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Georges Simenon, Il passeggero del Polarlys, Adelphi, p. 157, euro 17. Traduzione di Annamaria Carenzi Vailly
Se quell’anno, come sarebbe stato giusto, il Viaggio al termine della notte di Céline avesse vinto il Goncourt, Il passeggero del Polarlys di Simenon avrebbe avuto il Renaudot. Era il 1932, e com’è noto i giurati del premio letterario maggiore di Francia non se la sentirono di conferire la palma della vittoria a un romanzo disfattista, antinazionalista, antimilitarista, come il Viaggio, che sarebbe stato considerato anche comunista, se è vero che Louis Aragon volle esserne padrino al punto da sponsorizzarne la traduzione in russo, affidata guarda caso alla sua compagna Elsa Triolet. Preferirono orientare i loro voti su I lupi di Guy Mazeline, assai meno compromettente, famoso solo per aver soffiato il premio a Céline.
Per rimediare a un tanto grande errore, i giurati dell’altro premio, il Renaudot, che dieci critici letterari si erano inventati nel 1926 proprio per ovviare alle “lentezze” del Goncourt, attribuirono la vittoria a Céline, dimostrando – loro – di averne capito la grandezza. E fu così che Simenon con il suo Passeggero restò al palo.
Dire che, primo dei romanzi “duri” (così li definiva Simenon stesso, o anche “romanzi-romanzi”, per distinguerli dalle inchieste del commissario Maigret) firmato con il nome vero e intero, dopo gli svariati pseudonimi o il tronco Sim, Il passeggero del Polarlys aveva le carte in regola per vincere, se il competitore non fosse stato un fuoriclasse come il Viaggio di Céline.
Un libro inquieto e inquietante ambientato a bordo di un cargo costiero, il Polarlys per l’appunto (nome dell’aurora boreale in norvegese) che esisteva davvero e su cui Simenon aveva navigato personalmente nel 1929, scritto percorrendo i canali del nord della Francia con la moglie Tigy sul suo cutter, l’Ostrogoth, racconta una vicenda brumosa, anch’essa costruita sotto forma di viaggio, da Amburgo a Kirkenes lungo le coste della Norvegia in direzione del circolo polare artico. A prima vista è un noir: comincia infatti con un omicidio e il ritrovamento di un cadavere a bordo della nave. Il comandante, improvvisandosi investigatore (ma senza evocare in alcun modo il noto commissario) deve cercare di capire chi sia, dei compagni d’avventura, il colpevole. Le persone imbarcate con lui sono poche, sei, il Polarlys è destinato al trasporto di merci e solo occasionalmente trasporta passeggeri. Tutti uomini tranne una, Katia Storm, tedesca, donna fatale ma dal fascino ambiguo, minuta e formosa insieme, perversa e ingenua al tempo stesso, elegante e sfuggente, perno dell’intrigo. Ha sedotto in particolare il terzo ufficiale, Vriens, giovanissimo, al suo primo imbarco, nevrotico e fragile, vittima predestinata delle torbide trame intessutegli intorno dalla donna.
Il punto però è che si tratta di un poliziesco solo in apparenza. Il comandante disegna sul suo taccuino sei pallini neri, che sono i personaggi coinvolti, e tenta via via di collegare quei pallini in configurazioni ogni volta nuove. Perché a mano a mano che la vicenda procede, e che la nave avanza in un buio sempre più cupo, tra ostacoli costieri sempre più pericolosi, il lettore si rende conto che la ricerca di quel passeggero del titolo, imbarcatosi insieme agli altri ma poi introvabile, presente eppure nascosto, oppure inesistente ma ugualmente disseminatore di tracce, è sì un’indagine, in realtà però volta a scoprire non il colpevole dell’omicidio bensì cosa si nasconda dietro all’intercambiabilità dei vari personaggi. Nessuno di loro infatti si chiama come sembra, e il suo rapportarsi con gli altri si rivela di tappa in tappa diverso da quello che si era creduto in precedenza.
Sorprendente poi il finale, schizzo eccentrico e luminoso che risolve in fuga il viaggio. Gabriella Bosco