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Giuseppe Berto: dal Cielo e rosso a La gloria

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA DOTTORATO IN STUDI ITALIANISTICI

Tesi di dottorato di ricerca

Giuseppe Berto: dal Cielo è rosso a La Gloria

Relatore Candidato

prof. Raffaele Donnarumma Marco Renzi

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Indice

Introduzione……….3

Capitolo I. Il primo Berto: tra americanismo e neorealismo inconsapevole………...……8

1.1. La colonna Feletti: nascita di uno scrittore……….…………10

1.2. Prigioniero del Texas: la scoperta degli americani e i racconti di guerra e prigionia……….………17

1.3. Di nuovo in patria: Il cielo è rosso, Longanesi e il neorealismo….…….…….…….35

1.4. Il brigante: redenzione marxista……….……….59

1.5. Guerra in camicia nera: un libro controverso……….…………..68

Capitolo II. Il male oscuro: nevrosi e successo………..…………..……….78

2.1. Prima del Male oscuro: Esaurimento nervoso e Uno del giro…………...………….80

2.2. Il male oscuro: il romanzo psicanalitico della crisi e della rinascita….………..87

2.3. Consacrazione di un nevrotico………..……….116

2.4. I figli del male oscuro………..……….129

Capitolo III. Tra La cosa buffa e Oh, Serafina!: Il Berto dell’impegno e del disimpegno………..……….140

3.1. La fantascienza e il Sud: La fantarca………...……….141

3.2. Appuntamento a Venezia: La cosa buffa e Anonimo Veneziano………...…………146

3.3. Berto polemista: Modesta proposta per prevenire ..……….……167

3.4. Oh, Serafina!: una favola ecologista e francescana………..………..184

Capitolo IV. Cristo e Giuda: riscritture di tradimenti………..……...192

4.1. L’uomo e la sua morte: una imitazione di Cristo……….……….………193

4.2. La passione secondo noi stessi: il Vangelo a teatro………...………199

4.3. La gloria: il testamento di un traditore irregolare……….………….…205

Conclusioni………..217

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Introduzione

Il secondo Novecento ha rappresentato per la letteratura italiana, sin dai primi anni del dopoguerra, una vera e propria rinascita: un fiorire continuo di nuovi autori e di opere in seguito diventate parte del canone, con annessi corsi universitari, citazioni nella antologie scolastiche e una presenza pressoché costante sugli scaffali delle librerie. Mi riferisco a nomi quali Calvino, Vittorini, Levi, Moravia, Pavese, Gadda, Pasolini e a molti altri: grandi scrittori che grossomodo lasciarono un segno sin da subito, trovando terreno fertile sia nel mercato sia nella critica.

Troviamo poi altri autori che si sono guadagnati una fama postuma, magari raggiungendo lo status di autori di culto, o trovando prestigiosi editori pronti a ristampare le loro intere bibliografie; senza contare il plauso della critica, l’apprezzamento dell’accademia e dei colleghi più giovani che hanno tentato di replicarne la lezione: Savinio, Morselli (caso esemplare di affermazione postuma), Bufalino e, in misura minore, Bianciardi potrebbero ad esempio rientrare in questo secondo raggruppamento.

Un eventuale terzo gruppo, invece, potrebbe esser composto da quegli autori che, sebbene toccati da un successo anche momentaneo o dal favore altalenante della critica, sono a poco a poco stati dimenticati: un po’ perché poco classificabili, un po’ per motivi ideologici; perché considerati eccessivamente

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nazional-popolari o troppo poco afferenti ai gusti di una determinata élite intellettuale; o, semplicemente, perché il tempo e la fortuna non sono stati dalla loro parte. In questo caso, le personalità da menzionare sarebbero molte, e ognuna di queste motivata in modo differente. Bastino dunque figure quali Antonio Delfini, Mario Tobino, Carlo Coccioli, Mario Pomilio, Oreste Del Buono, Giovanni Arpino, Giuseppe Berto. Di quest’ultimo autore vorrebbe occuparsi il presente lavoro, trattando di uno scrittore che, al pari di altri sopracitati, è da considerarsi un irregolare, un marginale del suo tempo. E questo, malgrado una buona quantità di libri venduti, qualche riconoscimento da parte della critica (su di lui sempre e comunque divisa) e più di un prestigioso premio vinto; senza contare le traduzioni e le vendite all’estero.

Cos’è successo quindi a Giuseppe Berto? È una domanda dalla quale scaturirebbero molte risposte. Ciò che si può dire è che il suo percorso, per quanto segnato anche dal successo, fu sempre o quasi in salita; e ogni volta che per lui s’accendeva il fuoco della gloria, subito dopo la fiamma si affievoliva per le ragioni più disparate; ragioni che si possono rintracciare solo andando a scoprire la vita e l’opera dello scrittore.

Giuseppe Berto nacque a Mogliano Veneto (provincia di Treviso) il 27 dicembre 1914 da Nerina ed Ernesto, ex-carabiniere e poi piccolo commerciante di cappelli e ombrelli. Una famiglia umile, della quale Giuseppe è il primo maschio di cinque figli. Nonostante le sfavorevoli condizioni economiche, gli faranno frequentare il ginnasio nel Collegio Salesiano Astori di Mogliano, nel quale studiò con profitto e dove sorsero le sue prime inquietudini. Meno costante e diligente sarà la sua esperienza liceale, motivo per il quale il padre non vorrà pagargli gli studi universitari. Del resto, finito il liceo, il giovane Berto non avrebbe saputo neanche cosa fare: e fu così che si arruolò prestando servizio in Sicilia. In seguito, s’iscrisse alla Facoltà di Lettere di Padova: non per vocazione, ma perché costava poco.

Bisogna adesso ricordare che, come molti ragazzi della sua epoca, Berto aderì al fascismo e prese parte alla guerra di Etiopia nel 1935. Rimase in Africa

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quattro anni, ricavandone una ferita al piede destro e due medaglie (bronzo e argento) al valor militare.

Nel 1939 tornò in Italia e si laureò nel 1940, anno dell’entrata in guerra e dell’uscita del suo primo racconto su rivista: La colonna Feletti, cronaca della sua esperienza bellica in Africa orientale. Intanto, provò a darsi all’insegnamento, ma la sua vera strada era quella del conflitto, ormai motivata più da una forte irrequietudine e da un desiderio di fuga che dalla volontà di servire la patria.

Berto nel 1942 si ritrovò di nuovo in Africa con le camicie nere, e nel maggio 1943 viene fatto prigioniero dagli americani e portato nel campo di prigionia di Hereford, nel Texas: una dura esperienza che, grazie soprattutto a compagni di sventura quali Gaetano Tumiati, Alberto Burri, Dante Troisi ed Edvardo Fioravanti, riuscirà a trasformare nel suo primo vero laboratorio di scrittura e lettura, dove egli scoprirà la sua vera vocazione.

Tornerà in Italia nel 1946, con in valigia i manoscritti della Perduta gente e delle Opere di Dio: il primo, qualche mese più tardi, sarebbe uscito per Longanesi col titolo Il cielo è rosso. Il romanzo fu un successo; ebbe riscontri favorevoli ma ricevette anche aspre critiche, perlopiù derivanti da accuse di imitazione (alle volte motivate, altre no) dei narratori americani. Ma lo scrittore era a quel punto già affermato, tanto che il suo libro fu tra i più venduti dell’anno 1947, andando a vincere anche la prima (e ultima) edizione del premio Firenze. Come più tardi racconterà nell’Inconsapevole approccio (1965), si ritroverà inserito a sua insaputa nel filone neorealista, del quale non si sentirà mai del tutto parte. Egli preferirà ritenersi un neoromantico piuttosto che un neorealista, ma i suoi romanzi successivi, da Le opere di Dio (1948), passando per Il brigante (1951), fino a Guerra in camicia nera (1955), potevano comunque esser ritenute parenti del neorealismo. Quel ch’è certo è che questi romanzi ebbero modesti riscontri commerciali, e anche la critica trovò loro molti difetti, sollevando, come vedremo, polemiche ideologiche riguardo al Brigante e a Guerra in camicia nera.

Per Berto poi, assieme alle sconfitte del campo letterario, arriverà anche la nevrosi: un calvario durato molti anni; una malattia che gli impedirà di scrivere e

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che lo allontanerà per lungo tempo dalla letteratura, lasciandogli giusto le forze per le collaborazioni con cinema e giornali.

Cambierà tutto l’incontro con l’analista freudiano Nicola Perrotti. Dalla terapia uscirà guarito abbastanza da poter scrivere ancora, dando così alle stampe il suo romanzo migliore, Il male oscuro (1964).

L’ironico racconto-fiume della sua lotta col padre ebbe un clamoroso successo, aggiudicandosi sia il Premio Campiello sia il Viareggio. Sebbene criticato dai nemici di sempre, egli continuò così il suo percorso artistico, senza però mai eguagliare la fama del Male oscuro.

La fantarca (1965) sarà un divertissement di stampo fantascientifico, mentre La cosa buffa (1966) una ripresa del discorso associativo del suo predecessore; invece Anonimo veneziano (1971) prese spunto dall’omonimo celebre film di Enrico Maria Salerno e sceneggiato dallo stesso Berto col regista. Il 1971 fu però anche l’anno di Modesta proposta per prevenire, pamphlet polemico nato sulle colonne del «Resto del Carlino», che rappresentò per l’autore una sorta di marchio d’infamia; forse, un testo che più di altri contribuì ad allontanarlo dalle simpatie dell’élite culturale italiana del suo tempo.

Gli anni Settanta furono per certi aspetti, se si eccettua il periodo della nevrosi, i più solitari e i più stanchi sotto il profilo dell’ispirazione, passati per la maggior parte a Capo Vaticano, in Calabria, dove lo scrittore s’improvvisò muratore, contadino e anche ristoratore. Ma furono anche gli anni del dramma cristiano La Passione secondo noi stessi (1972), della fiaba ecologica Oh, Serafina! (1973) e soprattutto della Gloria, uscito a poco tempo di distanza dalla morte di Berto, avvenuta il 1o novembre del 1978. È un romanzo che diede l’opportunità al suo autore di concludere il suo travagliato viaggio letterario ed esistenziale con uno dei suoi lavori più rappresentativi.

Obiettivo di questa tesi sarà quindi quello di muoversi all’interno del lavoro di questo scrittore alle volte incompreso, e che talvolta fece di tutto per non farsi comprendere.

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Il lavoro prenderà le mosse da due ottime monografie, La coscienza di Berto (2012) di Paola Culicelli e Giuseppe Berto. La passione della scrittura (2013) di Alessandro Vettori. L’opera di Berto sarà analizzata dal punto di vista tematico, mettendo in relazioni i vari testi e facendoli dialogare, quando possibile, con i loro modelli di riferimento.

Saranno parzialmente presi in esame anche i motivi che hanno portato Giuseppe Berto a essere per anni un marginale nel campo letterario italiano. E ciò avviene in un momento in cui, per fortuna, l’autore sta vivendo un felice momento di riscoperta da parte della critica e del pubblico dei lettori. Questa tesi è quindi motivata anche dalla speranza che questi primi segnali positivi non si fermino qui.

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Il primo Berto: tra americanismo e neorealismo inconsapevole

L'opera di Giuseppe Berto, se si guarda al panorama letterario italiano del secondo Novecento, non è di facile collocazione. Già dai suoi esordi, ci troviamo dinanzi a un autore marginale rispetto all’ambiente letterario e intellettuale del suo tempo: uno scrittore non riconducibile ad alcuna élite e ad oggi non ancora entrato nel canone. Il passato fascista e lo schieramento politico sui generis negli anni del dopoguerra fecero di Berto un attore di secondo piano nel dibattito culturale a lui coevo; e questo malgrado alcune prese di posizione espresse nel corso della sua attività giornalistica, talvolta da bastian-contrario e altre volte lontane dalle ideologie dominanti. Se da un lato i riscontri critici favorevoli facevano il paio con altri meno lusinghieri, il pubblico raramente gli voltò le spalle: e quando gli capitò di non essere profeta in patria, riuscì comunque a esserlo all’estero.

Nei primi lavori abbiamo un autore sotto certi aspetti assimilabile al neorealismo, filone narrativo che nella maggioranza dei casi prendeva spunto dal bagaglio esperienziale degli autori stessi.

L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la

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guerra, e noi più giovani […] non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, «bruciati», ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi di una sua eredità. Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt’altro: quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l’accento che vi mettevamo era quello d’una spavalda allegria. Molte cose nacquero da quel clima, e anche il piglio dei miei primi racconti e del primo romanzo1.

Nelle parole di Calvino, tratte dalla Prefazione del 1964 al suo Il sentiero dei nidi di ragno (1947), c’è un efficace riassunto del clima dell’immediato dopoguerra: una voglia di ricostruzione che coinvolge anche la narrativa, la cui spinta parte da persone che hanno combattuto in guerra o fatto la Resistenza. Berto ebbe invece un vissuto diverso: prese parte alla Seconda Guerra Mondiale partendo volontario per l’Africa nel settembre 1942, dove rimase fino al maggio 1943, come racconterà in seguito nel romanzo-memoir Guerra in camicia nera (1955), a neorealismo già esaurito e con polemiche e stroncature a ridosso della sua uscita. In precedenza, egli era già partito volontario per la guerra di Etiopia nel 1935, rimanendovi quattro anni, e ciò gli sarà d’ispirazione per il suo primo racconto, La colonna Feletti (1940), primo vero passo dello scrittore nel campo della letteratura: un testo breve definibile come una prova di “proto-neorealismo” o, per citare lo stesso Berto e Cesare De Michelis, di neorealismo «inconsapevole». Nel corso della missione militare in Africa nel 1943, invece, assieme ad altri soldati italiani, fu fatto prigioniero dagli americani e portato a Hereford, in Texas, dove rimase confinato per tre anni: un periodo nel quale si trovò distante dagli avvenimenti che ancora stavano sconvolgendo l'Europa e l'Italia. Berto non fu quindi testimone diretto della Resistenza e dei momenti successivi all'8 settembre 1943; ciò però non gli impedì di scrivere alcuni racconti di guerra e di prigionia, ma soprattutto Le opere di Dio (1948), racconto lungo che narra la fuga dai bombardamenti americani di una famiglia contadina, e Il cielo è rosso (1946), al cui centro si trovano le vicende di quattro adolescenti che si muovono tra le macerie di una città senza nome nel periodo tra la Resistenza e la fine del secondo

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conflitto mondiale. Lo stile e i temi trattati nei due testi, assieme all’influenza che la letteratura statunitense ebbe su di essi, li ascrivono al neorealismo italiano postbellico: risulta quindi singolare l’assenza di cenni biografici dell’autore, che scrisse i due libri trovandosi dall'altra parte del mondo con disposizione soltanto notizie ricavate da riviste e da racconti orali di altri soldati.

Questo primo capitolo partirà dunque dai primi passi dello scrittore nel campo della letteratura: un apprendistato che comincia nel 1940 e che poi si svilupperà del tutto solo nel campo di prigionia texano, dove Berto entrerà in contatto con persone fondamentali per lo nascita della sua vocazione. Lì scriverà i suoi due primi romanzi e alcuni dei suoi migliori racconti, e avrà occasione di leggere libri che, in misura più o meno rilevante, formeranno il suo modo di scrivere e raccontare.

1.1. La colonna Feletti: nascita di uno scrittore

Nato a Mogliano Veneto il 27 dicembre 1914 da Ernesto Berto, ex-maresciallo dei carabinieri e in seguito piccolo commerciante, e da Norina Peschiutta, Giuseppe è il primo maschio di cinque figli; la famiglia è molto meno povera di quanto lo scrittore lasci a intendere nel Male oscuro (1964), e infatti lui riesce a compiere un percorso scolastico regolare. Frequenta infatti il collegio salesiano degli Astori, a Mogliano considerato una tappa obbligatoria per chi volesse distinguersi negli studi e poi nel lavoro. È però lì, in quella severa struttura, che nasceranno i primi turbamenti del giovane Berto, costretto per nove mesi lontano da casa: insofferente agli educatori, ma anche al padre che ha voluto per lui il collegio; inoltre, dall’altro lato, matura in lui un senso di colpa per le spese sostenute dai genitori2.

Terminato il collegio e concluso il ginnasio, frequenta il Liceo a Treviso; il suo rendimento comincerà man mano a calare, ma riuscirà a riscattarsi con un buon esame finale. La letteratura è ancora lontana: ci arriverà a piccoli passi. Lui

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stesso racconta che la scelta della Facoltà di Lettere fu determinata dal costo esiguo della retta universitaria, mentre la sua vera vocazione era la vita militare. Fece la naia a Palermo, e nonostante si fosse reso conto di essere allergico agli ordini calati dall’alto, il giovane Berto nel 1935 colse poi l’occasione della guerra di Etiopia per arruolarsi e partire per il continente africano, spinto da un desiderio di fuga dalla vita di provincia, da una fame d’avventura e di scoperta più che dalla voglia di combattere.

Ogni generazione di adolescenti ha i suoi frutti letterari proibiti: la mia ebbe Mario Mariani e Guido da Verona, Pitigrilli e D’Annunzio e […] Charles Baudelaire con dei titoli favolosi: Les Fleurs du mal e Les Paradis artificiels. […] già a quattordici anni io fui, in potenza, un vero viaggiatore, di quelli che partono tanto per partire […]. L’unico difetto di quei fascinosi versi di Baudelaire era che, riferiti alla nostra epoca e società, essi presupponevano un prosaico benessere economico. Possibile che fra tutte proprio la mia generazione fosse condannata all’isterilimento di quella irrequietezza, quell’ansia di andare, di evadere, che forma tanta parte della storia e del cuore dell’uomo? Per fortuna venne la guerra d’Abissinia, che era quel che ci voleva. [SP: pp. 174-75]

Berto, nel parlare di questa sua indole nell’articolo Il vero viaggiatore, uscito il 5 aprile 1964 sul «Resto del Carlino», ci risulta una sorta di epigono dannunziano: senza dubbio un fascista atipico ma, al contempo, come altri coetanei, sostenitore del regime. È in quei quattro anni passati in Africa che egli avrà conferma del suo disamore per l’autorità, già sperimentato nel collegio salesiano, ritrovandosi a essere un soldato poco ortodosso. E, cosa non secondaria, scoprirà se stesso e la sue inquietudini interiori: quel continuo guardarsi dentro, determinante per l’avvicinamento alla scrittura. Fu proprio nel corso della guerra d'Africa che Berto cominciò a scrivere, sebbene in maniera discontinua: prendeva appunti, annotava pensieri e riflessioni, dai quali poi nasceranno i primi racconti.

Il primo approccio alla letteratura è da rintracciare nella Colonna Feletti, uscito in quattro puntate sul «Gazzettino Sera» nei numeri del 17, 18, 21 e 24 settembre 19403. Lo stesso autore lo definì «una raccolta di quattro pezzi giornalistici» e «un racconto ingenuo e forse addirittura elementare» [IA: p. 19].

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Pur nella sua acerbità, si tratta di un testo di non poco conto, nel quale Berto sceglie «l'impopolare via della verità lasciandosi alle spalle quella della falsificazione epica»4, dando alla vicenda un'impronta antieroica e priva di lirismo. La storia è quella di alcuni soldati italiani impegnati in una operazione di soccorso che, una volta finiti in un crepaccio, vengono accerchiati dall'armata dei ribelli. Ritiratisi in difesa e trincerati, il loro destino sarà poi segnato dalla morte, da una sconfitta pressoché scontata.

[…] era il doveroso omaggio che intendeva rendere a tre camerati morti per soccorrere la colonna di cui egli stesso faceva parte, e di cui aveva assunto il comando dopo l’uccisione del maggiore Edgardo Feletti. Erano caduti in un’imboscata a cinque giorni di marcia da Debra Tabor, nell’agosto del 37. Berto era stato testimone e protagonista della battaglia, e l’aveva raccontata con asciuttezza da reporter americano5.

Nella Colonna Feletti, che Berto descrive nel dettaglio nel breve saggio auto-critico e autobiografico L'inconsapevole approccio (1965), vengono messi in luce alcuni tratti peculiari della futura poetica dell'autore: l'assenza di eroismo citata poco sopra, l'attenzione per i vinti e per gli ultimi; in particolare «la sua inquieta attenzione al male universale che è e resterà il tema centrale della sua narrativa»6. Vanno inoltre segnalate le scelte stilistiche: con questo racconto egli mette in atto una polemica con i caratteri dominanti della letteratura coeva al fascismo e con i suoi autori.

Gli scrittori italiani contemporanei, fossero Emilio Cecchi o Giovanni Comisso, Alfredo Panzini o Antonio Beltramelli, e fossero o no assunti dall’Accademia d’Italia, il giovane Berto non li trovava abbastanza stimolanti e tutto sommato essere scrittore al modo in cui quelli lo erano non lo solleticava affatto. Si può subito rilevare che tale persuasione del Nostro derivava più che altro da ignoranza […], non c’erano molte persone, nel mondo della scuola e della cultura, che si preoccupassero di mettere nelle mani dei giovani Verga o Svevo. [IA: p. 16]

4 CULICELLI 2012, p. 43. 5 BIAGI 1999, p. 26

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Inoltre, in un articolo uscito il primo marzo 1965 sul «Resto del Carlino» Berto parlò in termini poco entusiasti della letteratura del ventennio, mettendo di nuovo in chiaro, con un’affermazione piuttosto opinabile, la sua presa di distanza da questa: «i letterati del tempo fascista sfuggirono all’impegno di essere fascisti o antifascisti e si rifugiarono nell’astrazione della prosa d’arte o dell’ermetismo: ma con questo fecero una scelta che favorì il fascismo» [SP: p. 273]. Si allontana anche da D’Annunzio, sia per quanto riguarda la prosa sia per la scelta di un impianto anti-retorico e svuotato di ideologie, dove la guerra è rappresentata in stretta connessione con la morte e con la sconfitta, senza alcuno spazio per l’esaltazione del coraggio e dell’epica. E questo malgrado il Vate figurasse al tempo in cima alla lista dei suoi favoriti: «arrivò a sentirne il fascino fino a imparare a memoria buona parte del Poema Paradisiaco e quasi tutto l’Alcyone, ma francamente mettersi in prosa sulla scia del Fuoco o di Forse che sì forse che no, egli proprio non se la sentiva di farlo» [IA: p. 16]. Per questo lo scrittore veneto sceglie di dare alla storia un taglio quasi giornalistico: una scrittura essenziale, priva di orpelli, focalizzata sugli eventi narrati, dove tutto è ridotto all'osso. Un taglio quasi hemingwayano, verrebbe da dire; al tempo, però, Berto era a digiuno di scrittori americani, assenti dalle sue letture benché in parte già diffusi in Italia. A tal proposito, Dario Biagi, come Cesare De Michelis7 parla di un «inconsapevole neorealismo in cui si coglievano, semmai, echi di Verga e di De Roberto»8. Verga è infatti un nome che avremo modo di ritrovare, spesso citato tra le principali influenze della letteratura neorealista, non solo in relazione a Berto; e anche lo stesso contrapporsi alla letteratura “fascista” sarà un tratto comune a tutti gli autori neorealisti.

L'assenza della retorica bellica fa dunque il paio con uno stile altrettanto sobrio ma solo in apparenza distaccato: lo sguardo del narratore lascia intuire, al contrario, una vicinanza emotiva ai suoi personaggi. Basti vedere il modo in cui viene introdotta la figura centrale del racconto, il Maggiore Feletti.

7 A tal proposito, vedi: DE MICHELIS 1987 e 1989. 8 BIAGI 1999, p. 26.

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Si chiamava Edgardo Feletti, il Maggiore, ed era di Conegliano. Da due anni comandava il Battaglione ed ora doveva andare in licenza. Era un uomo anziano ma molto robusto. I pochi capelli che ancora gli restavano intorno alla grossa testa erano bianchi, la pelle fortemente abbronzata dal sole, gli occhi azzurri chiari con una espressione indicibilmente buona nello sguardo aperto. […] Lavorava sodo, senza stancarsi mai. La sera, quando i lavori venivano sospesi e gli ascari sciamavano come api in mezzo alla fungaia di tucul del paese, si ritirava nella grande tenda del comando per sbrigare la corrispondenza fra una serie di mitigate imprecazioni. Scrivere era la sua bestia nera. [TR: p. 11]

Già le poche frasi di questo brano pongono l'accento sull'umanità del maggiore: sull'espressione buona nel suo sguardo e sulla non più giovane età; sul fatto che di lì a poco sarebbe dovuto andare in licenza e sull’ossessione della scrittura, la quale sarà una costante di tutta la vita di Berto. Un simile dettaglio potrebbe quindi essere un piccolo innesto autobiografico, anche se non sappiamo con precisione se questo spunto fosse davvero relativo alla persona a cui l'autore si è ispirato per inventare il personaggio o se fosse una sua invenzione: quel che è certo è che rimane un elemento caratterizzante della sua biografia e della sua opera.

Non sorprende che lo scritto che inaugura la carriera bertiana sia di natura autobiografica, riportando un episodio realmente avvenuto e avente per protagonisti quattro suoi commilitoni morti durante la guerra in Etiopia. Valido come esperimento narrativo, anche se di scarsa qualità letteraria, il racconto è di stampo marcatamente cronachistico e giornalistico, ma rivela spiccate doti di narratore9.

Anche sulla Colonna Feletti senza dubbio pesa l'autobiografismo. Il rapporto ravvicinato col proprio vissuto è un altro tratto distintivo della sua produzione: dalla sua biografia, sappiamo che egli sapeva cosa fosse la guerra, che in seguito diverrà oggetto di diversi racconti e di alcuni dei suoi romanzi più significativi, all’interno dei quali essa verrà rappresentata in chiave negativa, come metafora del male universale. Anche il racconto analizzato, che combacia con un retroterra culturale fascista, non presenta alcun trionfalismo; manca poi la celebrazione della

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vittoria italiana sullo straniero: si parla di una sconfitta che non si traduce in un odio verso il nemico.

Berto torna dalla guerra d’Africa circondato inevitabilmente dall’immagine di eroismo, di generosità che anche la memoria ufficiale consegna ai reduci; ritorna decorato e ferito. Tuttavia, nel momento in cui consegna alla pagina le prime riflessioni su questa esperienza a cui ha partecipato, i due caratteri più evidenti nel suo approccio al tema sono, da un lato, la totale assenza di odio per il nemico; dall’altro lato, invece di raccontarci, nell’ottica dell’apologia, una vittoria, ci racconta un’esemplare sconfitta, come se nella sconfitta emergessero più alti e più solenni i valori morali di una partecipazione disinteressata alla guerra. E sembra singolare al lettore di oggi che pensare che, dopo la pubblicazione della Colonna Feletti, Berto ricevesse incarichi politici dal partito fascista10.

La colonna Feletti è in effetti già esplicativo delle future interpretazioni che Berto darà della guerra. Certe sue narrazioni sul tema correranno su un doppio binario: la messa in scena della tragedia che colpisce chiunque, specie i più deboli (come vedremo soprattutto nel Cielo è rosso e nelle Opere di Dio), si accompagna a una ponderazione personale sull’inutilità del conflitto e sul senso di colpa per avervi preso parte. Negli anni del dopoguerra Berto avrà modo di parlare e scrivere riguardo alla Seconda guerra mondiale, facendo i conti con i propri errori. Negli scenari di conflitto si muoveranno sempre personaggi dotati di candore e profonda umanità, concetto attorno al quale si potrebbe riassumere buona parte del corpus bertiano. La colonna Feletti si presenta quindi come una sorta di prima dichiarazione di poetica, benché caratterizzata da uno schematismo e da una freddezza di fondo distante dalla produzione successiva dell’autore.

Ad ogni modo, i rapporti di Berto con la guerra, col fascismo e con l’Africa non si interromperanno al suo ritorno in patria. Al suo rientro in Italia, grazie alla decorazione ricevuta sul campo, si riguadagnerà temporaneamente la stima del padre, col quale già da tempo era iniziata quella «lotta» che sarà fulcro del Male oscuro. Dopodiché, il prestigio militare gli sarà utile anche per passare con rapidità un buon numero di esami all’università, dalla quale uscirà nel giugno 1940 con una tesi orale in storia dell’arte sull’opera del Canaletto. Subito dopo

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svolgerà la professione di insegnante di italiano e latino in un liceo: sarà quella l’occasione per rispolverare e ristudiare quanto aveva perduto nel corso degli studi universitari11. Non si segnalano, nello stesso periodo, pubblicazioni di testi a suo nome, a parte una monografia sul tema della razza per un concorso indetto dai Guf12, né particolari contatti con il campo13 letterario del suo tempo; fa eccezione la frequentazione di alcuni ambienti artistici trevigiani, nei quali incontra Giovanni Comisso, la cui mediazione sarà fondamentale per la pubblicazione del Cielo è rosso14.

Il futuro scrittore è dunque distante da quanto stava accadendo in Italia in quel momento sotto il profilo culturale: tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta, malgrado il fascismo e col paese che di lì a poco sarebbe entrato in guerra, qualcosa in quel campo si stava già muovendo. Ad esempio, Einaudi, vera e propria fabbrica di idee e innovazioni già in quegli anni, ma ancor di più dal dopoguerra in avanti, esisteva già dal 1933: Giulio Einaudi, figlio di Luigi, aveva radunato attorno a sé figure quali Leone Ginzburg, Massimo Mila e Cesare Pavese, ai quali successivamente si aggiunsero, dal 1941 in poi, Norberto Bobbio, Franco Venturi, Giaime Pintor, Carlo Muscetta, Natalia Ginzburg ed Elio Vittorini. Quest’ultimo, già collaboratore di Bompiani, per il quale lavorava anche l’eclettico Cesare Zavattini, aveva fatto uscire per l’editore milanese l’antologia Americana e il romanzo Conversazione in Sicilia, entrambi nel 194115. In più, in contemporanea si stava esaurendo il ruolo che Firenze aveva avuto nei decenni addietro: il capoluogo toscano, dove sorsero numerose riviste, dalla storica «La

11 BIAGI 1999, pp. 25-26. 12 Ivi, p. 29.

13 «Il campo è una rete di relazioni oggettive […] fra posizioni – per esempio, quella che corrisponde a un genere quale il romanzo o a una sottocategoria quale il romanzo mondano, o, da un altro punto di vista, quella individuata da una rivista, un salotto o un cenacolo come luogo di riunione di un gruppo di produttori. Ogni posizione è oggettivamente definita in base alla sua relazione oggettiva con le altre posizioni, o, in altri termini, in base al sistema delle proprietà pertinenti, vale a dire efficienti, che permettono di situarla rispetto a tutte le altre nella struttura della distribuzione globale delle proprietà. Tutte le posizioni dipendono […] dalla loro situazione attuale e potenziale nella struttura del campo, cioè nella struttura della distribuzione delle specie di capitale (o di potere) al cui possesso è legata la possibilità di ottenere i profitti specifici (come il prestigio letterario) in gioco nel campo». (BOURDIEU 2013, p. 307)

14 BIAGI 1999, p. 28.

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voce», fino a quelle facenti capo a Valecchi («Solaria», «Il Frontespizio», «Il Bargello», «Letteratura» ecc), si ritrovò a dover far posto alla Milano di Mondadori e Bompiani – e dopo Rizzoli – e alla Torino di Einaudi, città protagoniste anche della crescita industriale dell’Italia post-194516.

Insomma, non solo Berto non scrive né pubblica nulla di significativo in quegli anni, eccezion fatta per La colonna Feletti, ma neanche ha in mente di volersi ritagliare uno spazio nel campo della letteratura. Anzi: con l’entrata in guerra dell’Italia si riaccende in lui la voglia di partire, cosa che non avverrà nell’immediato. Nel 1941 sostituirà invece il segretario del fascio di Mogliano Veneto, assumendo un incarico che «lo tediava e gli procurava fastidi»17, forse perché non conforme alle sue inclinazioni, visto che anche a scuola era ritenuto un professore piuttosto libero e dalla mentalità aperta18. Lo segnerà l’amore per una ragazza, Liliana Ligabue: dalla tormentata relazione con lei, nascerà molti anni dopo La cosa buffa (1966), e sarà proprio la fine di questa storia a spingerlo a partire di nuovo per l’Africa, il primo settembre del 1942. Un altro importante evento nella vita di Berto, che lo porterà, nel luglio 1943, alla prigionia nel campo di Hereford, Texas. Lì incontrerà personalità importanti e avrà modo di approfondire alcune letture e conoscere nuovi autori, tra cui gli americani, aprendosi del tutto alla letteratura e al mestiere di scrivere.

1.2. Prigioniero nel Texas: la scoperta degli americani e i racconti di guerra e

prigionia

Nel maggio del 1943, Berto si trova in Africa con le camicie nere; a Tunisi ha assunto il comando di un plotone della VI Compagnia. In seguito al crollo della V Armata, i soldati sono costretti alla resa e a consegnarsi a una pattuglia

16 FERRETTI 2004, pp. 45-51. 17 BIAGI 1999, p. 34.

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senegalese; su dei camion, i prigionieri verranno condotti a Casablanca, e da lì s’imbarcheranno per gli Stati Uniti.

Purtuttavia, quando verso i primi di luglio ci portarono al porto di Casablanca per farci salire su di un malinconico transatlantico chiamato Santa Rosa, eravamo assai contenti, e non solo perché correva voce che a bordo ci avrebbero dato molto da mangiare, ma perché ormai era evidente che ci avrebbero portati in America. Per noi l’America, nonostante che la propaganda fascista avesse tentato di rappresentarcela sotto gli aspetti peggiori, era il paese della libertà, prima di tutto, e poi dei dollari, dei cowboys e delle splendide ragazze dalle gambe lunghe [TR: pp. 474-75].

Questo è quanto scrive l’autore nel suo racconto 25 luglio nel Texas, apparso per la prima volta sull’«Europeo» del 18 aprile 1965, nel quale egli ripercorre tutte le tappe che portarono lui e gli altri militari in un campo di prigionia americano. Da notare come l’idea di una America quale paese libero e affascinante sotto molti punti di vista fosse assai diffusa tra gli italiani: e in effetti i campi di prigionia degli alleati, a differenza di quelli dei paesi dell’asse, rappresentano ancora oggi un terreno di discussione acceso e in divenire tra gli storici19. Al tempo della Seconda guerra mondiale, erano considerati quasi fortunati quei prigionieri italiani i quali non finivano, specie dopo l’otto settembre 1943, in mani tedesche; ed è vero che i soldati ricevevano spesso un trattamento migliore nei campi inglesi o americani. Il contesto storico-politico qui presentato è invero più stratificato; ma anche solo considerando quanto vissuto da Giuseppe Berto e da chi era con lui, abbiamo un quadro della situazione abbastanza esemplificativo. In breve, come si legge anche nel racconto 25 luglio nel Texas, lo scrittore e gli altri soldati italiani arrivarono a Hereford, dopo un viaggio in nave durato circa tre settimane, casualmente proprio il 25 luglio del 1943 e, una volta lì, appresero subito della caduta di Mussolini: «Lì c’erano altri prigionieri, arrivati un paio di mesi prima, e ci mostrarono le copie dell’Amarillo Daily News del 25 luglio 1943, con un titolo a piena pagina: MUSSOLINI OUT! Dunque era vero, era caduto» [TR: p. 480].

19 In Italia, sull’argomento troviamo il saggio di Flavio Giovanni Conti Prigionieri italiani negli

Stati Uniti, Il Mulino, Bologna, 2012; per quanto riguarda gli Italiani prigionieri in Inghilterra,

invece: Isabella Insolvibile, Wops. I prigionieri italiani in Gran Bretagna (1941-1946), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2012.

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Inizialmente tutti i prigionieri ebbero il medesimo trattamento: cibo, attrezzature per lavorare e ampi spazi a disposizione; tutto sommato, si trattava di un regime di prigionia non troppo severo. Oltre ai beni di prima necessità, agli italiani di Hereford arrivavano, di tanto in tanto, anche dei libri: «Tra i libri dell’YMCA c’è un po’ di tutto: Steinbeck e Liala, Marino Moretti e i romanzieri russi, Lenin e Maurras, Daniel Rops e Massimo D’Azeglio, Engels e Thomas Mann. La censura americana è di manica larga, anzi non esiste affatto»20. Tra questi, vi saranno anche quei testi che instraderanno definitivamente Berto verso la letteratura.

Quanto descritto sopra, però, per un gruppo che a poco a poco si ridurrà a circa cinquemila militari, non durò a lungo. A un certo punto i prigionieri italiani dovettero scegliere se collaborare o meno con gli americani; e il gruppo di persone alle quali Berto si era nel frattempo legato scelse, per i motivi più disparati, la non-collaborazione, che non significò necessariamente un appoggio indiretto alla Repubblica di Salò21. Sarebbe interessante comprendere a fondo le ragioni di questi uomini che, pur avendo in gran parte abbandonato il fascismo, rinunciarono a una prigionia più agiata facendo a meno di tante comodità, per quanto ormai lontani da tale ideologia: «Berto e i suoi compagni fidati, pur allontanitisi dall’ideologia fascista, decisero di rimanere fedeli al loro ruolo di soldati, ritenendo più giusto pagare per i loro errori piuttosto che cambiare schieramento a giochi conclusi»22. L’allontanamento dal fascismo fu possibile in parte anche grazie ai libri, molti dei quali in Italia censurati dal regime, messi a loro

20 TUMIATI 1985, p. 101.

21 «Lo schierarsi dell’esordiente scrittore (con altre personalità non da poco come Gaetano Tumiati, Alberto Burri, ecc) con il fronte repubblichino – seppure all’estero e in quell’estero – comunque evidenzia un coinvolgimento magari un po’ in vitro, ovvero in una specie di limbo storico: ma sarebbe forse un po’ improprio e forzato affermarlo». (SALVADOR 2015, p. 22). Nel saggio di Lamberto Salvador si fa riferimento a un appoggio “esterno” di Berto alla Repubblica di Salò. L’autore, pur confermando la forzatura dell’affermazione, nel libro scrive anche, a pagina 15: «trattare di Berto scrittore significa ormai occuparsi, lo si voglia o no, di un autore che non è affatto riduttivo e denigratorio definire fascista (almeno come matrice)». Conclusione di natura ambigua e forse revisionista, che sembra tener conto solo degli anni giovanili dello scrittore e non dei testi pubblicati dal 1946 in poi, dove la matrice fascista non è riscontrabile; eccezion fatta per Guerra in camicia nera, nel quale però la componente fascista risiede solo nel titolo, e in alcuni scritti quali Modesta proposta per prevenire e altri articoli per «Il Resto del Carlino», in cui Berto conierà l’espressione «a-fascismo» in polemica con una certa ortodossia dell’antifascismo, argomento sul quale scrisse anche Pasolini. 22 VITA 2014, pp. 3-4.

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disposizione nel campo di prigionia. Risulta quindi impossibile parlare della sua opera, o quanto meno dei suoi primi lavori, prescindendo da Hereford.

È senz’altro imprescindibile […] cominciare dall’insolita occasione storica di esordio vero e proprio del Nostro, cioè la prigionia nordamericana nel campo statunitense di Hereford (Texas) negli anni tra il 1943 e il 45; proprio quelli che sono stati caratterizzati, in Italia, da quel mostruoso e, a quanto pare […], non ancora del tutto compreso, metabolizzato e storicizzato periodo storico-politico di spaccatura della nostra penisola […]. Quella prigionia consentì dunque a Berto di trovarsi estraniato praticamente del tutto dalla guerra civile che si stava tragicamente sviluppando in concomitanza in Italia (specie centrosettentrionale) […]23.

La prigionia isola Berto dalla Storia, dunque anche dalla Resistenza, che diventerà uno dei leitmotiv della narrativa del secondo dopoguerra e argomento divisivo nel campo politico e intellettuale italiano. Allo stesso tempo, Hereford lo apre a nuove conoscenze, sia umane sia culturali. Se si prende in esame quell’esperienza, vediamo come quello che gli americani all’epoca chiamavano fascist camp aveva rappresentato, specie prima della divisione dei prigionieri, un piccolo laboratorio di idee e di scoperte da parte di persone che fino ad allora si erano perlopiù confrontate con la sola cultura del ventennio fascista.

Così dopo pochi giorni di selezione, siamo restati soltanto noi del “no”. Fascist camp, […] lo chiamavano gli americani, anche se naturalmente ci sono ancora molte differenze: accanto ai fascisti veri e propri […] c’è gente che si rifiuta soltanto di mutar bandiera ed ha un’unica aspirazione: esser considerato prigioniero di guerra fino alla fine del conflitto. Poi si vedrà. Personalmente penso di far parte di quest’ultima schiera […]. […] la disciplina è molto più rigida, il tono dei comandi è più brusco. […] Questa insolita, improvvisa durezza non mi dispiace. Spazza via ogni ambiguità. Siamo o non siamo prigionieri di guerra?24

In questo estratto del romanzo autobiografico Prigionieri nel Texas (1985), dello scrittore e giornalista Gaetano Tumiati, viene descritto il trasferimento dei prigionieri che dissero no alla collaborazione con gli americani, i quali finirono in

23 SALVADOR 2015, p. 21. 24 TUMIATI 1985, pp. 73-74.

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una prigione più ristretta e in condizioni meno agiate. Quella di Tumiati è nel complesso una delle più importanti testimonianze di quel momento: non solo utile a comprendere quanto avvenne in Texas e per sentire la voce di chi scelse di non collaborare; ma anche per far luce sulle attività che venivano svolte al suo interno, le quali permisero allo stesso Berto di avvicinarsi a letture a lui ignote fino ad allora.

Lo stesso Berto è una presenza di rilievo nell’economia del memoir di Tumiati; e la sua comparsa all’interno del racconto è legata al nome di D’Annunzio che, come accennato poco sopra, ai tempi del liceo e dell’università era stato tra i suoi autori prediletti.

La seconda edizione ha avuto come protagonista un capomanipolo biondo, dal viso scavato, che recitava alcune poesie di D'Annunzio. Dato che si trattava di un ufficiale della milizia, pensavo che avrebbe recitato e commentato poesie di guerra, per esempio Ode a una torpediniera […]. Invece il capomanipolo ha parlato di Alcione, del Poema paradisiaco […]. «Chi è quel capomanipolo?» ho domandato a Troisi. «Si chiama Giuseppe Berto. Battaglione del console Ariano.»25

Tumiati racconta qui di un’attività che ebbe luogo nei primi mesi a Hereford, il «Giornale parlato», durante la quale coloro che si sentivano preparati su un determinato argomento potevano tenere delle piccole conferenze; queste furono animate da personalità quali Alberto Burri, un medico che in seguito diverrà uno dei maggiori artisti del secondo Novecento, Dante Troisi, poi magistrato e scrittore, e, tra gli altri, Evardo Fioravanti, anch’egli pittore, incisore e disegnatore. Quando venne il turno di Berto, egli scelse di fare delle letture dannunziane. Benché più interessato ad altra letteratura, Tumiati rimase colpito dalla personalità del futuro scrittore, divenendone amico subito dopo e instradandolo poi alla lettura degli americani, come sottolinea anche nel testo dove, parlando della conoscenza con Berto, nomina anche i narratori statunitensi.

Io non sono intervenuto, un po' per timidezza, un po' perché D'Annunzio mi sembra un poeta lontano. I miei autori preferiti sono gli americani che leggevo nel 1939, prima del servizio militare:

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Steinbeck, Caldwell, Faulkner, Hemingway, Dos Passos, Thornton Wilder, quello della Piccola città, oltre – l'ho già detto – a Saroyan che conosco quasi a memoria26.

Malgrado il fascismo, una parte della letteratura americana era arrivata in traduzione in Italia, e lo dimostra anche quanto scrive Tumiati; Berto, a conferma di quanto fosse al principio poco coinvolto nel fermento culturale del suo tempo, anche per motivi geografici e per la sua vicenda personale, non ne era a conoscenza, e non aveva mai letto nessuno di quegli autori.

Sappiamo che tra gli anni Venti e i Quaranta gli Stati Uniti conobbero una irripetibile stagione letteraria, i cui testi cominciarono a circolare in Italia dagli anni Trenta in poi. Da ricordare è quanto meno il lavoro di Elio Vittorini e di Cesare Pavese27, i quali cominciarono la loro opera di diffusione della letteratura d’oltreoceano sia in qualità di studiosi e saggisti sia come traduttori. Grazie al loro impegno, peraltro ostacolato tanto da difficoltà editoriali quanto censorie, una parte dei lettori italiani riuscì in parte a comprendere il fermento che animava la letteratura americana28. Ma non solo: tra gli autori che nel corso degli anni Trenta acquisirono una loro voce italiana, nonché l’inserimento all’interno del nascente dibattito critico, vi furono ad esempio anche Edgar Allan Poe, Nathaniel Hawthorne, Herman Melville e Jack London, tutti presenti con dei racconti nell’antologia Americana (1941) curata dallo stesso Vittorini, comprendente, tra le altre, prose di Francis Scott Fitzgerald, James Cain, Erskine Caldwell, Stephen Crane, Mark Twain, Thomas Wolfe, John Fante, con traduzioni firmate da Guido Piovene, Eugenio Montale, Alberto Moravia, Carlo Linati, Giansiro Ferrata e Cesare Pavese. La prima stampa, quella del 1941, venne sequestrata a causa delle introduzioni critiche scritte da Vittorini, confluite poi in Diario in pubblico (1957), sostituite l’anno seguente da una premessa più breve e dai toni più anti-americani a opera di Emilio Cecchi, critico di primo piano nel dibattito sulla letteratura anglo-americana, e non solo. I narratori americani coevi che invece

26 TUMIATI 1985, p. 53.

27 Sul lavoro editoriale e di traduzione di Pavese e Vittorini, vedi TURI 2011, pp. 23-51.

28 Sulla ricezione della letteratura e della cultura americana in Italia, vedi anche PORTELLI 2004.

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divennero oggetto dell’attenzione di Pavese e Vittorini, curatori di molte traduzioni, e di altri critici del periodo furono soprattutto William Faulkner, John Steinbeck, Sherwood Anderson, William Saroyan, Dos Passos, Ernest Hemingway e Sinclair Lewis.

Per quanto riguarda Berto, abbiamo già detto che egli arriva a Hereford nelle vesti di “dannunziano”, con alle spalle la pubblicazione della Colonna Feletti e senza aver mai letto nulla degli americani. Tumiati sarà il tramite attraverso il quale li conoscerà, e sarà un racconto scritto dall’amico a fargli scattar la scintilla. A Hereford venne infatti fondata da Troisi e Fioravanti una rivista chiamata «Argomenti», la quale circolava per il campo per mezzo di un’unica copia manoscritta. Sul primo numero uscì un racconto di Berto, e lui ne parla così: «il Nostro, messo davanti ad un compito di scrittore e non più di giornalista, sbagliò secco, ossia elaborò un bel pezzo di prosa ritmica, dannunziano da cima a fondo, dove esaltava la vicenda delle stagioni del suo paese» [IA: p. 25]. Accanto al suo racconto, però, ce n’era un altro, scritto da Tumiati, grazie al quale l’autore riuscì a intuire dove aveva sbagliato fino a quel momento.

[…] accadde che in quel primo numero di «Argomenti» il prigioniero Gaetano Tumiati pubblicò un breve racconto intitolato Nostra grande via: due autisti s’incontravano sulla Balbia e parlavano semplicemente, usando le parole che tutti i soldati usano, del loro paese e della guerra che non finiva mai e del desiderio di tornare a casa, ed erano discorsi pieni di pause e nelle pause saltava fuori il paesaggio, saltavano fuori i rumori, fondendosi in un’unica atmosfera con le parole e i sentimenti dei due due soldati, arricchendoli oltre ciò che essi, limitati com’erano, non avrebbero potuto produrre: ed ecco che il lettore veniva in un certo senso chiamato a completare l’opera dello scrittore, poteva parteciparvi illimitatamente fornendo pensieri e sentimenti nella misura della sua capacità, mentre lo scrittore forniva gli stimoli, i suggerimenti, il clima fermentativo. Giuseppe Berto fu diciamo pure folgorato. [IA: pp. 25-26]

Nostra grande via, che il suo autore descrive come un «raccontino fatto di niente, cielo, sabbia, odore di sale, nello stile di William Saroyan, l’autore che mi è più

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caro»29, oltre a far da collante per l’amicizia tra i due, sarà anche il ponte che transiterà Berto da una parte all’altra della narrativa a lui coeva, dandogli conferma di una nuova vastità tematica ed espressiva; aprendogli la strada a un nuovo modo di guardare e raccontare il mondo: «[…] seppe che il modo di narrare che tanto l’aveva colpito era il modo degli americani, che Tumiati conosceva ed amava, specie Saroyan, del quale teneva sul comodino, quand’era a casa, il volume Che ve ne pare dell’America?» [IA: pp. 26-27]. William Saroyan (1908-1981), statunitense di origini armene, era anche tra i favoriti di Vittorini, nonché diffuso e apprezzato tra i lettori filo-americani italiani tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Sessanta, poi con gli anni relegato a un ruolo di secondo piano rispetto ad altri suoi contemporanei. Nell’Inconsapevole approccio, Berto non va oltre quel riferimento; non sappiamo se a Hereford abbia o meno letto qualche suo testo: quel che è certo è che all’uscita del Cielo è rosso, come avremo modo di vedere, alcune recensioni accosteranno il romanzo al nome dell’autore armeno-americano.

Ad ogni modo, dopo la lettura del racconto su «Argomenti» e con l’approfondimento della conoscenza con Tumiati, Berto intraprenderà un percorso che lo porterà a lavorare fianco a fianco all’amico: «scrivevano uno da una parte e l’altro dall’altra d’un rozzo tavolo» [IA: p. 27]. Inizierà così a scrivere i primi racconti: quelli che, secondo la sua idea di partenza, avrebbero dovuto far parte di una raccolta chiamata 13 deflorazioni 13 (titolo che ironicamente rimandava alle 13 poesie 13 dell’amico e compagno di prigionia Edvardo Fioravanti), ossia tredici storie brevi a sfondo erotico; si fermerà però al terzo racconto, e uno di questi sarà Economia di candele, scritto alla fine del 1943 in prigionia30, pubblicato sul «Lavoro illustrato» nel 1951 e più avanti nella raccolta Un po’ di successo (1963). Ambientato durante la guerra di Etiopia, narra la storia di un soldato che vorrebbe passare la notte con una donna; se la fa dunque portare nella sua tenda da un giovane ascaro, ma egli si renderà subito conto della giovanissima età di lei, più vicina a quella di una bambina, e per principio non se la sentirà di consumare il rapporto.

29 TUMIATI 1985, p. 52. 30 BIAGI 1999, p. 44.

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Era piccola di statura, fin troppo piccola, benché a pensarci bene ciò fosse in armonia con la sua faccia da bambina. Le disse di spogliarsi, ma siccome lei non si muoveva, la spogliò lui stesso dopo averle sciolto la cintura della veste. Aveva un corpo minuto, come c’era da aspettarsi, e magro, con tutte le costole che si vedevano, e il seno piccolo, appena pronunziato. In sostanza, forse non arrivava neanche a dodici anni […]. […] poi le disse di mettersi in quella specie di cuccia da cani che era la sua brandina da campo [TR: p. 36].

In seguito un tenente, suo commilitone, si introdurrà nella sua tenda e mostrerà interesse verso la piccola africana, manifestando il desiderio di un rapporto con lei. Il soldato, da parte sua, decide di chiedere delle candele, di difficile reperibilità nell’accampamento, in cambio della ragazzina, come a rivendicare dei diritti su di lei.

Egli non disse nulla, benché assurdamente crescesse in lui il senso di essere un vigliacco, in tutti i modi, perché se accettava che Gaeta si prendesse la piccola, allora tanto valeva che se la prendesse lui prima, come era suo diritto. […] “Gaeta” disse con forza. “Io la ragazza te la do. Ma in cambio voglio una candela” [TR: 39].

Alla fine, fattesi le cinque del mattino, il protagonista si sveglia e non vede più la ragazza nella sua tenda, poiché si trova col tenente. Il narratore esterno pone poi l’attenzione sul paesaggio circostante, come già aveva fatto all’inizio del racconto, riportando i pensieri del soldato sul ripetersi di certe dinamiche in una guerra come quella d’Etiopia.

Col cervello ancora intorpidito, egli beveva il caffè, disteso sulla branda con la testa appoggiata al gomito, e frattanto guardava fuori, attraverso l’apertura della tenda, la confusa attività che precedeva ogni partenza. Più lontano, il grande paese abbandonato era tutto assorbito nella foschia addensatasi dopo il morire del vento, e la foschia attendeva il sole per disperdersi, e per il momento era luminosa e chiara, e soltanto gli eucaliptus e le chiese sulle alture avevano dei contorni precisi. Poteva anche essere bello, ed egli si chiese se chissà mai nella memoria gli sarebbe rimasto qualcosa a ricordargli ciò che stava guardando [TR: 41].

Anche qui l’azione è ridotta all’osso, e l’andamento è quasi cronachistico; nel testo manca ancora quella che da un certo punto in poi diverrà caratteristica

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centrale nella poetica bertiana: l’ironia. Come La colonna Feletti, anche Economia di candele è un racconto monocromo, dominato dal pessimismo e dal senso di colpa, temi che saranno tra i fili conduttori nella produzione dell’autore. Pur nella sua cornice bellica africana, si preferisce porre l’accento sulla dimensione intimista, sull’insicurezza e sul complesso d’inferiorità che tocca il personaggio principale. Nella semplicità della prosa e nel mettere in scena dei personaggi umili in uno scenario desolato – ad esempio, il deserto africano accostabile alla landa desolata del racconto di Tumiati, a sua volta ispirato ai deserti californiani dei racconti di Saroyan – c’è la volontà di assorbire la lezione degli americani e la voglia di scandagliare l’animo umano; di creare un parallelismo tra le inquietudini dell’individuo e quelle collettive. In questo racconto si possono ancora segnalare delle ingenuità strutturali, date soprattutto dallo sviluppo molto semplice della storia e da personaggi molto tagliati con l’accetta, ad eccezione del protagonista, al quale è riservato un ritratto psicologico interessante, per quanto ridotto ai minimi termini.

Inframezzando le «disordinate letture» [IA: p. 28] con la scrittura, Berto completò un secondo racconto, È passata la guerra, il quale divenne oggetto di un piccolo scherzo all’interno del campo di prigionia, come egli scrisse nel suo testo auto-critico.

Nel campo s’era ben presto formata una classe intellettuale e uno dei suoi più attivi esponenti era un avvocato milanese che pretendeva di intendersi di letteratura e parlava bene di Thomas Mann e male di Steinbeck. Berto che, pur apprezzando Mann, riteneva che Steinbeck meritasse maggiori riguardi, scrisse allora un racconto intitolato È passata la guerra, finse di averlo tradotto da una rivista americana e che fosse opera di Steinbeck, e lo sottopose al giudizio dell’amico. Costui proclamò che Steinbeck aveva finalmente scritto qualcosa di buono, e Berto poté confortarsi pensando che, per uno almeno, lui poteva essere migliore di Steinbeck. [IA: p. 29]

In È passata la guerra, Berto torna sul tema del precedente racconto, quello bellico, declinandolo però in maniera diversa: i personaggi non sono militari ma persone comuni, e il tutto è filtrato attraverso gli occhi di Toni, un ragazzo

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preadolescente che vive con gli zii, con i quali vive le miserie portate dalla guerra, aspettando notizie dai genitori. Il narratore rimane esterno, in terza persona, ma sfrutta lo sguardo di Toni per descrivere la distruzione causata dai bombardamenti.

Il ragazzo Toni stava fermo in cima alla salita e tentava di guardare il mare in basso, ma il suo sguardo andava continuamente alla casa dei cipressi. L’ultima volta che c’era stato con zio Gustavo, non aveva sentito male nel vedere la casa. Perché venendo dalla strada si aveva la facciata davanti, che era tutta in piedi, ed egli guardandola appena aveva immaginato che dietro ci fosse ancora qualcosa. Invece non c’erano che macerie, e il muro in piedi aveva i riquadri delle stanze dipinti a colore diverso. [TR: pp. 135-36]

Non sappiamo di che città si tratti: non viene fatto alcun nome. Sappiamo solo che c’è il mare e che poco tempo prima ci sono stati dei bombardamenti. La prima parte del racconto è occupata dai dialoghi con gli zii, dalle impressioni e dai pensieri del ragazzo, che a poco a poco si rende conto della distruzione attorno a lui. L’arrivo di un uomo dinanzi alla casa distrutta, vicino alla quale Toni si era recato per far legna, apre la seconda parte: qui il ragazzo si mette a parlare con l’uomo, la cui identità non è inizialmente chiara. Grazie alle parole di Toni, capiamo quanto è successo in precedenza, poco prima del “passaggio” della guerra, quando lui e gli zii sono scappati sulle montagne per sfuggire al bombardamento; la donna che doveva venire con loro, invece, aspetta il marito assieme alla figlia, e perciò rimane vittima dell’attacco; anche perché, l’uomo che stava aspettando non arriverà mai.

L’uomo si mosse, ma aprì gli occhi e guardò fissamente un punto del terreno davanti a sé. “Tu non credi” disse, “non credi che sia tutta colpa dell’uomo, di quell’uomo che non è venuto?”

“Non so” disse il ragazzo. “Lui aveva detto alla signora che sarebbe venuto.”

L’uomo si arrabbiò. “Tante volte si dice” disse, “e poi non si può fare.” Quindi riprese a fissare il punto sul terreno. “Io so di uno che voleva passare, e l’han preso e l’han messo in prigione.” Il ragazzo ebbe un gesto d’impulso. “Voi non l’avete visto?” domandò. “Non sapete chi era?” L’uomo volse la testa per un istante, solo quel tanto che bastava per scorgere il viso del ragazzo seduto al suo fianco. “Questo non importa” disse. “Forse era l’uomo che doveva venire qui. Forse lui non ha colpa di quanto è accaduto.” [TR: pp. 143-44]

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A questo punto sappiamo che l’uomo misterioso è colui che la donna e la figlia attendevano. Anche qui l’inevitabilità del male che la guerra porta con sé si scontra con il senso di colpa dell’uomo: si fanno sempre più definite le peculiarità della narrativa di Berto, quanto meno quelle che caratterizzeranno Il cielo è rosso: prosa misurata, linguaggio semplice e intreccio lineare. La presenza del personaggio focale innocente di Toni anticipa i giovani protagonisti del libro che uscirà alla fine del 1946; così come la cittadina senza nome contiene in filigrana la Treviso descritta ma mai davvero nominata nel romanzo. Sulle ambientazioni e sullo sviluppo dei personaggi di È passata la guerra ha di certo influito la lettura di Steinbeck, e non è un caso che Berto abbia scelto proprio l’autore di The grapes of wrath (1939) per introdurre al compagno di prigionia questo racconto. Tra l’altro, l’opera più celebre del Nobel americano è tra le poche da lui nominate nell’Inconsapevole approccio.

Naturalmente ciò che più contava per la formazione del Nostro erano le letture. Nel campo erano capitati chissà mai come una cinquantina di libri, ed egli ne lesse buona parte, ma non ne ricorda uno in particolare, eccetto La signora di Wiechert e Furore di Steinbeck, che rilesse avidamente perché presso il campo di Hereford era situato presso la «gialla Amarillo», per dove anche i Joads erano passati verso la California. Cominciò a leggere in inglese, soprattutto per imparare la lingua, e forse fu in questo periodo che conobbe per la prima volta Hemingway: in una raccolta di racconti pubblicata dalla rivista «Esquire», ci doveva essere The short happy life of Francis Macomber e, probabilmente, anche The Snows of Kilimangiaro. [IA: P. 28]

Anche Hemingway figura tra le più evidenti fonti d’ispirazione del primo periodo di Berto. Per quanto riguarda È passata la guerra, il marchio di fabbrica hemingwayano emerge nell’asciuttezza della prosa e nell’efficacia dei dialoghi, da sempre considerati un punto di forza dell’autore di A Farewell To Arms, che diverrà in seguito uno dei nomi più menzionati dalla critica accanto alle opere neorealiste di Berto, nonché uno di quei personaggi che egli si divertiva a far passare come una sorta di suo nume tutelare; nel caso di Papa, la cosa si accentuò

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in modo particolare in seguito al suicidio dello scrittore e a un poco lungimirante coccodrillo moraviano31.

Altro racconto significativo tra quelli scritti a Hereford è Il seme tra le spine, anch’esso finito nella raccolta Un po’ di successo. È la storia di un amore nato all’interno del campo di detenzione: le spine del titolo sono appunto quelle del filo spinato di Hereford; il seme rimanda al sentimento sbocciato nel luogo32. Un prigioniero italiano s’innamora dell’infermiera americana che lo assiste; la donna ha qualche anno più di lui e non corrisponde il suo sentimento. Il racconto si conclude con il protagonista dimesso dall’ospedale da campo; l’ultimo pensiero del soldato sarà proprio per l’infermiera, Miss Lane: egli sa benissimo che non la rivedrà mai più.

Così domani egli verrà dimesso dall’ospedale, fatto ormai diventato inevitabile. Ha ragione il chirurgo: nel recinto, in mezzo ai compagni, guarirà prima. Soprattutto stando lontano da Miss Lane, benché questo il chirurgo non l’abbia detto, e forse nemmeno immaginato. Lui, viceversa, lo sa bene, e vorrebbe che fosse ora il momento di andarsene, mentre invece c’è ancora tutto un giorno da passare là dentro, e tutta una notte. Ed è la notte che ha importanza, perché miss Lane ha promesso di venire. […] Ed essa arriva. Sosta un poco nell’ufficio prima di venire nella sua camera. E quando viene non accende la luce, ma si ferma appoggiandosi al letto, guardando l’uomo che, girato verso la parete, tiene gli occhi chiusi e respira regolarmente. […] Egli ha parecchio sofferto, prima, in guerra ha visto morire non poca gente, e a migliaia muoiono ancora gli uomini ogni giorno in questa guerra che continua, e dicono che il suo paese e il suo popolo siano rovinati, senza rimedio. Sarebbe sciocco che egli si mettesse a piangere, ora, per una cosa tanto ridicola. Anche se questa cosa è dolorosamente finita, anche se egli non vedrà più miss Lane, forse mai più in tutta questa vita. [TR: p. 68]

31 «Era in lutto. S’era fatto crescere una folta barba e vestiva come un hippy ante litteram. Omaggio polemico a Hemingway, uno dei suoi idoli, morto suicida un paio di mesi prima, il 2 luglio. […] il suo era anche un gesto di sfida e di sprezzo e di sfida verso l’affossatore numero uno di Hemingway. Alberto Moravia aveva dedicato, sull’«Espresso», un coccodrillo impietoso all’autore di Fiesta. […] Che cosa rimane di questi miti? si chiedeva infine Moravia. “Niente, meno che niente; essi sono fatti per le masse e le masse li dimenticano appena ne sorgono altri più moderni e seducenti”. Profezia infelice, come oggi chiunque può constatare. Poco dopo, Moravia incontrò Berto con barbone castrista da Rosati. […] “Come mai questa barba?” chiese. E il Nostro, sogghignando: “Per ricordarti Hemingway”. Era già una dichiarazione di guerra». (BIAGI 1999, p. 154)

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Il finale del racconto ne sintetizza bene lo spirito, poiché grazie a esso capiamo lo spostamento di Berto verso la psicologia; l’azione è minima, e in queste pagine i pensieri dei personaggi occupano gran parte dello spazio: viene anticipato il Berto della crisi33, come conferma anche lui stesso: «è un racconto psicologico, una sicura anticipazione del Berto che verrà fuori dopo il 1960»[IA: p. 30]. Anche in questo caso non manca il rimando autobiografico: lo scrittore racconta di essersi procurato un’ernia giocando a calcio con i compagni di prigionia e di essersi poi invaghito dell’infermiera che lo curava. Anche Tumiati scrive della partita di calcio che si svolse a Hereford: dedica alla parentesi sportiva un capitolo del suo libro34, e fa riferimento al ricovero di Berto: «Mi ha raccontato che era andato in ospedale per un ascesso. Gli avevano fatto un bel taglio, un male cane, ma ne era valsa la pena. Accanto a due giovani medici militari c’era un’infermiera graziosa […]»35. A prescindere dalle due divergenti versioni, Il seme tra le spine è un racconto che sembra allegorizzare l’atteggiamento di Berto nei confronti della vita e dell’arte36: un approccio che non riesce mai a essere distaccato ma a suo modo sempre partecipe e atto a porre in rilievo l’umanità dei suoi personaggi, come avviene qui con l’infermiera e il soldato protagonista. Nonostante non compaiano cambiamenti stilistici significativi rispetto alle precedenti, questa resta comunque tra le prove più significative della produzione breve di Berto, nella quale si possono spesso ritrovare i prodromi dei romanzi che verranno. Ad esempio, in un altro testo composto in Texas, Gli eucaliptus cresceranno, alla trama fa da sfondo, come da titolo, l’immagine dell’eucaliptus, la quale poi tornerà anche in Guerra in camicia nera (1955) in quanto albero minacciato dalla guerra37.

Gli eucaliptus del viale, ad esempio, erano alberi giovani, sottili. Benché fossero piante che crescevano in fretta, ci sarebbero voluti dieci o vent’anni prima che diventassero grandi come gli eucaliptus che stavano nel recinto del ghebì. Allora il viale sarebbe stato bello, tutto pieno dell’ombra e del rumore delle foglie. Forse l’avrebbero anche asfaltato, col tempo: la civiltà che essi portavano, imperiale e

33 LOMBARDI 1974, p. 27. 34 TUMIATI 1985, pp. 87-98. 35 Ivi, p. 65.

36 CULICELLI 2012, p. 54. 37 Ivi, p. 52.

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fascista, camminava sull’asfalto. […] Dunque, gli eucaliptus sarebbero cresciuti e tra dieci anni il viale sarebbe stato splendido. Ma lui non l’avrebbe visto, se ne sarebbe andato molto prima, doveva pur andarsene [TR: p. 110-111].

È la notte di Natale del 1938; il soldato si trova in Africa per il quarto anno consecutivo, e il racconto si basa più o meno per intero sulle sue impressioni riguardanti il paesaggio etiope di Debra Tabor. Fino alla fine, è ricorrente l’immagine degli eucaliptus, alla quale il tenente, l’alter-ego bertiano, ricollega un sentimento che è sia di speranza sia di sconfitta, di solitudine e inadeguatezza. Malgrado l’ambientazione bellica, il conflitto è immobile: il narratore riporta i pensieri del personaggio, la difficoltà nell'instaurare un dialogo coi suoi commilitoni e la sua incapacità di adattarsi a quella che è divenuta una specie di routine. Per mezzo di una «dialettica tra vicino e lontano»38 che abbraccia sia l’interiorità del personaggio sia il suo rapporto con l’altro (sempre percepito come distante), e l’enorme distanza che lo separa da casa, Berto crea un’altra breve prosa psicologica, dove l’elemento natalizio risulta non solo un espediente per mettere in campo il tema religioso e tradizionale, ma anche un modo per confrontarsi con quello che dovrebbe essere il nemico, il quale di nuovo non è trattato con malevolenza. Al massimo, vengono rilevate le incongruenze culturali.

Ecco, era fallito anche il tentativo di trovarsi vicino ad un altro uomo, proprio nella notte in cui si diceva fosse bene per gli uomini sentirsi come fratelli. Ora egli attraversava il bosco dietro la casa, tra gli esili tronchi degli eucaliptus che sarebbero cresciuti. Le cose andavano comunque avanti, anche senza l’amore di chi aveva dato loro la vita, e anche se al posto dei ministri di Dio di religione protestante c’erano colonnelli o radiotelegrafisti. […] Giungeva da lontano il rumore di indigeni che cantavano battendo ritmicamente le mani. Per loro non era Natale […]. Ma per i bianchi era Natale […], era sempre un punto fermo nella memoria, serviva per ricordare l’ingenua attesa dei doni di Gesù bambino o il viso della mamma o la fede in un Dio che aveva voluto farsi uomo dentro una mangiatoia, tempi in cui le grandi inquietudini non erano ancora entrate nel cuore facendolo malato. [TR: p. 114-15]

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