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I dipinti della chiesa di San Gregorio Magno. Temi d’arte trevigiana dal Quattrocento al primo Ottocento.

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La chiesa di

San Gregorio Magno

a Trevi so

La chiesa di

San Gregorio Magno

a Trevi so

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­Giorgio­Fossaluzza

I dipinti della chiesa di San Gregorio

Magno. Temi d’arte trevigiana dal

Quattrocento al primo Ottocento

Il vademecum nella visita odierna alla chiesa di San Gregorio Magno che si riprometta di conoscerne gli antichi dipinti non può che essere ancora il Catalogo relativo a Treviso edito da Luigi Coletti nel 1935.1Tale ricognizione sistematica del patrimonio artistico della città e

su-burbio, redatto dal maggiore storico dell’arte del Novecento che Treviso possa vantare, si in-serisce nel Catalogo delle cose d’arte e di antichità d’Italia del Ministero della Educazione Nazionale e della sua Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti. Doveva far seguito il ca-talogo della Provincia di Treviso, al quale Coletti attese, senza poterlo portare a compimento, conservandosi solo in parte tuttora dattiloscritto.2

Allo stato di fatto del 1935, anche le maggiori opere d’arte presenti in San Gregorio Magno ri-cevono dunque una verifica inventariale e, soprattutto, un vaglio critico moderno e autorevole, proposto alla luce di un’opportunità comparativa unica che deriva dal confronto con l’intero patrimonio artistico cittadino riconsiderato nell’occasione dallo studioso.

Pertanto, questo contributo di Coletti è punto cardine per la conoscenza dell’arte di Treviso e altresì uno spartiacque. Nel guardare a monte, esso si pone come verifica dell’esistente dopo lo sconvolgimento del deposito artistico secolare dovuto, dapprima, alle soppressioni dello Stato Veneto a fine Settecento e, a pochi decenni di distanza, a quelle napoleoniche.3In seguito,

esso fu determinato dalle fisiologiche trasformazioni e ammodernamenti liturgici e di gusto dei luoghi di culto che subentrarono soprattutto fra Otto e Novecento.

Nel guardare ancora all’indietro, il contributo di Coletti procede per ogni singola opera alla re-visione delle testimonianze storiografiche più antiche che vengono tutte raccolte e soppesate quale fondamento per una seria storia dell’arte trevigiana.4

In definitiva, per tutti questi aspetti, quello di Coletti si ha ragione di ritenere il catalogo criti-camente fondamentale anche per quanto sta a valle del 1935. Lo è, ad esempio, in ragione degli eventi che Treviso e le sue opere d’arte ebbero a subire dopo tale data: per tutti si rammenti il fatidico bombardamento subìto il 7 aprile 1944.5Anche nella fortunata eventualità che un

mo-numento cittadino si fosse salvato fra tanta distruzione, come avvenne della chiesa di San Gre-gorio Magno, il contenuto difficilmente poté conservarsi integro rispetto a prima, e proprio fra lodevoli iniziative di messa in sicurezza e riordino degli anni successivi, per la gran parte dettate dal positivo spirito di rinascita civile e culturale del Dopoguerra. Le testimonianze di Coletti del 1935, in tutti i casi, non perdono valore e utilità. Mantengono, anzi, la loro piena e rassicu-rante autorevolezza per un confronto talora anche critico, pur dopo il processo positivo del-l’immane recupero e restauro del patrimonio artistico trevigiano, attuatosi da allora fino ai nostri giorni, con molti attori, quali la comunità ecclesiale proprietaria, il Pubblico con i suoi uffici preposti, le iniziative di organismi e associazioni private, gli anonimi e illuminati

offe-75 Jacopo Palma il Giovane, San Gregorio Magno papa, particolare. Treviso, chiesa di San Gregorio Magno, pala dell’altare maggiore.

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76 Soffitto della navata della chiesa di San Gregorio Magno in Treviso, 1950. Foto Fini. Treviso, archivio di Natalina Botter.

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renti. In definitiva, fa capo in buona misura a Coletti il formarsi di una nuova e anche metodo-logicamente diversa percezione e conoscenza scientifica di tale patrimonio artistico trevigiano per merito delle successive generazioni di storici dell’arte, i quali hanno “interagito” con tutte le sue trasformazioni.

Su questa linea si ritiene opportuno proporre la rivisitazione e - qualora possibile - un aggior-namento attributivo al riguardo dei dipinti di San Gregorio Magno (o da qui provenienti), ora tutti restaurati e presentati in un ambiente recuperato nella sua integralità e nei suoi valori fi-lologicamente accertati, grazie alla coraggiosa iniziativa del Comitato per la chiesa di San Gre-gorio presieduto da Renzo Secco, costituitosi in seno alla Delegazione F.A.I. di Treviso. Del resto, dopo il 1935 il patrimonio artistico cittadino non ha più avuto l’opportunità di essere rappresentato in un catalogo sistematico come quello di Coletti, che fosse aggiornato alle nuove metodologie e conoscenze storico-artistiche, nonostante si contino numerose e siano talvolta importanti le acquisizioni e le pubblicazioni su singoli monumenti di Treviso e sulle loro opere, alle quali ora si aggiunge felicemente questa monografica su San Gregorio Magno.

Tra i cenni sporadici a particolari problemi che interessano questa chiesa urbana e le sue pitture pare opportuno dare risalto, innanzitutto, a due contributi apparentemente occasionali – più per la sede che per il contenuto – di Mario Botter del 1950 e 1954 (Appendice I e II).6Si tratta di

articoli apparsi ne «Il Gazzettino» con i quali il vero protagonista riconosciuto della salvezza di Treviso – così che dopo il 1944 possa fregiarsi del titolo di “città d’arte”– ci assicura di come fosse «tornata all’antica bellezza la vetusta chiesa di San Gregorio». Un giudizio negativo e senza appello -– ora metodologicamente forse non più ammissibile – è pronunciato “dal folle di Dio”, secondo la definizione di Comisso, nei confronti dell’assetto decorativo della chiesa nell’Ottocento.7Inoltre, l’autore prende atto, soprattutto, della necessità d’intervenire alle

ri-parazioni dopo le incursioni belliche che avevano danneggiato parte della copertura e del sof-fitto della chiesa. Un’occasione questa per «constatare l’esistenza della decorazione del tetto, che originariamente aveva le capriate a vista. Testimonianza cospicua di nobiltà della chiesetta e salvatasi, soltanto perché nascosta, dalle fortunose vicende subite dalle altre opere d’arte».

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Con tali premesse di un’intelligente osservazione, una volta superata l’emergenza post-bellica, si avverò la fortunata occasione perché tale scoperta facilitasse le condizioni per riaccendere, sia pur discutibilmente, le luci in San Gregorio che si percepiva tanto oscurata nell’Ottocento per cui, fortunatamente solo le voci - non si sa di chi ma non vi è ragione di dubitare - ne pro-nosticavano la cessione a un istituto bancario e, addirittura, la demolizione.8Nel novembre

1949 il Genio Civile avvia l’opera di restauro dell’edificio. Il tetto risulta pericolante tanto da doversi sostituire le capriate: ecco «l’occasione per abbattere il soffitto ottocentesco, che na-scondeva quello originale» nella sua forma cinquecentesca. Si provvide all’asportazione delle tavelle dopo averle numerate per consentire la corretta ricollocazione a formare, come ancor oggi si osserva, «il disegno di classico gusto (che) è formato da gruppi di quattro file di punte di diamante alternati a una fila con fascia a cane corrente, che si ripetono quattro volte per falda. I colori adoperati sono il bianco e il nero (ma anche la terretta giallo-ocra) come nella distrutta chiesa del Gesù ma la disposizione è originalissima. Le incavallature si adagiano su modiglioni di pietra d’Istria, a loro volta nascenti da un peduccio di terra cotta dipinta. Una fa-scia a girali, con motivo centrale, raffigurante una alata sfinge, corre sulla linea delle capriate risaltando da uno sfondo cobaltino, e tiene sottoposto un largo finto architrave. Sopra l’arco trionfale è dipinta a grandi lettere la seguente scritta: «DEO OPTIMO MAXIMO ET BEATO GRE-GORIO» e fra due ramoscelli di quercia il monogramma di Cristo. La grande targa è contornata da poderosa decorazione simile ma precedente, a quella della retrofacciata di Santa Caterina in Treviso, recante la data MDLXXXX. Anche qui come nel tempio servitano, le finte cornici sono in grigio-azzurro, imitanti cioè la pietra serena così largamente impiegata in Toscana».9

Dal punto di vista stilistico Mario Botter, protagonista assoluto anche del recupero dell’orna-mentazione ad affresco di chiese e case trevigiane e, quindi, possessore del bagaglio di confronti più cospicuo, risolve en passant la datazione del fregio rinvenuto in San Gregorio, forse troppo tardo per i suoi veri interessi che si appuntano dal Romanico al primo Rinascimento.10

Sempli-cemente viene anticipata rispetto al 1590, data che reca il fregio della retro-facciata della chiesa di Santa Caterina, nel quale si colgono alcune analogie tipologiche.11

Un’unica chiosa si vuole apporre al contributo di Botter e riguarda proprio la precisazione cro-nologica, che può ora basarsi sul lavoro di censimento delle decorazioni a fresco conservatesi sulle facciate affrescate di case trevigiane e sull’accertamento della dinamica di persistenze ed evoluzioni di tipologie e stili anche per il Cinquecento, prima che esse passassero di moda

pro-78, 79 Pittore veneto quinto-sesto decennio secolo XVI, mascheroni. Treviso, chiesa di San Gregorio Magno, arco trionfale.

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prio nel corso di tale secolo.

Fregi correnti in grigio (o bianco) su fondo azzurro, imitanti la pietra serena secondo Botter, ma più probabilmente la pietra d’Istria, fanno parte del patrimonio più rilevante e innovativo della decorazione di gusto antiquario a Treviso tra Quattro e Cinquecento secondo uno stile “lombardesco”, altrimenti definito “bramantesco” specie per il carattere di sperimentalismo prospettico che esse talvolta assumono in questa precisa fase. In San Gregorio si osserva una traduzione che attesta la fortuna derivativa del genere avvenuta in anni ben avanzati, fra quarto e quinto decennio del Cinquecento o poco oltre, si potrebbe anche dire estrema, se non epigo-nica. Infatti, il ritmo compositivo dei girali è a più largo passo rispetto ai prototipi, il finto in-taglio non è minuto e tagliente, bensì più carnoso e arrotondato, ovvero sommario. La stesura cromatica avviene a larghe pennellate e conservando le trasparenze, cioè per velature, pertanto il disegno si perde e non solo perché si tiene conto della visione a notevole distanza. Vi è meno insistenza nell’incidenza della luce sull’intaglio. Con tali caratteristiche si percepisce nel suo assieme il fregio in San Gregorio entro la generosa ricostruzione “ad imitazione” operata da Botter, in base alla metodologia di restauro allora invalsa, tanto più giustificata forse trattandosi di un apparato decorativo al quale si voleva riconoscere la sua primaria funzione di legame dell’intero spazio architettonico, riconquistato di certo con entusiasmo. Sulla stessa linea di gusto del fregio di San Gregorio, e a supporto della datazione proposta, si individuano a Treviso alcuni superstiti fregi a monocromo che compaiono nei palazzi in cui vi è anche un’eminente presenza figurativa di carattere già manieristico e che sono riferibili variamente a Ludovico Fiumicelli e a Francesco Beccaruzzi.12Per il primo si considerino anche i fregi del sottarco

dell’Annunciazione o alla base della Resurrezione di Cristo eseguiti con Gian Pietro Meloni nella cappella del Battistero di Santa Maria Maggiore in Treviso fra 1539 e ’40; stesso gusto presentano i girali policromi delle vele.13Per Beccaruzzi si ponga a confronto il fregio superstite

sulla facciata di palazzo Bettignoli, poi Filodrammatici (Rivale Filodrammatici, 7-8) e quello associabile preferibilmente ai suoi modi di palazzo Onigo-Avogaro (Rivale Castelvecchio, 5) sempre a Treviso.14

Il più antico capitolo pittorico-decorativo che sopravvive della chiesa di San Gregorio Magno determina, quindi, anche il primo capitolo della sua rinascita postbellica.

Il problema delle origini della chiesa, non è di natura figurativa: riguarda bensì le testimonianze documentarie connesse all’eminente dedicazione e la valutazione dell’assetto architettonico

80 Pittore veneto quinto-sesto decennio secolo XVI, mascheroni. Treviso, chiesa di San Gregorio Magno, arco trionfale.

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nelle sue trasformazioni.15In propo sito, unico documento figurativo antico riguarda il

rinveni-mento della figura lacunosa su fondo verde dell’Arcangelo Gabriele sulla parete sinistra del presbiterio a tanta altezza e in prossimità della parete di fondo. L’identificazione avviene perché il Messaggero che annuncia a Zaccaria la nascita del Battista, a Gioacchino ed Anna quella di Maria e a quest’ultima la nascita di Gesù, reca il serto di giglio, simbolo di purezza che è di pertinenza anche della stessa Vergine Maria. Nonostante questo, manca l’assoluta certezza che l’Araldo delle nascite, presente anche presso il sepolcro vuoto la mattina di Pasqua per testi-moniare la Risurrezione, sia rappresentato nell’atto di annunciare a Maria l’incarnazione del Figlio. Egli è colto a figura intera, nella sua veste candida cinta ai fianchi, con il capo ornato da diadema a terminazione triangolare anteriore; tuttavia l’orientamento è pressoché frontale e non dinamico, come ci si aspetta per chi irrompe nella stanza di Maria leggente in orazione o impegnata nel lavoro domestico conforme alla rappresentazione invalsa più tardi. Con la si-nistra sembra tendere una cortina. Lo stato frammentario e la collocazione stessa non

consen-81 Pittore veneto quarto decennio secolo XV, Arcangelo Gabriele. Treviso, chiesa di San Gregorio Magno, parete sinistra del presbiterio.

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tono quindi di congetturare il contesto e la scena e tantomeno di avanzare alternative sull’evento rappresentato. I danni che riguardano il volto, in particolare, quasi ci privano delle indicazioni tipologiche indispensabili per poter precisare, non certo la paternità, quanto solo i confronti opportuni per meglio fissarne la cronologia. Tuttavia, si propone una collocazione negli anni trenta del Quattrocento o poco dopo. Datazione questa che si evince dalla relativa solidità di struttura plastica, dal valore poco costruttivo del segno portante che contorna il volto, nonché dalla cromia trasparente e lucida in piena luminosità che, in altri punti, definisce da sola la forma, come si nota nella resa delle pieghe della veste. Questa duplice modalità consente altresì la descrizione efficace del piumaggio delle ali che avviene per tratti disinvolti di rosso entro una stesura a velature la quale prevale, raddensandosi laddove si vuole ottenere l’effetto chia-roscurale, fino ad assorbire la nettezza del segno. Altrettanto può dirsi per la resa compendiaria del colletto ornato di perline da apparire arcaizzante. L’anonimo frescante, a titolo d’esempio, nel brano d’affresco raffigurante la Crocifissione che si conserva nella sacrestia della chiesa di San Gottardo ad Asolo o nel riquadro devozionale con San Nicolò in cattedra della chiesa di San Nicolò a Treviso.16 Non si avverte nel brano superstite di San Gregorio la stessa sagomatura

lineare di tali figure, o il loro disegno ritmico e teso, bensì una comunanza nelle gamme cro-matiche e nella loro morbida stesura. Sotto questo aspetto si osservino le assonanze nella resa delle ali dell’angelo che nell’affresco asolano si libra per raccogliere in due calici il Sangue Prezioso. Analogie si avvertono, non senza difficoltà visto lo stato di conservazione, con il taglio degli occhi dalle palpebre ben disegnate e con la pupilla appuntita in una fissità di sguardo

82 Pittore veneto 1430 circa, Crocifissione, particolare. Asolo, chiesa di San Gottardo, sacrestia.

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come magnetizzato. Si può azzardare che questi dettagli espressivi attestino l’osservazione degli affreschi pisanelliani in Santa Caterina a Treviso e la capacità di tradurne in modo affatto corsivo una peculiarità inconfondibile di quei personaggi. Non si tratta di lavori di uno stesso frescante, ma più probabilmente di diversi piccoli maestri che non consentono di tratteggiare un vero profilo individuale vista l’esiguità e difformità di modi degli esempi superstiti. In ogni caso questi contribuiscono a delineare, ad un livello certo più corrivo, la congiuntura pittorica trevigiana degli anni venti e trenta del Quattrocento e far percepire la varietà degli interpreti presenti. L’affresco lacunoso dell’Arcangelo Gabriele è, soprattutto, testimonianza preziosa almeno per attestare e richiamarci al fatto che il vetusto edificio di San Gregorio Magno, come oggi lo vediamo, è frutto di trasformazioni secolari e queste dovevano riguardare, con tutta probabilità, anche l’aspetto decorativo con il ricorso alla più invalsa pittura murale.

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84 Scultore veneto inizio secolo XV, Angelo. Treviso, ex casa canonica della chiesa di San Gregorio Magno, facciata.

83 Scultore veneto secolo XVIII, San Giovanni Nepomuceno. Treviso, chiesa di San Gregorio Magno, parete meridionale.

85 Scultore veneto ultimo quarto secolo XVI, Cristo in agonia nell’orto di

Ge-thsemani. Treviso, edificio adiacente la

chiesa di San Gregorio Magno, facciata.

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86 Giuseppe Borsato, decorazione ad affresco sul soffitto della navata della chiesa di San Gregorio Magno in Tre-viso prima dell’intervento di restauro di Mario Botter del 1949. Foto Fini. TreTre-viso, archivio di Natalina Botter.

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Non mancano casi di migrazione delle opere. Ciò riguarda il rilievo in pietra d’Istria databile all’avanzato Cinquecento raffigurante Cristo in agonia nell’orto di Gethsemani murato sulla facciata dell’edificio adiacente la chiesa, sul lato destro. È identificabile in quello che Coletti segnalò in altra ubicazione sempre in questa via (numero civico 42) e che si trovava in origine in via Santa Margherita.17L’accertamento dello stemma (scudo ovale bandato di otto pezzi)

come quello della famiglia trevigiana dei Minotti, proposto da Chiara Torresan, fa ipotizzare che provenga da una residenza cittadina di tali committenti originari di Moriago.18Lo

ritro-viamo nell’attuale ubicazione in seguito alle distruzioni del 1944 che interessarono l’abitazione dove lo vide Coletti e, se non la chiesa di San Gregorio che fu solo danneggiata, riguardarono di certo la casa canonica la cui ricostruzione avvenne a partire dal 1949.19

Sulla facciata della casa canonica non si trova di certo nella sua ubicazione originaria neppure la scultura di un Angelo assai danneggiato anche per l’azione degli agenti atmosferici.20Per

quanto si può percepire nell’attuale stato di conservazione, l’orientamento verso sinistra e il gesto lasciano congetturare trattarsi di un angelo reggicortina, come a titolo d’esempio quelli che si trovano ai lati di un sarcofago a parete, o nell’incorniciatura di un’epigrafe. Neppure di questo rilievo dai caratteri tardogotici, per il quale orientativamente può convenire una datazione al primo Quattrocento, sappiamo l’originaria provenienza. Se vale l’ipotesi che facesse parte di una tomba non è da escludere che costituisca una rara testimonianza superstite dei molti sepolcri ospitati in San Gregorio fino agli inizi dell’Ottocento. Per la verità, analoghe osservazioni si trovano già in Botter (1950) il quale, al proposito, parrebbe più esplicito poiché, dopo aver giu-dicata questa scultura gotica, almeno per età egli sembra metterla implicitamente in relazione con la lapide, per l’appunto in caratteri gotici, che si conservava in chiesa e di cui Cima riporta

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87, 88 Domenico Fossati, Simbolo della Santissima Trinità e angeli. Treviso, chiesa di San Gregorio Magno, soffitto del presbiterio.

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il contenuto: riferirsi cioè a Marcantonio Barbaro ed eredi.21

All’interno della chiesa di San Gregorio Magno non si trova di certo nella sua ubicazione ori-ginaria la statua in pietra d’Istria, all’apparenza settecentesca, collocata entro nicchia ricavata a tanta altezza sulla parete meridionale in corrispondenza della cantoria. Il santo vescovo, che in-dossa il rocchetto e la mozzetta e sembra reggere la palma, si identifica con San Giovanni

Nepo-muceno. Pertanto, se ciò è corretto, si può ipotizzare la sua destinazione non solo all’esterno,

come lascia supporre la forte corrosione della pietra, ma presso un ponte. Il santo boemo vissuto nel XIV secolo, non solo è patrono dei confessori e protettore della buona fama, ma è anche in-vocato per la protezione dalle inondazioni e in occasione della sua festa (16 maggio) una pro-cessione eucaristica aveva come tappa le sue tante immagini poste sui ponti.

Un caso affatto singolare dal punto di vista valutativo riguarda la decorazione ad affresco della volta del presbiterio, che oggi osserviamo in uno stato di consunzione al quale ha potuto porre rimedio il restauro recente, con una paziente opera di “ricucitura” del tessuto pittorico per dare unità alla forma dell’apparato ornamentale e alle figure che vi sono campite. Coletti non ne fa menzione ed è ovvio per il fatto che all’epoca l’attuale decorazione era ricoperta da quella ot-tocentesca, in coerenza con tutta la navata, in quell’assetto di gusto che sappiamo vituperato da Botter. Quest’ultimo la menziona nel 1950 con la paternità derivante dalla testimonianza di Nicolò Cima risalente al 1699 che senza altre specificazioni mette solo nell’elenco delle pitture «Il soffitto Architettura nobile a pennello di Pietro Antonio Cervia Bolognese».22Tuttavia

l’ac-certamento di paternità riserva ben altra complicazione se nella successiva testimonianza, quella dell’abate Lorenzo Crico del 1829, si legge: «La cappella del santissimo sacramento è dipinta

89 Giovanni Battista Canal e Domenico Fossati, Martirio di santo Stefano e qua-drature, 1778-1780. Martellago, chiesa arcipretale di Santo Stefano protomartire.

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con ornati a fresco del Fossati e del Borsato pittori veneti quest’ultimo vivente».23

Il vaglio di tali indicazioni attributive non può tener conto solo della situazione attuale, ma deve basarsi su un documento che diviene importante e unico, purtroppo, per cercare di dirimere la questione delle paternità indicate in sede storiografica. Si tratta di una fotografia d’archivio dell’interno della chiesa, conservata proprio da Botter e messa cortesemente a disposizione per questa occasione dagli eredi, la quale presenta tale decorazione ancora nel suo assetto proto-ottocentesco. Il soffitto piano della navata è incorniciato da una fascia perimetrale a finti cas-settoni con rosetta che si intuisce in monocromo; il raccordo curvilineo con le pareti presenta il motivo corrente a ghirlanda, ciascuna sovrastata in alternanza da teste di cherubini e patere tra girali; le pareti presentano un apparato di finte tarsie marmoree venate (forse al modo del marmo di Carrara) inquadrate da finte lesene, impostato su due ordini. Al centro del soffitto era incorniciato l’ovale con l’Assunzione della Vergine, tuttora conservato e qui di seguito di-scusso. La luce che investe abbacinante la volta del presbiterio lascia percepire, comunque, che questa fu decorata in coerenza con tutta la navata. In tale assetto dovette vedere la chiesa Crico quando registrò i nomi di Fossati e Borsato (“vivente”) come artefici di tale decorazione, senza migliore distinzione delle loro competenze e di cronologia. Il carattere neoclassico del-l’ornamentazione conviene, in effetti, allo stile di quest’ultimo come vediamo, ad esempio, nei primi anni dell’Ottocento in alcuni interventi in residenze nobiliari trevigiane, dove egli opera accanto a Giambattista Canal, come pure in villa Spilimbergo a Domanins del 1804, dove è da osservare in particolare il soffitto del salotto “delle Muse”.24Per Giuseppe Borsato (Venezia

1771 - 1849) ornatista neoclassico a Treviso si deve fare riferimento, innanzi tutto, agli affreschi del salone al piano nobile di palazzo Avogadro (Piazza Sant’Andrea, 5-6; ora sede del Credito Italiano), realizzati nel 1802 su commissione del cavalier Marcantonio Avogadro con l’intento di magnificare il proprio casato e quello della moglie della schiatta dei Kevenhüller.25Nel 1804

Borsato e Canal intervengono in palazzo Filodrammatici (Piazza Filodrammatici, 4) nel salone centrale con una decorazione che allestisce una grandiosa finta architettura con logge aperte su vedute urbane e popolate da personaggi in vesti contemporanee; si trovano inoltre sopraporta con soggetti mitologici e lunette a monocromo con strumenti musicali. Il soffitto con Apollo

sul carro circondato dalle Ore menzionato da Coletti, che lo giudica di “gusto nettamente

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90, 91 Domenico Fossati, Coppie di putti su nubi. Venezia, palazzo Gidoni, portale del “pòrtego” al piano nobile.

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92, 93 Domenico Fossati, decorazione del soffitto della sala d’angolo al piano nobile di palazzo Gidoni a Venezia, particolari.

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noviano”, fu distrutto nel 1944.26Stessa sorte è toccata alla decorazione di una sala con le Al

-legorie dei quattro elementi.27L’invenzione quadraturistica del salone è giudicata positivamente

da Pallucchini proprio per il “rapporto dialettico tra ideologia neoclassica e realtà quotidiana”.28

In palazzo Bomben (via Cornarotta,7), in contemporanea, Borsato e Canal decorano due sale al piano nobile entro incorniciature a stucco. Anche in questo caso non mancano riscontri per quel che più ci interessa, ovvero nel repertorio decorativo neoclassico a monocromo, seppure tra altre tipologie quali le grottesche ercolanensi, e in un contesto dove Canal si impegna mag-giormente in scene mitologiche e paesaggi.29Seguono nel 1806 gli interventi di Borsato e Canal

in palazzo Moretti, ancora visibili; in palazzo Pola, distrutti; infine quelli inediti in palazzo Caotorta (via Cornarotta).30

Il confronto fra la decorazione di San Gregorio Magno documentata dalla foto d’archivio di provenienza Botter e alcune soluzioni ornamentali riscontrabili nei tre palazzi trevigiani e in quello friulano dei Spilimbergo, ora succintamente menzionate, consente di confermare la no-tizia di Crico di pochi decenni successiva al riguardo della paternità di Borsato. Tale accerta-mento lascia tuttavia anche il rimpianto della distruzione di tale opera decorativa, che sembra non trovare motivo sufficiente nello stato in cui essa dovette pervenire dopo il 1944, bensì in motivi di gusto o nel desiderio di mettere in evidenza le fasi più antiche su supposte scale di valori, quelle che potevano giustificare diffusamente, fino a non molti decenni fa, interventi “archeologici” e “puristi”, alla ricerca di origini medioevali, agognate più ancora di quelle ri-nascimentali.

Volgendo lo sguardo a quanto si osserva oggi sulla volta superstite del presbiterio di San Gre-gorio, constatiamo come la decorazione di primo Ottocento che si intravede nella fotografia d’archivio sia stata rimossa con eccezione del sottarco presbiterale, in cui i finti cassettoni

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94 Domenico Fossati, Veduta di foro romano di fantasia e Mercurio e Giove rappresentati nell’incorniciatura, 1773. Collezione privata.

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tenutisi offrono la testimonianza della raffinatezza ideativa ed esecutiva del rimanente perduto e ne lasciano immaginare la tessitura cromatica. È quanto ci documenta Botter (1954), da parte sua certo senza entusiasmi di sorta, allorché riferisce sui lavori promossi dal parroco don Carlo Nardari (Appendice II).31Per quanto ora è in vista sulla volta del presbiterio, si deve vagliare

la congruenza della paternità di Cerva e Fossati, come detto, la prima attestata da Cima nel 1699, l’altra da Crico nel 1829, e riportata con ogni probabilità da quest’ultimo attingendo a fonti, poiché alla data in cui scrive egli doveva vedere anche questa parte della chiesa decorata da Borsato, come lo erano il soffitto e le pareti della navata. Si aggiungono anche alla decora-zione del presbiterio, dovuta al Borsato, i brani superstiti delle pareti decorati con finti stucchi che riquadrano il consueto repertorio neoclassico di ghirlande, motivi fitomorfi speculari de-sinenti in rosette e tabelle, ed elementi che includono iscrizioni in capitale (ad esempio: INI-TIUM SANCTI EVANGELII; VENITE).

Il confronto con le opere di ambito trevigiano ancora superstiti di Cerva, quali la decorazione d ell’arcone soprastante la cappella della Madonna Grande in Santa Maria Maggiore e quelle di più sale di villa Tiepolo-Passi a Carbonera, fanno escludere tale paternità.32Difatti, dal punto

di vista tipologico e stilistico la decorazione rinvenuta in San Gregorio Magno non conviene alle date accertate per la presenza a Treviso dell’artista bolognese, il quale nel 1683 esegue gli affreschi perduti della cappella della Madonna della cintura in Santa Margherita e quelli del soffitto di San Teonisto pure distrutti.33Anziché una decorazione esuberante di peso tardo

ba-rocco, in San Gregorio Magno si ha di fronte un’attestazione di linguaggio di leggerezza filante pienamente rococò che si esprime nelle rosate riquadrature a cartouche in cui si intrecciano serti di palma in giallo ocra e verde popolate da angeli che si librano su fondo di cielo mentre recano i simboli eucaristici quali i grappoli d’uva. Entra, quindi, in causa il nome di Domenico

95, 96 Domenico Fossati, Mercurio e Giove, particolari da Veduta di foro romano di fantasia, 1773. Collezione privata.

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Fossati (Venezia 1743-1785) della dinastia di artisti ticinesi originari di Morcote, attivi per de-cenni nella capitale lagunare, e a rigore quello di Davide Antonio Fossati (1708-1791), in quanto attivo a Venezia sia fra il 1730 e il 1732, dopo l’alunnato presso Daniele Gran ed esperienze centroeuropee, sia successivamente: dal 1743 al rientro dal Ticino per dedicarsi soprattutto al-l’incisione.34In particolare Domenico, allievo del padre Giorgio Domenico ed esordiente quale

suo collaboratore già nel 1762 in Santa Maria del Sasso a Morcote, figura nel 1764 tra i membri dell’Accademia fondata da Almorò Pisani di cui Pietro Longhi assumeva la direzione. È a lui riconosciuta, poi, una vasta attività di scenografo, quadraturista e decoratore che dovette por-tarlo anche a Treviso; una presenza che si aggiunge all’itinerario ricostruito con scrupolo da Cicogna che si avvale delle notizie fornitegli dal nipote dell’artista, Pierangelo Fossati di Giu-seppe.35Che la decorazione di San Gregorio Magno possa effettivamente spettare a lui può

es-sere confermato al confronto più agevole con la quadratura del soffitto della navata centrale dell’arcipretale di Martellago, al cui centro Giovan Battista Canal raffigura il Martirio di santo

Stefano.36Siamo verso il 1780, e in tale decorazione Fossati manifesta una maggiore concisione

nel disegno e nitidezza nel risalto plastico; la decorazione appare meglio evidenziata in uno spazio scandito con più ariosità dal telaio architettonico dipinto. Si deve poi tener conto che, dopo tale data, non si dispone di altri lavori accertati, essendo perdute le quadrature di palazzo Contarini dal Zaffo alla Misercordia in cui egli interviene con Jacopo Guarana, nella fase in cui vi lavorano anche Giandomenico Tiepolo e Costantino Cedini, circostanza nella quale, nel-l’anno 1784, cadde da un’impalcatura per morire poco dopo.37Nel risalire all’indietro alla

ri-cerca di confronti utili, si deve tener conto dell’attribuzione a Domenico circa il 1775 della quadratura degli affreschi di Jacopo Guarana di palazzo Pisani a Santo Stefano a Venezia, nel portego al primo piano nobile che va dal campo al Rio del Santissimo e in una stanza attigua con il soffitto della Concordia maritale.38Gli vengono riferiti in contemporanea ornati in

pa-lazzo Barbarigo-Minotto a Santa Maria del Giglio (1775) e le finte architetture a tempera del soffitto di pala zzo Gidoni al Ponte Bembo a San Zan Degolà (1776).Si ha la fortuna, in questa

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occasione, di pubblicare per la prima volta quanto, sulla scorta di Cicogna, si riconosce indub-biamente a Domenico Fossati in quest’ultimo palazzo. Si tratta delle coppie di Putti su nubi in monocromo, affrescati entro le riquadrature dell’elegante portale marmoreo in broccatello di Verona che da accesso al “pòrtego” al piano nobile. Si riconosce a Fossati, in particolare, la decorazione ben conservata della sala d’angolo che prospetta sul ponte Bembo, di notevole li-vello qualitativo. Il maestro ticinese dà prova di attuare le più moderne arditezze nelle efficaci soluzioni quadraturistiche e nello sfondato illusionistico che consente una messinscena di alta luminosità. Grande capacità e scioltezza di tocco si ravvisa quando popola le architetture di vi-vaci putti che reggono festoni e ghirlande, di busti e vasi. Tali ricercati elementi si stagliano ta-lora sullo sfondo di finti stucchi abbacinanti, in cui si dà prova di una trattazione pittorica compendiaria in cui si trovano spunti di fantasia. È da ritenersi utile, inoltre, la riconsiderazione della paternità di Domenico Fossati per la decorazione della sala terrena a ovest di villa Pesaro a Este, ora Collegio Manfredini. Ricordata come opera di Davide Antonio Fossati, da collocare nell’intermezzo veneziano dei primi anni trenta, è stata opportunamente posticipata per ragioni stilistiche agli anni 1760-1770 da Giuseppe Pavanello che propone l’attribuzione a Giovanni Scajaro.40

La fisionomia stilistica di Domenico Fossati emerge con certezza, a monte, nella vasta impresa decorativa del salone di palazzo Linussio a Tolmezzo, da lui firmata e risalente ai primi anni settanta: opera superstite di particolar importanza entro la fase friulana del ticinese che ha come riferimento il 1768 quando riceve l’incarico della decorazione del nuovo Teatro Sociale di Udine per la quale è compensato fino al 1771.41Con riferimento agli affreschi di Tolmezzo,

anche per quanto riguarda l’orientamento cronologico, vi è materia abbondante per confermare

97 Scultore veneto, Fede, 1754 circa. Treviso, chiesa di San Gregorio Magno, dossale dell’altare maggiore. 98 Scultore veneto, Speranza, 1754 circa. Treviso, chiesa di San Gregorio Magno, dossale dell’altare maggiore.

99 Scultore veneto, Carità, 1754 circa. Treviso, chiesa di San Gregorio Magno, dossale dell’altare maggiore.

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a Domenico Fossati e bottega gli affreschi del presbiterio di San Gregorio Magno. Un’ulteriore possibilità di conferma deriva da un’opera meno nota perché di recente acquisizione agli studi, qual è la vasta tempera su tela (cm 223,5 x 322,5), un fondale scenografico, con Veduta di foro

romano di fantasia e Mercurio e Giove rappresentati nell’incorniciatura proveniente dalla

col-lezione conte di Pace di Udine dove si trovava ancora nel 1906.42Si tratta di un esempio quanto

mai importante anche perché firmato e datato 1773. Non solo si ritrova il disegno più alleggerito degli affreschi trevigiani e le gamme tipiche come quelle del rosa carico, ma anche una parti-colare soluzione tipologica per i due personaggi mitologici (Mercurio in partiparti-colare), dagli in-carnati accesi, di una particolare gamma di arancione come un poco fuori fuoco, che trova riscontro nelle figure della decorazione trevigiana, della quale si tiene conto, in proposito, dello stato di conservazione in cui si giudica.

Con l’intervento di Domenico Fossati quale ornatista e figurista, più probabilmente nella se-conda metà degli anni settanta, la decorazione della cappella maggiore di San Gregorio Magno si pone, dunque, sulla linea della migliore attestazione di linguaggio rococò in ambito sacro a Treviso rappresentata dal caso di San Teonisto dove opera Jacopo Guarana, significativamente per sostituire con il suo intervento decorativo quello precedente del Cerva che vi aveva decorato «tutto il soffitto intorno alla cappella maggiore e tutta la parte superiore della chiesa».43La

per-duta decorazione di Guarana, documentata per fortuna da buone fotografie, consiste nella raf-figurazione della Fede sul soffitto del presbiterio risalente al 1758 e seguente anno, insieme ad Andrea Urbani, nel rifacimento della decorazione della navata dopo che era stata ricostruita su disegno di Giordano Riccati.44Da ricordare che anche in tale caso si suscita almeno in alcune

fonti il nome di Fossati come partecipe all’impresa decorativa, nella fattispecie quale quadra-turista; se la notizia ha fondamento, è una data anzitempo per Domenico, allora appena quin-dicenne, ma non lo è per la partecipazione di Davide Antonio, tuttavia improbabile.45

Nessuna conferma si raccoglie al momento sull’effettiva presenza di quest’ultimo o di Dome-nico Fossati che Crico, per primo, non trascura di segnalare a Treviso e non solo a Martellago dov’è accertata.

La rappresentazione sulla volta del presbiterio di San Gregorio, nell’apertura centrale, del Sim-bolo Trinitario (il triangolo raggiato includente l’occhio divino) in una gloria d’angeli, disposti anche nelle quattro aperture mistilinee circostanti dove compaiono i putti alati in monocromo con simboli eucaristici, si può ritenere pertinente all’iconografia dell’altare marmoreo sul cui timpano stanno le statue delle Virtù Teologali, con al centro la Carità, realizzate in concomi-tanza con il dossale a metà Settecento e restaurate a fine secolo a seguito dell’elevazione del dossale motivata dal voler dare risalto alla pala.46Queste ultime concettualmente stabiliscono

una mediazione tra la sfera celeste e colui che tali virtù esercitò eroicamente in vita con l’in-telletto di teologo e la dedizione strenua all’azione pastorale: papa Gregorio I, riconosciuto come Magno fra pochi altri pontefici del Medioevo, la cui effigie cultuale della pala d’altare lo mostra benedicente, ispirato dalla Colomba simbolo dello Spirito Santo che lo sovrasta, anch’essa in una luce soprannaturale. La decorazione ad affresco attualmente visibile completa pertanto con coerenza il rinnovo settecentesco del presbiterio, attuando anche un recupero e valorizzazione della pala cinquecentesca. La costruzione dell’altare maggiore marmoreo a strut-tura architettonica timpanata risulta completata nel 1754, grazie al legato testamentario del par-roco Antonio Francesconi; infatti, in quell’anno lo consacra il vescovo Paolo Francesco Giustiniani.47Nello stesso anno si era anche rifatta la decorazione dei soffitti della navata e

della cappella maggiore, come pare suggerire anche un riferimento documentario della scuola

142 100 Jacopo Palma il Giovane, San Gregorio Magno papa. Treviso, chiesa di San Gregorio Magno, pala dell’altaremaggiore. 94, 95, 96

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del Santissimo Sacramento riguardo la spesa per la «pitura nel sofitto e capella della Chiesa», una semplice imbiancatura in attesa di disporre di mezzi per poter convocare un ornatista come avvenne con Fossati qualche decennio più tardi.48Che i tempi di realizzazione fossero lunghi,

lo si ricava dal fatto che l’elegante ciborio marmoreo, perfettamente adeguato alle norme litur-giche, era già stato realizzato e messo in opera nel 1743, come si deduce dall’iscrizione apposta. Al fine di procedere ora alla ricognizione delle pitture sacre che si conservano in San Gregorio Magno e di quelle per le quali è accertata, o si propone su basi serie una tale provenienza, è opportuno riaprire il catalogo di Coletti del 1935 e rileggere scheda dopo scheda. È importante anche vagliare le menzioni storiografiche antiche come si è premurata di fare con scrupolo e attenzione critica Chiara Torresan, che ha predisposto un’apposita trattazione sulla fortuna cri-tica di ciascun dipinto nel contributo che fa seguito al presente, divenendone punto di partenza e parte integrante. La studiosa attinge per la prima volta anche a inedite fonti documentarie, come gli atti delle visite pastorali.

Si sceglie di affrontare ora la problematica critica di ciascuna opera in una visuale ampia che includa il più possibile i nodi filologici ai quali essa afferisce.

Prima a doversi annoverare nell’itinerario interno alla galleria di dipinti è la pala dell’altare maggiore dedicata al santo Dottore della Chiesa che ne è il titolare. Le fonti sono in tal caso indubitabili nel riconoscere l’opera a Palma il Giovane, al protagonista del rinnovamento della pittura sacra veneziana in fase post-tridentina, capofila delle “sette maniere in certa guisa con-simili” del Tardomanierismo, il quale interpreta con originalità il linguaggio dei grandi maestri del Cinquecento con personale afflato naturalistico e convincimento devoto. Per primo, Carlo Ridolfi nel 1648 include questa pala nello stilare la biografia di Palma, tra quelle degli artisti di Venezia e dello Stato, e in uno scrupoloso e vasto catalogo delle sue opere entro il quale si distingue in più momenti l’intervento a Treviso. Lo possiamo accertare nei primissimi anni del Seicento e a cavallo fra secondo e terzo decennio.49Coletti è lapidario in proposito: «Opera

concordemente e ragionevolmente attribuita al Palma giovine».50Senza entusiasmi di sorta, lo

studioso si direbbe implicitamente interessato a fugare qualsiasi indebito dubbio sulla paternità di Palma il Vecchio che, invece, con tipico equivoco di una storia dell’arte pre-scientifica, si era affacciata da parte di qualche storiografo trevigiano. Una valutazione del dipinto con occhio favorevole si ha con Botter nel 1954 quando annuncia il rinvenimento, a seguito della pulitura, della firma apposta in basso a destra: «IACOBVS PALMA/ F(ECIT)». La conclusione è che si tratti di esito «veramente mirabile», per di più «la sola opera certa di Palma il Giovane esistente attualmente nella nostra città», come il restauratore afferma dopo un sommario catalogo di quelle ricordate dalle fonti, ma risultanti distrutte o disperse.51I pronunciamenti critici seguenti

non sono analitici e la conclusione è che si tratti di un’opera realizzata nell’ultimo decennio d’attività del Palma (preferibilmente circa 1620), proposta affatto plausibile.52Pertanto, è tale

da far ritenere che fosse da pochi anni collocata allorché la vide il vescovo Vincenzo Giustiniani nella sua visita pastorale del 1629 in un contesto liturgico adeguato, come si premura di regi-strare in base alla sua vera preoccupazione: «Vidit Altare maius, habet Altare portatile, habet iconam pictam imaginis Sancti Gregorii Magni P(apae)».53

Anche il dipinto è perfettamente in linea con i contenuti e il linguaggio di cui il vescovo Giu-stiniani è promotore nei suoi sforzi di attuazione delle linee pastorali post-conciliari in diocesi di Treviso.54Prima di formulare un giudizio estetico e qualitativo, si deve sottolineare sotto

quest’ottica post-tridentina come la pala presenti il santo titolare in modo ieratico e, a un tempo, affabile, e vi si comunichi il ruolo del Pontefice in modo chiaro, accostante e convincente. Si

144 101 Jacopo Palma il Giovane, San Gregorio Magno papa, particolare. Treviso, chiesa di San Gregorio Magno,pala dell’altare maggiore. 100, 171

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sublimano, del resto, i dati di cronaca agiografica a cui poteva condurre la necessità di descri-vere un ambiente o la citazione di altre formulazioni iconografiche tradizionali, al fine di ren-dere invece con efficacia l’irrompere del divino entro la dimensione delle fatiche quotidiane: quelle della scrittura a cui attese il santo papa annoverato tra i Dottori della Chiesa, aspetto di una vita straordinariamente intensa per cui lo si vuole soprattutto celebrare. Il papa monaco e Dottore (540 ca.- 604) è colto in solenne atteggiamento benedicente seduto nello studiolo presso lo scrittoio, su cui i libri (altri sono posati anche sui gradini) sono indice di dottrina e hanno accanto il Crocifisso da meditazione. Egli si distingue per le vesti pontificali, il lungo manto papale (simile al piviale) intessuto d’oro sopra il candido rocchetto che ricopre la veste talare. Ha in capo la tiara o triregno come si conviene al momento extraliturgico. È come se egli si di-stogliesse dalla scrittura per rivolgersi benedicente ai destinatari di essa, per esprimere con il gesto il suo ruolo di mediatore, di rappresentante divino e dispensatore di grazie. Lo assiste al posto di un diacono, come più spesso avviene, l’angelo che reca l’insegna della croce a doppia traversa (croce patriarcale o arcivescovile), rivolto con espressione compiaciuta al celebrante o all’osservatore che possa avvicinarsi all’altare. Non vi è dunque rappresentato neppure il dia-cono Pietro che, secondo la tradizione agiografica, osserva di nascosto la Colomba simbolo dello Spirito Santo la quale irraggiando gli suggerisce o lo ispira mentre scrive, talora posando sulla spalla del papa. La rappresentazione è, dunque, indipendente da tutti gli eventi miracolosi della tradizione di cui Gregorio Magno è protagonista e sembra come compendiarli senza espri-merli esplicitamente. L’illuminazione divina avviene qui per l’irrompere della Colomba

nel-102 Ludovico Pozzoserrato, San Silvestro

I papa e i santi Liberale, Benedetto XI papa, Biagio e Girolamo Dottore della Chiesa, 1594-1595. Treviso, Cattedrale di

San Pietro apostolo, cappella del Santis-simo Sacramento, proveniente dalla chiesa di San Gregorio Magno.

103 Ludovico Pozzoserrato, Madonna

con il Bambino in gloria incoronata dagli angeli e i santi Matteo evangelista, Seba-stiano, Nicola da Bari e Rocco. Treviso,

chiesa di San Nicolò.

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l’alto, nella luce soprannaturale, e anche in questo caso si eleva la motivazione della sua pre-senza rispetto alla narrazione di cronaca agiografica. Il diacono segretario è ora un angelo. Le insegne sono esibite (vesti pontificali, triregno e croce), tuttavia la santità di Gregorio è mani-festata per commuovere dal gesto e, soprattutto, dall’espressione di un volto di vecchio segnato dalla pratica dell’ascesi monastica, lo sguardo concentrato per le preoccupazioni pastorali o fisso in alti pensieri di meditazione.

Quest’opera rientra in una sorta di categoria di pala d’altare, nella quale si presenta il santo protagonista quale figura isolata, con soluzione adatta a un’immagine cultuale. Analogamente ciò avviene di sovente anche in dipinti da devozione privata: una situazione in cui si trovano nel catalogo di Palma, ad esempio, il Battista, san Girolamo, santa Maria Maddalena, san Fran-cesco d’Assisi, si direbbero i santi del deserto. Entro l’ambiente del proprio studio, in quanto rapito nella meditazione delle cose celesti o nell’estasi espressa dall’irrompere di messaggeri divini, un parallelo si può istituire anche con la rappresentazione di san Carlo Borromeo, ca-nonizzato nel 1610.55

Altre pale d’altare un tempo conservate in San Gregorio Magno, pur con palesi differenziazioni di linguaggio fra loro, rientrano per stile nella categoria della pittura del Tardomanierismo che, in ambito veneto, riguarda un ampio raggio temporale tra Cinque e Seicento.

Dobbiamo aprire il Catalogo di Coletti in altro punto, e non nel capitolo su San Gregorio Magno, per avvalerci del suo parere a proposito della pala posta sull’altare della scuola dei Marzeri dedicato a san Silvestro I papa.56Si tratta di quella raffigurante San Silvestro I papa e

i santi Liberale, Benedetto XI papa, Biagio e Girolamo Dottore della Chiesa ora sulla parete

destra della cappella del Santissimo Sacramento nel Duomo di Treviso.57Coletti, che si dimostra

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104 Bartolomeo Orioli, Assunzione della Beata Vergine

e santi, 1602. Noale, chiesa di Santa Maria Assunta.

105 Bartolomeo Orioli, Sant’Elena tra le sante

Agata e Apollonia, 1603. Monigo (Treviso),

chiesa parrocchiale di Sant’Elena Imperatrice.

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all’oscuro dell’originaria provenienza del dipinto dei due papi e del patrono di Treviso, lo po-teva esaminare nella chiesa di San Giovanni del Battistero dove giunse, con ogni probabilità, a seguito delle soppressioni napoleoniche. Il Battistero era divenuto una sorta di depositorio di opere ormai “disadattate” o addirittura prive della loro sede nelle chiese cittadine per le quali erano state realizzate. Il “gruppo di santi”, secondo la definizione dello studioso che ebbe dif-ficoltà a identificarli proprio perché all’oscuro della destinazione, spettava a suo giudizio «pro-babilmente a Bartolomeo Orioli». Costui è il più prolifico protagonista trevigiano del rinnovamento delle pale d’altare dei luoghi di culto di Treviso e del suo territorio nel primo Seicento.58L’indicazione attributiva - non una certezza di paternità - ha conosciuto una fortuna

recente nell’ambito di un vero e proprio recupero critico della figura del piccolo maestro.59

Vi-ceversa, un’incertezza traspare dalle fonti più antiche, poiché Cima suscita il nome di Ludovico Fiammingo, cioè il Pozzoserrato, e Rigamonti prima quello altisonante di Jacopo Tintoretto per correggersi poi ripiegando sul figlio Domenico; soluzione ribadita da Federici, a testimo-nianza dell’assenza di una fonte inequivocabile già a quelle date.60

Il problema attributivo che pone la pala già in San Gregorio Magno non è d’immediata solu-zione e richiede un’articolata verifica tale da costringere ad addentrarci nelle questioni ancora aperte sul Tardomanierismo pittorico a Treviso. Archiviata l’attribuzione di Cima, più di recente essa parte dall’indicazione di Coletti che suscita il nome di Orioli e si giustifica con confronti

106 Bartolomeo Orioli, I santi Sebastiano, Rocco e

Francesco da Paola. Istrana, chiesa arcipretale di San

Giovanni Battista.

107 Bartolomeo Orioli, Madonna con il Bambino in

gloria e i santi Teonisto, Tabra diacono e Tabrata suddiacono, 1601. Casier, chiesa parrocchiale dei

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riguardanti le opere certe degli inizi del maestro risalenti ai primissimi anni del Seicento. Allora la sua attività si ricostruisce con agio e con il favore di più opere firmate e datate. Tuttavia, proprio in quanto lo stile risulta chiaro e inequivocabile, si ritiene non possa trovarvi posto la pala già in S an Gregorio. Se si volesse insistere comunque sul nome di Orioli, l’unica possibilità è che si ponga a monte di tale fase, quando, sotto più aspetti vige ancora l’incertezza nella ri-costruzione del suo profilo. Una tale eventualità merita una verifica per contribuire a far chia-rezza sul riscoperto maestro. Si deve innanzitutto osservare che è indeterminata la data di nascita di Orioli, fissata per congettura tra 1567 e il 1569.61Fra le testimonianze documentarie

è solo nel 1598 che si trova la prima attestazione della sua qualifica di pittore, mentre i primi frutti del suo lavoro finora noti e accertati cronologicamente riguardano l’Assunzione della

Beata Vergine posta sull’altare maggiore della chiesa di Santa Maria Assunta di Noale del 1602,

come assicura Federici nel 1803, e la pala di Sant’Elena tra le sante Agata e Apollonia della chiesa parrocchiale di Monigo del 1603.62Rimane invece trascurata a tutt’oggi, nel delicato

contesto ricostruttivo, la pala firmata e datata al 1601 posta sull’altare maggiore della chiesa parrocchiale dei Santi Teonisto Vescovo e Compagni Martiri di Casier, raffigurante la Madonna

con il Bambino in gloria, e i santi Teonisto, Tabra diacono e Tabrata suddiacono, che si

ac-compagna in questa chiesa ad altra pala a lui spettante, posta sul secondo altare di destra, con il Crocifisso e i due dolenti e la Maddalena, purtroppo estesamente ridipinta.63

Queste sono dunque opere di un maestro che ha superato i trent’anni, a fronte di un’attività che

150

108 Giacomo Lauro, Profeta Osea. Treviso, chiesa di San Nicolò.

109 Matteo Ingoli, Profeta Gioele. Treviso, chiesa di San Nicolò.

110 Matteo Ingoli, Profeta

Eze-chiele. Treviso, chiesa di San Nicolò.

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doveva iniziarsi nella norma sui diciotto, o subito prima. Vi potrebbe essere quindi tutto il mar-gine per avanzare, se non altro, l’ipotesi che la pala già in San Gregorio Magno possa attestare ipoteticamente il primo capitolo dell’attività di Orioli, quello precedente la fase delle opere fir-mate e datate a partire dal 1601.64In apparenza, tale ipotesi si rafforzerebbe con l’attribuzione

a Orioli della vivacissima pala raffigurante la Madonna con il Bambino in gloria incoronata

dagli angeli e i santi Matteo evangelista, Sebastiano, Nicola da Bari e Rocco in San Nicolò a

Treviso, che è stata associata a quella già in San Gregorio Magno, proposta convincente almeno per sostanziale coincidenza di stile.65Di essa non conosciamo la provenienza e

conseguente-mente non si dispone di fonti che possano attestarne la paternità. In termini più espliciti, si ri-tiene che le due opere ora ubicate in Duomo e in san Nicolò appartengano effettivamente allo stesso maestro, quanto alla sua identificazione con Orioli è soluzione ancora tutta da dimostrare. Un qualche aiuto deriva dal poter fondare la valutazione comparativa su dati più articolati di quanto non fossero quelli desunti da una sola opera. La soluzione di riconoscere queste due pale a Orioli in anticipo, entro il Cinquecento, pare dunque del tutto logica in quanto apre un margine per giustificare la difformità di stile che esse dimostrano rispetto a quelle certe che si scalano ad apertura del nuovo secolo, fra loro relativamente coerenti. Tuttavia, si tratterebbe non di un’evoluzione di linguaggio da parte del maestro, bensì addirittura di una mutazione

111 Matteo Ingoli, Madonna con il Bambino in gloria fra

le sante Caterina d’Alessandria e Lucia, i santi Pietro apo-stolo e Francesco d’Assisi. Zerman (Mogliano Veneto),

chiesa parrocchiale di Sant’Elena Imperatrice.

112 Matteo Ingoli, Annunciazione di Maria. Già Vienna, Mercato antiquario.

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d’indirizzo da risultare in ultima analisi difficilmente sostenibile seguendo un’altra logica che è quella maestra dello stile.

In concreto, l’orientamento manifestato dalle prime opere rivela Orioli collegato al modello di Andrea Michieli detto il Vicentino (1542?-post 1612), dal quale deriva palesemente la sua

As-sunzione di Noale del 1602 nei modi di una vera e propria riformulazione figurativa a

imita-zione, come si osserva specie nella parte superiore dell’opera. Tale atteggiamento derivativo si accompagna a insicurezza e grevità nel disegno e nello stabilire i rapporti cromatici, difficoltà che si rivelano anche nelle qualificazioni fisiognomiche. Lo si osserva pur tenendo conto dello stato di conservazione compromesso in cui l’opera si presenta. In particolare, nella resa del pi-viale del santo vescovo inginocchiato in primo piano a sinistra (Agostino?) si riconosce tuttavia quella ricerca di solidità volumetrica che è una costante di Orioli, qui già accentuata da una personale applicazione descrittiva che si coglie nella definizione del ramage broccato. Perfet-tamente coerente con questo brano risulta la raffigurazione dei santi della pala di Casier del-l’anno precedente che non palesa citazioni dal Vicentino.

I rapporti instauratisi fra Vicentino e Orioli, forse nei termini di maestro e allievo, trovano con-ferma nella pala di Monigo del 1603: pur nella scarsità d’inventiva che la contraddistingue essi sono, comunque, palesi nell’ispirazione tipologica di matrice veronesiana, che si accompagna a desunzioni bassanesche, specie alla Leandro, e all’affinità con i Maganza, come il Vicentino dichiara ancora nella pala di Gambarare del 1598.66Il modo con cui si esprime il loro sodalizio

nelle prime opere di Orioli trova un risultato di inedita vivacità espressiva- tale da aver suggerito spettare a un emulo di Ludovico Pozzoserrato – nella pala con I santi Sebastiano, Rocco e

Francesco da Paola della chiesa arcipretale di San Giovanni Battista di Istrana.67Per la

con-ferma di questa soluzione attributiva, si accosta con utilità, ad esempio, la tela da stanza del Vicentino con Lia e Rachele trafugano gli idoli della Collezione Emo Capodilista a Padova.68

Purtroppo è perduta un’altra attestazione importante circa i rapporti fra il Vicentino e Orioli, ma al proposito la notizia in sé può essere intesa già come una conferma, pertanto merita con-siderarla. È utile aprire una finestra alla discussione sul primo Orioli con il ricordare gli impegni sia suoi che di Vicentino per la Confraternita del santissimo Rosario in San Nicolò a Treviso:

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a quest’ultimo spetta la notevole pala della Madonna del Rosario, al trevigiano un Purgatorio e una Santa Caterina, opere perdute.69

La pala di Vicentino può ricevere una datazione ancora nell’ultimo lustro dei Cinquecento, fra 1595 e 1598, mentre alcuni riscontri documentari consentirebbero di ritenere del 1616 circa le opere di Orioli.70Comunque, la questione riguarda in aggiunta l’annoso e confuso problema

attributivo delle molte tele di Profeti e Sibille a figura intera entro nicchie, poste negli spazi li-beri tra i vari teleri che ammantavano, ancor più di quanto non si veda oggi, le pareti della grande chiesa gotica: Cima riferisce sulla presenza di «Quadri e profeti di Francesco Bassan», mentre Rigamonti precisa «All’intorno della Chiesa tra un quadro e l’altro nicchiati si vedono dipinti molti Profeti, e Sibille da Andrea Vicentino, e da Bartolomeo Orioli del passato se-colo».71Federici consente di individuare la partecipazione al ciclo di Leandro Bassano

(1557-1622), forse in aggiunta o in luogo del fratello Francesco (1549-1592), nella realizzazione della perduta Sibilla Cumana; riferisce poi del contributo di molti autori e fra questi, in particolare, di Ascanio Spineda con la perduta Sibilla Tiburtina del 1616.72

Dunque, secondo Rigamonti, si annoveravano in particolare opere di Vicentino e Orioli e in-dividuarle sarebbe utile nel quadro degli ipotizzati rapporti maestro-allievo, i più precoci. Tut-tavia, le fonti ricordate, come pure quelle inventariali, non offrono indicazioni esplicite sulla paternità di ciascuna, così da lasciare adito a diverse soluzioni attributive come si constata pro-porsi anche di recente a proposito delle poche superstiti: una sibilla e tre profeti. La verifica si ritiene pertanto opportuna alla luce dei chiarimenti subentrati sulle personalità chiamate in causa e per il fatto che sono implicati proprio il Vicentino e Orioli. Le soluzioni identificative sono le seguenti e riguardano proposte indubbiamente nuove. La Sibilla Libica, l’unica super-stite, è da sempre confermata al Vicentino che ne avrebbe eseguito una seconda, per essa appare stilisticamente congrua la data della pala della Madonna del Rosario negli ultimissimi anni del Cinquecento.73Si ritiene invece non possa spettargli, come sostenuto anche di recente, il Profeta

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113 Ludovico Pozzoserrato, Sposalizio mistico di santa

Cate-rina d’Alessandria e santi. Conegliano, chiesa parrocchiale di

San Rocco e san Domenico, proveniente dalla chiesa di Santa Caterina.

114 Ludovico Pozzoserrato, San Sebastiano tra i santi

Bar-bara e Rocco. Conegliano, chiesa parrocchiale dei Santi

Mar-tino e Rosa, proveniente dalla chiesa di San Sebastiano. 115 Ludovico Pozzoserrato, Madonna dei Calegheri

(Ma-donna con il Bambino in trono, san Marco guarisce Aniano e san Giuliano). Treviso, chiesa di Sant’Agostino.

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Osea, che qui si attribuisce a Giacomo Lauro e non a Orioli o Vicentino come è stato

ultima-mente affermato.74Lo stesso Federici è come non mai assertivo nell’intimare di non doversi

confondere lo stile di Lauro e Orioli a proposito del telero per questa chiesa raffigurante San

Rocco fra gli appestati, datato 1605.75Tale soluzione a favore di Lauro che si sostiene in modo

convinto, consente innanzitutto di ribadire come anch’egli fosse orientato stilisticamente dal Vicentino fin dalle prime prove, ma lo si può desumere ancora all’osservazione dell’apparato figurativo dell’organo di San Nicolò e di quest’ultimo telero conclusivo della carriera.76Egli

mantiene, tuttavia, una certa eleganza disegnativa e leggerezza cromatica personalissima e in-confondibile che si ritiene sollecitata specie dallo stile del Pozzoserrato nella sua matrice ve-ronesiana. La partecipazione di Lauro al ciclo di profeti e sibille di San Nicolò accerta anche la datazione ante 1604, almeno di una parte di esso. Anzi, nulla osta che Vicentino e Lauro ab-biano compiuto la loro parte già alla fine del secolo precedente e che anche Orioli vi fosse im-plicato in contemporanea, forse in qualità di esordiente allievo o seguace proprio del Vicentino. Tuttavia, non lo si può confermare con certezza, non solo perché Orioli esegue le altre sue opere perdute nel 1616, ma soprattutto in quanto si ritiene erronea l’attribuzione a tale maestro delle altre due tele superstiti del ciclo anche da ultimo riconosciutegli: il Profeta Gioele e il

Profeta Ezechiele.77Si è maturata la convinzione che esse possano appartenere a un periodo

successivo a quello cui spettano le altre, addirittura nel corso del terzo decennio del Seicento, quando tale ciclo poteva proseguire anche con l’apporto di Ascanio Spineda, al quale egli aveva già contribuito nel 1616 con la Sibilla Tiburtina, ma che sappiamo impegnato nel decennio successivo a realizzare altre opere da collocarsi altrove entro questa vasta chiesa domenicana. Tuttavia, a osservare il telero che egli fornisce in tale momento, qui di seguito commentato, egli dipinge allora con stile affatto diverso da quello dei due profeti. Il suo apporto non riguarda dunque le due opere in questione per le quali si deve cercare un altro autore. La direttrice è fornita da qualificazioni formali molto particolari. Le due figure di profeti si mostrano impec-cabili nelle loro vesti sovrabbondanti e di lucidità serica, caratterizzate da panneggi virtuosi-sticamente innervati su cui hanno buon gioco gli effetti di traslucido e i riflessi. Tutto ciò è ottenuto lavorando su una matrice veronesiana e non su una matericità tonale di marca palme-sca. Se si considera poi la tipologia del Profeta Gioele di dosato patetismo, si ha modo di so-stenere per la prima volta con agio l’attribuzione a Matteo Ingoli (Ravenna 1585-Venezia 1631) con riferimento particolare alle sue opere trevigiane, ultime del catalogo, quali i teleri del Riposo

durante la fuga in Egitto e di Gesù disputa fra i dottori nel tempio, eseguiti nel 1629 per la

vi-cina chiesa delle benedettine di San Teonisto (Treviso, Museo Civico).78Si fa dunque ancor

più chiara la sua estrazione veronesiana, esplicitata dagli attestati rapporti con Alvise Benfatto del Friso e Gabriele Caliari.79Tuttavia essi appaiono tali da far supporre un’attenzione precoce

nei confronti sia del Vicentino sia di Matteo Ponzone che pure partecipa al ciclo di San Teonisto con l’Adorazione dei Magi (Treviso, Museo Civico).80La conferma alla soluzione attributiva

in favore di Ingoli per due profeti del ciclo di San Nicolò si trova nelle precedenti opere sicure di un catalogo del maestro ravennate piuttosto esiguo.81Fra esse si vuole ricordare l’aggiunta

della Resurrezione di Cristo e i santi Giovanni Battista e Biagio della chiesa parrocchiale di Silea e, nell’occasione, proporre l’inserzione di altre opere nel suo parco catalogo: la pala raf-figurante la Madonna con il Bambino in gloria fra le sante Caterina d’Alessandria e Lucia, i

santi Pietro apostolo e Francesco d’Assisi del primo altare di sinistra della chiesa parrocchiale

di Zerman (Treviso), da porre a confronto con la Madonna del Rosario della chiesa parrocchiale di Omiš (Almissa) e la piccola pala dell’Annunciazione apparsa di recente sul mercato

anti-154 116 Ludovico Pozzoserrato, Presentazione di Gesù al tempio. Treviso, Cattedrale di San Pietro apostolo, sacrestiadei Canonici, proveniente dalla chiesa di San Gregorio Magno.

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quario viennese come opera di Palma il Giovane.82

Ritornando a Orioli, dopo la parentesi dedicata alla verifica e conseguente rifiuto di altre attri-buzioni avanzate di recente a suo favore, si deve prendere atto di come non si disponga di ele-menti per avvalorare l’evoluzione di linguaggio che si coglie fra le prime pale certe del catalogo distribuite a Casier, Noale, Monigo e Istrana, rispetto a quelle in San Gregorio Magno e San Nicolò a Treviso.

Queste ultime rivelano un artista partecipe comunque di una linea d’ascendenza soprattutto ve-ronesiana, su cui si pone anche il Vicentino. Tuttavia l’esito si fa in loro indubbiamente di mag-gior vivacità e leggerezza, la pittura è più sciolta e l’orchestrazione più coerente, le fisionomie più personali e diversificate con punte d’insistenza espressiva capziosa, quasi ironica, come si coglie anche nei volti degli angeli. La formulazione si distingue da quella dei più “stretti se-guaci” o degli eredi del Veronese, si indirizza bensì su quelle di “indiretti sese-guaci” impegnati in una sintesi anche di spunti tintorettiani con quel procedimento tipico della pittura devota del tardomanierismo veneziano nella sua accezione relativamente “chiarista”.

Se si dovessero confermare a Orioli giovane queste due opere, come è stato ipotizzato, egli si rivelerebbe inizialmente a sua volta pittore più sciolto nel disegno e nell’esecutività pittorica ed espressivamente meno severo di quanto non dimostri in tutto il prosieguo della sua attività. Rispetto a questi due esempi si può ammettere almeno che sopravviva talora nella sua opera la ricerca di qualificazioni fisiognomiche un poco caricate e stranite, nei modi tipicamente ma-nieristici. Queste espressioni si ritrovano, comunque, sempre più di rado entro la devota com-punzione che subentra in lui con l’attività assai notevole tutta scalata nel nuovo secolo, assieme a una maggiore chiarezza d’impianti compositivi, spesso volutamente stereotipi e scontati.83

Del resto Orioli, da ultimo, si riscatta soprattutto quando assiepa le sue pale di tanti personaggi e si applica con meticolosità nel fare in piccolo. Allora, ad esempio all’altezza della pala della parrocchiale di Castagnole, parla già con altro linguaggio che è tale da rendere persino inso-spettabili (o improponibili) gli avvii che sono stati problematicamente ipotizzati.84

La pala già in San Gregorio Magno e quella ora in San Nicolò sollecitano, dunque, un’altra so-luzione attributiva che tenga conto della componente stilistica determinante, come detto quella di facile e brioso veronesismo e tintorettismo che appare trovare riscontro a fine Cinquecento a Treviso nell’opera di Ludovico Pozzoserrato. La soluzione che si prospetta, in alternativa a quella di Orioli giovane pre-vicentiniano, è proprio quella in favore del maestro neerlandese, il più celebre che Treviso possa vantare come stabile residente a fine Cinquecento. Innanzitutto, dalla parte di tale soluzione vi è il recupero dell’indicazione originaria fornita da Cima in suo favore. Si deve poi considerare soprattutto come il suo catalogo, per quanto concerne i dipinti d’altare, non annoveri ancora esempi di paternità certa e cronologicamente documentati che siano anteriori allo Sposalizio mistico di santa Caterina d’Alessandria e santi della chiesa di San Rocco e alla pala di San Sebastiano tra i santi Barbara e Rocco della chiesa dei Santi Mar-tino e Rosa, entrambe di Conegliano, che si possono collegare cronologicamente in prossimità della sua presenza in questa città nel 1593 per l’esecuzione degli affreschi grandiosi e teatrali, ancora in accezione romanista, della facciata della Scuola dei Battuti.85Il maestro che è

docu-mentato a Venezia almeno dal 1576 e a Treviso già dal 1581 circa, è logico pensare che si sia dedicato con assiduità a dipinti per le chiese trevigiane a partire dagli anni ottanta.86Con l’unica

possibilità di appoggio comparativo alle pale coneglianesi, vi è margine per sostenere che pro-prio accanto a queste, o subito prima, possano figurare nel suo catalogo la pala di San Gregorio Magno e, con qualche precedenza, quella di San Nicolò. Pertanto, al momento esse ne illustrano per prime a Treviso l’attività di pittore “di figure”, accanto a quella più fortunata dedita al pae-saggio manieristico, spesso per una clientela internazionale d’alto rango. Una tale soluzione attributiva e di seriazione cronologica implica che Pozzoserrato, all’altezza del 1593, si avvii

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