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Tolleranza del dissenso e intolleranza del vizio nelle "Lettere" di John Locke

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Academic year: 2021

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Tolleranza del dissenso e intolleranza del vizio nelle Lettere sulla tolleranza di John Locke

Il termine tolleranza nel Seicento non sta ad indicare un atteggiamento individuale. Non è il singolo che può essere tollerante o intollerante; solo la politica di uno stato può esserlo. Spetta al sovrano decidere come trattare coloro che non si conformano alla religione di stato, se tollerarli o piuttosto punirli; a lui spetta stabilire quali privilegi conferire alla chiesa nazionale e come trattare le altre chiese. Ovviamente, il sovrano agisce in un contesto di cui deve tenere conto. I membri della chiesa nazionale fanno pressione perché egli la mantenga in una posizione di maggiore autorità e prestigio, mentre altre forze politiche e sociali possono spingere nella direzione contraria; la tolleranza dunque è sempre oggetto di trattative e di qualche compromesso.

Non sempre una tolleranza dichiarata corrisponde ad una tolleranza di fatto. E’ quello che accade, ad esempio, nella Francia di Luigi XIV prima che l’editto di Nantes venga revocato nel 1685: già prima di quella data le chiese protestanti cominciano ad essere abbattute. In Inghilterra la situazione è più complessa: per parlare di tolleranza dichiarata bisogna aspettare il Toleration Act del 1689, che non soddisferà tutti. Gli antitrinitari, infatti, sono esclusi dai benefici dell’atto. Quando Locke scrive il Saggio sulla tolleranza nel 1676, questo traguardo è molto lontano; la politica del nuovo re Carlo II Stuart da qualche anno vira pericolosamente verso l’intolleranza. Nel 1685, quando compone la prima Lettera sulla tolleranza, la situazione è molto cambiata. Un diffuso malcontento circonda il governo di Giacomo II, da poco succeduto al fratello Carlo II; sulla dinastia Stuart grava il sospetto di avere tradito la patria. Il regno di Carlo ha visto trionfare la rilassatezza morale e ha calpestato le antiche libertà degli inglesi dissolvendo il Parlamento; quello di Giacomo è sospetto di collusioni con il cattolicesimo romano prima ancora di iniziare.

In questo contesto, riemerge l’anima puritana dell’Inghilterra. Il puritanesimo, con il suo profondo anelito ad una riforma dei costumi e ad una vita santa, aveva lasciato una traccia negli animi di molti; questa traccia permane anche dopo gli eventi turbinosi della guerra civile, del protettorato e infine della

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Restaurazione (1660). Ben prima della Gloriosa Rivoluzione del 1689, sono in tanti a reclamare una maggiore severità nei costumi; lo stesso anno in cui il nuovo re Guglielmo III d’Orange prende il posto di Giacomo II Stuart, nasce il “Movimento per la riforma dei costumi”. Il movimento ha una chiara ispirazione puritana, ma non si identifica con una chiesa particolare; anglicani e dissenzienti sono uniti dall’intento di promuovere l’intervento dello stato contro il dilagare dell’immoralità.

Locke ha ricevuto un’educazione puritana; la sua adesione agli obiettivi del “Movimento per la riforma dei costumi” è evidente nei suoi scritti. La battaglia per la tolleranza nelle Lettere è anche, sempre, una battaglia contro il vizio. L’immoralità, non il dissenso religioso, deve essere il bersaglio del sovrano per Locke. La strategia delle Lettere si appunta sulla distinzione tra vizio e peccato: al primo si attribuisce una rilevanza pubblica, al secondo una privata in quanto investe il rapporto personale tra l’uomo e Dio. Al sovrano non spetta occuparsi dei peccati, ma dei vizi dei sudditi; dovrà essere tollerante riguardo ai primi ma non riguardo ai secondi. Attribuire a Dio una forma di culto inappropriata è un peccato, non un vizio, insiste Locke; è questo il motivo per cui il sovrano deve tollerare i dissenzienti. Se peccano nell’offrire a Dio un culto diverso da quello nazionale saranno giudicati da Lui, che sa quale sia la verità in ogni cosa; riguardo al vizio, però, il sovrano ha il dovere di fare tutto ciò che è in suo potere per estirparlo. Il suo compito infatti è preservare lo stato; poiché il vizio distrugge la convivenza civile, non può essere tollerato.

E’ chiaro il profondo significato morale che Locke attribuisce allo stato, che non può in alcuna maniera essere alleato del vizio. Uno stato che prospera sui vizi dei cittadini è una contraddizione in termini per il filosofo: le virtù sono il cemento della società, il vizio distrugge le fondamenta stesse della convivenza umana. Questo Locke già lo affermava nel Saggio sulla tolleranza del 1676, ma nelle Lettere lo ripete con una forza particolare: uno stato non può sussistere se tollera o peggio prospera sull’immoralità dei cittadini. E’ un’idea, questa, che forse andrebbe ripensata.

Giuliana Di Biase

Professore di Filosofia Morale, Università “G. d’Annunzio” 66100 Chieti

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