la propria esperienza interna (Didonna, 2012). Un approccio basato sulla mindfulness, in questo caso, può essere utile in quanto permette un processo metacognitivo di decentramento e “disidentificazione mentale” (Marlatt and Kristeller, 1999) dai propri pensieri, che vengono visti come eventi mentali passeggeri privi di un effetto diretto e permanente sulla realtà.

Non Accettazione: caratterista fondamentale del disturbo è la difficoltà ad accettare esperienze potenzialmente normali sperimentandole senza il tentativo di neutralizzarle. Il soggetto con DOC, infatti, si trova a vivere pensieri, emozioni negative (ansia, disgusto, vergogna, colpa), sensazioni corporee, che vive come una minaccia al proprio sistema di convinzioni e valori e quindi cerca di neutralizzarle, evitarle, annullarle, attraverso le compulsioni. La mindfulness in questo caso promuove “l’accettazione non giudicante” delle esperienze emotive e cognitive così come si presentano; promuove un atteggiamento auto-osservativo che permette di riconoscerle, osservarle e aumenta la disponibilità ad esperirle senza operare su di esse valutazioni secondarie (es., giudizi, inferenze, ecc.).

Dubbi ossessivi e auto invalidazione: una caratteristica presente nel paziente con DOC è la scarsa fiducia nella propria memoria o la scarsa percezione di “vividezza” delle proprie memorie (Constans et al., 1995; McNally and Kohlbeck, 1993). Ciò si verifica soprattutto nel sottotipo “checkers” ossia dove sono presenti compulsioni e comportamenti di controllo e ricontrollo senza necessità, legati al dubbio ossessivo di aver fatto qualcosa di male e non ricordarlo (commissione), o di non aver fatto il possibile per prevenire qualunque eventuale catastrofe (omissione). Ad esempio, questi soggetti possono avere il dubbio ossessivo di non aver chiuso il gas, o spento la luce e controllano e ricontrollano in continuazione, senza “validare”

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29 la loro esperienza sensoriale e percettiva. Questa mancanza di fiducia si può presentare sotto tre forme diverse: scarsa fiducia per la memoria delle azioni, scarsa fiducia nell’abilità di discriminare immaginazione e azioni reali e infine bassa fiducia nell’abilità a mantenere concentrata l’attenzione (Hermans et al., 2003). Inoltre, si manifesta soprattutto durante gli eventi ansiogeni che attivano le ossessione e in misura minore negli altri momenti (Foa et al., 1997). Secondo Rapaport (1989) il dubbio ossessivo suggerisce che i soggetti abbiano perso la capacità di “sapere se sanno qualcosa”essi infatti dimostrano una scarsa fiducia nell’esperienza cognitiva che può dipendere da un bias cognitivo nell’elaborazione e/o nell’uso dell’informazione sensoriale connessa con le situazioni che tendono a generare le cognizioni ossessive, tale bias può essere definito “auto-invalidazione dell’esperienza percettiva”. Per “validazione”si intende il “dare valore di realtà e oggettività a ciò che la persona percepisce rendendo la consapevolezza di tale esperienza gerarchicamente sovraordinata nell’attivazione di emozioni e comportamenti del soggetto” (Didonna, 2012). Sempre Didonna, nel 2005 ha elaborato una specifica tecnica, la “validazione dell’esperienza percettiva”, che utilizza la mindfulness come mezzo per prestare attenzione consapevolmente all’esperienza sensoriale e percettiva, considerandola reale, oggettiva e in questo modo impedire l’attivazione del dubbio ossessivo

Evitamento: nel DOC i comportamenti di evitamento e le compulsioni sono conseguenti all’intolleranza verso l’esperienza interna negativa e giocano un ruolo centrale nel disturbo. Il soggetto è incapace di stare in contatto diretto con i suoi stati interni e tende a giudicarli, a neutralizzarli, a reagirvi ed evitarli. Alcuni autori hanno proposto di integrare la procedura comportamentale di “esposizione e prevenzione della risposta” (ERP) con la mindfulness, definendo la tecnica dell’

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30 “esposizione consapevole” (ad es., Wilhelm and Stekeete, 2007; Hannan and Tolin, 2005)

A riguardo dell’efficacia del trattamento MBCT per il DOC attualmente in letteratura non sono disponibili molte evidenze. Tuttavia alcuni studi hanno evidenziato risultati positivi e significativi utilizzando varie forme di intervento adattate a questa patologia. Uno studio pilota del 2008 ha testato gli effetti del training di mindfulness sui sintomi ossessivi-compulsivi in una popolazione non clinica di studenti e ha concluso che l’intervento mindfulness riduce i sintomi DOC e ciò può essere spiegato dall’aumentata capacità “di lasciar andare” i contenuti mentali senza identificarvisi (Hanstede et al., 2008). In un’altra ricerca (Fairfax et al., 2008) è stata valutata la possibilità di integrare il training di mindfulness con i trattamenti esistenti e validati per il DOC concludendo che, se applicata adeguatamente, la mindfulness non solo completa gli interventi tradizionali, ma può anche aumentarne l’efficacia e incrementare la prevenzione della ricaduta. Uno studio del 2010 condotto su tre soggetti con DOC sottoposti a un training di sei sessioni di mindfulness ha descritto le abilità di mindfulness (in particolare l’osservazione, la consapevolezza, l’accettazione), come utili nella gestione del bias fusione-pensiero azione e dei tentativi di soppressione del pensiero, (Wilkinson et al., 2010). Un’altra ricerca ha sottolineato l’utilità della mindfulness in associazione a brevi esposizioni a pensieri ossessivi, (Whal et al., 2013).

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C.4.2 Il Disturbo Depressivo Maggiore (DM)

La depressione maggiore o disturbo depressivo unipolare è un disturbo altamente invalidante e con alta prevalenza nella popolazione. Secondo la World Health Organization (WHO, 1992) rappresenta la malattia mentale più diffusa e in continua crescita; è stimato che circa un terzo della popolazione soffre di depressione lieve nell’arco della vita. Questo disturbo viene classificato tra i disturbi dell’umore all’interno del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV-TR, APA, 2000). Il tono dell’umore è il correlato emotivo di fondo della nostra attività mentale e può essere rappresentato come un continuum i cui poli opposti sono la depressione e la mania. Nel disturbo depressivo possono presentarsi uno o più episodi depressivi maggiori in assenza di episodi maniacali, ipomaniacali o misti. Varie componenti, di natura cognitiva, emotiva, comportamentale, motivazionale e ambientale, biologica e sociale, agiscono sulle variazioni dell’umore, intrecciando la loro influenza. Tuttavia in alcuni casi, la variazione dell’umore può essere tale da inficiare le normali capacità funzionali dell’individuo e la sua abilità ad adattarsi alla vita sociale e quindi determinare un vero e proprio disturbo. Si tratta di una condizione di profondo umore depresso, bassa autostima, perdita di interesse anche per attività considerate precedentemente piacevoli (anedonia), sensazione di disperazione (“Holpelessness”, Abramson et al, 1989) e convinzione che sia impossibile essere compresi nella propria sofferenza e aiutati (“Helplessness”, Seligman, 1975). Inoltre, è presente una costellazione di sintomi somatici, cognitivi, emozionali, comportamentali. La sintomatologia somatica riguarda: disturbi del sonno, disturbi dell’appetito con conseguente aumento o diminuzione di peso, affaticamento e astenia, sintomi gastrointestinali (ad es., nausea, costipazione, ecc.),

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32 dolori diffusi (ad es., cefalea). La sintomatologia emozionale invece riguarda: irritabilità e preoccupazione, anedonia, perdita di energia, di vitalità, di speranza, sensazioni di “tristezza vitale” e senso di inutilità e di colpa, mancata reattività dell’umore a eventi positivi. Dal punto di vista comportamentale si osserva un rallentamento psicomotorio e dell’eloquio, tendenza all’isolamento, al pianto, diminuzione del desiderio e attività sessuale, trascuratezza personale, interpersonale e lavorativa. La sintomatologia cognitiva, infine, si caratterizza per una forte negatività riguardo se stessi, il mondo, il futuro. Queste caratteristiche sono state concettualizzate da Beck, nel suo modello cognitivo degli anni ’70, con il termine “triade cognitiva”. Secondo Beck infatti i sintomi depressivi sono il risultato di modalità processuali di elaborazione dell’informazione distorte e irrealistiche, ossia caratterizzate da “bias cognitivi negativi”. In particolare, egli individua schemi depressogeni, distorsioni cognitive, e pensieri automatici negativi, come elementi di vulnerabilità e di sviluppo della patologia depressiva, ossia elementi che mantengono la triade cognitiva. Altre caratteristiche cognitive dei soggetti depressi sono i pensieri pessimistici ricorrenti o “ruminazioni depressive”, pensiero catastrofico connotato da sentimenti di colpa e paure esagerate che possono arrivare al “delirio di rovina”, disperazione, pensieri di morte e suicidio ed infine difficoltà di concentrazione, nella presa di decisioni e perdita di memoria. Il disturbo depressivo maggiore nella sua fase acuta viene trattato con successo attraverso strumenti farmacologici (per esempio antidepressivi) e/o psicoterapeutici, tuttavia spesso permangono alti livelli di sintomi residui e alte probabilità di ricorrenza (Rush et al., 2006). Il rischio di un nuovo episodio aumenta in modo drammatico con l’aumentare del numero di episodi precedenti (ad es., Solomon et al., 2000): indicativamente si parla del 50% dopo il primo episodio depressivo, del 70% dopo il secondo e circa il 90% con il

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33 terzo episodio (DSM-IV-TR, APA, 2000). Come viene riferito nel DSM-V (APA, 2013) “The risk of recurrence becomes progessively lower over time as the duration of remission increases” tuttavia ”The risk is higher in individuals whose preceding episode was severe, in younger individuals, and in individuals who have already experienced multiple episodes”. Quindi questa elevata probabilità di sviluppare ulteriori episodi nel corso della vita, per chi ha già avuto in precedenza un episodio depressivo, rappresenta un importante fattore di vulnerabilità alla ricaduta. Inoltre, il primo episodio depressivo sembra essere maggiormente legato a eventi di vita negativi, ma questa associazione ha un ruolo minore nello scatenare gli episodi successivi, i quali sembrano attivarsi in modo più autonomo o a seguito di fattori stressanti minori (Monroe and Harkiness, 2005).

Da ciò emerge la necessità di individuare e chiarificare i fattori di vulnerabilità che intervengono nel determinare ricorrenza e intervenire su questi con meccanismi specifici. In particolare durante un episodio depressivo il basso livello di umore coesiste con pensieri negativi, con altre emozioni dolorose e con sensazioni corporee spiacevoli. Quando l’episodio si risolve questo insieme sintomatologico scompare, ma le persone rimangono vulnerabili a piccoli cambiamenti d’umore o stati disforici e quando questi si verificano scatenano un’escalation di pensieri e sentimenti che porta ad una riattivazione dell’episodio depressivo. Questo fattore di vulnerabilità alla ricorrenza può esser definito “reattività cognitiva”. Ciò è ben spiegato dalla teoria dell’attivazione differenziale, secondo la quale tra un episodio depressivo e l’altro si formano particolari “pattern di risposta” o associazioni tra basso livello di umore, emozioni (ad es., rabbia), contenuti cognitivi (ad es., pensieri disfunzionali) e comportamenti (ad es. passività), (Segal et al., 1996). Queste associazioni rimangono stabili nel tempo per lo stesso individuo, ma differiscono tra

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34 individuo e individuo e rappresentano una forma specifica di ricaduta. Inoltre, attraverso la co-attivazione, queste modalità si rafforzano divenendo sempre più coerenti e con una ridotta soglia di attivazione, ciò spiega l’incremento della probabilità di ricorrenza dopo ogni episodio e la ridotta associazione tra eventi negativi di vita e episodi depressivi. In questo meccanismo svolgono un ruolo importante anche le “ruminazioni” e gli “evitamenti” i quali rappresentano fattori di vulnerabilità alla ricorrenza, ma sono al contempo anche importanti fattori di mantenimento del disturbo stesso. Le ruminazioni sono pensieri ripetitivi, negativi, astratti, focalizzati sui propri sintomi e sulle loro conseguenze (Nolen-Hoeksema, 2004), che il soggetto crede essere adeguate strategie di coping ma in realtà compromettono le strategie di coping stesse, la capacità di risolvere i problemi interpersonali (Watkins and Moulds, 2005) e aumentano la tendenza al pensiero negativo provocando un ulteriore peggioramento del livello dell’umore. Inoltre, il soggetto può anche cercare di sopprimere i pensieri negativi attraverso una forma di evitamento cognitivo ma ciò, paradossalmente, aumenta la frequenza di intrusioni (Wenzlaff and Wegner, 2000) e preclude l'habituation ai contenuti mentali disturbanti per la mancata esposizione e il coinvolgimento in forme più attive di problem solving.

C.4.2.1 Le abilità di mindfulness nel disturbo depressivo e gli interventi basati sulla mindfulness

Nella letteratura scientifica, fino ad oggi, pochi studi si sono occupati della delle abilità di mindfulness di tratto nella depressione. Una ricerca del 2013 di Paul et al., ha esaminato come i fattori di tratto della mindfulness, laddove sono maggiormente presenti, rappresentino dei fattori di protezione rispetto ai “bias cognitivi negativi”

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35 presenti nell’interpretazione degli stimoli e nei contenuti attentivi e mnesici e rispetto alle ruminazioni. In particolare, è stata trovata una significativa correlazione inversa tra queste due manifestazioni cliniche e l’abilità di tratto di “Non reagire all’esperienza interiore“ del Five Facet Mindfulness Questionnaire. Questa abilità è stata vista anche correlare inversamente con l’attivazione dell’insula anteriore, regione legata alle risposte emotive automatiche in condizioni di stress. Ciò suggerisce che un aumento di mindfulness in soggetti depressi possa portare ad una diminuzione dei pensieri ruminativi, dei bias cognitivi e più in generale delle risposte emozionali automatiche. Gli interventi orientati alla mindfulness nel disturbo depressivo maggiore sono stati utilizzati soprattutto per incrementare la prevenzione della ricorrenza tra episodi depressivi. La MBCT sembra proprio mirata a intervenire sui fattori di vulnerabilità alla base della ricorrenza; infatti agisce riducendo la reattività cognitiva (Raes et al., 2009) e portando ad un aumento del processo meta-cognitivo che rende consapevole il soggetto delle relazioni umore-pensieri-emozioni-comportamenti e dei pattern di risposta che generano la ricorrenza. Il soggetto, inoltre, impara a modificare la modalità di relazione e di reazione a questi elementi, accettandoli senza cercare di risolverli. Questo determina una diminuzione dell’attività cognitiva ruminativa (Shahar et al., 2010), un aumento di mindfulness e auto-compassione (Kuyken et al., 2010) e una riduzione degli evitamenti cognitivi ed esperienziali.

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C.4.3 Il Disturbo Borderline di Personalità (DBP)

Il Disturbo Borderline è un disturbo di personalità, quest’ultima è “una modalità strutturata di pensieri, sentimento e comportamento, che influenza il tipo di adattamento e lo stile di vita del soggetto e risulta da fattori costituzionali, di sviluppo e dall’esperienza sociale dell’individuo”, (WHO, 1992). Quando la modalità di percepire, reagire e rapportarsi a se stessi e agli altri si discosta marcatamente dalle attese dell’ambiente culturale della persona diventando pervasiva, inflessibile e causando disagio e sofferenza marcati, allora si tratta di un disturbo. Il Borderline è stato incluso nell’asse II del DSM-IV-TR (APA, 2000) e precisamente nel cluster B. Si tratta di una condizione di preminente e pervasiva disregolazione delle emozioni, del

comportamento e dei pensieri. Il soggetto borderline mostra infatti una forte instabilità nell’immagine di sé, nell’umore e nelle relazioni con gli altri, il tutto

accompagnato da una forte impulsività che si manifesta in comportamenti potenzialmente dannosi (ad es., abuso di sostanze), tentativi autolesionistici e minacce di suicidio, scoppi di rabbia immotivata e intensa, con forte incapacità nell’autoregolazione. Inoltre, chi è affetto da disturbo borderline sperimenta forti paure di abbandono che possono essere attivate da eventi reali o immaginati, ma che, in ogni caso, scaturiscono intense reazioni e sforzi disperati per evitarle. Anche ideazioni paranoidi, stati dissociativi legati allo stress e sentimenti cronici di vuoto, sono caratteristici di questo disturbo. Per approfondimento sulla psicopatologia e criteri diagnostici vedi Appendice C. Sono stati elaborati molti modelli che spiegano lo sviluppo e mantenimento della sintomatologia borderline, tra questi è importante citare il modello “biosociale” di Linehan secondo il quale il nucleo centrale del disturbo è la disregolazione emotiva. Questa disregolazione si svilupperebbe nel

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corso del tempo attraverso una compartecipazione di aspetti biologici o temperamentali e un ambiente “invalidante”, ossia che tende a non riconoscere, e quindi invalidare, gli aspetti emotivi del soggetto, ignorandoli, punendoli o tentando di correggerli. Detto ciò la sintomatologia del DBP si configurerebbe come una conseguenza inevitabile delle emozioni disregolate, o come un tentativo di regolare le emozioni negative. Inoltre Linehan (1993) definisce tre caratteristiche emotive dei soggetti borderline: 1) una più bassa soglia di risposta agli stimoli emotivi rispetto a soggetti sani; 2) una maggior reattività, ossia risposte emotive più rapide e intense; 3) un ritorno al livello emotivo di base più lento, dopo emozioni intense. Il trattamento del disturbo borderline deve fare i conti con la frequente tendenza ad abbandonare la terapia e a compiere atti autolesionistici o pericolosi per salute. Il trattamento elettivo richiede un’integrazione tra approcci farmacologici (ad es., antidepressivi, stabilizzanti dell’umore, neurolettici atipici, ecc.) e psicoterapeutici. Orientamenti terapeutici diversi hanno realizzato differenti tipi di terapie per la cura specifica di questo disturbo, tra i principali quello psicoanalitico e psicodinamico, della psicoterapia della Gestalt e infine cognitivo-comportamentale.

C.4.3.1 Le abilità di mindfulness nel DBP e gli interventi basati sulla mindfulness

Elevati livelli di mindfulness sono stati associati a bassi livelli di nevroticismo e ad elevate capacità di regolazione emotiva. Ciò ha suggerito la possibilità di riscontrare basse abilità di mindfulness in soggetti con DBP. Infatti Baer et al., nel 2004 hanno osservato che pazienti con DBP ottengono punteggi più bassi in mindfulness rispetto ad un gruppo di controllo di studenti universitari. Wupperman et al., 2008

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ha trovato una correlazione inversa tra caratteristiche di mindfulness e caratteristiche borderline in un campione di 342 soggetti non clinici, risultato replicato nel 2009 su un campione psichiatrico. Infine, uno studio del San Raffaele nel 2012 supporta l’ipotesi che bassi livelli di abilità di mindfulness, valutati attraverso il questionario self-report FFMQ, giocano un ruolo significativo nella psicopatologia della personalità in generale, ma in modo particolare nel disturbo borderline (Fossati et al., 2012). Ciò suggerisce che l’implementazione di queste abilità di mindfulness possa portare benefici nella condizione patologica. A tal fine, come è stato precedentemente detto, è stato sviluppato il protocollo specifico della Terapia Dialettico Comportamentale, (DBT), la cui efficacia nel disturbo Borderline è stata valutata da molti studi e che, attraverso la pratica di sette abilità nucleari di

mindfulness, sembra migliorare la regolazione emotiva attraverso un processo

“dialettico” di accettazione dell’esperienza interna e cambiamento verso modalità reattive più funzionali. Infine, possiamo affermare che la pratica mindfulness può aiutare il soggetto con DBP a incrementare la propria diposizione mindful nella vita quotidiana, incrementando il benessere a scapito della patologia, attraverso quattro modalità individuate da Lynch et al. nel 2006: 1) aumentando il controllo attentivo; 2) aumentando la consapevolezza delle esperienze interne; 3) riducendo l’impulsività; 4) incrementando la validazione dei propri stati emotivi.

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D. Studio sperimentale

D.1 Scopo dell'esperimento

Alla luce dei dati sperimentali che dimostrano come l'utilizzo delle tecniche di mindfulness sia funzionale a tutta una serie di patologie fisiche e mentali, ma soprattutto alla luce delle scarse evidenze sperimentali che indicano una possibile predisposizione individuale di mindfulness, l'obiettivo della sessione sperimentale di questo lavoro di tesi è stato quello di indagare le relazioni esistenti tra la capacità di mindfulness e la psicopatologia. In particolare, l’ipotesi di lavoro è che la capacità individuale di mindfulness (valutata attraverso le 5 abilità di base estrapolate dal questionario self-report Five Facet Mindfulness Questionnaire) possa essere influenzata positivamente o negativamente dalla presenza di elementi psicopatologici, che nello specifico, caratterizzano tre differenti disturbi mentali: il Disturbo Depressivo Maggiore (DM), Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) e il Disturbo Borderline di Personalità (DBP).

D.2. Materiale e metodi D.2.1. Partecipanti

I partecipanti allo studio sono 145 pazienti con disturbo mentale in accordo ai criteri del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-IV-TR), fourth edition, Text Revision (American Psychiatric Association, 2000).

I pazienti erano così distribuiti:

 50 pazienti (35 femmine; età media 51 ± 2 aa) con diagnosi di DM  48 pazienti (26 femmine; età media 34±2 aa) con diagnosi di DOC

(40)

40  47 pazienti (43 femmine; età media 30 ± 1 aa) con diagnosi di DBP

Le età sono espresse come medie±errore standard. Le diagnosi sono state il risultato di un approccio multidimensionale basato sia sulla valutazione clinico-psichiatrica che sui risultati dei test psicometrici.

Tutti i partecipanti allo studio hanno fornito un consenso verbale e scritto per la somministrazione dei questionari e per il loro possibile utilizzo in lavori di ricerca in accordo sia con i principi etici che con i codici di condotta italiani e americani prescritti per gli psicologi.

Le valutazioni sono state svolte presso la Casa di Cura Villa Margherita di Arcugnano (VI) sotto la supervisione del dott. Fabrizio Didonna, Coordinatore del Servizio per i Disturbi d’Ansia e dell’Umore (responsabile del progetto).

D.2.2 Valutazione psicologica mediante test psicometrici

Tutti i soggetti inseriti nello studio sono stati sottoposti ad una batteria di test psicometrici, somministrati durante un’intervista semi-strutturata (in appendice D sono riportate le scale dei test eseguiti. Non viene riportata la scala DES-II in quanto coperta da copyright del Dott. Fabrizio Didonna responsabile dello studio).

I test elencati di seguito sono:

 Beck Depression Inventory II (BDI II), (Beck et al., 1996);  Symptom Checklist 90 (SCL-90), (Derogatis, 1994);  Toronto Alexithymia Scale (TAS-20), (Bagby et al., 1994);

 Dissociative Experiences Scale (DES-II), (Carlson and Putnam, 1993);  Five Facet Mindfulness Questionnaire (FFMQ), (Baer et al., 2006).

Figura

Figura 1. Strutture cerebrali coinvolte nella meditazione
Figura  3.  Nella  figura  sono  rappresentati  i  loading  relativi  alle  PCA  eseguite  sui  singoli dataset: psicopatologia nel pannello A e mindfulness nel pannello B
Tabella  2.  Nella  tabella  sono  riportati  valori  dei  loading  relativi  a  ciascuna  PCA  eseguita nell’ambito della MFA
Figura 4. Loading delle componenti Psicopatologia, Mindfulness1 e Mindfulness2 nello  spazio individuato dalla PCA globale
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Riferimenti

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