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Visti da vicino

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Academic year: 2021

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Postfazione 1

Visti da vicino

di Manuela Olagnero

La questione dei giovani ha la prerogativa di concentrare, in specifici ruoli sociali e figure anagrafiche, diverse problematiche, tutte strettamente intrecciate e a cui la lunga crisi di questi anni ha conferito pari urgenza: istruzione, lavoro, abitazione, autonomia economica, formazione della famiglia ecc.

Quando, come nel caso di questa indagine, si interpellano i diretti protagonisti, i nessi tra i diversi problemi prendono la forma di “incroci non sorvegliati” che complicano le transizioni di vita dei giovani e affollano di scelte difficili le loro biografie.

Con questa prospettiva e in riferimento al prezioso materiale narrativo presentato in questa ricerca, possiamo ragionare sul fatto che le biografie restituiscono, nel loro intreccio di traiettorie (mai come ora a esiti aperti), ritagli significativi di contesti e logiche di funzionamento dei diversi sistemi che quelle traiettorie regolano: dal credenzialismo di maniera alla inaccessibilità della casa, alla intermittenza del lavoro.

Possiamo poi ragionare sul fatto che le narrazioni restituiscono i confini e i colori di un paesaggio interno, legato ai posizionamenti identitari e strategici degli individui. La biografia rilascia, in questo caso, indicazioni sulla presenza di quella riserva di agency che quotidianamente alimenta comportamenti adattivi o di resistenza di fronte a insuccessi e ritardi, e che talora innesca innovazione e trasformazione dei vincoli in risorse.

Interpellate a questo duplice livello le biografie mostrano in filigrana la presenza dei tanti paradossali accoppiamenti (la ridondanza e la scarsità, la coda e la lotteria, il caso e la necessità) con cui si annuncia o si esprime la precarietà: l’inflazione educativa e la costrizione a una perenne condizione di discente; l’asticella sempre più alta per lavori che si situano sempre più in basso; famiglie che sostengono i figli, senza se e senza ma, proprio mentre i genitori sono meno forti di un tempo, più attempati e ammutoliti dalla crisi (Migliavacca, 2012). E ancora: case che ci sono (se si sta in famiglia) e 168

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case che mancano (se ci si avventura sul mercato come singoli individui); un welfare, per accedere al quale bisogna disporre di risorse fungibili, secondo la ormai nota logica del backup (ovvero della mossa di riserva, forma di autoassicurazione che mobilita risorse private ad affiancare e talora a sostituire quelle pubbliche; cfr. Krüger, 2003); informazioni e supporti sul web per decodificare i quali occorre avere la perizia e le astuzie di navigati operatori informatici.

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In marcia sul posto

Tutto ciò porta a pensare a queste biografie come prodotti di una storia di sostanziale fallimento della regolazione sociale delle transizioni biografiche, che in precedenza si realizzava secondo criteri di ordine, brevità e completezza (Billari, Liefbroer, 2010); esiti quindi di una sopravvenuta incongruenza tra transizioni di vita e prerogative classiche dell’età, rimaste in auge fino agli anni Ottanta.

I giovani della ricerca appaiono ancora tipici esponenti di una generazione di figli cui le famiglie sia di ceto medio sia di classe operaia avevano dato mandato di studiare “ad ogni costo”, e che oggi continua a inseguire la perduta connessione tra formazione e lavoro. Che il lavoro sia un valore indiscusso e l’idea che senza il lavoro nulla si compia (no work no everything else) è ancora nei repertori e negli atteggiamenti rappresentati. Il ritiro dalla pretesa di lunghe durate del lavoro mette avanti la flessibilità come principale mossa adattiva alla condizione di precarietà. Ma istruzione e lavoro costituiscono ormai provvisori ripari più che confortevoli ascensori sociali. Nelle narrazioni più recenti, in cui il motore dell’istruzione compare come un dispositivo chiaramente “imballato”, lo studio è una pratica scontata in cui ci si impegna, considerandolo un dispositivo necessario per proteggersi e difendersi dalla turbolenza del mercato, ma non sufficiente per “attaccare”, cioè trovare lavoro. Ecco allora comparire davanti a noi le silhouette di un popolo di “corsisti” di mestiere, che pur vedendo i vistosi limiti di tale pratica, non demordono dall’inseguire, nella formazione, non tanto una sistemazione già annunciata come tardiva, ma la ragionevole pretesa di rimanere in contatto con il mondo della istruzione, quel contatto che dà diritto a partecipare alla competizione e prima ancora a ricevere attenzione.

In questo universo disincantato il lavoro è anche capacità di spesa. Il mondo dei consumi accoglie accanto alle più orgogliose prove di autonomia, esperienze di grande frustrazione, quelle ad esempio di chi, non po169

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tendosi permettere neanche una birra, si trova costretto a dosare gli incontri con gli amici, compromettendo in tal modo una cruciale risorsa di capitale sociale.

Ma si potrebbe intravvedere, ottimisticamente, anche dell’altro intorno a pratiche di consumo che (quando non siano del tutto mortificate dalla scarsità), potrebbero intercettare gli estremi uno stile di vita compatibile con, se non perfettamente adatto a, nuovi modi di funzionare del mercato dei beni di consumo: dalla capacità di informazione capillare e sistematica, a una oculata strategia circa i canali di accesso e le modalità di pagamento. Insomma siamo di fronte a uno stile di consumo, insieme moderato e strategico, che pare avere definitivamente ragione sulle retoriche negative del consumismo compulsivo e apatico che si era per molto tempo attribuito alla condizione giovanile (Ricucci, 2013).

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Locus of control e lessness

I movimenti per aggirare vincoli e creare o sfruttare opportunità prefigurano la possibilità che i giovani possano essere considerati non solo eredi di un’epoca che ha eroso risorse, ma capostipiti di un’epoca che ne sta costruendo altre, e per entrare nella quale ci vogliono specifiche prerogative culturali, morali, cognitive nonché tratti antropologicamente inediti e nuovi aspetti del “carattere” (Sennet, 1998).

Non quindi giovani senza la certezza della connessione tra sforzo e risultato, la sicurezza dei diritti e la stabilità delle appartenenze (Weymann, 2009; Blossfeld, Höfacher, Bertolini, 2011), ma giovani con.

Vediamo in che modo oggi i giovani affrontano la loro condizione di iniziatori di un nuovo stile di affrontamento.

Una prima loro prerogativa è quella di saper costruire un repertorio quasi infinito di mosse di riserva (un sistematico back up rispetto alla scelta principale) che la dice lunga sia sulla fine di un rapporto fiduciario nei confronti delle istituzioni sia sulla consapevolezza delle trappole che insidiano il decorso di una scelta ancorché razionalmente concepita.

Per questo non ci deve stupire che le vie per raggiungere il lavoro appaiano non dirette e brevi, ma oblique e con tempi di realizzazione lunghi. Il back up sta nell’avere sempre un ampio approvvigionamento di informazioni scambiabili e di seconde scelte ad evitare a tutti i costi la irreversibilità e la solitudine del decidere da soli. Se dovessimo utilizzare un linguaggio 170

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velico potremmo dire che i giovani fanno molti bordi per evitare le onde alte del mare aperto, o per aspettare il vento.

La pazienza potrebbe, in questa prospettiva, diventare un secondo interessante dispositivo psicologico-morale, oltre che vera e propria virtù antropologica per entrare prima o poi nella società adulta.

Un terzo dispositivo, di carattere psicologico è quello del posizionamento interno del locus of control, laddove l’attribuzione delle cause di un evento viene riferita all’attore sociale più che a forze esterne (Heider, 1958). Tale propensione è associata all’accento sulla unicità degli eventi, sulla loro specificità, e su una urgenza che li rende intrattabili per via diversa da quella della iniziativa individuale. In tale contesto la transizione all’età adulta viene declassata o esaltata a stato mentale, variamente autocollocato nel tempo e autofondato su esperienze che sembrano non aver bisogno di riconoscimento sociale.

Il binomio disordine oggettivo/tenuta soggettiva di fronte allo scacco (lunghe attese per l’accesso al mercato del lavoro, intermittenza dei redditi, fragilità dei legami sentimentali, complessivo andirivieni tra autonomia e dipendenza), potrebbe intercettare uno stile di affrontamento per così dire procedurale che consiste nell’aderire alla regola del movimento, ovvero del “mai stare fermi”.

Il tesaurizzare qualsiasi episodio lavorativo e formativo e la disposizione mentale per cui “tutto quanto fa curriculum” sono la spina dorsale di questa condizione. Anche questo tratto sconfessa l’idea che la precarietà sia uno stato di lessness (Micheli, 2013). La precarietà, invece, riempie i curricula di lavori, affollandoli di sigle relative a esperienze, anche brevissime, di tirocini, stage, corsi e corsetti e relativi certificati.

Il curriculum diventa, in questa prospettiva, un vero e proprio manifesto biografico come forse mai prima d’ora. Perché il curriculum è la raccolta di tutto ciò che si è fatto di casuale, provvisorio, anche eccentrico rispetto alla destinazione finale. Scrivere un curriculum, come ci ricorda la poesia di Wislawa Szymborska, vuol dire: «cambiare paesaggi in indirizzi e malcerti ricordi in date fisse» (Szymborska, 2007, pp. 165-6).

La circostanza per la quale i curricula attuali vadano indietro nel tempo a partire dal presente anziché risalire da ieri a oggi, è eloquente. Parla del fatto che non dobbiamo attenderci una coerenza fin dall’inizio della storia, ma piuttosto aspettarci di vedere qualche significativo nesso soltanto guardando a ritroso tutta la vita vissuta partendo dal traguardo.

La eterogeneità delle traiettorie e la unicità delle esperienze sembrano escludere la dimensione corale del lavoro di squadra o dell’impegno solida171

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le. Il rinvio micro-macro, per utilizzare l’analitica di Coleman, non sembra infatti seguire le vie ortodosse né della rappresentanza collettiva e dell’azione organizzata, né della socializzazione-imitazione di altri nella stessa condizione. L’autodisciplina a narrarsi pezzo a pezzo, momento per momento, aiuta a utilizzare come unica bussola la memoria di quello che si è fatto. Il backward looking, paradossalmente, aiuta a guardare avanti.

L’ipotesi di Gershuny (1998), per cui ciascuno di noi, proprio perché giace al fondo di una sequenza di eventi straordinariamente numerosa ed estesa, è da questi stessi eventi determinato e al tempo stesso abilitato al cambiamento (ciascuno può superare il suo personale momento di inerzia), sembra ben interpretare la situazione le traiettorie ad esiti aperti dei nostri soggetti.

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Competenze discorsive e linguaggi della crisi

L’assenza di esplicito conflitto tra generazioni, già registrato come una condizione trasversale ai giovani di tutta Europa (Kholi, 2012) si conferma in una narrazione che ammette pochi altri attori oltre i parlanti e che mostra di aver superato il registro della rimostranza o dell’ostilità verso gli adulti, men che meno verso i genitori.

Sarebbe peraltro improprio pensare che questa così forte individualizzazione delle esperienze lasci i giovani per così dire privi di appartenenza o di autoriconoscimento. Al contrario, la precarietà giovanile è diventata essa stessa un’istituzione in senso sociologico proprio, e cioè un insieme durevole e cogente di atteggiamenti, pratiche, competenze, rituali e linguaggi riconoscibili e condivisi.

Non è un paradosso infatti che la condizione giovanile, per come si rappresenta e la si conosce, provveda alla sua eterogenea platea, pratiche e repertori condivisi di mosse adattive ed esplorative seppure “a bassa definizione”.

Il linguaggio scelto dai giovani intervistati, quindi, si inserisce entro un repertorio istituzionalmente consolidato di narrazioni della precarietà, con una competenza che ci esonera dal consueto lavoro di traduzione dal “parlato” della gente comune al vocabolario “alto” del ricercatore. Locuzioni come orizzonte corto, programma di vita, incertezza, ansia, insicurezza, stallo, compaiono nelle narrazioni individuali non differentemente da come punteggiano il dibattito pubblico.172

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Il mood della crisi contribuisce poi a universalizzare ulteriormente questo linguaggio visto che in questi anni la crisi è diventata una compagna di strada trasversale a diverse categorie anagrafiche e sociali. Tuttavia qualcosa di specifico cui prestare attenzione c’è nelle narrazioni dei giovani: il vocabolario di crisi non denota stati iniziali di attesa o stati finali di perdita, ma piuttosto punteggia tutta quanta la storia, secondo una geometria circolare o a forma di patchwork (Alheit, Bergamini, 1996). Le narrazioni mancano cioè di turning point, ovvero di eventi che marchino un cambiamento forte, uno stacco rispetto alla vita e alle posizioni precedenti.

La letteratura del corso di vita insiste sul valore riflessivo della transizione. La mancanza o la dilazione di transizioni biografiche attese priva i soggetti di occasioni di cambiamento, e di riposizionamento, anche se di quei passaggi è pressoché impossibile accorgersi sul momento (Clausen, 1998).

Tutto questo aspettare e prepararsi per ciò che ancora tarda a venire si potrebbe definire vita non vissuta. Il rapporto tra vita vissuta e vita non vissuta è stata definita a suo tempo biograficità. La biograficità può dar luogo a cambiamenti individuali, ma anche a concrete conseguenze a livello macrostrutturale. La vita non vissuta possiede una forza sociale esplosiva (Weizsäcker, 1956). Se si prende sul serio questa preoccupazione occorre chiedersi chi saranno i destinatari o i fiancheggiatori di questa forza esplosiva: se singoli individui, famiglie, gruppi organizzati. Molto dipende, sappiamo, dai contesti di interazione e interdipendenza (vite legate, o linked lifes, si direbbe nel linguaggio del corso di vita; cfr. Giele, Elder, 1998) che assorbono o amplificano la portata stressoria degli eventi, o di lunghe traiettorie senza eventi.

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Conversazioni tra coorti

Un problema è sicuramente come resistano, accanto ai giovani, le loro famiglie fiaccate dalla crisi (anche in termini di mandati educativi, oltre che più in generale dalle trasformazioni demografiche ed economiche). Un altro problema non meno importante è come le mosse dei giovani più vecchi “parlino” ai giovani più giovani.

La ricerca ha portato in scena due coorti, comprese dentro una macrocoorte di 18-35enni. Questa macro-coorte è costituita da una popolazione le cui chance di vita sono regolate da una proliferazione normativa che ha sollecitato, e ha promesso di garantirne l’efficacia, la dimensione adattiva e 173

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flessibile dei comportamenti di transizione dentro la precarietà. Lo ha fatto con la legge 24 giugno 1997, n. 196 (“legge Treu”), la legge 14 febbraio 2003 n. 30 (la “riforma Biagi”), e in ambito formativo, il processo di Bologna di fine anni Novanta. Esiste naturalmente una profonda diversità tra i più vecchi, 25-30enni e i 18-24enni (nati attorno a metà fine anni Novanta), generazioni che, per quanto contigue, non sono alle viste l’una dell’altra. Questa discontinuità, figlia anche della diversa durata di esperienze formative e del lavoro, non sembra far arrivare alla generazione dei più giovani i segnali di disincanto, sia pure attivo e di prudenza, sia pure con scatti di azzardo, dei loro virtuali fratelli maggiori.

I più giovani, ai quali non sappiamo cosa il futuro italiano riserverà, pensa al matrimonio, ad avere dei figli, vuole responsabilità, coltiva una generatività assente nei discorsi dei più vecchi, in un

apparentamento ideale con i genitori piuttosto che con i fratelli maggiori. Non è dato di capire se questo familismo di ritorno sia un argine consapevolmente alzato contro la turbolenza dell’ambiente esterno o sia il portato, questo sì, di un’assenza: assenza di consapevolezza di chi, individualmente o collettivamente, non è ancora giunto al tornante cosciente della propria collocazione generazionale (Micheli, 2009). Nell’era del consolidamento dei welfare europei si assumeva che le istituzioni potessero dare forme regolari e ritmi sicuri all’avvio dell’età adulta, in cambio di investimenti in istruzione e in curricula qualificati. Il patto evidentemente non ha tenuto. I trentenni l’hanno ben presente e hanno preso già le misure di una vita a metà. Non sappiamo se i ventenni di oggi tra qualche anno avranno, con la crisi appena dietro di loro, “tutta la vita davanti”.

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