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LA DICHIARAZIONE DI NEW YORK DEL 2016 SUI RIFUGIATI E MIGRANTI FRA ASPETTI GIURIDICI E SOCIOLOGICI: UNA FINTA PARTENZA NELLA GESTIONE DEI MASSIVE MOVEMENTS?

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La Dichiarazione di New York del 2016 sui rifugiati e migranti fra aspetti giuridici e sociologici: una finta partenza nella gestione dei

massive movements? Elisa Ruozzi

1. Introduzione. – 2. Il Global Compact on Refugees e il Global Compact on

Safe, Orderly and Regular Migration: un progetto di regolamentazione

internazionale del fenomeno migratorio. – 3. I migranti di massa: una definizione sociologica. – 4. I migranti di massa: una definizione giuridica? – 5. I core

human rights e il trattamento di rifugiati e migranti. – 6. Osservazioni

conclusive.

1. Introduzione

Tramite la convocazione, il 19 settembre 2016, di un incontro di alto livello dedicato ai “large movements” di rifugiati e migranti, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha posto, per la prima volta e in maniera ufficiale,1 il tema delle migrazioni di massa al centro dell’agenda

internazionale. Dall’evento in questione è scaturita la Dichiarazione di New York sui rifugiati e sui migranti,2 tramite la quale gli Stati intendono

avviare una riflessione su un argomento di evidente rilevanza, il qualeche si è imposto con forza all’attenzione della comunità internazionale a causa dei risvolti tragici in termini di perdita di vite umane che questo tipo di migrazione ha finora comportato. La Dichiarazione cerca di rispondere all’esigenza di identificare soluzioni condivise ai problemi in parola, avviando un processo negoziale che dovrebbe condurre, entro il 2018, all’adozione di due strumenti a vocazione universale, entrambi di natura non vincolante,3 finalizzati alla regolamentazione del fenomeno

1 L’incontro è stato preceduto dalla pubblicazione di un rapporto del Segretario Generale delle Nazioni Unite dal titolo: In safety and dignity: addressing large

movements of refugees and migrants (UN doc. A/70/59, 21 aprile 2016).

2 New York Declaration for Refugees and Migrants, A/RES/71/1, 3 ottobre 2016.

3 La Dichiarazione di New York non entra esplicitamente nel merito del valore giuridico dei due strumenti: tuttavia, una nota pubblicata successivamente all’adozione della Dichiarazione dall’Alto Rappresentante delle Nazioni Unite per i rifugiatioUnited

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migratorio e, precisamente, dei movimenti di massa di migranti e rifugiati. Scopo di questo lavoro è analizzare se e in che misura la Dichiarazione, assieme ai due strumenti menzionati, sia in grado di affrontare il principale nodo giuridico che caratterizza questo tipo di migrazione, vale a dire la distinzione fra migrante e rifugiato e, di conseguenza, la definizione dei diritti che gli Stati sono tenuti a garantire in capo agli individui che compongono la “massa”. Il problema verrà analizzato dopo una breve presentazione della Dichiarazione e dei due strumenti futuri, prendendo al contempo in considerazione un rapporto recentemente elaborato in seno all’Institut de Droit International il quale, come è noto, costituisce una delle più autorevoli voci della dottrina internazionalistica.

2. Il Global Compact on Refugees e il Global Compact on Safe,

Orderly and Regular Migration: un progetto di regolamentazione

internazionale del fenomeno migratorio

Alla luce di quanto evidenziato poc’anzi, scopo della Dichiarazione di New York appare essere non solo quello di esprimere la posizione della comunità internazionale in merito ai temi in oggetto, ma altresì quello di dare vita ad un vero e proprio “piano d’azione” per la regolamentazione, pur se tramite atti appartenenti alla categoria della soft

law, del fenomeno migratorio. Tale regolamentazione si

caratterizzerebbe, secondo quanto emerge dalla Dichiarazione, per la sua natura onnicomprensiva, e poggerebbe sull’adozione di due “patti”, relativi ai rifugiati e ai migranti rispettivamente.

Tramite il primo strumento (denominato Global Compact on

Refugees) gli Stati non intenderebbero innovare le norme esistenti in

materia di rifugiati – e, in particolare, la Convenzione di Ginevra del 19514 – bensì fornire una cornice per applicarle a situazioni di afflusso

massiccio di migranti e rifugiati. La redazione dello strumento si Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) afferma che: “The term ‘compact’ refers to an agreement that is not legally binding but that captures, by consensus, both political and concrete actions of Member States and other relevant stakeholders to improve the way the international community responds to displacement” (The New York

Declaration for Refugees and Migrants – Answers to Frequently Asked Questions,

http://www.unhcr.org/584689257.pdf, ultimo accesso 25 giugno 2017, p. 6).

4 Convention Relating to the Status of Refugees, Ginevra, 28 luglio 1951, entrata in vigore 22 aprile 1954.

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fonderebbe su un documento (denominato Comprehensive Refugee

Response Framework) contenente uno schema di risposta rapida riguardo

alle questioni pratiche sollevate dalle migrazioni di massa. Si prevede che il documento in oggetto – ispirato ai principi della cooperazione internazionale e della condivisione di oneri e responsabilità – venga elaborato dall’UNHCR in base a un approccio inclusivo dei diversi attori interessati, i quali comprenderebbero gli Stati, le comunità ospiti, altre “entità” collegate alle Nazioni Unite, autorità nazionali e locali, organizzazioni e istituzioni finanziarie internazionali, organizzazioni e meccanismi di coordinamento a livello regionale, nonché rappresentanti delle diverse componenti della società civile, inclusi i rifugiati stessi. Il

Response Framework dovrebbe, in conformità con il diritto

internazionale e con le migliori prassi sviluppate in questo settore, fornire indicazioni concrete circa l’accoglienza e l’ammissione di migranti e rifugiati, il soddisfacimento dei bisogni immediati e di quelli di medio periodo, il supporto alle comunità ospiti, nonché le cosiddette “soluzioni durevoli”. In particolare, queste ultime – considerate dalla Dichiarazione come uno degli scopi principali della protezione internazionale – si concretizzerebbero nel rimpatrio volontario, in soluzioni locali, in schemi di reinsediamento, nonché in “percorsi complementari” per l’ammissione. Con tale termine il testo si riferisce a strumenti quali l’evacuazione sanitaria, i programmi di ammissione umanitaria, la riunificazione familiare, le opportunità per la forza lavoro qualificata e la mobilità lavorativa e studentesca. Sulla baseAi fini dell’applicazione del Response

Framework – alla quale gli Stati sono stati esortati fin dall’adozione della

Dichiarazione – l’UNHCR dovrebbe intraprendere consultazioni con gli Stati e con gli altri attori coinvolti finalizzate allaper valutarzione degli aspetti pratici dell’attuazione dello strumento, ed, entro la fine del 2018, proporre all’Assemblea Generale l’adozione del Global Compact on

Refugees.

Il secondo strumento (denominato Global Compact on Safe, Orderly

and Regular Migration) persegue un obiettivo in un certo senso più

ambizioso, nella misura in cui esso dovrebbe, per la prima volta, costituire una cornice giuridica unitaria applicabile a migranti e rifugiati, tramite una gamma di “principi, impegni e intese” concernenti tutti gli aspetti della migrazione internazionale, da quelli umanitari a quelli legati allo sviluppo e ai diritti umani. Scopo del secondo “compact” sarebbe quello di migliorare la governance globale nonché il coordinamento in

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questo settore, dando vita a una serie di regole condivise nell’ambito delle quali avrebbe luogo la cooperazione internazionale in materia di migrazioni e, più in generale, di mobilità umana. La vocazione “multidimensionale” di questo documento emerge chiaramente dal testo della Dichiarazione, la qualein cui si sottolinea innanzitutto la rilevanza del fenomeno migratorio per tutti gli Stati coinvolti (Stati di origine, transito e destinazione) da un punto di vista economico, menzionando in particolare il nesso fra sviluppo economico e migrazione e, viceversa, le opportunità che quest’ultima offre agli individui e alle loro famiglie. Oltre agli aspetti economici, vengono in rilievo quelli legati alla tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali, i quali includono la protezione degli individui indipendentemente dal loro status migratorio, assieme alla lotta al traffico di esseri umani, alla tratta e alla schiavitù. L’attenzione nei confronti dei diritti individuali non impedisce che però venga dato altresì spazio alla componente “securitaria” del problema, vale a dire il controllo dei confini e la prevenzione della migrazione irregolare.

A differenza del primo strumento, la cui elaborazione sarebbe frutto di un approccio multi-stakeholder, il Global Compact on Safe, Orderly

and Regular Migration verrebbe elaborato tramite un processo negoziale

di natura interstatale che dovrebbe culminare, nel 2018, in una conferenza intergovernativa, nel corso della quale il documento verrebbe sottoposto all’approvazione degli Stati. La Dichiarazione assegna altresì un ruolo – il quale non viene tuttavia meglio definito – in capo al Third High-level

Dialogue on International Migration and Development,5 il qualeche si

riunirà a New York entro il 2019. Più precisamente, la preparazione e la conclusione delle negoziazioni del Global Compact on Safe, Orderly and

Regular Migration verranno affidate al Presidente dell’Assemblea

Generale delle Nazioni Unite, il qualeche sarà chiamato a scegliere due facilitatori, incaricati di condurre “consultazioni aperte, trasparenti ed inclusive” finalizzate alla determinazione di tempistiche, modalità ed eventuali conferenze preparatorie, inclusa la presenza di una

“Geneva-based expertise” in tema di migrazioni. All’azione del Presidente

5 L’High-level Dialogue on International Migration and Development è stato costituito a seguito della Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile (Rio +20) tenutasi nel 2015. A partire da tale iniziativa sono stati creati il Global Forum on

Migration and Development (una piattaforma per il dialogo informale e la cooperazione) e

il Global Migration Group (un gruppo all’interno del quale sono rappresentate le diverse agenzie delle Nazioni Unite la cui attività presenta dei legami con il tema delle migrazioni).

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dell’Assemblea Generale si affiancherà poi quella dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e del Segretariato delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, i qualiche metteranno a disposizione le proprie competenze tecniche e organizzative, mentre il Rappresentante Speciale del Segretario Generale per le migrazioni internazionali e lo sviluppo coordinerà i contributi del

Global Forum on Migration and Development e del Global Migration Group. Al processo parteciperanno altresì – in modalità che non vengono

precisate – l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine, l’UNCHR, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani e altre agenzie attive nell’ambito del settore delle migrazioni. Un ruolo più circoscritto è infine quello riservato alla dimensione regionale, (il cui apporto viene ritenuto “desiderabile o[…] ove appropriato” tramite l’utilizzo di meccanismi consultivi esistenti), mentre il settore privato, la società civile e le comunità di migranti all’estero verranno “invitati a contribuire” al processo di preparazione del documento.

Oltre a porre le basi per la futura adozione e negoziazione di questi strumenti, la Dichiarazione in un certo senso ne anticipa il contenuto, elencando i diritti che gli Stati intendono garantire a rifugiati e migranti. Prima di entrare nel merito di quanto previsto dalla Dichiarazione e, in particolare, di quanto da essa emerge in relazione alla distinzione fra migrante e rifugiato, può essere interessante richiamare brevemente il punto di vista della sociologia sul tema, in ragione del fatto che, come si vedrà meglio successivamente, le migrazioni di massa stentano a trovare una propria collocazione all’interno della scienza giuridica, rimanendo piuttosto ancorate a una dimensione fattuale.

3. I migranti di massa: una definizione sociologica

Le migrazioni sono da sempre oggetto degli studi in materia sociologicia i quali, fin dai primi modelli di analisi del fenomeno migratorio, hanno tradotto la distinzione di stampo giuridico fra migrante economico e rifugiato in quella fra migrante “volontario” e migrante “forzato”.6 Partendo da tale presupposto, i modelli più risalenti nel tempo

6 ORTIZ AHLF, The Human Rights of Undocumented Migrants, in Recueil des Cours, Leiden/Boston, 2014, p. 53.

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erano basati sull’idea che il comportamento dei primi fosse basato su una serie di “push and pull factors”, vale a dire su fattori di tipo economico, politico e sociale in grado di spingere (push) un individuo a lasciare uno Stato per recarsi (pull) in un altro dove le condizioni erano presumibilmente migliori. Lo stesso non poteva invece dirsi dei secondi (i migranti “forzati”), il cui spostamento non era dettato da alcuna scelta, bensì era semplicemente imposto dalle circostanze. Tuttavia, come è stato osservato, i modelli in questione mostrano i propri limiti là dove essi non sono in grado di spiegare fenomeni quali i flussi migratori fra Stati sviluppati, la migrazione di ritorno, le direzioni specifiche dei flussi, né il fatto che vi sia scarsa migrazione dagli Stati più poveri del mondo.7

A tali carenze – dovute perlopiù alla natura meccanicistica dei “push

and pull models” – la dottrina ha cercato di ovviare tramite l’elaborazione

di “modelli cinetici” in grado di dare maggior conto della complessità delle motivazioni che sono alla base delle migrazioni. Questo obiettivo è stato perseguito, per esempio, attraverso l’identificazione di diverse tipologie di movimento, fra cui quello “anticipatorio”, più simile a quello del migrante economico in quanto pianificato, e quello “acuto”, assimilabile invece a quello del rifugiato in quanto dettato dall’urgenza.8

In ambito sociologico, il dibattito in merito alla distinzione fra migrante e rifugiato deve altresì essere considerato alla luce della dialettica fra “struttura” – vale a dire quei fattori che determinano il comportamento umano, oppure che lo condizionano – ed “agency”, ovverossia la capacità di scelta dell’individuo che, in una certa misura, è sempre presente e che fa sì che qualsiasi spiegazione abbia natura probabilistica e non deterministica.9 In particolare, la dottrina ha

sottolineato come anche i migranti “forzati” mantengano sempre una certa capacità di scelta, in quanto la decisione di migrare non può essere completamente involontaria.10 La dialettica fra “struttura” e “agency” è

stata efficacemente descritta da alcuni autori in termini di possesso, da 7 RICHMOND, Reactive Migration: Sociological Perspectives On Refugee

Movements, in Journal of Refugee Studies, 1993, pp. 7-8.

8 I modelli cinetici sono stati elaborati da KUNTZ (The Refugee in Flight: Kinetic

Models and Forms of Displacement, in The International Migration Review, 1976, pp.

125-146).

9 RICHMOND, Reactive Migration, cit., p. 9.

10 TURTON, Conceptualizing Forced Migration, RCS Working Paper No. 12, p.11. Più in generale sul tema si veda BAKEWELL, Some Reflections on Structure and Agency in

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parte degli individui, di differenti forme di “capitale” – economico, culturale, informativo, simbolico – le quali inciderebbero sulla loro capacità di migrare.11 In quest’ottica la migrazione, soprattutto quella

internazionale, richiederebbe infatti una certa quantità di “capitale”, il quale può essere accumulato, trasmesso e convertito da una forma all’altra.12 Sarebbe quindi la forma e l’entità del capitale di ciascun

individuo a determinare la sua condizione nel corso della migrazione, e non la sua qualificazione in termini di categorie giuridiche.

L’esclusione della netta suddivisione fra migrante e rifugiato è poi confermata, nei modelli più recenti, tramite una disarticolazione della migrazione in diversi movimenti: allontanamento da un luogo, entrata in un altro luogo, ritorno nel luogo di origine o prosecuzione ed entrata in un luogo ulteriore, e infine il “non movimento” di coloro che rimangono nello Stato di origine.13 Questa segmentazione comporta chiaramente il

superamento della dicotomia fra volontà e coercizione, in quanto i movimenti di uno stesso individuo possono trovare la propria origine in diverse motivazioni. Tuttavia, a parere di chi scrive, l’aspetto più significativo dell’approccio in questione risiede nella visione stessa della migrazione di massa che se ne ricava, in quanto alla natura “mista” della massa si sostituisce la capacità dell’individuo di passare da una categoria all’altra nel corso della propria esperienza. Da questo punto di vista, quindi, la fluidità esistente fra le due categorie di migrante economico e rifugiato si configura in realtà come la conseguenza delle diverse fasi e vicende che uno stesso individuo può attraversare e sperimentare nel corso della propria vita.

4. I migranti di massa: una definizione giuridica?

La New York Declaration non fornisce una definizione delle migrazioni di massa, espressione che, secondo il documento, “riflette” una serie di considerazioni relative a diversi fattori, fra cui il numero di persone coinvolte, la capacità degli Stati ospiti di affrontare tali fenomeni e il loro impatto sulle società di destinazione. D’altro canto, la 11 VAN HEAR, BRUBAKER, BESSA, Managing Mobility for Human Development: the

Growing Salience of Mixed Migration, Human Development Research Paper, April 2009,

p. 5.

12 Ibidem.

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Dichiarazione precisa come le migrazioni di massa coprano flussi misti di persone – rifugiati o migranti – che si muovono per motivi diversi, ma seguono rotte identiche o simili. Il documento prende quindi atto del fatto che la migrazione sia spesso “mista” non solo durante il viaggio, ma altresì nel corso dell’intero processo migratorio, in quanto le motivazioni stesse che sono alla base della decisione di emigrare possono comprendere considerazioni ed esigenze di diverso tipo.

A questo proposito, è interessante operare un confronto con il Rapporto sulle migrazioni di massa elaborato dall’Institut de Droit

International.14 A differenza della Dichiarazione, il Rapporto entra nel

merito dell’espressione “migrazione di massa” ma, analogamente alla Dichiarazione, non ne definisce i contorni dal punto di vista giuridico, in quanto essa viene ritenuta una “descrizione sociologica di un fenomeno di fatto”. Quest’ultimo consisterebbe in un “movimento transfrontaliero, improvviso e rapido, di un numero importante di individui, che cercano rifugio in uno Stato di cui non sono cittadini, o che intendono stabilirvisi, temporaneamente o definitivamente”. Sempre in termini descrittivi, il Rapporto dell’Institut precisa come generalmente la migrazione di massa avvenga in maniera irregolare in tutti gli Stati coinvolti, e come sia spesso associata alla migrazione circolare, i.e.cioè a quella caratterizzata dalla ripetizione degli spostamenti fra Stato di origine e Stato di destinazione. Per quanto concerne la composizione del flusso migratorio, anche il Rapporto afferma come la “massa” includa individui che si spostano per motivi diversi, con la conseguente possibilità che, al suo interno, vi siano persone che rientrano nella definizione di rifugiato accanto ad altre qualificabili come migranti economici. Secondo il Rapporto, la distinzione fra le due categorie non sarebbe addirittura “pertinente” prima che le singole situazioni siano state esaminate nei rispettivi Stati di accoglienza; dal momento che l’espressione “migrazione di massa” pone l’accento sull’aspetto quantitativo, infatti, non vi è alcun bisogno, perlomeno allo stadio definitorio, di distinguere gli individui in relazione alla motivazione per cui migrano.

Alla luce di questi elementi, si potrebbe quindi ipotizzare che la natura “ibrida” dei fenomeni migratori contemporanei sia pienamente 14 Migrations de masse, Rapporteur M. Kamto, testo disponibile su: http://www.idi-iil.org/app/uploads/2017/06/16eme_com.pdf (ultimo accesso 22 luglio 2017). Il rapporto verrà presentato nel corso della sessione che si terrà è tenuta a settembre 2017 a Hyderabad.

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presa in conto dalla Dichiarazione di New York, il che comporterebbe, almeno in teoria, un superamento della tradizionale distinzione fra migrante e rifugiato. Tuttavia, ciò che si legge nel prosieguo del testo contraddice fermamente questa impressione.

Fin dai primi paragrafi, la Dichiarazione afferma infatti che il trattamento di rifugiati e migranti è regolato da “distinte cornici giuridiche” – così come, del resto, saranno distinti i due documenti di cui la Dichiarazione dovrebbe porre le basi. Il testo appare quindi perpetuare, in contrasto con l’eredità degli studi in materia sociologica, il principale problema giuridico che caratterizza il diritto internazionale in materia di rifugiati, vale a dire il fatto che, nell’ambito della Convenzione del 1951 sullo status di rifugiato, il principio di non-refoulement15 – che, come è noto, vieta di respingere un individuo verso il territorio di uno Stato dove la sua incolumità sarebbe a rischio – si applichi esclusivamente a coloro che richiedono il riconoscimento dello status di rifugiato. Secondo la

Convenzione, infatti, definizione fornita dalla Convenzione del 1951 sullo status di rifugiato, quest’ultimo è colui che, a causa di fondati timori di essere perseguitato per motivi legati alla razza, alla religione, alla nazionalità, all’appartenenza a un particolare gruppo sociale o all’adesione a un’opinione politica, si trova al di fuori del proprio Stato di nazionalità e non può (oppure, a causa di tali timori, non intende) avvalersi della protezione di tale Stato.16 Di conseguenza, perlomeno in

base alla Convenzione, il principio di non-refoulement non può applicarsi a coloro che migrano per motivi di altra natura – siano essi problemi di natura economica o legati al clima, ma altresì conflitti interni o internazionali – indipendentemente dal fatto che tali situazioni possano mettere a repentaglio la loro vita. A questo proposito, è interessante notare come nemmeno il Rapporto dell’Institut de droit international riesca, in ultima analisi, a svincolarsi completamente dalla distinzione fra rifugiato e migrante, se si considera che esso finisce comunque per 15 È opinione diffusa in dottrina che il principio di non respingimento abbia assunto rango di norma consuetudinaria. In questo senso di veda per tutti GOODWIN-GILL, The

Refugee in International Law, Oxford, 2007, p. 346. Il principio è codificato dall’articolo

33 della Convenzione del 1951 sullo status di rifugiato. Una posizione più sfumata è quella espressa da ALLAND e TEITGEN-COLLY (Traité du droit de l’asile, Parigi, 2002, p.

227). Il testo della Dichiarazione, pur non entrando nel merito della questione, appare anch’esso assumere la natura consuetudinaria del principio.

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suddividere i migranti di massa fra “migranti di massa-rifugiati” e “migranti di massa-economici”.

Se, da un lato, l’idea che nel sistema creato dalla Convenzione del 1951, il principio di non respingimento trovai applicazione nei confronti dei soli richiedenti asilo è ben radicata nel diritto internazionale pattizio e consuetudinario, dall’altra sono proprio i recenti sviluppi in materia di immigrazione – e, precisamente, i “large movements” a cui la Dichiarazione è dedicata – ad aver messo in discussione tale approccio, in ragione della gravità delle situazioni (in primis guerre civili) che sono all’origine del fenomeno e dell’enorme numero di persone interessate da questi eventi. L’idea che esistano categorie ulteriori di persone aventi diritto a ricevere una qualche forma di protezione internazionale è stata recepita, per esempio, in ambito regionale;17 tuttavia, è proprio a livello

internazionale che la necessità di un orientamento comune – orientamento a cui la Dichiarazione allude senza in realtà definirlo – è profondamente sentita. A questo proposito, è peraltro opportuno ricordare che le dichiarazioni di principi, pur essendo sprovviste di forza vincolante, possono esprimere l’opinio juris della maggioranza degli Stati e contribuire quindi alla rilevazione del diritto internazionale generale.18

È infine interessante notare come il mantenimento della distinzione fra migranti e rifugiati sia altresì all’origine della mancanza, all’interno della Dichiarazione, di qualsiasi riferimento alla categoria dei cosiddetti “migranti ambientali”.19 L’assenza della distinzione in parola

17 Si veda, in questo senso, la direttiva dell’Unione europea 2001/55 (Direttiva

2001/55/CE del Consiglio, del 20 luglio 2001, sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi, GU L 212 del 7.8.2001, pp. 12-23). Si noti

tuttavia come la Dichiarazione non dia conto in alcun modo della normativa esistente a livello regionale, nonostante le organizzazioni regionali siano, almeno in teoria, contemplate all’interno del processo negoziale che dovrebbe condurre all’adozione del

Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration.

18 FOCARELLI, Diritto internazionale, 3a ed., Padova, 2015, p. 257.

19 Sul tema si vedano fra gli altri: MOREL, Human Rights Law, Refugee and Migration Law, and Environmental Law: Exploring their Contributions in the Context of “Environmental Migration”, in MARTIN, ZHIPING, TIANBAO, DU PLESSIS, LE

BOUTHILLIER, WILLIAMS (eds.), Environmental Governance and Sustainability, Cheltenham, 2012, pp. 248 ss.; ZETTER, MORRISSEY, The Environment-Mobility Nexus: Reconceptualizing the Links Between Environmental Stress, (Im)mobility and Power, in

FIDDIAN-QASMIYEH, LOESCHER, SIGONA (eds.), The Oxford Handbook of Refugee and

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permetterebbe infatti di ipotizzare l’estensione ad un ampio e crescente numero di individui dei diritti attualmente riconosciuti ai soli rifugiati.

Ciò nonostante, la dimensione ambientale è tutt’altro che assente dal documento, il quale richiama alcuni recenti strumenti in materia, fra cui l’Accordo di Parigi relativo al cambiamento climatico,20 il Sendai Framework for Disaster Risk Reduction21 adottato nell’ambito dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la prevenzione dei rischi derivanti dai disastri, l’Addis Ababa Action Agenda22 finalizzata al finanziamento dello sviluppo – la quale integra all’interno della nozione di sviluppo gli aspetti legati al cambiamento climatico e ai disastri – e la Nansen

Initiative23 relativa al displacement a seguito di disastri. È tuttavia rilevante notare come gli aspetti relativi all’incidenza sulle migrazioni dei fattori di natura ambientale vengano messi in rilievo nella parte introduttiva del documento, ma siano assenti dai paragrafi specificamente dedicati ai rifugiati. Tale omissione è probabilmente conseguenza della reticenza dimostrata da alcuni Stati nei confronti della categoria dei

migrazioni e minacce ambientali si vedano ARMIERO, TUCKER, PRIETO (eds.), From the

Apocalypse to the Possibilities: New Stories about Immigrants and the Environment, in Miradas in Movimiento, 2012, pp. 4 ss.; BETTINI, Climate Migration as an Adaption Strategy: De-securitizing Climate-Induced Migration or Making the Unruly Governable?,

in Critical Studies on Security, 2014, pp. 180 ss.

20 Paris Agreement (Parigi, 12 dicembre 2015; entrata in vigore 4 novembre 2016). L’entrata in vigore dell’Accordo era subordinata alla ratifica di almeno 55 Stati che rappresentino almeno il 55% delle emissioni totali di anidride carbonica. Al momento l’Accordo conta 197 Stati firmatari e 155 Stati parti.

21 Il Sendai Framework 2015-2030 è un documento non vincolante contenente una serie di obiettivi e priorità relativi alla prevenzione e riduzione dei danni derivanti dai disastri. Il documento è stato adottato l’8 marzo 2015 nel corso della Terza Conferenza delle Nazioni Unite sulla riduzione del rischio derivante dai disastri.

22 Addis Ababa Action Agenda of the Third International Conference on Financing

for Development, Addis Abeba, 15 luglio 2015.

23 La Nansen Initiative è stata lanciata da Svizzera e Norvegia a seguito della Conferenza su cambiamento climatico e displacement tenutasi a Nansen nel giugno 2011. L’iniziativa – di carattere intergovernativo, ma con un forte coinvolgimento di

stakeholder non statali – è finalizzata alla creazione di un consenso in seno alla comunità

internazionale in relazione alla protezione degli sfollati che attraversano i confini del proprio Stato a seguito di disastri naturali, compresi quelli determinati dal cambiamento climatico.

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“rifugiati climatici”, rispetto ai quali alcune voci in dottrina24 e non solo25 argomentano la piena titolarità deestendono i diritti garantiti agli “statutory refugees”, vale a dire a coloro che soddisfano i requisiti stabiliti dalla Convenzione del 1951. L’atteggiamento in questione è riconducibile ai problemi di ordine teorico e pratico che sorgerebbero in relazione sia all’identificazione delle situazioni suscettibili di qualificare una persona come “rifugiato ambientale”, sia alla concreta operatività della protezione internazionale, visto l’ampio numero di individui che, allo stato attuale ma soprattutto nel futuro, potrebbero essere minacciati da condizioni ambientali o climatiche avverse tali da indurli a migrare.

5. I core human rights e il trattamento di rifugiati e migranti

Nonostante quanto osservato finora in merito al mantenimento, all’interno della Dichiarazione, della tradizionale distinzione fra migrante e rifugiato, il documento sembra voler controbilanciare tale approccio tramite la definizione di un nucleo duro di diritti umani applicabili a entrambe le categorie. La Dichiarazione elenca infatti, accanto a una serie di impegni che gli Stati intendono assumere in relazione a ciascuno dei due gruppi singolarmente considerati, determinati diritti e libertà fondamentali la cui osservanza deve essere garantita nei confronti di migranti e rifugiati congiuntamente intesi.

Più specificamente, la Dichiarazione “riafferma” il rispetto del diritto internazionale e delle norme internazionali a tutela dei diritti umani nei confronti di migranti e rifugiati indipendentemente dal loro status 24 I rifugiati ambientali sono stati definiti come individui che sono stati costretti a lasciare il proprio Stato di cittadinanza, temporaneamente o in maniera definitiva, prevalentemente a causa di un evento traumatico di natura ambientale, naturale o indotto dall’uomo, che li ha resi incapaci di soddisfare i loro bisogni primari (BUSH, Redefining

Environmental Refugees, in Georgetown Immigration Law Journal, 2013, p. 572). Sul

punto si vedano altresì COURNIL, The Protection of “Environmental Refugees” in

International Law, in PIGUET, PÉCOUD, DE GUCHTENEIRE (dir.), Migration and Climate

Change, Parigi, 2011, pp. 388 ss.; EDWARDS, Climate Change and International Refugee

Law, in RAYFUSE, SCOTT (eds.), International Law in the Era of Climate Change,

Cheltenham, 2012, pp. 58 ss.

25 Si veda in questo senso l’Enciclica Laudato Si’, nella quale si sottolinea l’impatto del cambiamento climatico sulle risorse dei più poveri, i quali si trovano così costretti a migrare, assieme all’assenza di tutela giuridica derivante dal mancato riconoscimento dello status di rifugiato, nei confronti di questi individui, all’interno delle convenzioni internazionali (Lettera Enciclica Laudato Si’ del Santo Padre Francesco sulla cura della

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giuridico, nonché del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale dei rifugiati, “quando applicabili”. Di conseguenza, secondo il documento, la netta distinzione operata fra migranti e rifugiati non impedirebbe la piena titolarità, da parte di entrambe le categorie, dei diritti umani universali e delle libertà fondamentali, le quali formerebbero un common core di diritti umani capaci di accomunare gli uni e gli altri. Tuttavia, è proprio rispetto a questo tipo di operazione concettuale che la Dichiarazione sembra presentare alcuni limiti.

Si può innanzitutto osservare, a questo proposito, come il documento dia per scontata una categoria di diritti – i diritti umani fondamentali applicabili a qualsiasi individuo – di cui la dottrina riconosce in termini generali l’esistenza, ma la cui definizione è tutt’altro che univoca.26

Questa incertezza è aggravata dal fatto che i due strumenti che dovrebbero essere negoziati in futuro avranno natura non vincolante, con la conseguenza che gli “impegni” di cui si parla nella Dichiarazione dovrebbero anch’essi essere ascrivibili all’ambito della soft law.

La mancanza di chiarezza che caratterizza l’aspetto definitorio della distinzione fra migrante e rifugiato si riflette altresì all’interno delle parti della Dichiarazione relative al trattamento che, in base agli obblighi assunti internazionalmente, dovrebbe essere garantito a migranti e rifugiati. La necessità dell’osservanza di tali obblighi viene sottolineata in riferimento alla condizione degli individui vulnerabili, al controllo delle frontiere, alla lotta contro la tratta o contro il traffico di esseri umani, all’assistenza alle comunità di migranti che si trovano all’estero, agli accordi per il rientro dei migranti nei paesi di origine, alla protezione dei rifugiati e alle politiche per la loro ammissione, così come alle situazioni di conflitto armato che sono alla base dei flussi di rifugiati. In questo quadro, particolare enfasi viene posta nei confronti desulla sicurezza e della dignità di tutti gli esseri umani, nonché sudel principio di non discriminazione; coerentemente, la Dichiarazione condanna qualsiasi atto 26 Sul punto si vedano, fra gli altri, NASCIMBENE, L’individuo e la tutela

internazionale dei diritti umani, in CARBONE, LUZZATTO, SANTA MARIA (a cura di), Istituzioni di diritto internazionale, 4a ed., Torino, 2011, pp. 438 ss.; SUDRE, Droit

européen et international des droits de l’homme, Parigi, 2012, pp. 214-215; SCHEININ,

Core Rights and Obligations, in SHELTON (ed.), The Oxford Handbook of International

Human Rights Law, Oxford, 2013, p. 528; CITRONI, SCOVAZZI, La tutela internazionale dei diritti umani, Milano, 2013, pp. 60-61; ZANGHÌ, La protezione internazionale dei

diritti dell’uomo, Torino, 2013, p. 35; CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, 2015, p. 212.

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di xenofobia e di razzismo e qualsiasi stereotipizzazione nei confronti di migranti e rifugiati, con riferimento specifico a crimini e discorsi d’odio e alla violenza razziale. A ciò si aggiunge il dovere di soddisfare le esigenze fondamentali ed immediate degli individui coinvolti, in particolare di coloro che hanno subito abusi durante il viaggio, delle donne e dei bambini, soprattutto se non accompagnati. A questo fine, viene prevista da un lato l’elaborazione di linee guida non vincolanti sul trattamento dei migranti in situazioni di vulnerabilità e, dall’altro, la concessione di assistenza umanitaria ai rifugiati – comprendente l’accesso a cure mediche, riparo, cibo, acqua e igiene – assieme ad azioni di supporto in favore degli Stati e delle comunità ospiti. Un accento particolare viene poi posto sulla creazione e l’utilizzo dei campi profughi, i quali devono essere considerati una misura “eccezionale” e, possibilmente, temporanea, tenendo conto della responsabilità degli Stati di destinazione di assicurare il carattere umanitario e civile dei campi stessi.

Lo standard di trattamento delineato dalla Dichiarazione è in linea con quanto generalmente affermato in relazione al trattamento umano dei rifugiati e dei richiedenti asilo dall’UNHCR, il qualeche ha frequentemente sottolineato la necessità di condizioni di accoglienza adeguate.27 È da notare, tuttavia, come la Dichiarazione trascuri

completamente la categoria delle persone più anziane, la cui vulnerabilità è stata evidenziata più volte dall’UNHCR in ragione della loro esposizione sistematica a taluni dei problemi incontrati dai rifugiati, fra cui la dipendenza cronica dagli enti che offrono assistenza e la disintegrazione sociale. Per quanto concerne il tema dei campi profughi, l’approccio seguito dalla Dichiarazione è coerente con il fatto che, nell’affrontare il tema di un’accoglienza adeguata, l’UNHCR faccia generalmente riferimento a centri di ricezione e a famiglie ospiti, affermando esplicitamente il proprio intento di individuare soluzioni alternative ai campi. Questi ultimi si caratterizzerebbero infatti per il fatto di comportare inevitabilmente una qualche forma di limitazione dei diritti, delle libertà e dell’autodeterminazione dei rifugiati, oltre a causare isolamento e dipendenza dall’aiuto esterno. Al contrario, la Dichiarazione pone particolare enfasi sul tema dell’integrazione e dell’inclusione, considerate strumenti utili al fine di prevenire fenomeni di 27 Reception of asylum-seekers, including standards of treatment, in the context of

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radicalizzazione e marginalizzazione, soprattutto nel settore dell’educazione e della formazione professionale dei minori rifugiati.

Nonostante la coerenza fra lo standard di trattamento delineato dalla Dichiarazione e quanto costantemente suggerito dall’UNHCR, e nonostante le ripetute affermazioni relative al rispetto del diritto internazionale nel trattamento di migranti e rifugiati, il documento lascia tuttavia intravedere, a parere di chi scrive, una certa vaghezza nella precisa definizione, dal punto di vista giuridico, del contenuto di tale trattamento. Da un lato, infatti, la Dichiarazione menziona – senza identificarle – le norme internazionali a tutela di migranti e rifugiati, nonostante la grande incertezza che, come osservato in precedenza, caratterizza le norme consuetudinarie in materia, in relazione sia alla loro esistenza così come al loro contenuto.

In secondo luogo, soprattutto per quanto concerne il trattamento degli individui, è evidente come l’osservanza degli obblighi assunti internazionalmente venga sottolineata in relazione a una gamma molto ampia di situazioni, che tendono a coprire praticamente l’intero catalogo dei diritti umani, fino a sconfinare in quelle che possono apparire come mere indicazioni di policy (per esempio, aspetti specifici della gestione dei campi profughi, oppure questioni inerenti all’educazione e alla formazione). Ciò deriva, fra le altre cose, dall’assenza di un criterio di delimitazione spaziale e temporale rispetto adella situazione del migrante. Più rigoroso è, da questo punto di vista, l’approccio seguito dal Rapporto dell’Institut de Droit International menzionato in precedenza, il quale ha scelto di circoscrivere la propria analisi al periodo di tempo compreso fra il momento in cui il migrante giunge nello Stato di destinazione e quello in cui viene assunta una decisione a suo riguardo. La scelta in questione implica, in particolare, che diritti specificamente riferiti alla situazione del rifugiato non vengano in rilievo ai fini della definizione del trattamento riservato al singolo.28

Più in generale, quanto affermato dalla Dichiarazione in relazione ai diritti fondamentali di migranti e rifugiati, così come al trattamento di 28 E’ opportuno osservare, a questo proposito, come il principio di non-refoulement si applichi non solo a coloro che sono stati formalmente riconosciuti come rifugiati in base alle procedure nazionali, ma a tutti coloro che soddisfano i requisiti stabiliti dall’Articolo 1 della Convenzione del 1951, vale a dire che nutrono un fondato timore di essere perseguitati. Di conseguenza, il termine “rifugiato” comprende anche coloro che non sono ancora stati formalmente riconosciuti come tali nell’ordinamento interno.

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questi ultimi, presenta ulteriori elementi di incertezza rispetto al fatto che i diritti in questione vadano ricollegati esclusivamente alla categoria delle norme consuetudinarie, oppure anche all’insieme degli strumenti pattizi, (perlomeno quelli a carattere universale), i quali non vengono però indicati. È questo il caso, per esempio, del diritto al ricongiungimento familiare, menzionato nella Dichiarazione a proposito dei migranti così come dei rifugiati, ma richiamato dall’Allegato I (relativo al modello di risposta rapida agli afflussi massicci di migranti) solo in relazione ai rifugiati, senza riferimenti precisi all’esistenza di tale diritto all’interno di strumenti pattizi, fra cui la Convenzione sui lavoratori migranti e sulle loro famiglie.29 In particolare, stupisce la mancanza di qualsiasi richiamo

agli strumenti pattizi a carattere universale che costituiscono per così dire il “codice” dei diritti umani a livello internazionale.30 L’assenza di

riferimenti espliciti (se si esclude una generica menzione dei “core

international human rights treaties”) è inoltre degna di nota ove si

consideri che gli strumenti suddetti riconoscono una serie di diritti a prescindere dal legame di cittadinanza (legame tuttavia ammesso come fattore di discriminazione dal diritto internazionale) e che alcuni di questi diritti – fra cui, per esempio, quello di lasciare il proprio Stato e di farvi ritorno – vengono chiaramente menzionati dalla Dichiarazione.

Anche a questo proposito, è opportuno notare la scelta operata dall’Institut nel Rapporto menzionato in precedenza, consistente nel ricavare i diritti in questione a partire dal Protocollo del 2000 alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla lotta alla criminalità organizzata transnazionale, Protocollo – come è noto – relativo alla lotta al traffico di migranti.31

29 International Convention on the Protection of the Rights of All Migrant Workers

and Members of their Families, (New York, 18 dicembre 1990; entrata in vigore 1 luglio 2003), Aarticolo. 44 par. 2.

30 Il riferimento è, in particolare, al Patto Internazionale sui diritti civili e politici (International Covenant on Civil and Political Rights, New York, 16 dicembre 1966; entrata in vigore 23 marzo 1976), al Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights, New York, 16 dicembre 1966; entrata in vigore 3 gennaio 1976), alla Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne (Convention on the

Elimination of All Forms of Discrimination against Women, New York, 18 dicembre

1979; entrata in vigore 3 settembre 1981).

31 Protocol against the Smuggling of Migrants by Land, Sea and Air, supplementing

the United Nations Convention against Transnational Organized Crime, New York, 15

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6. Osservazioni conclusive

Volendo elaborare qualche osservazione conclusiva, gli elementi analizzati evidenziano la mancanza, all’interno del documento, di una visione chiara degli strumenti giuridici offerti dal diritto internazionale al fine di garantire i diritti umani di rifugiati e migranti. In questo senso, una prima osservazione concerne la struttura “tripartita” della Dichiarazione, incentrata sugli impegni assunti nei confronti di migranti e rifugiati congiuntamente intesi da una parte e su quelli assunti nei confronti di ciascuna delle due categorie dall’altra. Tale rigida suddivisione fa sì che alla complessità dei problemi sollevati dall’oggetto stesso del documento – i “large movements” che, per definizione, hanno natura “mista” – si contrapponga una schematizzazione che pone tali complessità in secondo piano, dando invece rilievo alla tradizionale distinzione fra status di migrante e status di rifugiato.

Come osservato nel corso del lavoro, la mancanza di un più solido consenso su quali siano i diritti riconosciuti a migranti e rifugiati emerge in particolar modo nell’ambito del tema del trattamento dell’individuo. Nonostante la Dichiarazione elenchi una serie di azioni volte alla tutela di quest’ultimo (fra cui l’eliminazione di ogni discriminazione, oppure la protezione delle persone in situazione di vulnerabilità), a parere di chi scrive il linguaggio utilizzato contiene numerosi elementi di opacità rispetto alle norme di diritto internazionale che sarebbero poste a fondamento di tale tutela, soprattutto in relazione al loro ancoraggio al diritto internazionale consuetudinario o pattizio. Se, da un lato, la difficoltà insita nell’identificazione di un nucleo duro di norme consuetudinarie in materia è comunemente riconosciuta dalla dottrina, così come è evidente la complessa interazione fra evoluzione del diritto pattizio e nascita di norme consuetudinarie, dall’altro tali incertezze assumono rilievo in un documento, come quello in questione, finalizzato alla definizione di “impegni” nei confronti di individui. L’aspetto in questione sarebbe stato di notevole rilevanza soprattutto nella parte dedicata congiuntamente a migranti e rifugiati, in quanto avrebbe permesso di affrontare uno dei punti più delicati della materia, vale a dire l’identificazione di diritti (soprattutto consuetudinari) riconosciuti agli individui a prescindere dal legame di cittadinanza e dall’esistenza dello

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speciale regime di protezione internazionale derivante dallo status di rifugiato.

I problemi in oggetto trovano, almeno in parte, un riflesso nelle possibili sovrapposizioni di contenuto fra i due futuri strumenti;32

secondo l’UNHCR, tale circostanza può trovare risoluzione attraverso l’utilizzo di un “linguaggio coerente”33 all’interno dei due patti, il che

tuttavia ripropone l’interrogativo di fondo illustrato nel corso di questo lavoro, vale a dire le modalità di identificazione di norme applicabili sia ai migranti sia ai rifugiati. Lo stesso dicasi dell’idea in base alla quale coerenza e complementarietà fra i due strumenti potrebbero essere perseguite tramite riferimenti chiari nel testo a “fondamenti giuridici già consolidati”,34 a meno che, con tale espressione, non ci si riferisca

esclusivamente al diritto pattizio. Probabilmente in ragione della consapevolezza di queste lacune, l’UNHCR ha prospettato l’utilizzo di un linguaggio simile nelle aree operative dove il trattamento di migranti e rifugiati è simile, anche attraverso il ricorso a discussioni tematiche.35

Tuttavia, l’approccio proposto, oltre a riproporre il problema di cui sopra (in quali casi il trattamento è comune?) rischia di porre la questione su un piano eccessivamente “operativo”, soprattutto per quanto riguarda il

Global Compact on Safe, Orderly and Regular Migration che, a

differenza del Global Compact on Refugees, dovrebbe dare origine a un vero e proprio quadro giuridico.

In conclusione, e in termini più generali, risulta evidente come, a dispetto del proprio titolo, la Dichiarazione di New York non sia in grado di prendere una adeguata posizione in merito al tema della distinzione fra migrante economico e rifugiato e, di conseguenza, in merito agli aspetti giuridici del fenomeno delle migrazioni di massa. L’origine di questa incapacità sembra doversi ricercare, a parere di chi scrive, all’interno dnella mancanza di consenso, nella comunità internazionale, in merito ad alcuni concetti e principi di fondo che, se applicati, potrebbero non già scardinare la tradizionale distinzione fra migrante e rifugiato, bensì controbilanciarla, perlomeno nelle situazioni in cui l’incolumità delle persone è in pericolo. Si tratta, nello specifico, dell’emergere del 32 UNHCR, New York Declaration for Refugees and Migrants – Answers to

Frequently Asked Questions, cit., p. 5. 33Ivi, p. 6.

34 Ibidem.

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“principio di umanità” che, secondo lo stesso Rapporto dell’Institut de

Droit International, dovrebbe ispirare la condotta degli Stati coinvolti a

diverso titolo in operazioni di salvataggio via mare, così come dell’accoglienza temporanea, temi a cui la Dichiarazione dedica solo brevi passaggi. Vale la pena di osservare, a questo proposito, come il testo si limiti ad accogliere favorevolmente la concessione, da parte di alcuni Stati, della protezione temporanea nei confronti di individui che non soddisfano i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, nonché a lodare gli sforzi profusi da parte di alcuni Stati al fine di salvare vite umane in mare.

Senza una riflessione su tali aspetti, i tentativi di trovare un consenso globale sugli attuali fenomeni migratori rischiano di ridursi, al di là delle tecniche redazionali che verranno utilizzate nei due futuri documenti, a un elenco di impegni di mero valore programmatico e, pertanto, di portare ain un ulteriore rinvio di una reale risoluzione di rilevanti nodi giuridici.

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