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ABITARE LA CULTURA POSTMEDIALE

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Academic year: 2021

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Prefazione

La fine della modernità è il più clamoroso fatto del XX secolo. A seguito di una crisi profonda e di una lunga degenza, la disaffezione verso le grandi narrazioni e il sospetto di solipsismo occidentale hanno finito per sotterrare anche lo zoccolo più duro del pensiero moderno, il soggetto. Con un colpo di coda, la postmodernità si è portata via pezzi imponenti e dogmatici della storia del pensiero. Almeno cosi ci hanno fatto credere. Concretamente, però, il mondo accademico, che con grande afflizione ha partecipato al funerale della modernità, ha seguitato a portare il lutto con fare nostalgico.

La drammatica esperienza della costruzione collettiva della soggettività e quella dell’abbandono dell’universale ha fatto emergere il reale costo intellettuale della perdita e alcuni pensatori non ce l’hanno fatta, si sono tirati indietro. Hanno invocato il ritorno di una realtà fatta di numeri e di materia, una realtà-oggetto ed una realtà-oggettiva. Dopotutto il pensiero debole non ha lo stesso fascino di quello forte, si sa. Eppure, quelle che a taluni sembravano delle perdite di logos e di unità ad altri sono apparse come conquiste, come palcoscenici acentrici e inclusivi. E’ cosi che negli ultimi venti anni abbiamo assistito ad una trasmigrazione del soggetto di ruolo in ruolo, di casa in casa, a metà tra l’invadenza e la discrezione, ma sempre presente e sempre pronto a legittimare le proprie azioni e a prendersi le proprie responsabilità.

E’ per questo che questo mio scritto prova ad interrogarsi sulle visioni della postmodernità e sulla possibilità concreta di portare a compimento e di, finalmente, elaborare un lutto così profondo. Mi chiedo, è ancora legittimo sperare in una epistemologia del tutto che somigli sempre di più ad un collage di infiniti universi simbolici, plurali e collettivi tenuti insieme da fiumi di pratiche culturali diffuse? In altre parole, è possibile raccontare e (ri)costruire una storia universale all’indomani dell’addio definitivo del soggetto moderno? Io credo che ci siano altre diverse storie possibili da raccontare e diversi altri soggetti da costruire e che tutte queste storie e tutti questi soggetti appartengono sempre ad altre storie e ad altri soggetti e che forse, di questo Io non ne abbiamo tanto bisogno se, dopotutto, è un Noi quello che abitiamo.

(2)

Introduzione

Sono molte le date che hanno segnato i confini della storia del mondo con un prima ed un dopo; epoche seghettate fino al cuore delle più remote avvisaglie di cambiamento possibile, in nuce. A partire dalla storia stessa, le date hanno marcato il territorio della vita collettiva come simulacri di nascita e morte di fatti culturali le cui trasformazioni, però, non hanno né inizio e né fine. Naturalmente, anche questo nostro tempo globale si avvale di un simulacro assolutamente dignitoso ed è il 6 agosto 1991: la prima pubblicazione sintetizzata del protocollo World Wide Web.

i.

Il ruolo dell’immaginario

La diffusione su scala globale dell’accesso ad Internet e la profonda trasformazione dei mezzi di comunicazione tradizionali rappresentano sicuramente uno dei principali punti di rottura con la modernità. Principali, ma non i soli. Come sottolinea l’antropologo indiano Arjun Appadurai nella sua ormai classica opera sulla contemporaneità Modernity at Large, a determinare l’opera dell’immaginazione nella soggettività moderna è l’effetto combinato dei nuovi modelli di comunicazione e della crescente migrazione di massa1. Ciò nonostante non si può negare che ci troviamo difronte a situazioni già affrontate dalla la storia dell’umanità di cui numerosi sono, infatti, gli esempi. Le migrazioni verso il Nuovo Mondo tra il XIII e il XIX secolo, quelle verso l’Europa Occidentale dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 o, ancora più indietro le grandi diaspore europee del Medioevo, per citare solo alcuni dei vari esempi possibili. Altrettanto si può dire a riguardo delle comunicazioni di massa. L’invenzione del telefono cellulare o del computer portatile ha stravolto il modo di raccontare e di leggere il mondo moderno esattamente come aveva fatto la stampa nel XV secolo. Allora, in che modo e perché le dinamiche della mediazione elettronica e della migrazione di massa forniscono il nucleo di lettura della relazione tra la globalizzazione e il moderno?2

Secondo lo studioso indiano, è proprio nel nuovo ruolo assunto dall’immaginazione che è possibile notare e comprendere le trasformazioni del mondo contemporaneo. L’antropologia ha più volte mostrato, infatti, come tutte le diverse espressioni dell’immaginario ( arte, mito, rituale, sogno ecc.), anche nelle società più semplici, siano in costante dialogo con le norme sociali e di come esse contribuiscano a mantenerle in vita, a modificarle oppure ad abolirle3. Eppure oggi l’immaginazione gioca un ruolo significativo in modo diverso, e questo perché bisogna tener presente almeno tre distinzioni rispetto al passato.

1

Appadurai, A. , 2012, Modernità in Polvere, Raffaello Cortina Editore, Milano, ed. or. 1996.

2 Ibidem. 3

(3)

In primo luogo a mutare è il chi che, più del come, si è appropriato dello spazio ormai frammentato dell’immaginazione per indirizzarlo nella logica della vita quotidiana. Quella che è stata per lo più prerogativa di alcuni individui carismatici è ora alla portata di tutte le persone comuni.

Uomini e donne che considerano normale immaginare la possibilità di vivere e lavorare in luoghi diversi da quelli di origine, portando con sé la propria capacità di immaginare nuovi mondi possibili. Dice Appadurai

Qui la differenza essenziale è che le nuove mitografie sono i veicoli di progetti sociali inediti e quindi non si limitano a fare da contrappunto alle certezze della vita quotidiana, ma trasformano per vasti gruppi di persone le forze glaciali dell’abitudine nel ritmo accelerato dell’improvvisazione. In questo modo le immagini, le sceneggiature, i modelli e le narrazioni che passano attraverso la mediazione di massa (nelle sue forme realistiche e finzionali) marcano la differenza tra la migrazione odierna e la migrazione del passato.4

Migrazioni le cui ragioni, siano esse di carattere economico, culturale, sociale o altro, sono fortemente influenzate da un immaginario massmediatico capace, anche, di travalicare lo spazio nazionale.

La seconda distinzione che Appadurai ci suggerisce di notare è proprio quella tra immaginazione e fantasia, dove la prima, soprattutto se collettiva, può diventare impulso all’azione in termini di proiezioni, espressioni estetiche, progetti; mentre la seconda connota per lo più un pensiero separato dall’azione che, di contro, può portare all’indifferenza.

Questo ci porta alla terza ed ultima distinzione, ovvero quella tra senso individuale e collettivo dell’immaginazione. Di come sia importante sottolineare che l’immaginazione moderna di cui si parla sia una proprietà della collettività, non di qualche individuo isolato. La fruizione collettiva dei mass media crea sodalizi, comunità in sé, capaci di spingere l’immaginazione collettiva all’azione, superando i confini nazionali e transnazionali.

L’immaginario assume cosi, nell’epoca della globalizzazione e dei media digitali, un ruolo più complesso nell’organizzazione della vita quotidiana del singolo. Si tratta di un immaginario collettivo, attivo e alla portata di tutti che modifica non solo le modalità di narrazione in generale, ma che è portatore di trasformazioni significative nelle nostre pratiche di vita ordinaria. Per dirla con le parole dell’antropologo indiano,

La trasformazione delle soggettività quotidiane attraverso la mediazione elettronica e attraverso l’opera dell’immaginazione non è solo un fatto culturale: è intimamente connessa alla politica, attraverso i nuovi modi in cui gli affetti, gli interessi e le aspirazioni individuali tagliano sempre più trasversalmente quelli dello stato nazionale.5

4 Appadurai, A. , 2012, Modernità in Polvere, Raffaello Cortina Editore, Milano, ed. or. 1996, pp. 13-14 5

(4)

ii.

Cultura, culture e culturale

Il ruolo centrale dell’immaginazione nelle pratiche di vita quotidiana tra le persone comuni comporta, inevitabilmente, una più ampia comprensione dell’ordine simbolico tramite cui esperiamo il mondo e che banalmente indichiamo con il termine cultura. L’uso della nozione di cultura ha importanti implicazioni per il discorso dell’antropologia, del linguaggio comune e del linguaggio politico e, sebbene sia mediaticamente efficace ed esplicativa, ad uno sguardo attento può apparire addirittura come una trappola. L’antropologia del XIX e del XX secolo, infatti, ha perfettamente messo in luce quelle che possono essere gli usi ingombranti e illusori del sostantivo in questione. La migrazione dall’idea di cultura ciceroniana come

cultura animi, sinonimo di individuo colto, verso una senso più collettivo del termine, inteso come

appartenente a popoli e a nazioni, si concretizza a partire della fine del XVIII secolo6. La cultura smette di riferirsi unicamente ad un ideale di formazione del singolo individuo e diventa qualcosa che gli individui acquisiscono socialmente, in quanto membri di una data società.7

E’ nel 1871, per opera del celebre studioso Edward Burnett Tylor, che l’antropologia arriva ad una definizione più complessa di cultura.

La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro della società.8

La definizione di Tylor ingloba ed accomuna due aspetti dell’idea di cultura che fino ad allora erano stati considerati esclusivi, ovvero l’aspetto universalistico e quello particolaristico del concetto. Da un lato, quindi, la cultura viene intesa come patrimonio di tutto il genere umano, ovvero che vi sono tante culture quante sono le società umane e che possono essere analizzate, categorizzate e gerarchizzate in ottica evolutiva dal lavoro antropologico; mentre dall’altro spicca il rapporto tra la cultura ed un gruppo sociale specifico. E’ questa la visione che ha dominato e influenzato il pensiero antropologico per oltre mezzo secolo, individuando alcune delle componenti principali della cultura (artefatti, costumi, norme ecc). Fu con l’antropologo americano Franz Boas, però, che l’antropologia rivolse la sua attenzione alle singole

culture e si fece promotrice di una prima forma di relativismo culturale.

Lo slittamento sullo studio delle culture, d’altro canto, ha comportato una crescente diffidenza nell’utilizzo del termine cultura, il quale sembrava ormai indicare un certo grado di isolamento e circoscrizione culturale e, cosa ancora più difficile da digerire, non esprimesse il carattere contingente, processuale e di contaminazione all’interno della stessa cultura o a contatto con culture esterne alla propria.9 Sappiamo bene, grazie all’influenza del lavoro di Talcott Parsons, che la cultura ha un forte carattere normativo e che è definita come un insieme di modelli di comportamento condivisi che la comunità ritiene validi e che

6 Fabietti. U. E. M., 2015, L’identità etnica, Carocci Editore, Roma, ed. or.1995, p.58 7

Crespi, I., 2015, Cultura/e nella società multiculturale: riflessioni sociologiche, Eum Edizioni, Macerata, p. 21

8

Tylor, E. B., 1871, Primitive Culture, Reasearches into the Development of Mythology,Philosophy, Religion, Language, Art and Custom, London, Murray,[trad. it. Alle origini della cultura, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1985].

9

(5)

orientano l’azione dei suoi membri10; quello che non sappiamo ancora con chiarezza, invece, è la natura della relazione che esiste tra l’ordinamento sociale ed una data cultura. In particolare, la questione di quanto e come l’ordine sociale influenzi la cultura e viceversa.

E’ l’antropologo culturale Clifford Geertz che spiega la dialettica tra sistema sociale e cultura, dove la cultura è vista come con un sistema ordinato di simboli e significati in cui avviene l’interazione sociale, mentre il sistema sociale è il modello dell’interazione sociale stessa attraverso cui la cultura, in quanto rete di significato, orienta l’azione umana11. La cultura è , quindi, sia prodotto di un processo di apprendimento sia insieme di rappresentazioni, simboli, valori e norme che generano diversi modelli di comportamento12. Nonostante la visione di Geertz sia una delle argomentazioni più condivise tra i sociologi e gli antropologi culturali, negli ultimi anni, la crescente sfiducia nel concetto di cultura all’emergere della globalizzazione ha animato il dibattito antropologico. I fenomeni culturali sono diventati transnazionali e possono essere condivisi da persone che appartengono a culture differenti da quelle che li hanno condivisi e contribuito a creare in un dato tempo e luogo. I territori non sono più i tradizionali sostenitori di culture perché i significati circolano con o senza portarsi dietro necessariamente la circolazione delle persone che li vivono e li interpretano13.

E’ in questa interconnessione del mondo, possibile per mezzo di interazioni, scambi e sviluppi correlati, che i concetti tradizionali di cultura e di culture ci appaiono distanti e, ad ogni modo, isolati ed isolanti. Ugo Fabietti pone l’accento, citando Roy Wagner, proprio sulla negoziazione del significato da parte di individui che comunicano, mostrando la cultura come il risultato di un’ “invenzione”.

Questa idea di invenzione ci suggerisce che la cultura non è qualcosa di definito una volta per tutte, e nemmeno un’entità “reale” pratico-simbolica che si sviluppa in base a “leggi” sue proprie, bensì qualcosa che scaturisce da un’interazione e da un accordo tra soggetti comunicanti.14

Il termine cultura può, quindi, secondo Fabietti riacquistare la nostra fiducia solo se gli si conferisce un significato altro, dinamico, inventivo, negoziale e comunicativo.

La proposta “negoziata” di Fabietti ci suggerisce come la globalizzazione non debba leggersi in termini di storia dell’omologazione culturale e che, di contro, l’antropologia non debba necessariamente privilegiare il culturale come tratto essenziale di molte pratiche15. Appadurai, per esempio, preferisce utilizzare la forma aggettivale del sostantivo cultura, ovvero culturale. In questo modo, sostiene l’antropologo indiano, si pone l’accento sulla dimensione dei fenomeni situati e incarnati nelle differenza e si accantona il rimando sostanzialistico del termine cultura. Dove per differenze si intendono proprio quelle che formano la base

10

Parsons, T., 1965, Il sistema sociale, Milano, Edizioni di Comunita, ed. or. 1951.

11

Geertz, C., 1998 Interpretazione di culture, Bologna, il Mulino ed. or. 1973.

12

Crespi, I., 2015, Cultura/e nella società multiculturale: riflessioni sociologiche, Eum Edizioni, Macerata, p.47

13

Hannerz, U., 2001, La diversità culturale, Il Mulino, Bologna.

14 Fabietti, U. E. M., 2015, L’identità etnica, Carocci Editore, Roma, ed. or.1995, p.61 15

(6)

per la mobilitazione di identità collettive, sia all’interno che all’esterno di qualsiasi gruppo sociale specifico16.

Ciò nonostante la questione rimane aperta. Se, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, il ruolo dell’immaginazione ha assunto una posizione di rilievo nella costruzione della pratica di vita quotidiana degli individui, cosa vuol dire parlare di cultura come ordine simbolico negoziato e situato nella differenza? Quanto la modificazione di accesso e di trasmissione di modelli di comportamento condiviso hanno, di fatto, influenzato l’ordine sociale? E quanto di cultura, culture e culturale è rimasto nell’agire soggettivo? Queste sono alcune delle questioni che questo lavoro si propone di dipanare, ma per farlo è necessario toccare il tasto dolente dell’analisi della contemporaneità, i media.

iii.

Il potere dei media

I media permeano il nostro vivere nel mondo: sono istituzioni e infrastrutture che producono e distribuiscono contenuti, ma sono, contestualmente, essi stessi contenuti. La ricerca sui media, ricondotta principalmente tra il XIX e il XX secolo in Occidente, è costituita da un panorama ricco e complesso, oltre che da una vivida interdisciplinarietà.

Nick Couldry, all’interno del suo noto manuale di sociologia dei media, ci suggerisce di costruire una piramide per meglio comprendere i diversi domini di ricerca nell’ambito della così detta Media Theory17

MEDIA THEORY

Figura I.I Media Theory

16 Appadurai, A., 2012, Modernità in Polvere, Raffaello Cortina Editore, Milano, ed. or. 1996 17

Couldry, N.,2015, Sociologia dei nuovi media, Pearson Italia, Milano-Torino, ed. or. 2012, p.9.

Media Contexts

Media Texts

Media Technologies

Political Economy of the Media

(7)

Ogni vertice della piramide costituisce un diverso campo di indagine all’interno della teoria dei media. La sfera testuale rimanda alla lettura e/o fruizione dei testi mediatici ed ai loro significati ideologici; quella di politica economica fa riferimento alla produzione, distribuzione e ricezione dei media; l’ambito tecnologico, invece, prende in considerazione i funzionamenti e le proprietà tecniche dei media; mentre la dimensione sociale esamina le caratteristiche socio-storiche dei contesti sociali e la loro influenza nelle pratiche d’uso18.

I media emergono, quindi, come oggetto di studi da parte dell’etnografia, della politica, della filosofia ed anche della sociologia. Tendenzialmente, però, le teorie dei media sono state schematizzante secondo due principali linee di differenza: la prima distingue gli approcci media-centrici da quelli socio-centrici, ovvero quelli che leggono i media come elementi determinanti della comunicazione e quelli che li vedono come riflesso delle politiche sociali; la seconda differenza, invece, riguarda i teorici culturalisti e quelli

materialisti, dove i primi sono interessati al mondo della cultura e delle idee, mentre i secondi volgono lo

sguardo verso i fattori materiali.19 Ed è proprio a partire da queste due differenziazioni che l’analisi dei media moderni assume una forma più complessa.

Molte sono, infatti, le trasformazioni del XX secolo con le quali la teoria dei media ha dovuto confrontarsi, ma quella che più di tutte ha generato proficui dibattiti e animato grandi speranze tra gli studiosi è senza dubbio la così detta rivoluzione digitale. Ogni rivoluzione, però, porta con sé delle incertezze, in particolare quelle riguardanti, il che cosa, il chi, il come e il dove delle trasformazioni.

Già a partire dagli anni Ottanta, gli audience studies, avevano sollevato nuove domande sul rapporto tra testi e pubblico, ma è con i media digitali che l’audience ha suscitato l’interesse degli studiosi della Media Theory. Per la prima vota ci si rende conto che i media non sono più un circuito chiuso di produzione, distribuzione e ricezione, ma che rappresentano una processo di mediazione esteso nello spazio socio-culturale. Ed è in quest’ottica che la ricerca antropologica ed etnografica diventa parte integrante dello studio dei media20.

La prepotente convergenza dei media e la crescente forma di comunicazione personalizzata, non ci autorizza più a negare la scomparsa della comunicazione di massa, intesa come modello di produzione ideologica e ricezione passiva nella fruizione dei discorsi mediali. Il ruolo attivo del consumatore come produttore e fruitore di contenuti ci obbliga a rileggere, con sguardo cauto, non solo la relazione tra media e società, ma anche l’idea stessa di pubblico. In quest’ottica, il potere dei media sembra disintegrarsi. Eppure, lo spostamento di prospettiva della teoria dei media sugli aspetti del consumo e della fruizione nei relativi contesti storici e sociali, l’estensione dello spazio di interazione al di fuori dei confini nazionali, la trasformazione delle strutture di produzione e distribuzione e l’attenzione all’influenza che l’immaginario ha nella costruzione delle pratiche di vita ordinaria comportano una maggiore considerazione del panorama mediale, non solo in quanto generatore e trasmettitore di pratiche ed ordini simbolici negoziati, ma soprattutto in quanto scambio di fatti simbolici.

18 Fagiolo, M., Zambotti, S., 2005, Antropologia e media, Ibis, Como-Pavia, p. 14. 19

McQuail, D., 2004, Sociologia dei media, Il Mulino, Bologna, p. 24-27.

20

Si pensi per esempio alla nascita, intorno agli anni Sessanta, dei così detti Cultural Studies: gruppo di studiosi raccoltisi intorno al Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS) di Birmingham, i cui maggiori esponenti sono E.P. Thompson, Raymond Williams, Richard Hoggart e Stuart Hall.

(8)

iv.

Fatti e Interpretazioni

E’ necessario, a questo punto, esplicitare brevemente gli intenti, gli ambiti e gli strumenti di questa ricerca. A tal fine è utile ripercorrere i paragrafi precedenti per introdurre lo scenario socio-culturale, politico e mediale in cui questo lavoro si colloca.

Abbiamo visto, seppur brevemente, come il panorama contemporaneo abbia subito delle profonde trasformazioni filosofiche, politiche, ed antropologiche. Tre sono gli elementi su cui abbiamo voluto spendere il nostro tempo: 1) il ruolo nuovo e determinante dell’immaginazione come spinta all’azione nelle migrazioni globali e nella trasformazione dell’ordine simbolico e culturale; 2) il mutamento del tradizionale modello di economia dei media in favore di una fiorente etnografia della comunicazione ed il crescente ruolo dell’individuo come tutto-fare-mediale capace di relazionarsi e di contribuire alla trasformazione di discorsi altri; ed infine 3) la crisi dell’idee di cultura, culture e di culturale, in quanto incapaci di dare senso alla messa in circolo di altre vite possibili che il nuovo modo plurale, fluido e transnazionale di appartenere al mondo ha reso un fenomeno condiviso e diffuso.

Il cambiamento dei modelli di comunicazione ha influenzato, non solo il nostro modo di relazionarci e di riconoscere un mondo altro, ma ha contribuito a diffondere una politica dell’appartenenza incoerente e labile. E’ in virtù di queste trasformazioni che questa mia ricerca si propone di osservare se e quanto la stabilità e la fondatezza del pensiero moderno siano ancora in grado di reggere il peso della perdita di stabilità e fondatezza del mondo contemporaneo.

Nella prima parte della tesi, mi concentrerò sugli scenari mediali, ovvero su quanto e come, all’interno della

Media Theory, gli scenari digitali abbiano modificato la struttura complessiva di analisi e percezione dei

testi, dei contesti, delle tecnologie e della politica economica dei media. Mi confronterò, a questo proposito, con la tendenza di alcuni pensatori contemporanei di leggere i media come pratiche culturali alla luce di un’accurata e adattabile teoria sociale21.

Nella seconda parte, invece, proverò ad osservare come il panorama culturale sia intimamente connesso a quello mediale e come entrambi siano lo spazio di negoziazione dell’uno e dell’altro. Alla luce di ciò, ci volgeremo verso il dibattuto tema del multiculturalismo e della definizione di esso a partire della messa in crisi del concetto stesso di cultura. In particolare faremo riferimento al ruolo dell’immaginazione individuato da Arjun Appadurai22.

Nella terza ed ultima parte mi avvierò alle conclusioni di questo studio, con l’obiettivo di fornire un orientamento nella lettura dei fenomeni mediali in relazione alla ridefinizione dei contesti culturali e politici della globalizzazione.

Tengo a precisare che questo lavoro non vuole essere visto come un approccio né media-centrico né

socio-centrico, ma piuttosto, come uno sguardo che interpreta i fatti mediali come fatti culturali ed i fatti culturali

come fatti politici il cui spazio di negoziazione simbolico-interpretativo è il fatto stesso. Lo scopo ultimo è quello di fornire una riflessione che tenga conto di come lo scambio e la negoziazione simbolica, tra persone, tra pratiche di vita ordinaria, tra discorsi di potere (e non) e tra mondi possibili, sia una delle più vivide forme di vita della contemporaneità.

21 Cfr.Couldry, N., 2015, Sociologia dei nuovi media, Pearson Italia, Milano-Torino, ed. or. 2012 22

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