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La sentenza dichiarativa di fallimento è condizione obiettiva di punibilità: quando affermare non costa nulla

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Milano • Giuffrè Editore

RIVISTA ITALIANA DI DIRITTO E PROCEDURA PENALE

Anno LX Fasc. 3 - 2017 ISSN 0557-1391

Maria Novella Masullo

LA SENTENZA DICHIARATIVA

DI FALLIMENTO È CONDIZIONE

OBIETTIVA DI PUNIBILITÀ:

QUANDO AFFERMARE

LA VERITÀ NON COSTA NULLA

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CASSAZIONE PENALE - Sez. V

8 febbraio 2017 (dep. 22 marzo 2017), n. 13910

Pres. Fumo — Rel. De Marzo

Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - In genere - Bancarotta fraudolenta prefallimentare - Natura della sentenza dichiarativa di fallimento - Condi-zione obiettiva di punibilità - Ragioni - Conseguenze.

(Cost. art. 27; legge fall. artt. 216, 223; c.p. art. 44).

In tema di bancarotta fraudolenta prefallimentare, la dichiarazione di falli-mento, ponendosi come evento estraneo all’offesa tipica e alla sfera di volizione dell’agente, costituisce una condizione obiettiva di punibilità, che circoscrive l’area di illiceità penale alle sole ipotesi nelle quali, alle condotte del debitore, di per sé offensive degli interessi dei creditori, segua la dichiarazione di fallimento (1).

Dalla natura di condizione obiettiva di punibilità della dichiarazione di fallimento deriva che il luogo e il tempo della commissione del reato, ai fini della determinazione della competenza territoriale, dei tempi di prescrizione e del calcolo del termine di efficacia dell’amnistia o dell’indulto, coincidono con quelli della sentenza di fallimento (2).

(Omissis)

CONSIDERATO IN DIRITTO. — 1. Il ricorso è infondato, atteso che,

contraria-mente a quanto sostenuto dal ricorrente, questo Collegio ritiene, in adesione all’opinione della prevalente dottrina, che la dichiarazione di fallimento costitui-sca, rispetto al reato di bancarotta patrimoniale pre-fallimentare, condizione obiettiva (estrinseca) di punibilità, ai sensi dell’art. 44 c.p..

2. Per affrontare, come è necessario, ab imis la problematica, occorre prendere le mosse dal consolidato orientamento della giurisprudenza di legitti-mità secondo il quale la sentenza dichiarativa di fallimento rientra tra gli elementi integranti la fattispecie di reato.

Tale affermazione trova la sua origine presso questa Corte nella sentenza di Sez. U, n. 2 del 25/01/1958, Mezzo, Rv. 980040, nella quale si legge che, a differenza delle condizioni obiettive di reato, che presuppongono un reato già strutturalmente perfetto, la sentenza dichiarativa di fallimento costituisce una condizione di esistenza del reato o, per meglio dire, un elemento al cui concorso

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è collegata l’esistenza del reato, relativamente a quei fatti commissivi od omissivi anteriori alla sua pronuncia.

La giurisprudenza successiva ha tratto da tale indicazione la conseguenza che la dichiarazione di fallimento, pur essendo elemento costitutivo della fatti-specie di bancarotta fallimentare prevista dall’art. 216 L. Fall., non ne rappre-senta l’evento e non deve necessariamente essere collegata da nesso psicologico al soggetto agente (Sez. 5, n. 15850 del 26/06/1990, Bordoni, Rv. 185883, la quale ha aggiunto che il principio della responsabilità personale in materia penale non presuppone che tutti gli elementi della fattispecie siano dipendenti dall’at-teggiamento psichico dell’agente), come pure da un nesso eziologico con la condotta (v., ad es., Sez. 5, n. 36088 del 27/09/2006, Corsatto, Rv. 235481). Dall’orientamento indicato si è discostata la sentenza n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta, citata dal ricorrente, la quale, muovendo dalla premessa che, nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, lo stato di insolvenza che dà luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in quanto evento dello stesso, ha ritenuto che esso deve porsi in rapporto causale con la condotta dell’agente e deve essere, altresì, sorretto dall’elemento soggettivo del dolo.

Siffatta ricostruzione è rimasta isolata nella giurisprudenza di legittimità, (si vedano, infatti, Sez. 5, n. 32352 del 07/03/2014, Tanzi, Rv. 261942; conf., ex

plurimis, Sez. 5, n. 11095 del 13/02/2014, Ghirardelli, Rv. 262741; Sez. 5, n.

47616 del 17/07/2014, Simone, Rv. 261683; Sez. 5, n. 26542 del 19/03/2014, Riva, Rv. 260690; Sez. 5, n. 11793/14 del 05/12/2013, Marafioti, Rv. 260199; Sez. 5, n. 232 del 09/10/2012, Sistro, Rv. 254061).

In particolare, è stato reiteratamente affermato che il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di pericolo a dolo generico per la cui sussistenza, pertanto, non è necessario che l’agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né che abbia agito allo scopo di recare pregiu-dizio ai creditori (Sez. 5, n. 3229/13 del 14/12/2012, Rossetto, Rv. 253932; conf., ex plurimis, Sez. 5, n. 21846 del 13/02/2014, Bergamaschi, Rv. 260407). La critica alle conclusioni raggiunte da Sez. 5, n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta cit. possono sostanzialmente riassumersi nei seguenti rilievi: a) il dato normativo, per il quale la rilevanza del rapporto causale tra condotta e dissesto è previsto per le sole fattispecie di bancarotta impropria ex art. 223, comma 2, L. Fall.; b) il carattere di mero paralogismo dell’affermazione che il fallimento è l’evento del reato; c) la, del tutto problematica, ipotizzabilità di un rapporto causale tra dissesto e fatti di bancarotta documentale (cfr. tra le altre, Sez. 5, n. 32352 del 07/03/2014, Tanzi; Sez. 5, n. 32031 del 07/05/2014, Daccò, Rv. 261988, in motivazione; Sez. 5, n. 15613 del 05/12/2014, Geronzi, Rv. 263805, in motivazione).

In particolare, si è ritenuto, da parte della giurisprudenza di legittimità sinora largamente prevalente, che la sentenza dichiarativa di fallimento integra una condizione di esistenza del reato, che ne segna il momento consumativo, senza, tuttavia, che le si possa attribuire la qualifica di evento, come se non fosse data via di uscita rispetto all’alternativa tra condizione obiettiva di punibilità ed evento del reato: al contrario, può certamente affermarsi che è facoltà del legislatore inserire nella struttura dell’illecito penale elementi costitutivi estranei alla cennata dicotomia (Sez. 5, n. 32352 del 07/03/2014, Tanzi cit.). Sez. 5, n. 32031 del 07/05/2014, Daccò, cit., dal canto suo, ha osservato che la

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qualifica-zione, da parte della citata sentenza n. 2 del 25/01/1958, della dichiarazione di fallimento come “condizione di esistenza del reato” manifesti chiaramente l’in-tento di denotare una realtà diversa da quella dell’elemento costitutivo del reato, quanto meno nel significato proprio del termine, indicando essa una componente necessaria perché il fatto sia penalmente rilevante, ma, come evidenziato dal termine condizione, distinta dai dati costitutivi della struttura essenziale del reato: di qui il riferimento ad una nozione di elemento costitutivo in senso assolutamente improprio, riferimento, questo, ripreso anche da Sez. 5, n. 15613 del 05/12/2014, Geronzi cit.

3. Le conclusioni operative rivenienti dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte sono state di recente ribadite, sia pure con la significativa precisa-zione concettuale della quale si dirà (v, infra, p. 6), da Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, Rv. 266804, le quali hanno rilevato che, ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, non è necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, essendo sufficiente che l’agente abbia cagionato il depauperamento dell’impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività, sicché, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, i fatti di distrazione assumono rilievo in qualsiasi momento siano stati commessi e, quindi, anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza.

È, dunque, l’effettiva offesa alla conservazione dell’integrità del patrimonio dell’impresa, costituente la garanzia per i creditori della medesima (Corte cost., ord. n. 268 del 1989) che funge da parametro della concreta applicazione della norma incriminatrice e consente di configurare il reato in esame come di pericolo concreto.

Conferma di tale conclusione si trae dalla costante giurisprudenza di legit-timità in tema di bancarotta cd. “riparata”, che si configura, determinando l’insussistenza dell’elemento materiale del reato, quando la sottrazione dei beni venga annullata da un’attività di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell’impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, così annullando il pregiudizio per i creditori o anche solo la poten-zialità di un danno (Sez. 5, n. 52077 del 04/11/2014, Lelli, Rv. 261347).

Sempre nella prospettiva del reato di pericolo concreto, si apprezzano anche gli approdi in tema di elemento psicologico, la cui sussistenza richiede la rappresentazione da parte dell’agente della pericolosità della condotta distrattiva, da intendersi come probabilità dell’effetto depressivo sulla garanzia patrimoniale che la stessa è in grado di determinare e, dunque, la rappresentazione del rischio di lesione degli interessi creditori tutelati dalla norma incriminatrice (Sez. 5, n. 15613/15 del 05/12/2014, Geronzi, cit.).

In definitiva, il dolo di bancarotta investe anche la pericolosità di tale condotta rispetto alla preservazione della garanzia patrimoniale dei creditori, in tal modo rivelando la fraudolenza degli atti posti in essere (Sez. 5, n. 9807 del 13/02/2006, Caimmi, Rv. 234232, in motivazione).

4. Questo essendo il panorama giurisprudenziale, si osserva che la quali-ficazione della dichiarazione di fallimento come elemento costitutivo improprio, per un verso, esprime il comprensibile tentativo di risolvere, attraverso un’age-vole ricostruzione del momento consumativo del reato, una serie di problemi processuali (tra i quali spicca, per la sua importanza, quello della individuazione

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del locus commissi delicti, ai fini della dell’individuazione della competenza territoriale), ma, per altro verso, tradisce la difficoltà di giustificare l’irrilevanza dell’accertamento del nesso causale e psicologico tra la condotta dell’agente e la dichiarazione di fallimento (di qui l’“improprietà” del requisito) e soprattutto di spiegarne la compatibilità con i principi costituzionali in materia di personalità della responsabilità penale.

È, infatti, evidente che il fallimento in quanto tale non costituisce oggetto di rimprovero per l’agente nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale. Certo, il legislatore potrebbe configurare elementi costitutivi estranei alla dicotomia evento — condizione obiettiva di punibilità, ma tale scelta dovrebbe essere esplicita, a fronte della disciplina codicistica di parte generale, e soprattutto dovrebbe accompagnarsi ad una — invece inesistente — puntualizzazione delle regole applicabili.

Peraltro, per quanti sforzi potrebbe fare tale ipotetico legislatore, non si vede in che modo potrebbe qualificare come elemento costitutivo di una fattispecie criminosa quello che è un provvedimento del giudice: la dichiarazione di falli-mento, appunto.

5. In tal modo evidenziata l’inadeguatezza della ricostruzione tradizionale a giustificare, anche sul piano della coerenza con il principio di responsabilità penale personale, le conclusioni raggiunte, se non a prezzo di artificiose forzature concettuali, occorre premettere che la questione che viene in rilievo nel presente procedimento riguarda i reati di bancarotta prefallimentare.

A tale tipologia di reati conviene in questa sede limitare la riflessione. Invero, l’esigenza di una soluzione omogenea non ha alcuna base normativa e inverte i termini del problema, in quanto si fonda sul postulato indimostrato della necessaria parificazione delle ipotesi di bancarotta, che, al contrario, è smentito dalla disciplina positiva.

Al riguardo, Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011, Loy, Rv. 249665 hanno puntualizzato che la bancarotta fraudolenta patrimoniale, quella fraudolenta documentale, quella preferenziale, le plurime e diverse ipotesi di bancarotta semplice, la bancarotta pre-fallimentare e quella post-fallimentare si concretiz-zano attraverso condotte diverse, determinano eventi diversi, hanno gradi di offensività non omologhi, sono sanzionate in modo differenziato, non tutte coincidono come tempo e luogo di consumazione (la bancarotta pre-fallimentare si consuma nel momento e nel luogo in cui interviene la sentenza di fallimento, mentre la consumazione di quella post-fallimentare si attua nel tempo e nel luogo in cui vengono posti in essere i fatti tipici).

Ora, iniziando a considerare, anche per la stretta pertinenza con l’oggetto del presente procedimento, il caso della bancarotta fraudolenta patrimoniale, è innegabile che l’oggettività giuridica si colga nell’esigenza di tutelare l’interesse patrimoniale dei creditori, a fronte degli atti con i quali l’imprenditore provochi un depauperamento dei mezzi destinati all’esercizio dell’attività economica, attraverso l’impiego di risorse per fini estranei all’attività stessa (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, Rv. 266804).

A tal proposito, è bene ricordare che il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri (art. 2740 cod. civ.). A siffatta funzione di garanzia patrimoniale corrispondono, già su un piano gene-rale, rimedi specifici posti dall’ordinamento per reagire all’inerzia del debitore

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nell’esercitare i diritti e le azioni che gli spettano nei confronti dei terzi (art. 2900 cod. civ.: azione surrogatoria) e per ottenere la declaratoria di inefficacia degli atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore stesso rechi pregiudizio alle ragioni dei creditori (art. 2901 cod. civ.: azione revocatoria).

A tali considerazioni concernenti, come si rilevava, la generalità dei debitori, devono poi aggiungersi le indicazioni normative specificamente riguardanti gli imprenditori, le quali trovano il loro fondamento costituzionale nell’art. 41 Cost., a mente del quale l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. È in tale contesto che si colloca il rilievo per il quale l’imprendi-tore, contrariamente a quanto si sostiene in ricorso (egli disponendo ad libitum dei beni aziendali porrebbe in essere “condotte in sé neutre ed anzi lecite, in quanto espressive della libertà dell’imprenditore di gestire i propri beni”), non è il dominus assoluto e incontrollato del patrimonio aziendale. Egli, pertanto, non ha una sorta di jus utendi et abutendi sui beni aziendali, i quali, viceversa, pur essendo strumentali al legittimo obiettivo del raggiungimento del profitto del-l’imprenditore me esimo, sono finalisticamente vincolati, per così dire, “in negativo”, nel senso egli stessi non può farsi un utilizzo che leda o metta in pericolo gli interessi costituzionalmente tutelati cui sopra si è fatto cenno. Ed è in tale prospettiva che si inseriscono, ad es., gli obblighi strumentali di traspa-renza finalizzati a rendere ostensibili la consistenza e le vicende delle risorse destinate all’attività economica.

Tenuto conto delle finalità della presente analisi e nella consapevolezza della più ampia portata dei doveri gravanti sull’imprenditore, è sufficiente, al riguardo, considerare gli obblighi di regolare tenuta delle scritture contabili e i doveri di rappresentazione, in modo veritiero e corretto, della situazione patrimoniale e finanziaria e del risultato economico dell’esercizio (art. 2423 cod. civ.), sui quali ha particolarmente insistito di recente la citata Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli. In altre parole, la libertà di intrapresa è disciplinata dal legislatore nella consapevolezza della pluralità di interessi che vengono coinvolti, quando l’attività economica organizzata si alimenta del credito e implica una rilevante responsabilità sociale per l’intero sistema produttivo e lavorativo.

Da tali premesse discende che l’offesa agli interessi patrimoniali dei creditori si realizza indubbiamente già con l’atto depauperativo dell’imprenditore.

E, infatti, non casualmente, in tema di misure cautelari personali, ai fini della valutazione delle esigenze di cui all’art. 274 c.p.p., in relazione al delitto di bancarotta fraudolenta, il tempo trascorso dalla commissione del fatto viene determinato dalla giurisprudenza di questa Corte, avendo riguardo all’epoca in cui le condotte illecite sono state poste in essere e non al momento in cui è intervenuta la dichiarazione giudiziale di insolvenza (v., ad es., Sez. 5, n. 9280 del 14/10/2014 - dep. 03/03/2015, Cassina, Rv. 263586).

A questo riguardo, può essere opportuno sviluppare la considerazione secondo cui, in realtà, le varie fattispecie di bancarotta pre-fallimentare sono chiamate a proteggere vari interessi, attesa la rilevata loro autonomia.

Accanto all’interesse dei creditori a conservare la garanzia patrimoniale, è ravvisabile l’interesse degli stessi a conoscere la consistenza del patrimonio e del movimento degli affari dell’imprenditore (bancarotta documentale), come pure

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l’interesse al rapido e paritetico trattamento nel caso di insolvenza (bancarotta preferenziale).

A fronte di tale costellazione di fattispecie e di interessi protetti, la premessa dalla quale si sono prese le mosse, ossia il carattere antigiuridico della condotta depauperativa incriminata dal reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, a prescindere dall’intervento della dichiarazione di fallimento, non è messa in discussione dalle specificità della bancarotta preferenziale.

Il fatto che quest’ultima presupponga un contesto di insolvenza (v., ad es., Sez. 5, n. 16983 del 05/03/2014, Liori, Rv. 262903; Sez. 5, n. 13318 del 14/02/2013, Viale, Rv. 254985; Sez. 5, n. 1793 del 10/11/2011 — dep. 17/01/2012, N., Rv. 252003) deriva dalle specifiche finalità perseguite dal legislatore, che, in questo caso, mira proprio ad evitare un pregiudizio per le ordinarie regole del concorso tra i creditori (del resto, per la configurabilità della bancarotta preferenziale è richiesta la sussistenza del dolo specifico, che, invece, non è necessario nel caso della bancarotta fraudolenta patrimoniale: Sez. 5, n. 31894 del 26/06/2009, Petrone, Rv. 244498).

Eppure, anche in questa ipotesi, il pagamento preferenziale eseguito in una situazione di insolvenza (al pari della simulazione di titoli di prelazione), nella misura in cui tende ad alterare le ordinarie quote di soddisfazione delle ragioni creditorie, comunque si qualifica come atto pregiudizievole e idoneo a legittimare l’esperimento degli ordinari rimedi civilistici (in particolare, l’azione revocato-ria). Ne discende che, anche per questo profilo, resta confermato che l’offensività tipica dei fatti previsti dal legislatore sussiste a prescindere dalla dichiarazione di fallimento, la quale, precludendo all’imprenditore ogni margine di autonoma capacità di risoluzione della crisi, rende semplicemente applicabile (perché ritenuta necessaria dal legislatore) la sanzione penale.

La miglior riprova di tale rilievo si coglie nel fatto che l’azione penale può essere esercitata, ai sensi dell’art. 238, comma 2, L. Fall., anche prima della dichiarazione di fallimento, in presenza degli indici qualificati della oggettiva situazione di insolvenza previsti dall’art. 7 L. Fall. o di altri gravi motivi.

6. In definitiva, la dichiarazione di fallimento non aggrava in alcun modo l’offesa che i creditori soffrono per effetto delle condotte dell’imprenditore; anzi, se mai, garantisce una più efficace protezione delle ragioni dei creditori stessi.

In realtà, a tutto voler concedere, il mero aggravamento degli effetti dell’of-fesa può derivare dall’insolvenza, ossia dall’incapacità del debitore di adempiere le proprie obbligazioni. Ma è evidente che altro è l’insolvenza, altro è la dichiarazione di fallimento, che, infatti, potrebbe anche non seguire alla prima, quando l’imprenditore dimostri il possesso congiunto dei requisiti di cui all’art. 1, comma 2, L. Fall..

La dichiarazione di fallimento, in definitiva, in quanto evento estraneo all’offesa tipica e alla sfera di volizione dell’agente, rappresenta una condizione estrinseca di punibilità (e del resto, per quanto può rilevare l’intenzione storica del legislatore, nei termini della condizione obiettiva si era espressa la Relazione del Guardasigilli al R.D. n. 267 del 1942: par. 48), che restringe l’area del penalmente illecito, imponendo la sanzione penale solo in quei casi nei quali alle condotte del debitore, di per sé offensive degli interessi dei creditori, segua la dichiarazione di fallimento.

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Siffatta ricostruzione appare, peraltro, in linea con la giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha osservato che il fatto offensivo costituente reato è, in quanto tale, meritevole di pena, nel senso che sono in esso presenti i requisiti sufficienti per tracciare il confine tra la sfera del lecito e quella dell’illecito e per giustificare il ricorso alla sanzione criminale, con la conseguenza che la previ-sione normativa deve essere, pertanto, espressa e resa in forma determinata, per assicurare, attraverso la certezza dell’incriminazione, la libertà dei cittadini. Non in tutti i fatti meritevoli di pena è però rinvenibile anche un’esigenza effettiva di pena: la punibilità del reato può (allora) essere subordinata ad elementi di varia natura, nei quali si cristallizza una valutazione d’opportunità politica, estranea al contenuto dell’offesa e dipendente dal modo con cui è apprezzata la sua rilevanza in concreto per l’ordinamento. Tali elementi condizionanti fungono, in pratica, da filtro selettivo nel ricorso alla sanzione criminale per fatti pur (astrattamente) meritevoli di pena; ma, non concorrendo a definire il discrimine fra lecito ed illecito, non devono sottostare ad un’esigenza di determinatezza in funzione di garanzia della libertà (assicurata con la previsione di un’offesa dal contenuto tipico tassativamente definito), bensì in funzione della parità di trattamento tra gli autori del fatto illecito, la cui selezione repressiva non può porsi in contrasto con il principio d’uguaglianza (Corte cost. 16/05/1989, n. 247).

In tale prospettiva si comprende la considerazione secondo cui soltanto gli elementi estranei alla materia del divieto (come le condizioni estrinseche di punibilità che, restringendo l’area del divieto, condizionano, appunto, quest’ul-timo o la sanzione alla presenza di determinati elementi oggettivi) si sottraggono alla regola della rimproverabilità ex art. 27 Cost., comma 1, (Corte cost. 13/12/1988, n. 1085).

Peraltro, la qualificazione della dichiarazione di fallimento come condizione obiettiva di punibilità rende più rispondente al principio di colpevolezza l’affer-mazione secondo cui tale dichiarazione assume valore, ai fini che qui interessano, per gli effetti giuridici che essa produce e non per i fatti da essa accertati (Sez. U, n. 19601 del 28/02/2008, Niccoli, Rv. 239398).

E del resto, la Corte costituzionale, con la sentenza 22/07/2005, n. 301, ha mostrato una posizione di neutralità rispetto alla qualificazione della scelta discrezionale del legislatore di configurare la sentenza di fallimento (o di accer-tamento dello stato di insolvenza di impresa) come elemento costitutivo del reato (secondo la prevalente giurisprudenza), o come condizione obiettiva del reato, ovvero come condizione per la produzione dell’evento costituito dalla lesione o messa in pericolo dell’interesse tutelato dalla norma penale (secondo diverse impostazioni della dottrina). In merito, si deve osservare che, pur nella consa-pevolezza della portata del giudizio demandato alla Corte nel caso di specie, non può sottacersi il significato di una puntualizzazione altrimenti singolare, se si fossero avvertiti in tale costruzione profili di evidente frizione con le regole costituzionali.

Ma, soprattutto, rispetto alla qualificazione della sentenza dichiarativa di fallimento come condizione di punibilità, va considerata l’esplicita presa di posizione di Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli cit., la quale, dopo avere ribadito, come già anticipato, alla stregua della costante giurisprudenza di questa Corte, che non si richiede alcun nesso (causale o psichico) tra la condotta dell’autore e il dissesto dell’impresa, essendo sufficiente che l’agente abbia

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cagionato il depauperamento dell’impresa destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività, ha poi significativamente aggiunto che la condotta si Perfeziona con la distrazione, mentre la punibilità della stessa è subordinata alla dichiarazione di fallimento, che, ovviamente, consistendo in una pronunzia giudiziaria, si pone come evento successivo (in caso, appunto, di bancarotta distrattiva pre-fallimentare) e comunque esterno alla condotta stessa.

Si può dunque affermare che le stesse Sezioni Unite, con la ricordata sentenza Passarelli, pur non qualificando nominatim la dichiarazione di falli-mento come condizione obiettiva di punibilità, tale ruolo le hanno, inequivoca-mente, assegnato (evento successivo ed estraneo cui è subordinata la punibilità), così superando l’antica sentenza n. 2 del 25/01/1958, Mezzo cit. e la più recente affermazione contenuta in Sez. U, n. 24468 del 26/02/2009, Rizzoli, Rv. 243587, che, aderendo alla giurisprudenza sino ad allora stratificatasi, ebbero a confermare la natura di elemento costitutivo del reato (e non di condizione obiettiva di punibilità) della dichiarazione di fallimento.

7. Passando ad esaminare le implicazioni della ricostruzione qui accolta, si osserva che la qualificazione della dichiarazione di fallimento come condizione estrinseca di punibilità spiega, in termini coerenti con il sistema, le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza sopra ricordata e soprattutto la piena rispondenza di queste ultime alle regole costituzionali in tema di responsabilità penale (art. 27 Cost., comma 1).

Essa, peraltro, non è suscettibile di determinare alcun significativo muta-mento nelle regole operative sin qui seguite.

Ciò è senz’altro vero, con riferimento alla disciplina della prescrizione, alla luce dell’art. 158 c.p., comma 2, a mente del quale, quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescri-zione decorre dal giorno in cui la condiprescri-zione si è verificata.

8. Quest’ultima previsione (al pari dell’art. 44 c.p.) sembra confermare, sul piano dogmatico, che la condizione obiettiva di punibilità viene vista dal legislatore come elemento estraneo al reato, inteso nella sua dimensione di condotta già espressiva in termini compiuti di disvalore e, per quanto sopra ricordato (in particolare, v. Corte cost. n. 247 del 1989), meritevole di pena, sebbene ancora non necessitante di quest’ultima, secondo le indicate valutazioni di opportunità. Tuttavia, lo stesso art. 158 c.p., comma 2, dimostra che, nel dettare la disciplina delle questioni che presuppongono la consumazione del reato, è proprio il verificarsi della condizione che assume rilievo determinante.

Siffatta considerazione consente di affermare che il concetto di consuma-zione del reato di cui all’art. 8 c.p.p., in assenza di vincolanti e diverse prescri-zioni normative, deve appunto essere ricostruito nei termini di completa realiz-zazione della fattispecie incriminatrice (e si è sopra visto, come anche per Corte cost. n. 247 del 1989, la condizione obiettiva di punibilità rientri nella fattispe-cie). La conclusione, oltre a garantire una piena equiparazione delle soluzioni in tema di tempus e di locus commissi delicti, la cui diversificazione non avrebbe senso alcuno, è coerente con le finalità delle norme che assumono la consuma-zione del reato a presupposto della loro applicabilità, giacché la condiconsuma-zione di punibilità, pur estranea, nella accezione che qui assume rilievo, all’offesa, co-munque rappresenta il dato che giustifica l’intervento sanzionatorio dello Stato.

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In altri termini, se pure è vero che, dal punto di vista dell’offesa, la massima gravità concreta del fatto si è raggiunta, in termini di disvalore, in epoca anteriore alla realizzazione della condizione, è però anche vero che, secondo quanto lo stesso legislatore mostra di ritenere, in presenza di una condizione di punibilità, occorre attribuire rilievo anche al momento (e quindi al luogo) in cui si realizza l’opportunità della punizione. E ciò, secondo quanto osservato in dottrina, anche per l’esigenza di uno snello ed efficace funzionamento del sistema giurisdizionale, in quanto la soluzione attribuisce l’accertamento delle condizioni che rendono opportuna l’applicazione della sanzione — e quindi il processo — al giudice del luogo in cui tali condizioni si sono verificate.

Del resto, in un precedente di questa Corte che ha avuto modo di occuparsi della questione, si è osservato che il reato non si esaurisce nella condotta umana imposta o vietata, ma comprende altresì tutte le componenti essenziali che integrano la fattispecie, ivi comprese le condizioni obiettive, non facenti parte del precetto, con la conseguenza che il reato stesso si consuma allorquando tutti i predetti elementi vengono realizzati e nel luogo e momento in cui si realizza l’ultima componente (Sez. 1, n. 888 del 11/05/1973, Tintinero, Rv. 124698). A proposito di tale decisione, che valorizza appunto il momento di realizzazione della fattispecie, va solo osservato che non deve trarre in inganno l’esclusione, affermata in motivazione, dell’operatività del principio ai casi di condizioni aventi natura estrinseca, giacché, come reso palese dall’esame del testo e dalla esemplificazioni svolte (querela, richiesta e istanza), la Corte intendeva in realtà riferirsi, in quel caso, alle condizioni di procedibilità e non di punibilità.

Peraltro, non mancano indici che consentono di rinvenire nel sistema della legge fallimentare la volontà di radicare la competenza territoriale presso il tribunale del luogo nel quale è stato dichiarato il fallimento. A parte riferimenti normativi non più attuali (come l’originario art. 16, u.c., L. Fall., che consentiva al tribunale, con la sentenza dichiarativa di fallimento o con successivo decreto, di ordinare la cattura del fallito, per poi comunicare il provvedimento al procu-ratore della Repubblica, chiamato a curarne l’esecuzione), soccorrono riferimenti impliciti (come l’art. 17, comma 1, L. Fall. che si raccorda al successivo art. 238 del medesimo R.D. n. 267 del 1942; o quelli che si possono trarre dall’esigenza di concentrare nel medesimo circondario il luogo in cui devono essere depositate le scritture contabili e quello nel quale compiere l’accertamento dei fatti di penale rilevanza), tutti espressivi del medesimo principio di prossimità sul quale riposa la regola dettata dall’art. 8 c.p.p..

9. Quanto poi ai profili dell’amnistia e dell’indulto (art. 79 Cost., comma 3, che si sovrappone all’art. 151 c.p., comma 3 e art. 174 c.p., comma 3), l’unitaria considerazione degli istituti e il fatto che, come puntualmente rilevato in dottrina, anche l’amnistia, che pure costituisce causa di estinzione del reato, ha riguardo non all’aspetto offensivo di quest’ultimo, ma alla sua punibilità, giusti-ficano la conclusione in base alla quale assume valore determinante il momento del verificarsi della condizione obiettiva di punibilità (e anche questa conclusione è coerente con i risultati raggiunti dalla giurisprudenza di questa Corte: v. Sez. 5, n. 7814 del 22/03/1999, Di Maio, Rv. 213867).

10. Vi è poi la questione del rapporto tra momento consumativo del reato e successione delle leggi penali nel tempo del quale si sono occupate, in ambito finitimo, le Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza Rizzoli cit., con

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riferimento all’intervenuta abrogazione dell’istituto dell’amministrazione con-trollata da parte del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 147 e delle sue implicazioni sull’art. 236, comma 2, n. 1, L. Fall..

Tuttavia, in tal caso le Sezioni Unite hanno puntualizzato che la soluzione raggiunta della abolitio criminis non involgeva la tematica della modifica ‘me-diata della fattispecie penale, vale a dire di quelle norme extrapenali richiamate dall’elemento normativo ‘amministrazione controllata, e ciò perché il D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 147 non si è limitato ad intervenire sulla normativa ‘esterna relativa a tale istituto, ma ha eliminato ogni riferimento a questo presente nella disposi-zione incriminatrice, risultata, quindi, amputata di un suo elemento strutturale. Per queste ragioni, questa Corte ha avuto modo di concludere per la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 150 del medesimo D.Lgs. n. 5 del 2006, secondo cui i ricorsi e le procedure fallimentari pendenti al momento della entrata in vigore del decreto indicato continuano ad essere definiti secondo la legge anteriore, nella parte in cui consente, in relazione ai ricorsi già presentati, la pronuncia dichiarativa di fallimento nei confronti di soggetti che, in applicazione del nuovo regime, non sarebbero assoggettabili a tale tipo di decisione, non rinvenendosi alcuna dispa-rità di trattamento tra colui che, in base alla precedente normativa, si trovava in condizione di essere dichiarato fallito, e colui che, a seguito della disciplina sopravvenuta, non lo è più, posto che nella struttura delle fattispecie previste dagli artt. 216 e ss. L. Fall. la dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua natura di provvedimento giurisdizionale e non per i fatti con essa accertati (Sez. 5, n. 19889 del 24/10/2013 - dep. 14/05/2014, Raponi, Rv. 259837).

Alle stesse conclusioni è giunta Sez. 5, n. 44838 del 11/07/2014 — dep. 27/10/2014, Nicosia, Rv. 261309, la quale, nel dichiarare la manifesta infonda-tezza della questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 150 cit., nella parte in cui non prevede l’abolitio criminis del reato di bancarotta del piccolo imprenditore — sottratto alla procedura fallimentare dal D.Lgs. n. 5 del 2006, in relazione a fatti commessi sotto la previgente normativa, ha aggiunto, in coerenza con la sentenza n. 24468 del 26/02/2009, Rizzoli cit., che la tecnica legislativa, servente rispetto alla volontà del legislatore, ha tradotto questa nel senso di disciplinare del tutto diversamente — ma razionalmente — la sorte assegnata alla procedura concorsuale riguardante il fallimento del piccolo imprenditore e quella che riguardava l’amministratore di società in amministrazione controllata.

È agevole intendere che siffatte conclusioni restano valide anche nel quadro della ricostruzione in questa sede accolta, giacché l’interpretazione della nozione di fatto commesso, assunta dall’art. 2 c.p. e ricostruita in funzione della garanzia di irretroattività, se, da un lato, resta insensibile alle modifiche della disciplina dell’istituto del fallimento, assunto, come detto supra, come mero provvedimento giurisdizionale, dall’altro, non potrebbe non tenere conto dell’eventuale abroga-zione di siffatto elemento strutturale (ed è appena il caso di rilevare che non sarebbe rilevante il mutamento del nomen o della disciplina, ma la radicale soppressione di un procedimento concorsuale finalizzato al soddisfacimento delle ragioni dei creditori).

11. Alla stregua delle superiori premesse, va ribadito che esattamente la Corte territoriale ha ritenuto irrilevante l’accertamento del nesso eziologico e psicologico tra le condotte distrattive poste in essere e la successiva situazione di

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insolvenza che ha determinato la pronuncia della sentenza dichiarativa di falli-mento, ciò (anche) in quanto, come ampiamente rilevato, la predetta pronuncia non costituisce elemento costitutivo del reato; meno che mai, l’insolvenza deve costituire, nella bancarotta pre-fallimentare, l’evento della distrazione (pur non potendosi escludere che, a volte, di fatto, rappresenti una conseguenza di quest’ultima).

La dichiarazione di fallimento, dunque, ha funzione di mera condizione oggettiva di punibilità; essa determina il dies a quo della prescrizione e vale a radicare la competenza territoriale.

12. Ne discende che il ricorso merita rigetto, con conseguente condanna del ricorrente, ex art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese proces-suali.

(1-2) La sentenza dichiarativa di fallimento è condizione obiettiva di punibilità: quando affermare la verità non costa nulla.

Abstract

Nella pronuncia in commento la Corte di Cassazione, superando un consolidato orientamento giurisprudenziale, risolve la questione della natura giuridica della sentenza dichiarativa di fallimento, ritenendola una condizione obiettiva di puni-bilità (estrinseca). Nel commento, dopo aver chiarito le ragioni della decisione, che sul tema accoglie la posizione della prevalente dottrina, ci si interroga, in senso critico, sugli effetti indiretti della pronuncia. In particolare, si osserva come la mancata considerazione della diversa (ma connessa) questione sul ruolo da asse-gnare, nell’economia della fattispecie, allo stato d’insolvenza, che del fallimento costituisce il necessario presupposto fattuale, possa determinare il rischio di vanificarne ogni rilievo in un’ottica di delimitazione della tipicità/offensività della bancarotta.

(1-2) The Judicial Declaration of Bankruptcy is an Objective Condition of Liability:

when telling the Truth costs Nothing Abstract

In the judgement discussed in this paper, the Italian Supreme Court states that the declaration of bankruptcy is an (external) objective condition of liability, contrary to the established judicial practice. After clarifying the reasons for such decision, which endorses the position of the majority of the legal literature, the paper questions the indirect effects of the sentence. Most notably, the article underlines

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how disregarding the connected issue of the role of insolvency, which is the factual precondition of bankruptcy, may nullify any potential effect aimed at defining the typical characteristics/offensive nature of the crime of bankruptcy.

SOMMARIO: 1. La decisione sulla natura giuridica della dichiarazione di fallimento. — 2. Gli incerti canoni

di riconoscimento degli eventi-condizione. — 3. Le osservazioni facili sulla “forma”: la sentenza di fallimento come condizione obiettiva. — 4. La questione irrisolta della “sostanza”: il ruolo dell’in-solvenza. — 4.1. La tesi dell’estraneità offensiva del fallimento al banco di prova della bancarotta preferenziale. — 4.2. Alla ricerca di ulteriori conferme sui confini offensivi del tipo: la bancarotta riparata. — 4.2.1. Gli altri indici dell’indifferenza del fallimento (ma non dell’insolvenza) alla meritevolezza di pena. — 5. Uno sguardo alle ipotesi espressamente causali: i margini di rilevanza del fallimento nelle ipotesi di bancarotta societaria. — 6. Le immutate ricadute pratiche in tema di momento consumativo e cause estintive del reato. — 7. Conclusioni.

1. La decisione sulla natura giuridica della dichiarazione di fallimento. — Con la pronuncia in commento, la Corte di Cassazione risolve in senso inaspettato, dopo quasi settant’anni di giurisprudenza conforme, la questione, ormai classica nella letteratura in tema di reati di bancarotta, della natura giuridica da attribuire alla sentenza dichiarativa di fallimento: qualificandola per la prima volta come condizione obiettiva di punibilità accoglie la posizione quasi unanime della dot-trina, da lungo tempo orientata ad assegnarla a tale categoria dogmatica (1).

Nella consapevolezza del carattere fortemente innovativo della soluzione giuridica prescelta, la decisione adotta uno stile motivazionale riepilogativo, nel quale si dà conto dei precedenti giurisprudenziali, facendosi carico altresì di vagliarne la fondatezza alla luce dei principi costituzionali in materia di colpevo-lezza. In questo percorso argomentativo, com’era agevole attendersi, il punto di partenza del ragionamento è costituito dalla storica pronuncia delle Sezioni Unite del 1958 (2) che, inaugurando il percorso d’ibridazione del tipo, attribuisce per la prima volta alla sentenza dichiarativa di fallimento l’ambigua etichetta di

condi-zione di esistenza del reato, allo scopo, peraltro malcelato, di incardinare così a quel

momento tempus e locus commissi delicti. La ritrosia della giurisprudenza succes-siva a dissociarsi da tale impropria definizione (3), attribuendo alla sentenza di fallimento il più usuale ruolo di elemento costitutivo del reato o di evento dello stesso, si spiega per il timore di doverne altrimenti riconoscere lo statuto di imputazione, con evidente aggravio degli oneri di accertamento del reato e conse-guente diminuzione delle concrete chances punitive.

La prassi fin qui dominante, ad eccezione della brevissima parentesi di (1) Sulla sentenza, a prima lettura, v. F. MUCCIARELLI, Una rivoluzione riformatrice della

Cassa-zione: la dichiarazione giudiziale d’insolvenza è condizione obiettiva di punibilità della bancarotta pre-fallimentare, in Le Società, 2017, p. 903 ss.; N. PISANI, La sentenza dichiarativa di fallimento ha natura

di condizione obiettiva di punibilità estrinseca nella bancarotta fraudolenta pre-fallimentare: un apparente

revirement della Cassazione, in Dir. pen. proc., 2017, p. 1160 ss.; A. ROSSI, La sentenza dichiarativa di

fallimento quale condizione obiettiva di punibilità nelle bancherotte prefallimentari: “pace fatta” tra giurisprudenza e dottrina?, in Giur. it., 2017, p. 1679 ss.

(2) Cass. pen., Sez. Un., 25 gennaio 1958, Mezzo, in questa Rivista 1959, p. 921, con nota di R. MANCINELLI, La sentenza di fallimento come elemento essenziale della bancarotta.

(3) In alcune pronunce si fa riferimento al fallimento come ad un “elemento essenziale o

indispensabile per attribuire la qualifica di reati a condotte altrimenti lecite o penalmente indifferenti”

(Cass. pen., sez. V, 15 dicembre 1988 in Cass. pen. 1990, p. 1165 e, ancora di recente, Cass. pen., Sez V, 6 novembre 2013, n. 597); in altre lo si qualifica come “elemento normativo interno alla fattispecie” (Cass. pen., Sez. Un., 26 febbraio 2009, n. 24468, Rizzoli, in Cass. pen., 2009, p. 4113, con nota di M. GAMBARDELLA, L’abolizione del delitto di bancarotta impropria commesso nell’ambito di società in

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discordanza tracciata dalla sentenza Corvetta (4), resta perciò allineata a questa scia interpretativa, affermando inoltre in più occasioni — a supporto dell’impianto complessivo — che il delitto di bancarotta costituisce un reato di pericolo, talché la dichiarazione di fallimento e lo stato d’insolvenza che ne rappresenta il presupposto fattuale restano avulsi da ogni collegamento di tipo causale e psicologico con le condotte di deminutio patrimonii realizzate dall’imprenditore.

Dai medesimi esiti pratici non si discosta in verità neppure la pronuncia in commento che sceglie tuttavia di giungervi attraverso la via maestra dell’inclusione del fallimento tra le condizioni obiettive di punibilità, d’ora in poi dunque

legitti-mamente sottratto a ogni pretesa di verifica circa la sussistenza di un nesso causale

e psicologico con le condotte di bancarotta.

Alla pronuncia Corvetta, pur immediatamente sconfessata negli importanti esiti applicativi, va pertanto riconosciuto il pregio dell’utile provocazione, avendo contributo a riportare ad unità il sistema, a lungo diviso tra la forma del “falli-mento”, evocativa di un dato centrale in chiave di tipicità del fatto, e la (diversa)

sostanza dello statuto di imputazione a esso riservato.

2. Gli incerti canoni di riconoscimento degli eventi-condizione. — È noto che l’istituto delle condizioni obiettive di punibilità poggi su un terreno malfermo della dogmatica penalistica per la mancanza di criteri certi per identificare il tipo (5).

La previsione dell’articolo 44 c.p. non contiene una definizione della categoria, limitandosi a indicare la funzione dell’istituto, quella di subordinare la “punibilità del reato”, e a dettare la regola di imputazione, sottraendo le condizioni, per l’appunto obiettive, all’inclusione nel dolo dell’agente. L’effetto applicativo non è di poco conto, soprattutto dopo le esplicite sollecitazioni della Corte costituzionale rivolte, sin dalle fondamentali pronunce del 1988, a circoscrivere la residua area di legittimazione della responsabilità oggettiva ai soli elementi non significativi di fattispecie. La mancanza di un’elencazione normativa fa sì che il campo si presenti

minato: condivisa la fallibilità del criterio diagnostico-formale, al più indiziante

della presenza di un possibile elemento appartenente al tipo condizione obiettiva di punibilità, ma mai decisivo per rivelarne l’essenza, il peso identificativo della (4) Cass. pen., sez. V, 24 settembre 2012, n. 47502, Corvetta; la sentenza è pubblicata in Cass.

pen., 2013, p. 1429 ss., con nota di G.G. SANDRELLI, Note critiche sulla necessità di un rapporto di causalità

tra la condotta di distrazione e lo stato di insolvenza nel delitto di bancarotta « propria »; in Dir. pen. proc.,

2013, con nota di F. MUCCIARELLI, La bancarotta distruttiva è reato d’evento?; in Le Società, 2013, p. 339

ss., con nota di L. TROYER - A. INGRASSIA, Il dissesto come evento della bancarotta fraudolenta per

distrazione: rara avis o evoluzione della (fatti)specie?; in Dir. pen. cont., 14 gennaio 2013, con un primo

commento di F. VIGANÒ, Una sentenza controcorrente della Cassazione in materia di bancarotta

fraudo-lenta: necessaria la prova del nesso causale e del dolo tra condotta e dichiarazione di fallimento, e

successive note di F. D’ALESSANDRO, Reati di bancarotta e ruolo della sentenza dichiarativa del fallimento:

la Suprema Corte avvia una revisione critica delle posizioni tradizionali?, in Dir. pen. cont. - Riv. trim.,

3/2013, p. 356 ss.; F. MUCCIARELLI, Sentenza dichiarativa di fallimento e bancarotta: davvero incolmabile

il divario fra teoria e prassi?, ivi, 4/2015, 390 ss.; A. MELCHIONDA, La labile “certezza interpretativa” della

legittimità costituzionale del reato di bancarotta, ivi, 4/2016, p. 41 ss.

(5) Nell’ampia letteratura sul tema, ci si limita a ricordare, senza alcuna pretesa di esaustività, F. ANGIONI, Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza, in questa Rivista, 1989, 1440 ss.; F. BRICOLA,

voce Punibilità (condizioni obiettive di), in Nss. Dig. it., XIV, Torino, 1976, p. 588 ss.; V.N. D’ASCOLA,

Reato e pena nell’analisi delle condizioni obiettive di punibilità, Napoli, 2004; G. NEPPI MODONA,

Concezione realistica del reato e condizioni obiettive di punibilità, in questa Rivista, 1971, p. 184 ss.; F.

RAMACCI, Le condizioni obiettive di punibilità, Napoli, 1971; M. ROMANO, “Meritevolezza di pena”,

“bisogno di pena” e teoria del reato, in questa Rivista, 1992, p. 39 ss.; ID., Teoria del reato, punibilità,

soglie espresse di offensività (e cause di esclusione del tipo), in Studi in onore di Giorgio Marinucci, II,

2006, p. 1721 ss.; P. VENEZIANI, Spunti per una teoria del reato condizionato, Padova, 1992; M. ZANOTTI,

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categoria ricade interamente sull’affidabilità del criterio sostanziale-funzionale. In base ad esso, le condizioni obiettive per esser tali devono porsi su di un piano di estraneità al disvalore penale del fatto e dunque all’offesa tipica, con l’effetto di rendere tanto più spinose le questioni sulla natura giuridica di taluni elementi, quanto più aleatori e indistinti siano i contorni del bene giuridico tutelato.

Non vi è dubbio allora che l’esatta identificazione della natura giuridica di un dato elemento, astrattamente riconducibile alle opposte categorie dell’elemento costitutivo o della condizione obiettiva di punibilità, sia da ascrivere immancabil-mente al novero delle “questioni interpretative”, come tali passibili di differenti soluzioni al variare del parametro di riferimento.

In quest’ottica, la collocazione della fattispecie incriminatrice al di fuori dei capitoli classificatori del codice penale — certamente di ausilio per orientare l’interprete in questo delicato giudizio sull’intraneità (anche solo in parte) dell’ele-mento al disvalore penale del fatto — rende ancora più gravoso il compito di identificazione del tipo, dovendo in via preliminare accordarsi sul bene oggetto di protezione e sull’esatto perimetro di rilevanza offensiva (pericolo astratto, pericolo concreto o danno).

Nella nebulosità del quadro guadagnano perciò spazio le tanto discusse categorie intermedie, quali le condizioni di esistenza del reato, di matrice giuri-sprudenziale o le condizioni obiettive di punibilità intrinseche che, senza risolvere definitivamente il dilemma del tipo, si adagiano comunque sul piano dell’indiffe-renza al principio di colpevolezza, sottraendosi indebitamente alla regola della rimproverabilità soggettiva ex art. 27 Cost. (6).

Il possibile rischio è allora quello di imbattersi in etichette mendaci, asse-gnando a elementi costituivi il marchio delle “ragioni di opportunità” che dovrebbe invece contraddistinguere le sole (e reali) condizioni obiettive, funzionali a circo-scrivere esclusivamente l’area della punibilità di un reato già aliunde perfetto e meritevole di pena. Del resto, è proprio nell’estraneità delle condizioni di punibilità alla “materia del divieto” che risiede la giustificazione di un’imputazione obiettiva delle stesse non in contrasto con il principio di colpevolezza, talché in questo caso appare chiaro come sia la sostanza dell’elemento (ossia la sua ininfluenza sul disvalore penale del fatto) a decidere della veste formale e della relativa disciplina. Alla sentenza in commento va quindi il merito di avere finalmente sgombrato il campo dalle numerose equivocità definitorie che affliggevano la materia, deci-dendo della natura giuridica della sentenza dichiarativa di fallimento muovendosi all’interno del binomio tradizionale elemento costitutivo del reato/condizione obiettiva di punibilità. La pronuncia è tuttavia meno audace (negli effetti) di quanto possa prima facie sembrare: mentre risolve, condivisibilmente, la questione, pur importante, di principio, lascia del tutto inalterata la sostanza del reato e soprat-tutto le rilevanti conseguenze applicative.

(6) Nella manualistica, si veda la posizione critica di G. MARINUCCI- E. DOLCINI, Manuale di diritto

penale, parte generale, Milano, 2017, p. 427, per i quali le condizioni di punibilità intrinseche

rappresen-tano un ingiustificato ampliamento della categoria, creata allo scopo di sottrarre taluni elementi costitutivi all’oggetto del dolo — nei delitti dolosi — o della colpa — nei delitti colposi. Nello specifico settore penale fallimentare, cfr. le osservazioni di A. MANNA, La sentenza dichiarativa di fallimento alla luce del novellato

art. 1 l. fall., in L. GHIA- C. PICCININNI- F. SEVERINI(dir. da),Trattato delle procedure concorsuali, I reati nelle

procedure concorsuali. Gli adempimenti fiscali, vol. VI, Torino, 2012, pag. 60 e 63, che al contrario

propende per la natura di condizione di punibilità intrinseca della sentenza dichiarativa di fallimento, ritenendo che tale soluzione consenta meglio di cogliere il rapporto tra condotta criminosa e bene giuridico, rendendo così ancora attuale la tesi di P. NUVOLONE, Diritto penale del fallimento e delle altre procedure

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3. Le osservazioni facili sulla “forma”: la sentenza di fallimento come

condizione obiettiva. — Il primo piano argomentativo di cui la Corte si serve per

avvalorare la tesi della condizione obiettiva di punibilità è rappresentato dal diritto vivente, del quale, pur criticando la qualificazione di condizione di esistenza del reato data al fallimento, si condivide l’impianto complessivo e il valore a esso riconosciuto all’interno del reato, quale elemento indipendente dal nesso eziologico con la condotta e dall’atteggiamento psichico dell’agente.

Da quest’angolazione strutturale il fronte della giurisprudenza appare co-eso (7), con la sola eccezione della menzionata sentenza Corvetta (dai cui esiti interpretativi peraltro la Corte prende immediatamente le distanze smentendone in poche battute la coerenza delle conclusioni) e non mostra alcuna esitazione nel ritenere il fallimento un elemento estraneo al fulcro offensivo del fatto tipico di bancarotta patrimoniale e nel giudicare sufficiente, ai fini dell’integrazione del reato, che le condotte depauperative abbiano minato l’integrità del patrimonio, nella sua funzione di garanzia per i creditori. La pronuncia in esame fa dunque proprio l’assunto, dando come acquisita e stabilizzata a livello interpretativo l’idea che il reato di bancarotta sia da ascrivere alla categoria dei reati di pericolo per le ragioni creditorie e che perciò anche il dolo debba esaurirsi nella rappresentazione di tale limitata area di rischiosità, senza necessità di spingersi fino alla previsione del fallimento (o meglio dello stato di insolvenza che ne costituisce il presupposto fattuale).

Pur non detto espressamente, sembra che la Corte, per decidere della ricon-ducibilità della sentenza dichiarativa di fallimento alla categoria delle condizioni obiettive di punibilità, opti per l’adozione del criterio di identificazione di tipo sostanziale, saggiando l’eventuale partecipazione del fallimento all’offesa all’inte-grità del patrimonio, nella sua funzione di garanzia per i creditori, ed eleggendo perciò l’oggettività giuridica a metro di valutazione.

Il secondo livello della motivazione si occupa di risistemare all’interno del perimetro offensivo così mutuato la posizione della sentenza dichiarativa di falli-mento, orientando lo spazio di riflessione sul versante della sua qualificazione formale. Si apre qui la parte demolitoria della sentenza, tesa a evidenziare l’inade-guatezza della ricostruzione tradizionale tramandata dalla giurisprudenza, che qualifica la sentenza dichiarativa alla stregua di un elemento costitutivo improprio, giacché, pur irrilevante ai fini dell’imputazione causale e psicologica, appare utile ad attrarre su di sé il momento consumativo del reato (con tutti gli effetti processuali a esso correlati). È questo l’ambito in cui la decisione esprime il novum, superando apertamente le precedenti scelte di qualificazione e intraprendendo una strada autonoma, più coerente con le premesse condivise sul volto offensivo del delitto di bancarotta che, come detto, estromette dal tipo il ruolo del fallimento, relegandolo nell’area della mera punibilità.

La Corte non indugia a lungo per dimostrare la fondatezza del riconoscimento della sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità estrinseca, assumendone l’evidenza già solo sulla base degli indici diagnostici di tipo formale e ritenendo per ciò che, “per quanti sforzi potrebbe fare un ipotetico

legi-slatore, non si vede in che modo potrebbe qualificare come elemento costitutivo di una fattispecie criminosa quello che è un provvedimento del giudice”. In questa

(7) La non necessità di un nesso causale tra i fatti di distrazione e il successivo fallimento è stata di recente riaffermata in una pronuncia delle Sezioni Unite (sent. n. 22474 del 31.03.2016, Passarelli, in

Ced Cass. n. 266804), a cui la sentenza in commento fa espresso rinvio nella motivazione, condividendone

il principio per cui “i fatti di distrazione assumono rilievo in qualsiasi momento siano stati commessi e, quindi, anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza”.

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evenienza, l’interprete sembrerebbe posto di fronte a un caso facile, risolvibile sulla base della semplice considerazione che, essendo la pronuncia di fallimento neces-sariamente opera di un terzo, essa non può che collocarsi al di fuori della sfera di controllabilità dell’agente ed essere dunque ascritta alla classe degli eventi-condi-zione.

4. La questione irrisolta della “sostanza”: il ruolo dell’insolvenza. — Non sfugge però che l’insidia interpretativa risieda altrove e non riguardi unicamente la natura giuridica da riconoscere alla declaratoria di fallimento, quanto piuttosto il ruolo da assegnare, nell’economia della fattispecie, all’elemento implicito, che ne costituisce il necessario presupposto fattuale, ossia lo stato d’insolvenza dell’im-presa, definito normativamente (all’art. 5 della legge fallimentare) come l’incapa-cità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Si tratta di una condizione generale afferente la sfera economico-patrimoniale dell’impresa, che ne implica la strutturale ed oggettiva inattitudine a far fronte, con modalità normali e in termini fisiologici, alle obbligazioni assunte. Tale situazione fattuale di dissesto dell’impresa è sul piano astratto causabile attraverso le condotte di bancarotta patrimoniale e prevedibile da parte dell’agente che potrà prefigurarsi se il suo comportamento condurrà al dissesto. La questione sulla natura giuridica della sentenza dichiarativa di fallimento maschera pertanto una ben più rilevante scelta di campo in ordine ai confini applicativi della fattispecie di bancarotta prefallimentare che non può essere liquidata con la stessa facilità argomentativa, livellando anche lo stato di insolvenza a mero fattore condizionante la punibilità, senza prima averne dimostrato l’indif-ferenza sul piano del disvalore penale e dunque l’estraneità al fatto tipico di bancarotta. Rispetto a tale elemento non può valere, infatti, il procedimento semplificato di inclusione nel tipo che, come invece accade per la pronuncia giudiziale del fallimento, consente di attrarlo inequivocabilmente nell’area delle condizioni obiettive di punibilità, in ragione del suo essere un “atto del terzo”.

4.1. La tesi dell’estraneità offensiva del fallimento al banco di prova della

bancarotta preferenziale. — Di questo la Corte sembra avere intima consapevolezza,

giacché decide di farsi carico di vagliare la validità delle conclusioni raggiunte, sotto il profilo degli interessi protetti, muovendosi in un contesto normativo più ampio (rispetto alla bancarotta patrimoniale oggetto del giudizio) e rivolgendo lo sguardo ad altre ipotesi prefallimentari e, in particolare, a quella di bancarotta preferenziale. È noto, infatti, che in questa fattispecie criminosa le rationes di politica criminale appaiano chiaramente indirizzate alla tutela di un bene giuridico specifico e dai contorni ben definiti: la par condicio creditorum che, come è ovvio, si attualizza al momento del fallimento dell’impresa. Ciò è particolarmente vero se si pone mente alla condotta, altrimenti neutra, dell’eseguire pagamenti, essendo evidente che la nota di disvalore si leghi in tal caso unicamente al carattere potenzialmente preferenziale del pagamento effettuato; il che può manifestarsi solo in una situazione d’insolvenza (o di prossimità ad essa), trattandosi dell’adempi-mento di un credito realmente esistente. È evidente come il fatto punito si presenti intriso di note di disvalore derivanti proprio dall’ambientazione della condotta in una zona di prossimità al fallimento; solo allora può esigersi dall’imprenditore un obbligo di astenensione dal pagamento, rimproverandolo per non avere atteso l’intervento regolatorio della procedura fallimentare ed avere alterato l’ordine di soddisfazione delle ragioni creditorie. La Corte non ignora la specifica questione e, nel richiamare la prevalente giurisprudenza di legittimità in tema di bancarotta preferenziale, deve ammettere come l’ipotesi criminosa “presupponga un contesto

(18)

perseguite dal legislatore, che, in questo caso, mira proprio ad evitare un pregiu-dizio per le ordinarie regole del concorso tra i creditori”, non muta le sue

conclu-sioni generali, confermando che l’offensività tipica dei fatti di bancarotta preferen-ziale sussista a prescindere dalla dichiarazione di fallimento, il cui intervento rende semplicemente applicabile la sanzione penale.

Ebbene, appare chiaro come lo scambio di ruoli operato in sentenza tra la

forma (fallimento dichiarato) e la sostanza (fallimento quale situazione

d’insol-venza) sia funzionale a semplificare la questione ed eludere ancora una volta il tema cruciale, dovendo altrimenti riconoscersi che l’incriminazione della bancarotta preferenziale, anch’essa prefallimentare, sia inesorabilmente legata, nella delimita-zione offensiva delle condotte di pagamento privilegiato, alla sussistenza di uno stato di insolvenza dell’impresa capace di colorare di disvalore comportamenti altrimenti assolutamente leciti se intervenuti al di fuori di tale zona di rischio penale. Non vale a smentire il dato che anche per la sua punibilità valgano le stesse ragioni di opportunità legate all’idea che “un diffuso sindacato penalistico potrebbe portare al tracollo un’impresa ancora in vita con esiti negativi per l’economia e per gli stessi creditori” (8) e si dovrà pertanto attendere l’intervento di una pronuncia dichiarativa del fallimento, nel ruolo di condizione di punibilità, che registri il decesso dell’organismo produttivo. Non era tuttavia questo il tema da dimostrare: esso riguarda invece se sia congruo assegnare, nella costruzione della tipicità/ offensività della bancarotta, una parte anche al “fallimento”, inteso nella sua dimensione fattuale, e in che modo, se del caso, se ne debba dare rilievo.

4.2. Alla ricerca di ulteriori conferme sui confini offensivi del tipo: la

bancarotta riparata. — Ci si accorge così di come, ricondotti i termini della

questione all’interno di un binario interpretativo incanalato sulla verifica dell’effet-tiva sostanza dell’incriminazione, non appaia più così scontata la conclusione circa l’indifferenza al piano dei valori in gioco del fallimento, inteso non nella sua formalizzazione giudiziale, ma nella sua proiezione accadimentale.

La pronuncia, a riprova della natura condizionale della sentenza dichiarativa di fallimento, fa leva anche su argomenti dimostrativi collaterali, enucleabili sia dal piano normativo che da quello della concreta esperienza giurisprudenziale dei reati di bancarotta.

Il primo tra gli indici ritenuti confermativi dell’assunto fa riferimento alla figura, di creazione giurisprudenziale, della c.d. bancarotta riparata. Può essere allora utile ricordare come questa, per orientamento costante, si configuri allor-quando la sottrazione di beni venga annullata da un’attività di segno contrario che reintegri il patrimonio prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento. In coerenza con tale indicazione, si ritiene perciò che “non integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione il finanziamento concesso al socio e da questi restituito in epoca anteriore al fallimento, in quanto la distrazione costitutiva del delitto di bancarotta si ha solo quando la diminuzione della consi-stenza patrimoniale comporti uno squilibrio tra attività e passività, capace di porre concretamente in pericolo l’interesse protetto e cioè le ragioni della massa dei creditori”; si precisa altresì che per verificare la consumazione dell’offesa ci si debba riferire al momento “della dichiarazione giudiziale di fallimento e non già a quello in cui sia stato commesso l’atto antidoveroso” (9).

(8) C. PEDRAZZI, Reati fallimentari, in AA.VV. Manuale di diritto penale dell’impresa, Bologna,

2000, ora anche in Diritto penale, vol. IV, Scritti di diritto penale dell’economia, Milano, 2003, p. 837 ss. (9) Tra le più recenti Cass. pen., Sez. V, 7 febbraio 2017, n. 33256, in Deiure.

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La costruzione giurisprudenziale sembrerebbe rievocare — pur in assenza di un’espressa tipizzazione normative — la logica premiale sottostante alle cause estintive del reato o, altrimenti definite, cause sopravvenute di non punibilità, da rinvenire nella restaurazione post factum dell’offesa tipica. Ne sono esempi la ritrattazione, di cui all’art. 376 c.p., o la restituzione degli utili e la ricostituzione delle riserve prima dell’approvazione del bilancio di cui all’art. 2627 c.c., la cui base politico criminale, influenzata in maniera positiva dall’idea di scopo, risiede nel promuovere la tutela, fin dove plossibile, del bene protetto, dando valore a comportamenti del soggetto attivo antitetici alla condotta illecita già realizzata. In tali situazioni, si conviene sull’importanza che assume la soglia temporale entro la quale deve esprimersi la condotta riparatoria per assicurare una reintegrazione ancora utile dell’offesa (10). All’interno della materia penale fallimentare, l’indi-rizzo giurisprudenziale che sancisce l’irrilevanza penale della bancarotta riparata si giustifica in virtù dell’assenza in tal caso di un pregiudizio per le ragioni creditorie, eliso da un comportamento di segno opposto ritenuto idoneo a reintegrare la funzione di garanzia patrimoniale prima che intervenga il dissesto, destinato a sfociare nel fallimento. Una lettura che potrebbe perfino apparire coerente con la sistemazione teorica della bancarotta tra i reati di danno, per i quali occorra perciò dimostrare un nesso causale con l’insolvenza che fa da presupposto al falli-mento (11). Anche solo aderendo alla lettura condivisa della bancarotta patrimo-niale quale reato di pericolo concreto, non può negarsi che il fallimento agisca in questo contesto da misuratore dell’offesa, o meglio della sua attualità, in quanto il persistere di una situazione di insolvenza, malgrado la realizzazione della condotta reintegrativa del patrimonio, ne dimostrerebbe — ad avviso della stessa giurispru-denza — l’attribuibilità a fattori diversi dai comportamenti tenuti in precegiurispru-denza. La casistica sottostante a tali pronunce rende allora visibile una realtà offensiva dei fatti di bancarotta che normalmente resta sottintesa: la necessità, ai fini dell’inte-grazione della stessa tipicità, che le condotte di bancarotta, soprattutto se com-messe al di fuori di una situazione di squilibrio patrimoniale prodromica al dissesto, debbano mantenere ancora un’attualità offensiva al momento del fallimento. Se la bancarotta riparata determina “l’insussistenza dell’elemento materiale del reato” ciò significa che l’offensività della condotta è da circoscrivere ai comportamenti di

deminutio patrimonii generatori di un pericolo concreto per la garanzia dei

creditori e che l’area di rischio disegnata dal fallimento non attiene alla mera punibilità di fatti altrimenti o comunque significativi, ma plasma invero l’oggettività del reato, illuminando i contenuti lesivi dell’evento di pericolo. In questo scenario, non si coglie come si possa — senza cadere in contraddizione perfino sulla natura da attribuire al reato — escludere la configurabilità della bancarotta patrimoniale in presenza di condotte riparatorie esperibili fino al fallimento, evidentemente perché si considera non più attuale (e concreto) il pericolo innescato dal precedente comportamento depauperativo del patrimonio e, al contempo, assegnare rilievo penale ai fatti di distrazione “in qualsiasi momento siano stati commessi e, quindi, anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza”, negando per tale via qualunque rilevanza al fallimento, anche solo in chiave di stabilizzazione del pericolo effettivo per le ragioni creditorie. (10) Sul tema, E. MUSCO, La premialità nel diritto penale, in Ind. pen. 1986, p. 606; più

diffusamente, C. RUGARIVA, Il premio per la collaborazione processuale, Milano, 2002.

(11) In dottrina propendono per tale inquadramento sistematico, di recente, A. FIORELLA - M.

MASUCCI, I delitti di bancarotta, in F. VASSALLI - F.P. LUISO - E. GABRIELLI (dir. da) Trattato di diritto

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Nel delimitare il perimetro offensivo del reato, la giurisprudenza sembra in questo campo muoversi in due direzioni opposte e inconciliabili, a seconda che alla condotta di deminutio patrimonii, realizzata quando ancora l’impresa versava in

bonis, segua o meno una condotta antitetica volta ad annullarne l’effetto

depaupe-rativo. Solo nella prima ipotesi si valorizza la natura di reato di pericolo concreto, del quale si debba perciò vagliare la reale offensività per le ragioni creditorie; al di fuori della bancarotta riparata, torna ad essere sufficiente, per integrare la tipicità del reato, il compimento di condotte distrattive del patrimonio, pur se realizzate in assenza di segnali di pericolo di insolvenza, sul presupposto che si tratti di comportamenti già definiti sul piano del disvalore che restano condizionati, nella sola punibilità, all’intervento della sentenza dichiarativa di fallimento. Non vi è chi non veda allora come il vero limite a dar rilievo al fallimento (inteso nella sua proiezione sostanziale) all’interno del fatto tipico di bancarotta sembri dipendere da un problema di “accertamento”, piuttosto che dal reale disconoscimento di un suo (dis)valore sul piano astratto; di talché, se vi è prova dell’ininfluenza della condotta sul fallimento — come nel caso della bancarotta riparata — non sembrano esserci più remore ad aprirsi ad interpretazioni sostanzialistiche e a ricomprendere l’insolvenza tra i fattori rilevanti già a livello di tipicità del fatto. Il destino da riservare all’insolvenza non appare allora segnato dalla scelta di conferire alla pronuncia dichiarativa di fallimento il ruolo di condizione obiettiva di punibilità: tale soluzione, di certo condivisibile, non chiarisce se anche il suo presupposto fattuale debba restare fuori da ogni considerazione normativa di offensività.

4.2.1. Gli altri indici dell’indifferenza del fallimento (ma non

dell’insol-venza) alla meritevolezza di pena. — Il secondo degli argomenti a supporto della

tesi della totale estraneità del fallimento all’offensività tipica dei fatti di bancarotta è desunto dal disposto normativo dell’art. 238, comma 2, l.f., che, come è noto, consente di promuovere anticipatamente l’azione penale prima che intervenga la sentenza dichiarativa di fallimento. Si tratta delle ipotesi espressamente previste all’art. 7 l.f. e di “ogni altro caso in cui concorrano gravi motivi o già esista o sia contemporaneamente presentata domanda per ottenere la suddetta dichiarazione”. Le deroghe alla regola generale, ricavabili dalla previsione di cui all’art. 7 l.f., riguardano i casi in cui l’insolvenza sia resa manifesta da un procedimento penale, dalla fuga, irreperibilità o latitanza dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o diminuzione fraudolenta del-l’attivo da parte dell’imprenditore e, infine, dalla segnalazione proveniente dal giudice civile. Tutte situazioni che appaiono fortemente indizianti, essendo l’insol-venza chiaramente emersa, della prossimità del fallimento.

La norma costituisce un importante snodo all’interno della materia penale fallimentare perché sancisce il momento a partire dal quale la pubblica accusa può formalmente intraprendere l’azione penale per i reati fallimentari, rivelando, al di là del significato processuale, un’indubbia utilità anche in sede di ricostruzione dei connotati sostanziali delle fattispecie di bancarotta.

È appena il caso di osservare, infatti, che l’ininfluenza del fallimento sull’offesa può essere coerentemente sostenuta, alla luce del riferimento normativo dell’art. 238 l.f. — inferendo da ciò un’ulteriore conferma della sua natura di condizione obiettiva — soltanto se ci si ferma alla sua veste esteriore, ossia alla pronuncia dichiarativa, ma non anche se si guarda al suo indefettibile risvolto sostanziale costituito dallo stato di insolvenza. L’art. 238 sembra proprio consacrarne il valore fondante in chiave di attualizzazione dell’offesa tipica, consentendo che si possa intraprendere in via anticipata l’azione penale, nell’attesa che sopraggiunga la

formalizzazione del fallimento, qualora vi siano indici oggettivi che comprovino la

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