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Recensione di: Dario Sacchi, Rousseau. Il paradosso del porcospino, FrancoAngeli, Milano, coll. «Etica e filosofia della persona», n. 7, 2017, 138 pp.

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Dario Sacchi, Rousseau. Il paradosso del porcospino, FrancoAngeli, Milano, coll. «Etica e filosofia della persona», n. 7, 2017, 138 pp.

Il volume di Dario Sacchi, professore associato di filosofia teoretica presso l’Università Cattolica di Milano, prende le mosse da una delle alternative concettuali canoniche che hanno segnato il dibattito del secolo scorso: l’opposizione tra una lettura collettivista e una lettura individualista dell’opera di Rousseau. Sin dall’Introduzione del suo lavoro, l’Autore scarta con decisione la prima ipotesi interpretativa – che, com’è noto, è sfociata in controverse letture che hanno indicato nel filosofo ginevrino un precursore della «democrazia totalitaria» (Jacob L. Talmon) – per sostenere, al contrario, che «Rousseau è un liberale e un individualista autentico» (p. 16). Questa tesi, volutamente estrema, è inserita all’interno di una prospettiva di tipo liberal-socialista. Se si intende l’individualismo come la possibilità per tutti gli individui di accedere alla piena realizzazione di sé, ne segue, per un verso, che «il socialismo è l’individualismo logico e completo, cosicché non si può essere autentici e coerenti liberali se non si accetta questo conclusivo approdo, per altro verso […] ciò che si vuole raggiungere attraverso il socialismo è pur sempre l’individualismo […], cosicché in definitiva non si può essere veri socialisti se non si è anzitutto individualisti» (p. 25). Il grande impedimento che, nel corso di tutta la sua riflessione, avrebbe impedito a Rousseau di raggiungere pienamente tale ideale, sarebbe il «paradosso del porcospino» che dà il titolo al volume. L’immagine è tratta da una pagina dei Parerga e paralipomena di Schopenhauer che, agli occhi di Sacchi, si rivela illuminante per chiarire alcune apparenti contraddizioni dell’opera rousseauiana: «Una compagnia di porcospini in una fredda giornata di inverno, si strinsero vicini vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione» (p. 30). L’uomo di Rousseau, fuor di metafora, sarebbe inevitabilmente scisso tra un’ontologia individualistica-atomistica e un’etica collettivistica-organicistica. Da qui la perenne insufficienza delle istituzioni sociali che, come ricorda una celebre formula dell’Émile, possono al più ambire a «snaturare l’uomo nel modo migliore».

I capitoli in cui si suddivide lo studio sono consacrati a illustrare una serie di nodi problematici che confermerebbero la bontà dell’interpretazione proposta. La prima questione affrontata è quella della solitudine, che per Rousseau è al tempo stesso esperienza di vita e oggetto di considerazione filosofica. Essa, paradossalmente, in quanto «traccia» dell’autentica natura dell’individuo (autosufficiente e isolata), diviene condizione di possibilità del buon vivere in comune: «Solo in quanto si ama vivere soli si è veramente socievoli». Un’analoga spiegazione si ritrova nel caso degli altri temi cruciali analizzati da Sacchi: il rapporto tra ragione e sentimento, quello tra libertà naturale e libertà civile e quello tra individuo e cittadino. Al di là della specificità delle singole problematiche, è sempre un elemento riconducibile all’originaria natura individualistica dell’individuo a consentirgli d’inserirsi in una dimensione sociale, che trascende l’innocente condizione di partenza, per abbracciare al contrario l’autentica moralità. L’esempio più eclatante di questo meccanismo è probabilmente rintracciabile nell’educazione di Émile, che deve essere allevato fuori dalla società per poter vivere correttamente in essa.

Anche da questa breve sintesi è possibile rendersi conto di come il volume di Sacchi condensi una serie di questioni complesse e fondamentali del pensiero di Rousseau, che l’autore riesce a sintetizzare con chiarezza, coniugando l’analisi di scritti più prettamente politici con quella delle opere autobiografiche e letterarie. Al di là di questi indiscutibili meriti, il lavoro presenta alcuni limiti metodologici e contenutistici. Per quel che riguarda il primo aspetto, salta all’occhio la quasi totale assenza di dialogo con la (sterminata) letteratura critica sugli argomenti analizzati. Per quanto si possa trattare di una scelta in sé legittima, il confronto con alcuni degli studi più recenti sulla questione del Rousseau totalitario/liberale (come quelli di Céline Spector o Gabriella Silvestrini, per limitarsi a due esempi) avrebbe probabilmente fatto guadagnare di profondità all’analisi. Il secondo aspetto che è inevitabile rilevare – al di là di alcune scelte che mostrano come l’Autore non sia uno specialista dell’opera di Rousseau (perché citare, ad esempio, il Manuscrit Favre da un’edizione del 1912 anziché da quella canonica della Pléiade?) – è la ripetuta tendenza a cercare la

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risposta ai «paradossi» di Rousseau non nella sua opera, ma in quella di altri autori (il già citato Schopenhauer e, soprattutto, Kant), depotenziandone così di fatto notevolmente la forza.

Per quel che riguarda l’aspetto più strettamente contenutistico, dispiace che l’Autore non affronti apertamente quella che sembra essere la più ovvia (ma al contempo la più efficace) obiezione alla visione di una natura umana «ontologicamente» individualistica da lui difesa, ossia la funzione antropologica propulsiva della pietà. Non è forse questo «sentimento naturale» che contempera l’egoistico amor di sé a far sostenere a Rousseau che «non si può dubitare che l’uomo è socievole per sua natura, o almeno è fatto per diventarlo»? Non è forse questo slancio simpatetico, che offre un fondamento emotivo alla politica, a far sì che gli uomini-porcospini – per riprendere la metafora di Schopenhauer – si avvicinino nonostante il dolore o, addirittura, a causa del dolore patito dal loro simile? [M. Me.]

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