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Quelli di Annie Ernaux non sono romanzi, scriverne avrebbe significato tradire: il padre, la madre, il loro ambiente, la cittadina normanna di Yvetot, una classe sociale. Già c’era la vergogna – così s’intitola, La honte, La vergogna, uno dei suoi testi più noti – di essersi vergognata di loro, di aver voluto diventare diversa. No, i suoi sono semplicemente libri, che non ha potuto evitare di scrivere. Libri nei quali Annie Ernaux ha fotografato a parole (in certi casi anche tramite immagini vere e proprie) dei fatti.
Ma quali sono questi avvenimenti (lei ci tiene a chiamarli così “perché un avvenimento è ciò che fa sì che, dopo, non si sia più uguali a quello che si era prima”), questi fatti che l’hanno portata al di là, determinando il superamento del confine senza ritorno, l’attraversamento definitivo dello specchio? Per Annie Ernaux è stato inevitabile lasciarsi alle spalle il mondo dei genitori in cui le parole erano poche, e pronunciate a fatica, la vita del padre, una vita “povera”, senza possibilità di scelta – prima operaio poi piccolo commerciante – uomo che lavorava con le mani, non “con la testa”. I fatti, che hanno dovuto obbligatoriamente per Annie Ernaux trasformarsi in libri, sono stati sempre degli abbandoni, il progressivo incolonnarsi, come in un corridoio sempre più lungo, di stanze a chiusura stagna, corridoio che è stata costretta a imboccare e a percorrere, se voleva riuscire a prenderselo, quel diritto di parola prima tabù. Non a caso il volume che raccoglie i principali testi di Annie Ernaux (da lei scelti e organizzati in sequenza) s’intitola Scrivere la vita. “Scrivere, dice, libera dalla vergogna”.
Incontrarla a Parigi per la presentazione del suo ultimo libro, ora uscito in traduzione italiana, Memoria di ragazza, ha significato apprendere che c’è però anche un altro motore che innesca il meccanismo. Ad ogni nuovo libro, ha confessato, ogni volta necessario per testimoniare di qualcosa – un evento, una persona, un luogo – “a spingermi avanti è la paura di morire prima di averlo potuto finire”. Scrivere, insomma, è vivere.
Ma solo dopo quel capolavoro che sono Gli anni, autosociobiografia dei suoi coetanei, libro cerniera nella sua corposa opera – passata da un po’ un’altra soglia, quella dei settant’anni – solo di recente Annie Ernaux ha potuto accedere a un buco nero che da sempre la abitava. In Memoria di ragazza è riuscita ad affrontare l’avvenimento buio, fino ad allora rifuggito: l’estate del ’58, la prima esperienza sessuale. Le è stato possibile grazie al pronome “elle” sperimentato ne Gli Anni. Parlando di sé come di un’altra, ha potuto scrivere quello che successe quando quella diciassettenne un po’ goffa si presentò, impreparata per ragioni soggettive, ambientali e storiche, all’appuntamento con un uomo più grande di lei.
“Sono andata alla ricerca della ragazza che sono stata, che ero: un’estranea per me, ormai, ma un’estranea di cui possedevo la memoria. Tra me e lei c’è tutta la distanza del tempo che ci separa. La posta in gioco era cercare di ritrovarla attraverso la scrittura: per capire tutto quello che è successo poi. Quella ragazza, ho avuto bisogno di farla esistere, in qualche modo di resuscitarla, perché quello che si è vissuto senza capirlo è un errore, una colpa”. Il libro così non racconta la storia di una notte in cui una ragazza perse la verginità, ma va alla ricerca di ciò che quella ragazza è diventata attraversando quel fatto, compiendo con l’altro, un altro a caso, l’atto sessuale. Quella notte determinò conseguenze molto forti: la bulimia, l’amenorrea, la scomparsa del ciclo mestruale, per due anni. Poi venne la lettura di Simone de Beauvoir e “la ragazza capì che non doveva più comportarsi da oggetto. Ma contemporaneamente continuava a voler piacere agli uomini”. Cavarsela volle dire lasciarsi dietro quel garbuglio che era sociale e generazionale insieme. Sarebbero venuti tutti i successivi – l’aborto, i divorzio, il tumore al seno, l’amore per un uomo più giovane. E la scrittura, per poterli dire.
Gabriella Bosco