U
NIVERSITÀ DI
P
ISA
DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza
Tesi di Laurea
Il recesso nelle società di capitali
Autonomia statutaria e dialettica tra soci
Relatore Candidato
Chiar.mo Prof. Andrea Bartalena Daniele Buoncristiani
Indice:
Introduzione
3
Capitolo 1 – Il diritto di recesso: analisi interdisciplinare
sulla diversità di funzioni
1.1. Il «comun denominatore» del recesso: i connotati
che caratterizzano tutte le tipologie di recesso
1.2. Forza di legge e perpetuità del vincolo: il recesso
c.d. «determinativo»
1.3. Il recesso c.d. «impugnatorio»
1.4. Il recesso c.d. «penitenziale»
4
15
22
32
Capitolo 2 – Dalla disincentivazione del recesso all’apertura
all’autonomia statutaria
2.1.1. Il diritto di recesso all’interno delle società di
capitali nella disciplina originaria del Codice civile
2.1.2. (Segue): le modifiche introdotte dal d.lgs.
6/2003
2.2.1. Il fondamento giuridico del recesso: tra
principio di disinvestimento e tutela delle minoranze
2.2.2. (segue): le S.p.A. “aperte”: il recesso come
strumento in mano alla maggioranza
51
60
64
2.3. L’analogia: S.p.A. e S.r.l.
2.4.1. Fusione e scissione della società come cause
legittimanti il recesso
80
85
2.4.2. (Segue): l’interpretazione maggioritaria:
problematicità
2.5. Il recesso c.d. ad personam
2.6. Il recesso per giusta causa
95
106
110
Capitolo 3 – Il rimborso della partecipazione al socio uscente
3.1. Il valore della partecipazione societaria ante e
post riforma
3.2. Valore di liquidazione e autonomia statutaria
3.3. Il valore “giusto” della partecipazione in caso di
recesso
120
127
136
Introduzione
La riforma del 2003 (d.lgs. 6/2003) ha modificato sensibilmente
la disciplina del recesso nelle società di capitali, fra l’altro concedendo
ampio spazio all’autonomia statutaria in materia; in particolare, sia nelle
S.r.l. che nelle S.p.A. i soci possono decidere di ampliare le ipotesi di
recesso, creandone di nuove a livello statutario.
Ma fino a dove si potrà estendere l’autonomia delle parti? Fino a
dove sarà possibile per i soci creare ipotesi di recesso restando dentro i
confini della libertà loro concessa?
Oltre a ciò, il legislatore ha inteso dare spazio all’autonomia
statutaria anche con riferimento alla determinazione del valore della
partecipazione da rimborsare al socio recedente, ma, anche, in questo
caso, sono sorti dubbi in merito all’effettiva estensione del potere delle
parti, stante anche il fatto che tale facoltà è concessa all’interno delle
S.p.A. “chiuse” e non, invece, all’interno delle S.r.l.
Per cercare di risolvere queste ed altre questioni si analizzerà,
anzitutto, il recesso sotto diverse prospettive. Ossia, si guarderà il
recesso all’interno di diversi rami del diritto attraverso un’analisi
interdisciplinare. Ciò servirà per identificare i tratti comuni del recesso
e, in definitiva, uno o più “fili rossi” conduttori del recesso nelle varie
branche del diritto.
Successivamente, con specifico riferimento alle società di capitali,
sarà possibile individuare le varie rationes che stanno alla base del
recesso, dato che, a seguito della riforma del 2003, è possibile affermare
il passaggio da una unicità ad una pluralità di fondamenti giuridici alla
base dell’istituto in esame.
I risultati di quest’analisi serviranno per cercare di capire qual è il
grado di derogabilità da parte dei soci della disciplina del recesso; se è
possibile un’estensione analogica di parte della disciplina, laddove siano
ravvisabili lacune, dalla S.p.A. alla S.r.l. o viceversa; se i soci possano
spingersi a tal punto da prevedere criteri di calcolo del valore della
partecipazione deteriori rispetto a quelli legali o se, invece, non possano
derogare in peius la disciplina codicistica.
Occorrerà inoltre tener conto dei diversi e contrastanti interessi:
l’interesse dei creditori sociali alla conservazione del patrimonio
sociale; gli interessi dei soci di minoranza ad avere maggiori possibilità
di disinvestimento; gli interessi dei soci di maggioranza a poter gestire
la vita societaria in modo continuativo ed ininterrotto.
In sintesi, lo scopo di questo elaborato è verificare se e quali
possano essere i criteri per fissare il confine dell’autonomia statutaria,
oltre il quale non sarà possibile spingersi.
Capitolo 1
1. Il diritto di recesso: analisi interdisciplinare
sulla diversità di funzioni
Sommario: 1.1. Il «comun denominatore» del recesso: i
connotati che caratterizzano tutte le tipologie di recesso; 1.2.
Forza di legge e perpetuità del vincolo: il recesso c.d.
«determinativo»; 1.3. Il recesso c.d. «impugnatorio»; 1.4. Il
recesso c.d. «penitenziale».
1.1. Il «comun denominatore» del recesso: i connotati che
caratterizzano tutte le tipologie di recesso
Prima di affrontare nei capitoli che seguono la materia dello
scioglimento del vincolo contrattuale in ambito societario è utile porre
le basi dell’argomento. Infatti, il diritto di recesso e l’esclusione
rappresentano due modi per consentire lo scioglimento (parziale nel
diritto societario) del vincolo contrattuale. Il recesso, a ben vedere, è un
istituto che non si trova unicamente in ambito societario, ma all’interno
di moltissimi contratti di diritto privato
1. Proprio per questo un’analisi
interdisciplinare (che in questo contesto non vuole in alcun modo avere
la pretesa di essere esaustiva e completa) può servire per comprenderne
a fondo le caratteristiche e le peculiarità.
1 Per una ricerca pressoché esaustiva, anche se inevitabilmente datata, sul recesso e la
risoluzione nei vari contratti, si veda DE NOVA G. (a cura di), Recesso e risoluzione
Il primo comma dell’art. 1372 c.c. in materia di contratti esordisce
dicendo che «il contratto ha forza di legge tra le parti»
2. Si tratta del
principio della c.d. «forza di legge del contratto», cioè della sua
vincolatività per i contraenti, che, se sicuramente trova applicazione
indiscriminata per la generalità dei contratti, è altrettanto vero che «a
causa della previsione del potere di recesso unilaterale nella disciplina
di quasi tutti i tipi legali […] risulta sostanzialmente svuotato»
3.
Infatti, già il secondo periodo del medesimo comma pone le basi
per una deroga a tale principio affermando che «[il contratto] non può
essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge».
Tra le «cause ammesse dalla legge» rientrano diversi istituti come,
ad es., il recesso unilaterale (art. 1373 c.c.), la risoluzione (art. 1453
2 L’orientamento della giurisprudenza italiana risalente agli anni ’60 considerava il
recesso come uno strumento avente carattere eccezionale perché derogatorio del principio della forza di legge del contratto (Cfr. Cass. civ., 22 febbraio 1963, n. 424, in Il Foro Italiano, 1963, p. 1181 ss.; Cass. Civ., 22 febbraio 1963, n. 424, in Giust.
civ., 1963, p. 1059). In tal senso cfr. anche DISTASO N., I contratti in generale, in
Giurisprudenza sistematica civile e commerciale, diretta da BIGIAVI W., Torino, 1966, p. 945. Sempre in quel periodo, però, vi era chi ridimensionava la portata del principio per cui “il contratto ha forza di legge tra le parti” affermandone «il carattere enfatico e di mero traslato. Si tratta di un modo di dire, nel quale si è voluto trasfondere la solennità (e vorremmo dire la serietà) del vincolo, che scaturisce dal contratto, per cui non sarebbe lecito, ad alcuna delle parti, tenere in cale il contratto e non-osservarlo, col fatto di non-eseguirlo (o di eseguirlo in difformità del suo tenore), o col fatto di risolverlo (cfr. art. 1372 comma 1, secondo inciso), senza il concorso della volontà della controparte. Ma in quella locuzione, non potrebbe vedersi nulla più di questo, o, al più, un comandamento di natura etica: non certamente giuridica» (MESSINEO F., Contratto, voci estratte dall’Enciclopedia del Diritto, Milano, 1961, p. 175-176). Tale ridimensionamento del principio espresso dall’art. 1372, comma 1, c.c., serviva, principalmente, a distinguere la figura del “contratto” in senso stretto da quella del “contratto normativo” inteso, invece, come «mezzo di predisposizione di una
disciplina giuridica per (altri) futuri contratti, vi risalta il suo carattere di strumento di secondo grado, che lo differenzia dall’ordinario contratto, il quale provvede direttamente e concretamente a dare assetto ad interessi patrimoniali delle parti. Oltre
tutto, manca, nel cosiddetto contratto normativo, anche il riferimento a siffatti interessi» (MESSINEO F., op. ult. cit., p. 256). Nonostante ciò, l’orientamento
giurisprudenziale e dottrinale teso a considerare il recesso come uno strumento avente natura eccezionale è proseguito per almeno tre decenni. Solo a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, infatti, si è consolidato un diverso orientamento che ha iniziato a considerare il recesso non in più chiave derogatoria ed eccezionale, ma come vero e proprio «principio generale», di modo che «anche per i contratti atipici a tempo indeterminato le parti sono libere di recedere unilateralmente, pur se nulla hanno previsto a riguardo» (DE NOVA G., Il contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da SACCO R., 2, Torino, 1993, p. 697). Per maggiori approfondimenti sull’evoluzione giurisprudenziale del tema cfr. infra, nt. 28.
c.c.), la rescissione (art. 1448 c.c.) ecc. Il legislatore, però, a volte ha
utilizzato nomi diversi per indicare istituti che, nella sostanza, possono
essere ricondotti ad una matrice comune: quella, appunto, del recesso
4.
All’interno del rapporto di lavoro subordinato si distingue, così, tra
«licenziamento», se l’atto unilaterale proviene dal datore di lavoro, o
«dimissioni», se proviene dal lavoratore: ma si tratta in entrambi i casi,
a ben vedere, di un recesso dal rapporto di lavoro subordinato. Ancorché
con una disciplina diversa, essi rappresentano, infatti, due facce della
stessa medaglia
5.
Ugualmente avviene nell’ambito del diritto societario, laddove si
fa riferimento al «recesso» per indicare il diritto del socio di «uscire»
dalla società (diritto di exit, per usare una terminologia anglosassone
6) e
alla «esclusione» per indicare la possibilità della società, a determinate
condizioni e in determinati casi, di estromettere un socio dalla
compagine societaria
7. Ma in ambedue i casi si realizza, pur sempre, uno
scioglimento (parziale) del vincolo contrattuale.
4 Cfr. GABRIELLI G., Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, Milano, 1985, p. 4-8. 5 Cfr. GABRIELLI G., op. ult. cit., ibidem.
6 Ad essere precisi non c’è una perfetta sovrapposizione tra il diritto di “recesso” e il
diritto di “exit”, rappresentando quest’ultimo, invece, un concetto più ampio. Infatti, «il recesso non costituisce l’unico strumento approntato dall’ordinamento allo scopo di consentire al socio l’exit dalla società in presenza di talune circostanze ritenute, dalla legge o dallo statuto, idonee a fondare il diritto a ottenere la liquidazione della quota sociale; dovendosi, piuttosto, considerare alla stregua di una species di un più ampio
genus di diritti di disinvestimento conosciuti alla legislazione societaria» (SEMINARA
L., Recesso e diritto al disinvestimento nella fusione e nella scissione di società per
azioni, in Riv. soc., 2017, p. 1037). Similmente cfr. MAUGERI M., Partecipazione
sociale e attività d’impresa, Milano, 2010, p. 193 ss., a cui interessa che il socio sia
protetto da un «rischio di illiquidità» e che sottolinea come, per raggiungere lo scopo, non c’è solamente lo strumento del recesso ma anche, ad es., l’obbligo di acquisto da parte della società (in alternativa, appunto, al recesso) previsto dall’art 2355-bis, comma 2, c.c. Si pensi anche alla possibilità che nella fusione semplificata sia concesso ai soci il «diritto di far acquistare le loro azioni o quote dalla società incorporante per un corrispettivo determinato alla stregua dei criteri previsti per il recesso» (art.
2505-bis, comma 1, c.c.; norma richiamata in materia di scissione dall’art. 2506-ter, comma
5, c.c.); ugualmente avviene anche nella scissione non proporzionale dove si afferma che il progetto di scissione «deve prevedere il diritto dei soci che non approvino la scissione di far acquistare le proprie partecipazioni per un corrispettivo determinato alla stregua dei criteri previsti per il recesso, indicando coloro a cui carico è posto l'obbligo di acquisto» (art. 2506-bis, comma 4, c.c.). Cfr. sempre SEMINARA L., op.
cit., p. 1059.
7 Infatti, «il recesso non è l’unico atto unilaterale che, nel linguaggio del Codice civile
Fatta questa premessa terminologica, è interessante vedere come
tradizionalmente l’istituto del recesso venga studiato suddividendolo in
diverse aree di operatività. Una distinzione tradizione di origine tedesca
è tra «ordentliche Kündigung» e «außerordentliche Kündigung»
8dove
il primo trova applicazione nei contratti di durata in cui non è stabilito
un termine di scadenza, mentre il secondo trova applicazione nei
contratti che normalmente hanno un termine, qualora si verifichino
determinati eventi patologici rispetto all’originario regolamento
contrattuale
9. Infatti, «il potere di recesso straordinario non è solo
ammesse dalla legge” (art. 1372, 1° co., c.c.). In altre norme si impiegano termini diversi come: la revoca, le dimissioni, la rinuncia, il rifiuto, il riscatto, l’esclusione eventualmente sotto il profilo della decadenza, la disdetta (artt. 1596 e 1597 c.c.) o il ritiro (art. 2582 c.c., art. 142 l. 22.4.1941 n. 633» (FRANZONI M., Degli effetti del
contratto: efficacia del contratto e recesso unilaterale (artt. 1372-1373), in Il Codice civile, commentario, SCHLESINGER P.(diretto da), vol. I, Milano, 1998, p. 308). Ma «anche se vengono usate altre espressioni quale richiesta, rinunzia, revoca, disdetta, ripresa, non si dubita che si è di fronte al nostro fenomeno, se è sempre la parte che con la sua dichiarazione determina lo scioglimento di rapporti ai quali è obbligata e cioè il venir meno del programma contrattuale che, secondo i casi, non si realizza, cessa anticipatamente o viene ridotto» (SANGIORGI S., voce Recesso, in Enciclopedia
Giuridica Treccani, XXVI, Roma, 1991, p. 1). Cfr. GABRIELLI G., op. cit., p. 4-8. L’A. nella sua opera porta altri esempi di termini diversi che hanno, in realtà, una base comune e che sono, quindi, generalmente riconosciuti come «atti di recesso». Ad es. ciò avviene nel caso della revoca per giusta causa nel contratto di mandato (artt. 1723, comma 2, e 1725 c.c.) o nel caso del riscatto da parte del debitore nel contratto di rendita perpetua (art. 1865 c.c.).
8 Così MOLITOR J., Die Kündigung, Mannheim, 1951.
9 Cfr. MANCINI G.F., Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro, Il recesso ordinario,
Milano, 1962, p. 209. L’A è stato tra i primi ad aver trattato la distinzione, di origine tedesca, tra recesso ordinario e recesso straordinario. Cfr. anche GABRIELLI G.– PADOVINI F., voce Recesso (diritto privato), in Enciclopedia del diritto, XXXIX, Milano, 1988, p. 27». Cfr. anche DIAMANTI R., Art. 2118, in Il recesso, la
giustificazione del licenziamento, la tutela reale, Estratto ad uso degli studenti della seconda edizione – I licenziamenti, commentario, Vol. I, MAZZOTTA O.(a cura di), , Milano, 1999, p. 18, che, commentando la bipartizione manciniana, sia pure in un’opera giuslavoristica, affermava che «nel recesso ordinario l’atto costituisce manifestazione insindacabile di discrezionalità perché la finalità perseguita è già di per sé valutata positivamente dall’ordinamento salvo la prova del motivo illecito. Viceversa, in quello straordinario l’estinzione del rapporto viene ancorata a presupposti predeterminati; solo una volta che tali presupposti si siano realizzati la parte potrà valutare discrezionalmente se esercitare il potere di recedere». Cfr. FERGOLA P., La teoria del recesso ed il rapporto di lavoro, Milano, 1985, p. 9, che mette in rilievo il fatto che, mentre nel recesso ordinario si ha una autonomia totale da parte del (potenziale) recedente, nel recesso straordinario, invece, la discrezionalità del (potenziale) recedente nel decidere se recedere o meno si ha solo dopo che si sia verificato il presupposto per esercitare il recesso. Cfr. infra, nt. 27, per un approfondimento sul recesso senza necessità di motivazione.
connesso con la presenza di un rapporto contrattuale, ma sorge per il
verificarsi di eventi particolari che ne configurano la fattispecie
costitutiva»
10. A questa bipartizione è seguita poi una tripartizione tra
«recesso
determinativo»,
«recesso
penitenziale»
e
«recesso
impugnatorio»
11. È una distinzione che non ha valenza meramente
classificatoria, ma che consente di comprendere a fondo la ratio del
recesso.
Nonostante, come detto poc’anzi, il recesso possa essere
considerato la «matrice comune» di svariati istituti cui sono stati dati per
legge o per prassi nomi diversi, esso stesso non ha una regolamentazione
unitaria e costante; anzi, può avere discipline e funzioni completamente
diverse a seconda della prospettiva da cui lo si studi. Il suo fondamento
giuridico non è unico, ma varia sia tra branche del diritto differenti, sia
all’interno della stessa materia.
Esistono però alcuni tratti essenziali che stanno alla base
dell’intera macrocategoria dell’istituto del recesso. Si tratta di un
minimo comun denominatore che caratterizza il recesso in tutte le sue
varianti, quantunque esse abbiano un fondamento giuridico differente.
Anzitutto si fa riferimento al fatto che, nonostante le diversità dei
vari tipi di recesso, in ogni caso di recesso si ha «il potere del recedente,
mediante un atto di volontà unilaterale estintivo degli effetti del
contratto, di liberarsi dal vincolo che tra le parti, secondo il dettato
normativo, ha invece forza di legge»
12. Si ha una lesione, quindi, del
10 Così MANCINI G.F.,op. cit.,ibidem.
11 Cfr. infra, cap. 1.2, 1.3, 1.4, per un’analisi di queste tipologie di recesso. Questa
tripartizione è da attribuire all’opera di GABRIELLI G., op. cit., p. 13-16, 37-38, 65 ss.
Cfr. PATTI F.P., Il recesso del consumatore: l’evoluzione della disciplina normativa, in Eur. e dir. priv., 2012, p. 1008; DE NOVA G., in DE NOVA G (a cura di), op. cit., p.
12 Così RAVERA E., Il recesso, Milano, 2004, p. 8. Il Codice civile del 1942, sulla scia
di quello del 1865, non contiene una definizione del recesso. Proprio per questo è stata d’aiuto l’opera della prima dottrina post-codicistica che ha cercato di definire il recesso sottolineandone i connotati essenziali; connotati che, oggi, si ritrovano anche in tipologie di recesso differenti. Ad es., il recesso viene definito come «l’atto volontario con cui una parte, soggetto di un rapporto giuridico e per questo tenuta a determinati obblighi, dichiara di voler ritirarsi dal rapporto e liberarsi dai relativi obblighi con efficacia vincolante per l’altro soggetto del rapporto» [D’AVANZO W., Recesso (diritto civile), in Nov. dig. it., XVI, Torino, 1967, p. 1027].
principio di «forza di legge del contratto» che, teoricamente, dovrebbe
trovare compiuta applicazione all’interno della generalità dei contratti,
ma che invece, come già accennato, oggi è spesso derogato dalla
disciplina speciale dei singoli tipi contrattuali.
La «unilateralità» del potere, inoltre, è un altro connotato tipico
del diritto di recesso che, in quanto diritto potestativo, può essere
attivato da una sola parte senza che l’altra possa fare alcunché per
impedirlo (quest’ultima si trova, infatti, in una posizione di
soggezione)
13. Invero, «decidere se attuare o meno il recesso spetta solo
alla parte legittimata, la cui volontà, perciò, non è collegata con quella
dell’altra parte. Anche se si riconosce che il recesso convenzionale trae
titolo da un consenso, ciò riflette un momento anteriore all’esercizio del
recesso»
14. E la natura unilaterale del recesso non è menomata qualora
il suo esercizio non sia completamente gratuito ma sia, invece, in
qualche modo oneroso o comunque «legato al pagamento di una
penale»
15. Infatti, pur non avendo in questo caso il carattere della
gratuità, il recesso rimane pur sempre un diritto potestativo
16unilaterale.
13 Cfr. Cass. civ., 7 giugno 1990, n. 5454, in Foro it., 1991, p. 172, secondo cui, «l’atto
di recesso di cui all’art. 1373 cod. civ. integra un negozio recettizio unilaterale il quale, pur non richiedendo, quanto alla manifestazione di volontà, forme sacramentali, rimane tuttavia soggetto alle stesse garanzie di forma prescritte per il contratto costitutivo del rapporto al cui scioglimento il recesso sia finalizzato».
14 Così D’AVANZO W., op. cit., p. 1031.
15 Così RAVERA E., op. cit., p. 33. Cfr. anche D’AVANZO W., op. cit., p. 1031. 16 I diritti potestativi vengono definiti da dottrina autorevole come, «poteri, in virtù dei
quali il loro titolare può influire su situazioni giuridiche preesistenti mutandole, estinguendole o creandone nuove mediante un’attività propria unilaterale» (MESSINA
G., voce Diritti potestativi, in Nov. dig. it., V, Torino, 1961, p. 737.). La natura di potestativo del recesso è consolidata ormai da parecchi anni in dottrina. Anche quando la categoria dei “diritti potestativi” era nata da poco ed era ancora non accettata da tutti si affermava, ad es., che «la denuncia si può probabilmente collocare nella categoria dei cosiddetti diritti potestativi, che veramente è una categoria giuridica molto discussa» (BARASSI L., Il diritto del lavoro, III, Milano, 1949, p. 215; cfr. anche TABELLINI T., Il recesso, Milano, 1962, p. 19). Una prima dottrina, però, distingue tra recesso c.d. «ordinario» (riguardante i rapporti privi di un termine finale) e recesso c.d. «straordinario» (attivabile, invece, in caso di vicende patologiche del regolamento contrattuale). Invero, infatti, il primo a stretto rigore non andrebbe considerato come un “diritto potestativo” vero e proprio dato che la facoltà di sciogliere unilateralmente il regolamento contrattuale «sorge connesso ad un determinato rapporto giuridico […] e si esaurisce nell’ambito segnato da quel rapporto» (SANGIORGI S., Rapporti di durata
e recesso ad nutum, Milano, 1965, p. 182; dello stesso avviso anche BETTI E., Teoria
In particolare, il pagamento della penale non deve essere considerato
come un corrispettivo; se così fosse, sorgerebbe un nuovo contratto «le
cui prestazioni sarebbero, per un lato, il recesso e, per l’altro, la somma
pattuita»
17e ciò porterebbe alla conseguenza, ancora più assurda, che il
soggetto passivo del recesso avrebbe il diritto «di costringere l’altra ad
che in relazione al rapporto di lavoro a tempo indeterminato considera il recesso unilaterale come una «facoltà […] immanente a questo genere di rapporti») risultando, quindi, «privo dei requisiti di autonomia, specificità del contenuto, determinatezza del destinatario del potere e accessorietà ad un rapporto giuridico» (BACCIARDI E., Il
recesso nel diritto comune e nei contratti asimmetrici, tesi di dottorato in diritto
privato, Università di Pisa, a.a. 2011-2012, p. 77, assai limpido riguardo alla possibilità di qualificare o meno le due tipologie di recesso come diritti potestativi). Il recesso c.d. «straordinario», invece, funziona come «strumento parallelo all’annullamento o alla risoluzione» (GABRIELLI G.-PADOVINI F., op. cit., p. 32) e il legislatore ha connesso
«all’inadempimento dell’una parte l’insorgenza di un diritto potestativo di recesso nella parte adempiente» (DI MAJO GIACQUINTO A., Recesso unilaterale e principio di
esecuzione, in Riv. dir. comm., 1963, p. 119). Quindi, ferma la distinzione tra recesso
ordinario e straordinario, «corrisponde[rebbe] agli schemi propri del diritto potestativo soltanto il recesso per giusta causa» (SANGIORGI S., Rapporti di durata e recesso ad nutum, op. cit., p. 182) dato che il primo, invece, rappresenterebbe una facoltà immanente del rapporto giuridico. Questa distinzione non ha una valenza meramente classificatoria ma svolge un ruolo pratico a livello giudiziale. Mentre, infatti, nel recesso c.d. «straordinario» in un potenziale giudizio il giudice dovrà accertare l’esistenza del presupposto legittimante il diritto potestativo (es. la giusta causa), nel caso del recesso c.d. «ordinario», non essendoci discrezionalità nei presupposti per il suo esercizio, raramente sarà necessario adire un giudice, se non per quel che riguarda i contemperamenti all’esercizio di tale facoltà, come ad esempio il preavviso o la clausola della buona fede oggettiva, intesa quest’ultima come «criterio attraverso il quale scrutinare la condotta delle parti pure nel momento, per così dire, terminale del rapporto» (SCOGNAMIGLIO C., Il nuovo diritto dei contratti: buona fede e recesso dal
contratto, in Eur. e dir. priv., 2003, p. 799; cfr. anche BACCIARDI E., op. cit., p.
78-79). L’opinione che, però, si è definitivamente consolidata in dottrina e in giurisprudenza è quella che non distingue tra recesso ordinario e straordinario ma che li considera ambedue diritti potestativi allo stesso modo dato che, in entrambi i casi, «il soggetto passivo […] non può e non deve far nulla e soltanto soggiace alle conseguenze della dichiarazione di volontà» (SANTORI PASSARELLI F., Dottrine
generali del diritto civile9, Napoli, 1966, p. 72). Anche la giurisprudenza consolidata ha accolto la definizione di diritto potestativo inteso come «poter in virtù del quale il titolare può direttamente influire su una situazione giuridica preesistente, modificandola, estinguendola o creandone una nuova, mediante una propria attività unilaterale, del tutto indipendente dalla volontà del soggetto passivo che, in posizione di semplice soggezione, deve soltanto subire l’altrui iniziativa» (Cass. civ., 18 marzo 1970, n. 724, in Mass. giust. civ., 1970, p. 754); per una giurisprudenza più recente sul recesso inteso come diritto potestativo cfr. Cass. civ., 8 giugno 2020, n. 10869, in
www.dejure.it.; Cass. civ., 10 aprile 2018, n. 8811, in www.dejure.it; Cass. civ., 17
gennaio 2012, n. 549, in Giust. civ., 2012, p. 310; Cass. civ., 2 maggio 2011, n. 9645, in Giust. civ. mass. 2011, p. 683; Cass. civ., 14 maggio 1997, n. 4238, in Giust. civ., 1998, p. 511.
esercitare il recesso; non diversamente da un contratto sinallagmatico in
cui ciascuna parte può costringere l’altra ad adempiere»
18.
Oltre a ciò, va sottolineato che la particolarità, forse più
interessante e caratterizzante, del diritto di recesso, è la sua natura
stragiudiziale
19. Infatti, il recesso – in qualsivoglia tipologia – viene
esercitato senza la necessità di una pronuncia costitutiva di un giudice.
Il vantaggio di una siffatta disciplina è che si permette alla parte
recedente di sciogliersi dal vincolo contrattuale in tempi molto rapidi e
al semplice verificarsi dei presupposti legittimanti il recesso.
Messa in questi termini, la disciplina del recesso renderebbe il
rapporto contrattuale eccessivamente squilibrato, in quanto calibrato a
vantaggio della parte recedente. Essa è, infatti, l’unica che può decidere
se esercitare o meno il proprio diritto; l’unica, in definitiva, che può
decidere – unilateralmente e stragiudizialmente – se sciogliere il vincolo
contrattuale, nella più totale soggezione dell’altra parte. Proprio per
questo motivo l’ordinamento si è premurato di prevedere forme di tutela
del soggetto inciso dall’esercizio del diritto di recesso, cosicché il
regolamento contrattuale risulti, nella sostanza, più bilanciato.
(i) Anzitutto, sono previste alcuni presupposti legittimanti il
recesso, come la «giusta causa» di cui all’art. 2285 c.c. in materia di
società di persone o di cui all’art. 2119 c.c. in materia di rapporto di
lavoro subordinato; oppure, ancora, le ipotesi di recesso previste in
materia di S.p.A. dall’art. 2437 c.c. Qualora, invece, sia prevista la
possibilità di recedere ad nutum, il recesso subisce comunque, di regola,
una limitazione economica o temporale.
La limitazione economica si ha qualora sia consentito recedere da
un contratto ad nutum, ma non gratuitamente. Si veda, ad es., l’art. 1671
18 Così D’AVANZO W., op. ult. cit., ibidem.
19 L’opinione della stragiudizialità del recesso è ormai pacifica e consolidata in dottrina
da molti anni. Cfr. BARASSI, op. cit., p. 212 che già all’epoca affermava che: «nel più
è racchiuso il meno, il recesso mediante denuncia è istituto più ampio che esclude recisamente la pratica opportunità di ricorrere al giudice contro la parte inadempiente». Cfr. anche DIAMANTI R., op. cit. p. 17.
c.c. che consente al committente in un contratto di appalto di recedere
«purché tenga indenne l’appaltatore delle spese sostenute, dei lavori
eseguiti e del mancato guadagno». Così come, nel caso delle professioni
intellettuali, il cliente ha la possibilità di recedere dal contratto
«rimborsando al prestatore d’opera le spese sostenute e pagando il
compenso per l’opera svolta»
20.
La limitazione temporale, invece, si ha in due momenti. In primo
luogo, quando si consente alla parte di recedere ma solo dopo il
trascorrere di un determinato periodo di tempo, detto preavviso
21. In
secondo luogo, la limitazione temporale si ha quando si consente alla
parte di recedere dal contratto entro un determinato termine, scaduto il
quale non è più possibile esercitare il diritto
22.
(ii) Oltre a ciò, il regolamento contrattuale è riequilibrato data la
natura irrevocabile
23del recesso stesso. Il recesso si caratterizza per
essere un atto avente natura recettizia
24e ciò comporta che il recedente
può ritirare l’atto prima che esso giunga conoscenza del destinatario
25.
Ma nel momento in cui la comunicazione sia pervenuta nella sfera
giuridica del destinatario, non è più possibile per il recedente revocare
20 Così l’art. 2237, comma 1, c.c.
21 Cfr. a titolo di esempio l’art. 2437, comma 3, c.c., che prevede un preavviso di
almeno centottanta giorni per recedere da una S.p.A. non quotata costituita a tempo indeterminato. Il preavviso nei contratti di durata a tempo indeterminato svolge la medesima funzione delle condizioni legittimanti il recesso nei contratti a tempo determinato. In ambedue i casi, infatti, il legislatore limita la portata «dirompente» del diritto di recesso, così da riequilibrare il contratto.
22 Cfr., sempre a titolo di esempio, l’art. 52 del Codice del consumo che consente al
consumatore, nei rapporti Business to Consumer, stipulati a distanza o fuori dai locali commerciali, di recedere dal contratto entro quattordici giorni (il dies a quo varia a seconda dell’oggetto del contratto e della corretta o meno informativa sul diritto di recesso).
23 Il principio della irrevocabilità del recesso è confermato sistematicamente anche
dalla Suprema Corte, secondo cui, «il diritto potestativo di recesso […] comporta lo scioglimento del rapporto, dovendo negarsi la possibilità di una successiva revoca dello stesso» (Cass. Civ., 24 febbraio 1993, n. 2281, in Rivista giuridica dell’Edilizia, 1993, p. 803).
24 Cfr. GALGANO F., Effetti del contratto, rappresentanza, contratto per persona da
nominare, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, GALGANO F.(a cura di), IV, Bologna-Roma, 1993, p. 58, secondo cui «il recesso è fra gli atti unilaterali recettivi, che producono effetti dal momento in cui sono portati a conoscenza della persona alla quale sono destinati».
l’atto, che produrrà, inesorabilmente, i suoi effetti
26. La irrevocabilità
dell’atto è una caratteristica del recesso che ha la funzione, da un lato,
di garantire la certezza del diritto (che verrebbe meno se la parte
recedente potesse revocare l’atto di recesso dopo che sia giunto al
destinatario), dall’altro lato, invece, quella di tutelare l’affidamento
della parte incisa dall’esercizio del diritto di recesso.
L’istituto del recesso è stato così bilanciato dal legislatore in modo
tale che sia garantito un equilibrio tra diritto potestativo del recedente e
soggezione del soggetto inciso dall’esercizio del diritto di recesso.
Eccezionalmente, ma per espressa previsione di legge, è possibile
da qualche anno revocare il disposto licenziamento, purché tale revoca
venga effettuata entro il breve termine di quindici giorni successivi
all’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore (art. 18,
comma 10, statuto lavoratori, come novellato dalla l. 92/2012). Non si
tratta di un nuovo incontro di volontà tra le parti, ma di una misura
premiale per il datore di lavoro che ha la possibilità di evitare i rischi
soprattutto economici conseguenti all’invalidazione del recesso e,
pertanto, decide di rispristinare il rapporto di lavoro, dovendo pagare
soltanto le retribuzioni medio tempore perse dal lavoratore. Parimenti il
lavoratore ha la possibilità di revocare, entro sette giorni, le dimissioni
presentate telematicamente (art. 26 d.lgs. n. 151/2015).
Le varie tipologie di recesso che si possono riscontrare nel nostro
ordinamento hanno sempre una base comune unitaria, data dai connotati
sopra analizzati. La tripartizione coniata da Gabrielli G. consente di
studiarle meglio e di comprendere i loro fondamenti giuridici anche
tramite una comparazione interdisciplinare, ma sempre tenendo
26 Come è stato autorevolmente sostenuto, infatti, «se si riconoscesse al socio di gettare
il sasso e poi di ritirare la mano, più che un’arma di negoziazione, gli si offrirebbe un’arma di riscatto» [CALLEGARI M., Il recesso del socio nella s.r.l., in Le nuove s.r.l., SARALE M. (diretto da), Bologna, 2008, p. 249 ss.]. In tal senso cfr. anche CONFORTI
C., Il recesso nelle società, nei consorzi e nelle cooperative, in Il recesso, Quaestiones, BONILINI G. (collana diretta da), Pisa, 2017, vol. II, p. 542.
presente, appunto, che esse hanno un «comun denominatore» che le
tiene unite
27.
1.2. Forza di legge e perpetuità del vincolo: il recesso c.d.
«determinativo»
Il recesso «determinativo» è sicuramente il più tradizionale e
quello meglio rispondente all’idea secondo cui nessuno può essere
obbligato in aeternum all’esecuzione di una prestazione
28. Trova la sua
27 Va accennato che un altro tratto comune a molte, ma non a tutte, le tipologie di
recesso è che più è alto il vincolo fiduciario, più è «acausale» il recesso stesso. Con il termine «acausale» non si vuole intendere che il recesso sia privo di causa. Esso in quanto negozio giuridico ha sicuramente una causa che consiste nell’intento «di fare venire meno un precostituito rapporto giuridico» (così D’AVANZO W., op. cit., p. 1035). Si vuole intendere, invece, che c’è un rapporto di proporzionalità tra il vincolo fiduciario di un rapporto e la possibilità di recedere dallo stesso senza motivazione o con un grado di motivazione ridotto. La «acausalità» o «astrattezza», infatti, «perde il naturale riferimento tecnico al profilo della causa dell’atto e, sia pure con terminologia imprecisa, sta ad indicare il fatto che l’atto di recesso non abbisogna di motivazione» (Così DIAMANTI R., op. cit., p. 13). È stato autorevolmente sostenuto, inoltre, che «la pretesa astrazione del negozio ha, nella migliore delle ipotesi, funzione meramente processuale, con la conseguenza che ad essa si accompagna una inversione dell’onere della prova, incombendo al soggetto cui l’atto è rivolto la dimostrazione della mancanza o della illiceità della causa. Ciò non toglie, però, che il negozio per sua natura sia sottoposto alle norme generali relative alla causa dei negozi giuridici e che la sua causa debba evidentemente determinarsi con riferimento al potere di recesso in discorso» (NATOLI U., Sui limiti legali e convenzionali delle facoltà di recesso «ad nutum» dell’imprenditore, in Riv. giur. lav., 1954, I, p. 285-286). In situazioni dove non rileva la persona del contraente (come, ad esempio, nel caso del socio di una S.p.A. c.d. «aperta») non è ammesso un recesso immotivato. Una ipotesi intermedia si ha in situazioni in cui rileva la persona del contraente ma non a tal punto da consentire un recesso totalmente privo di motivazione, come nel caso del licenziamento per giusta causa nei rapporti di lavoro subordinato. Infatti, «il fondamento del potere di recesso per giusta causa viene ricondotto nella natura fiduciaria del rapporto di lavoro» [così MAZZOTTA O., Diritto del lavoro7, in Trattato di diritto privato, IUDICA G.–ZATTI P. (diretto da), Milano, 2019, p. 675]. L’ipotesi estrema si può trovare, invece, nel caso del rapporto di lavoro domestico, «mosca bianca» dell’ordinamento, in cui il vincolo fiduciario tra il lavoratore e il datore di lavoro è talmente forte (si pensi al fatto che la prestazione lavorativa si ha nei confronti di soggetti che non sono né imprenditori né professionisti e che il lavoro si svolge all’interno dell’abitazione del datore di lavoro) da legittimare un licenziamento pur in assenza di una giusta causa o di un giustificato motivo: un recesso, cioè, ad nutum.
28 La giurisprudenza della Cassazione più risalente nel tempo poneva l’accento sul fatto
che il diritto di recesso dovesse essere necessariamente previsto dalla legge o da una clausola contrattuale. Si argomentava che, «il recesso unilaterale, lungi dal costituire una facoltà normale delle parti contraenti, presuppone, invece – a norma dell’art. 1373
disciplina generale nel secondo comma dell’art. 1373 e riguarda i
contratti ad esecuzione continuata o periodica e non, invece, i contratti
c.c. – l’“attribuzione” di essa» (Cass. Civ., 12 febbraio 1990, n. 987, in Riv. it. dir. lav., 1991, p. 290). Ciononostante, già all’epoca vi erano opinioni «fuori dal coro» e veniva affermata l’«idea che contrasti con la concezione del nostro sistema positivo un vincolo obbligatorio destinato a durare all’infinito, senza che sia consentita al debitore (o ai suoi successori) la possibilità di liberarsene» (Cass. Civ., 30 luglio 1984, n. 4530, in
Giust. civ., 1985, p. 2016). Anche a livello dottrinario vi era già chi ammetteva il
recesso in qualsiasi contratto stipulato sine die facendo leva sul fatto che il diritto potestativo di recesso era già «contemplato (o, se si preferisce, ammesso) nella volontà
contrattuale originaria» (TABELLINI T., op. cit., p. 52; in termini simili anche
SANGIORGI S., Rapporti di durata e recesso ad nutum, op. cit., p. 186). In altre parole, «fin dall’origine di detto rapporto [a tempo indeterminato] i due soggetti, stipulando il contratto che a esso dà vita, e non assumendo – né pretendendo – reciprocamente impegni sul periodo di durata, si riconoscono reciprocamente il potere, e
reciprocamente si assoggettano, a che il rapporto cessi non appena in quanto uno di
loro due non voglia più proseguirlo. Si può adunque concludere – e in modo, mi sembra, esauriente – dicendo che, nei rapporti a durata indeterminata, il contratto originario, come dà vita al rapporto contrattuale, così contestualmente dà vita a un rapporto potestativo, nel quale entrambe le parti sono soggetti attivi e al tempo stesso passivi del potere di recedere unilateralmente» (TABELLINI T., op. ult. cit., p. 50-51). Sulla stessa scia cfr. anche DEVOTO L., L’obbligazione ad esecuzione continuata, Padova, 1943, p. 164 (nelle note) e 188. Altri, invece, raggiungevano il medesimo risultato stabilendo una «equazione tra libertà personale e recesso» (FERGOLA P., op.
cit., p. 36) o sul principio della necessaria temporaneità dei vincoli obbligatori
(MANCINI G.F., op. cit., p. 208; è invece contrario a questa impostazione TABELLINI T., op. cit., p. 54-57). Per quanto riguarda la giurisprudenza solo a partire dagli anni ’90 iniziava ad affermarsi, per poi consolidarsi definitivamente, l’idea che anche in assenza di una specifica disposizione di legge un contratto avente durata indeterminata non possa obbligare le parti in aeternum ma che debba necessariamente essere consentito alle stesse di liberarsi dal vincolo contrattuale. Si affermava, infatti, sia pure in un caso di contratti collettivi di lavoro, che, «da un lato, le parti convenzionalmente possono stabilire la facoltà di recedere, e, dall’altro, la legge prevede specifiche ipotesi di recesso unilaterale, senza che, peraltro, questo debba ritenersi escluso per le ipotesi da essa non contemplate (art. 1373 c.c.). Invero, al di là di dette specifiche ipotesi, e per quanto attiene in particolare ai contratti privi di termine finale, ossia a tempo indeterminato, deve essere riconosciuta la possibilità di farne cessare l’efficacia, previa disdetta, anche in mancanza di una espressa previsione legale». E ciò in quanto si tratta di un «principio […] che appare in sintonia con quello di buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.), e che è coerente con la particolare struttura del rapporto, che non può vincolare le parti senza limiti, in contrasto con la naturale temporaneità della obbligazione» (Cass. Civ., 1° luglio 1998, n. 6427, in Giust. civ., 1999, p. 1793). La giurisprudenza più recente è pacifica a riguardo. Cfr. Cass. civ., 20 agosto 2009, n. 18548, in Riv. it. dir. lav., 2010, p. 931, con nota di SARTORI A.;Cass. civ., 18 settembre 2007, n. 19351, in D&L, 2007, p. 1021, con nota di BERETTA A.;Cass. Civ., 18 dicembre 2006, n. 27031, in Riv. it. dir. lav., 2007, p. 616, con nota di CIUCCIOVINO
S.; Cass. Civ., 4 agosto 2004, n. 14970, in www.dejure.it, secondo cui, «la recedibilità
ad nutum, dai rapporti di durata a tempo indeterminato, è principio generale del nostro
ordinamento - rispondente all’esigenza (e funzionale all’obiettivo) di evitare la perpetuità del vincolo obbligatorio, nonché di conformare la esecuzione del contratto alla clausola di buona fede (art. 1375 c.c.), riconducibile al dovere costituzionale di solidarietà (art. 2 Cost.) - e, come tale, non solo prescinde da qualsiasi previsione legislativa specifica oppure pattizia, ma trova applicazione, altresì, sia ai contratti tipici, […], sia ai contratti atipici».
a esecuzione istantanea
29. Lo scopo che si vuole raggiungere con questa
tipologia di recesso è quello di evitare un contratto c.d. «perpetuo»
30. Si
vuole, in altre parole, imporre «l’opinione che l’inammissibilità dei
vincoli perpetui sia […] un principio di ordine pubblico; il contratto
perpetuo è, perciò, nullo o può, tutt’al più, convertirsi in un contratto a
tempo indeterminato, con facoltà di recesso delle parti
31». Nei casi in
cui il contratto non preveda un termine di scadenza, quindi, è sufficiente
una «mera manifestazione unilaterale di volontà»
32per porre fine al
vincolo contrattuale. Affermare l’inammissibilità di un vincolo che
obblighi le parti in perpetuo non significa, però, sancire il venir meno
della regola per cui «il contratto ha forza di legge tra le parti» ma
semplicemente negare l’eventualità che due parti contrattuali rimangano
vincolate in eterno.
29 Cfr. MANCINI G.F., op. cit., p. 208, secondo cui, il «recesso ordinario può aversi solo
nel rapporto sine die perché solo rispetto a quest’ultimo l’attribuzione di un potere di cessazione unilaterale risponde ad un’esigenza non specifica dell’uno o dell’altro contratto o di un gruppo di contratti simili, ma generale e considerata di ordine pubblico da ogni moderno legislatore: quella di evitare la perpetuità dei vincoli obbligatori o, che è lo stesso, di salvaguardare libertà dei singoli e circolabilità dei beni dalla compressione che subirebbero ove i rapporti durevoli cui non sia apposto un termine finale fossero risolubili unicamente per mutuo dissenso o per le cause di cui al libro IV, tit. II., capo XIV» Per un elenco pressocché completo delle ipotesi di recesso cc.dd. “determinative” rinvenibili all’interno del Codice civile cfr. PAROLA F.,Il recesso determinativo di fonte legale, in Obbl. e contr., 2011, p. 209, che rinviene la
prima ipotesi di recesso determinativo nell’art. 24, co. 2, c.c., secondo cui «l’associato può sempre recedere dall’associazione se non ha assunto l’obbligo di farne parte per un tempo determinato».
30 Cfr. MANCINI G.F., op. cit., p. 236, secondo cui la temporaneità del vincolo ha la
funzione di limite «interno» e non, invece, «esterno» al contratto. In altre parole, «la legge non mira a rendere temporaneo un rapporto che, di per sé, sarebbe suscettibile di durare all’infinito, ma tende solo ad attuare una temporaneità che, allo stato virtuale, caratterizza il rapporto sin dal suo sorgere». E anche la stessa prestazione, quindi, è «ab initio potenzialmente delimitata nella sua dimensione cronologica».
31 Così GALGANO F., op. cit., p. 63. Cfr. anche DE NOVA G., Il contratto, op. cit., p.
697. Per l’opinione contraria (e più risalente nel tempo) che considerava il recesso in chiave eccezionale in quanto derogatoria «al principio per cui il contratto non può essere sciolto se non per concorde volontà delle parti (art. 1372, 1° comma)» cfr. DISTASO N., op. cit., ibidem. Cfr. anche SCOGNAMIGLIO R., Contratti in generale, in
Trattato di diritto civile, GROSSO G.–SANTORO PASSARELLI F (diretto da), Milano, 1961, p. 213-214 che cercava già all’epoca di dar rilievo alla «libertà dei soggetti che sarebbe compromessa da un vincolo troppo duraturo» e tentava di conciliare la forza vincolante del contratto con il recesso da un contratto a tempo indeterminato «considerando per l’appunto che attraverso il recesso non si scioglie, malgrado l’equivoca dizione legislativa, il contratto ma si estingue soltanto il rapporto».
Una menomazione del principio di cui all’art. 1372 c.c. non
avviene, a maggior ragione, qualora il recesso sia previsto per legge o
sia espressione di una volontà contrattuale. Infatti, in tali casi sussiste in
capo alle parti contrattuali uno ius variandi, un diritto, cioè, in capo a
ciascun contraente, di modificare il regolamento contrattuale; diritto che
trova la sua essenza e il suo stesso presupposto all’interno del contratto
stesso. Infatti, ferma restando la regola, di cui all’art. 1372 c.c., secondo
cui pacta sunt servanda, però, «l’efficacia del contratto non dipende
soltanto dall’accordo delle parti, “ma anche da tutte le conseguenze che
ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità”
[così recita l’art. 1374 c.c.]. In conseguenza di ciò la modifica che
unilateralmente una parte possa apportare al contratto non va intesa
come eccezione alla regola della intangibilità […]. Va invece
considerata come esercizio che trova la sua fonte nel contratto, sia
perché riconducibile al contenuto dell’accordo (art. 1374, prima parte),
sia perché la legge collega quell’effetto al contratto (art. 1374, seconda
parte)
33».
Tale potere di modifica unilaterale del regolamento negoziale, che
assume la qualifica di Gestaltungsrecht (diritto potestativo) ha una
connotazione eterogenea in quanto trova esplicazione in situazioni
diverse tra di loro (ad ed. recesso, disdetta, licenziamento, ecc.) ma in
tutti i casi tale diritto va di pari passo (e non, invece, in direzione
contraria) al principio della «forza di legge del contratto». In altre
parole, le parti «“possono liberamente determinare il contenuto del
contratto” (art. 1322) e quindi ben possono “liberamente” accordare da
una di esse uno ius variandi, esercitabile ad libitum e non condizionato
ad eventi sopravvenuti»
34.
33 Così FRANZONI M., op. cit., p. 26.
34 Così SCHLESINGER P., Poteri unilaterali di modificazione (“ius variandi”) del
rapporto contrattuale, in Giur. comm., 1992, p. 21. L’A. sottolinea come i poteri di
variazione del contenuto contrattuale non hanno solo ed esclusivamente la funzione di sciogliere un determinato vincolo contrattuale ma possono, nella loro eterogeneità, anche dare origine a «rapporti contrattuali nuovi», come ad esempio nel caso dei patti di call o patti di put, soggetti alla disciplina dell’art. 1331 c.c. Non pare però corretto
Un recesso di natura c.d. «determinativa» è generalmente
collegato all’imposizione di un termine di preavviso il cui fondamento
sta «nell’esigenza di evitare che la peculiarità di questo strumento di
determinazione della durata, operante in costanza di rapporto e secondo
l’apprezzamento libero di una sola parte, provochi eccessivo turbamento
nell’economia dell’altro contraente, al quale vuol darsi tempo adeguato
per provvedere in modo diverso»
35. Così, ad esempio, avviene nel
recesso all’interno del contratto di lavoro a tempo indeterminato dove il
lavoratore può recedere «dando preavviso nel termine e nei modi
stabiliti, dagli usi o secondo equità»
36. Così avviene, altresì nelle società
di persone dove l’art. 2285 c.c. prevede che quando la società sia
contratta «a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci»
ciascun socio ha il diritto di recedere dando un preavviso agli altri soci
di almeno tre mesi.
affermare che il rapporto contrattuale sia «suscettibile di subire modificazioni di varia natura e fonte, non necessariamente consensuale», in quanto l’originario consenso delle parti alla stipulazione del contratto presuppone, implicitamente o esplicitamente, un’adesione a «tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi o l’equità», come stabilisce l’art. 1374 c.c. In tal senso cfr. Cass. Civ., 14 ottobre 1972, n. 3065, in Giur. it., 1974, p. 814, secondo cui la funzione integrativa svolta dall’art. 1374 c.c. «non modifica il contratto, con l’aggiungere ad esso qualcosa, in quanto le ulteriori conseguenze, che se ne fanno derivare secondo la legge, gli usi e l'equità, corrisponde all’intento voluto dalle parti».
35 Così GABRIELLI G., op. cit, p. 30. Cfr. SANGIORGI S., Rapporti di durata e recesso
ad nutum, op. cit., p. 127 e 130, che ritiene che il preavviso costituisca un «limite temporale posto all’efficacia del recesso» volto «ad evitare che la sua [id est del rapporto giuridico] interruzione a discrezione del debitore […] si traduca in un eccessivo danno per il creditore». Cfr. anche MANCINI G.F., op. cit., p. 258 ss., il quale fa notare come, a volte, il preavviso non sia l’unico limite temporale del recesso ma, oltre ad esso, «l’efficacia estintiva del negozio […] può anche venir circoscritta ad uno o più giorni determinati dell’anno e, ancora, può essere esclusa per epoche più o meno brevi durante la vita del rapporto contrattuale» (p. 258).
36 Così l’art. 2118 c.c. al comma 1. La versione originaria di questo articolo faceva
riferimento anche alle norme corporative. Oggi il termine del preavviso è, invece, indicato solitamente all’interno dei contratti collettivi di lavoro. Cfr. MAZZOTTA O.,
Diritto del lavoro7, in Trattato di diritto privato, IUDICA G.–ZATTI P. (diretto da), Milano, 2019, p. 650. A ben vedere, la norma attribuisce questo tipo di recesso ad entrambe le parti del rapporto lavorativo, quindi anche al datore di lavoro. In realtà, però, il diritto di recesso del datore di lavoro in un rapporto di lavoro subordinato non è completamente libero ma si può esercitare solo nei casi tassativi previsti dalla legge; non si tratta propriamente di un recesso c.d. «determinativo». Cfr. infra, cap. 1.2. Libero e senza giustificazioni rimane, invece, il recesso del lavoratore.
Parzialmente diversa dalla disciplina del recesso nelle società di
persone è quella del recesso nelle S.r.l. (sui cui avanti si tornerà più
approfonditamente
37), dove è previsto dall’art. 2473 c.c. che nel caso di
società contratta a tempo indeterminato – ma non anche per tutta la vita
di uno dei soci
38– ciascun socio può recedere con un preavviso di
almeno centottanta giorni che l’atto costitutivo può ampliare fino ad un
anno.
Fino a qualche anno fa la dottrina e la giurisprudenza prevalenti
interpretavano il preavviso nel rapporto di lavoro subordinato come un
elemento necessario al completamento della fattispecie del recesso. Il
preavviso aveva, quindi, efficacia reale e senza di esso la fattispecie del
recesso non si poteva realizzare. Infatti, «pur in presenza della
corresponsione dell’indennità, il rapporto resta[va] giuridicamente in
piedi fino alla scadenza del periodo»
39. Oggi, invece, l’orientamento
giurisprudenziale in materia è completamente cambiato con un netto
distacco rispetto alla disciplina societaria. Si ritiene, infatti, che il
preavviso abbia «un’efficacia meramente obbligatoria, con la
conseguenza che la mera dichiarazione della parte di recedere produce
immediatamente l’effetto della cessazione del rapporto, con l’unico
obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva e
senza che da tale momento possano avere influenza eventuali
avvenimenti sopravvenuti, a meno che la parte recedente, nell’esercizio
37 Cfr. infra, cap. 2.38 Cfr. infra nt. 108.
39 Così MAZZOTTA O., op. cit., p. 652. L’orientamento che afferma l’efficacia reale del
preavviso ha radici risalenti nel tempo. Secondo autorevole dottrina il periodo di recesso non sarebbe concepibile senza il periodo di preavviso che ne qualifica la sua essenza (In tal senso MANCINI G. F., op. cit., p. 312). Per la giurisprudenza che affermava la natura “reale” del preavviso cfr. Trib. Roma, 4 dicembre 1999, in Riv.
giur. lav., 2001, p. 77, con nota di LEOTTA; Cass. civ., 21 novembre 2001, n. 14646, in Giust. civ. mass., 2001, p. 1975; Cass. civ., 6 febbraio 2004, n. 2318, in Riv. it. dir.
lav., 2005, p. 418, con nota di DENTICI L.M., che propenda ancora per una efficacia reale del preavviso facendo salva, però, una diversa regolamentazione a livello pattizio; Cass. civ., 25 agosto 2006, n. 18551, in www.dejure.it, che, sulla scia della giurisprudenza antecedente, sottolinea che il preavviso ha efficacia reale e che «il datore di lavoro non può provocare la cessazione immediata del rapporto di lavoro esonerando il lavoratore dalle prestazioni ed offrendogli l’indennità di preavviso, se non a seguito di accordo intervenuto tra le parti».
di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla
continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l’efficacia sino al
termine del periodo di preavviso»
40.
Nella disciplina delle società di capitali, invece, il recesso c.d.
«determinativo» e, quindi, ad nutum da società contratta a tempo
indeterminato (o per tutta la vita di uno dei soci nelle società di persone)
ha effetto alla scadenza del termine di preavviso: il decorso del termine
di preavviso costituisce il dies a quo di efficacia del recesso
41. Ciò
significa, quindi, che mentre nel contratto di lavoro subordinato il
preavviso ha oggi assunto efficacia meramente obbligatoria, all’interno
del diritto societario esso continua ad avere efficacia reale. E mentre,
come accennato, secondo la Suprema Corte nel recesso all’interno di un
rapporto di lavoro subordinato la parte recedente può decidere di
avvalersi del preavviso (sostanzialmente facendo ad esso riacquistare
efficacia reale), nella società di persone non è possibile l’opposto, cioè
non è possibile, in sostanza, rinunciare al preavviso.
Il preavviso nelle società rappresenta un «termine minimo
inderogabile e, quantunque nella dichiarazione di recesso debba essere
riportata la data a decorrere dalla quale la stessa avrà effetto, in assenza
40 Così MAZZOTTA O., op. cit., p. 652-653. Con riguardo alla natura obbligatoria del
preavviso cfr. Cass. civ., 21 maggio 2007, n. 11740, in Riv. it. dir. lav., 2008, p. 164, con nota di ALVARO F. Secondo la Suprema Corte «l’obbligo di dare il preavviso non ha una efficacia reale ma soltanto obbligatoria perché il recedente è titolare di un diritto potestativo di sostituire al preavviso la relativa indennità facendo cessare immediatamente gli effetti del contratto indipendentemente quindi dall'eventuale consenso della controparte». Cfr. anche Cass. civ., 16 settembre 2009, n. 13959, in Riv.
it. dir. lav., 2010, p. 49, con nota di LATTANZIO F. Anche in questo caso la Corte riafferma la natura obbligatoria del preavviso, sottolineando che il recesso, nel contratto di lavoro a tempo indeterminato, ha effetto immediato «a meno che la parte recedente, nell'esercizio di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l'efficacia sino al termine del periodo di preavviso». Per la giurisprudenza più recente sul tema della efficacia obbligatoria del preavviso cfr. Cass. civ., 26 ottobre 2018, n. 27294, in www.dejure.it.; Cass. civ., 17 gennaio 2017, n. 985, in Dir. rel. ind., 2017, p. 504, con nota di SCIPIONI
N.; Cass. civ., 30 settembre 2013, n. 22322, in www.dejure.it; Cass. civ., 4 novembre 2010, n. 22443, in Giust. civ. mass., 2010, p. 1405; Cass. civ., 5 ottobre 2009, n. 21216, in Giust. civ. mass., 2009, p. 1409.
41 Cfr. Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 188-2011/I che fa riferimento al
di difformi indicazioni, varrà il preavviso minimo stabilito dal
legislatore»
42. Si realizza, in tal modo, una forma di tutela
dell’affidamento dei soci sulla continuità dell’attività comune e si dà
loro il tempo necessario per valutare se proseguire nell’attività senza il
socio recedente o se, invece, liquidare la società
43.
Il preavviso svolge, come accennato
44, una funzione di riequilibrio
del contratto
45. Essendo, infatti, il recesso c.d. «determinativo» un
recesso ad nutum, il regolamento contrattuale sarebbe troppo
svantaggioso per la parte incisa dell’esercizio del diritto se gli effetti di
quest’ultimo fossero immediati
46. Viceversa, quando il recesso non è ad
nutum il legislatore non richiede che ci sia un preavviso, proprio perché
il contratto è già sufficientemente equilibrato data la presenza di una
condizione legittimante il recesso
47.
1.3. Il recesso c.d. «impugnatorio»
A volte la legge attribuisce la possibilità a una delle parti di un
contratto di recedere dallo stesso qualora si verifichino condizioni gravi
42 Così GIANNINI L.– VITALI M., Recesso ed esclusione del socio2, Milano, 2010, p. 26.
43 Cfr. GIANNINI L.– VITALI M., ibidem. 44 Cfr. supra, cap. 1.1.
45 Il preavviso è previsto ad esclusivo vantaggio della parte incisa dall’esercizio del
diritto di recesso. Una conferma a tale affermazione si trova nel fatto che la parte incisa ha la possibilità, a volte, di allungare il termine di durata di preavviso. Ad es. l’art. 2437, comma 3, c.c., prevede che «lo statuto può prevedere un termine maggiore [di quello di centottanta giorni], non superiore ad un anno»; mentre la parte che esercita il diritto di recesso non ha la possibilità di ridurre o eliminare il preavviso.
46 Ad essere precisi, come accennato, nelle ipotesi in cui il preavviso ha efficacia
obbligatoria (ad es. nel diritto del lavoro) si ha una sorta di «monetizzazione» dello stesso. La «monetizzazione», costituita da una indennità sostitutiva, sostituisce il preavviso facendo acquisire efficacia immediata all’atto di recesso.
47 Cfr. BASENGHI F., Contratti di lavoro e recesso: considerazioni sulla
contaminazione dei modelli regolativi, in Dir. rel. ind., 2007, p. 1123-1124, che
trattando del contratto di agenzia (artt. 1742 ss. c.c.) afferma che in tale contratto si ha il «consueto schema della generale recedibilità con preavviso nei rapporti a tempo indeterminato, in contrapposizione alla sola recedibilità per giusta causa ante tempus nell’ambito di una relazione a termine, nel segno di un apprezzamento simmetrico delle rispettive posizioni di forza».
e patologiche che vanno a modificare l’originario regolamento di
interessi
48. Il recesso ha la particolare funzione, in questo, caso di
«strumento di impugnazione del contratto»
49e prende quindi il nome,
sovente, di «recesso impugnatorio». Il diritto privato con questo tipo di
recesso dà in sostanza la possibilità alle parti di «impugnare» un
regolamento contrattuale viziato senza la necessità di rivolgersi a giudici
o ad arbitri. Si tratta sicuramente di un’impugnazione più precaria e
instabile rispetto ad una ordinaria (data la possibilità di far accertare
giudizialmente o arbitrariamente l’assenza dei presupposti legittimanti
il recesso), ma sicuramente più celere e meno costosa.
Questo tipo di recesso ha un effetto risolutivo qualora la parte
faccia valere un vizio sopravvenuto alla conclusione del contratto;
oppure ha un effetto di annullamento qualora, in casi più rari, l’esercizio
del diritto di recesso sia diretto a far valere un vizio originario del
contratto
50. Ci si occuperà in questa sede dei casi più interessanti e più
diffusi, ossa quelli di recesso c.d. «risolutivo».
L’istituto della risoluzione del contratto può essere utilizzato nelle
ipotesi previste dagli articoli 1453 ss., c.c., ossia qualora si sia verificato
un inadempimento di non scarsa importanza, una sopravvenuta
eccessiva onerosità della prestazione o una sopravvenuta impossibilità
totale e non imputabile della controprestazione. Il recesso c.d.
«risolutivo», invece, ha un ambito di applicazione dai confini non
perfettamente delineati come quelli della risoluzione tout court e questo
fa sì che, in alcuni casi, l’istituto della risoluzione e quello del recesso
«impugnatorio e risolutivo» concorrano
51. Infatti, i due istituti hanno
48 In questo caso il recesso è «destinato a consentire la reazione di una parte rispetto a
vizi originari del contratto oppure rispetto a fatti sopravvenuti durante l’attuazione del rapporto» (CITARELLA V., Il recesso nella contrattazione preliminare, in Il recesso,
Quaestiones, BONILINI G. (collana diretta da), vol. II, Pisa, 2017, p. 71).
49 Cfr. GABRIELLI G., op. cit., p. 37. 50 Cfr. GABRIELLI G., op. ult. cit., ibidem.
51 Il fatto che concorrano non significa, però, che essi siano cumulabili. Infatti, come
già si faceva notare alcuni anni fa, con riguardo al tema della caparra confirmatoria, «ipotizzare il predetto cumulo finirebbe con lo svuotare di significato la facoltà di scelta posta in favore della parte non inadempiente ed intorno alla quale opera l’intero