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Modelli di realtà in letteratura. Una riflessione su meraviglioso e verisimile.

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MODELLI DI REALTA’ IN LETTERATURA: UNA RIFLESSIONE SU MERAVIGLIOSO E VERISIMILE

Roberto Gilodi

Il percorso che propongo in questa relazione affronterà il problema della

rappresentazione della realtà in letteratura a partire dal primo tentativo di compiuta sistemazione teorica del poetico, vale a dire dalla Poetica di Aristotele, che può essere intesa anche come il primo tentativo di definizione della specificità della letteratura.

Se mi è consentito un paragone un po’ azzardato, si potrebbe dire che l’intenzione che guida la stesura di questo breve trattato non è diversa da quella che Nietzsche nei

Frammenti postumi definirà con una bella immagine la “grande ambizione” di

“dominare il caos che si è, costringere il proprio caos a diventare forma: a diventare logico, semplice, univoco, matematico, legge”.1

L’alterità della poesia rispetto al mondo è quella della forma.

Una forma che nella letteratura non è solo la costruzione linguistica del testo. Non è la fabbricazione dei versi, dei suoni delle parole, dei ritmi della frase, della

combinazione delle parole, dei giochi linguistici.

La forma è fondamentalmente una strategia di modellizzazione del mondo, che trasforma l’infinita varietà delle cose, degli esseri umani e delle loro vicende

nell’ordinata geometria di sagome universali. Un’universalità che, a differenza delle astrazioni della filosofia, si presenta con le fattezze insieme dell’umano e dell’ideale. L’imitazione del poeta è per Aristotele costruzione dell’Azione, ossia successione causale delle azioni singole che costituiscono, nel loro insieme, la vicenda narrata o rappresentata sulla scena: sostituzione quindi dell’ordine cronologico con l’ordine causale. “Fa molta differenza infatti – si legge nel X capitolo della Poetica – se qualcosa avviene a causa di un’altra o dopo un’altra”.2

In questa differenza è all’opera il tentativo di riprodurre nella cosiddetta “successione ordinata dei fatti” un riflesso dell’ordine che presiede al cosmo e alla natura. Ma soprattutto agisce la convinzione che tra il mondo delle azioni degli uomini e quello delle dramatis personae che agiscono nelle narrazioni epiche e nelle tragedie corra il limite che separa ciò che il mondo è da ciò che il mondo potrebbe essere se non fosse ciò che è, ossia se non fosse una successione caotica di eventi la cui intelligibilità è possibile solo a condizione di trasformarlo in qualcosa che esso non è e

probabilmente non sarà mai.

1 F. Nietzsche, "Frammenti postumi 1885-1887", in Opere, Milano 1975 vol. VIII , t. III, p. 37.

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Questa opposizione irriducibile tra l’ideale che la poesia è chiamata a mettere in scena e il mondo assume nella Poetica varie rappresentazioni: quella più nota oppone il lavoro dello storico a quello del poeta.

La celebre distinzione suona così:

lo storico e il poeta non differiscono tra loro per il fatto di esprimersi in versi o in prosa – si potrebbero mettere in versi le storie di Erodoto, e in versi come in prosa resterebbero comunque storia – ma differiscono in quanto uno dice le cose accadute e l’altro quelle che potrebbero accadere. Per questo motivo la poesia è più filosofica e più seria della storia, perché la poesia si occupa piuttosto dell’universale, mentre la storia racconta i particolari. 3

È noto che il destino della Poetica di Aristotele è legato indissolubilmente al suo concetto centrale, quello di mimesis, che ha generato un fraintendimento soprattutto a partire dalla fine del classicismo, ossia a partire dall’Ottocento.

Responsabile principale di questa ambigua interpretazione è la traduzione latina di

mimesis naturae, alla quale si deve la supposta assimilazione del concetto di mimesis

all’area semantica del realismo, finendo per caricarlo delle stesse ambiguità che tale concetto si porta appresso dal Romanticismo in avanti.

È passato così in secondo piano il fatto che la mimesis aristotelica, come si diceva, sia anzitutto imitazione di persone che agiscono; non è un caso che le due forme

letterarie di cui si occupa la Poetica in termini analitici, descrittivi e prescrittivi siano l’epos (fondamentalmente i due poemi omerici) e la tragedia ( e probabilmente la commedia). La lirica, ad esempio, è esclusa dalla sua trattazione.

Ma l’essenza del poetico non consiste nella mera rappresentazione delle singole azioni che i personaggi compiono, consiste essenzialmente nella disposizione di queste azioni da parte del poeta, che è così chiamato direttamente in causa: la sua

tekné si applica alla costruzione delle azioni rappresentate, che devono succedersi

secondo un ordine rigorosamente causale, un ordine che nella realtà, secondo Aristotele, le azioni non hanno. La mimesis, diceva Paul Ricoeur, è la poiesis. La differenza tra realtà e poesia sta dunque nel mythos, nella “composizione dei fatti”. Da lì discendono tutte le altre differenze, a cominciare dalla fisionomia dei personaggi. I quali sono ciò che sono e affermano la loro identità nella coerenza che li lega alle loro azioni. La frase di Iago nell’Otello shakespeariano: “I’m not what I am” disegna il profilo opposto a quello degli eroi tragici; il destino di questi ultimi è legato invece indissolubilmente alla loro identità che li predispone, fin dall’inizio della loro vicenda, a quel destino, come scopre con stupore lo spettatore della tragedia quando l’azione è giunta al suo epilogo. In questa opposizione tra l’ethos identitario degli eroi omerici e tragici e lo sdoppiamento, la frantumazione o la

dissimulazione (disonesta) come nel caso di Jago, è stata vista la svolta fondamentale della letteratura della Modernità.

Ma proviamo ad analizzare ulteriormente questa differenza tra il mondo reale e il mondo imitato della poesia alla luce degli assunti aristotelici.

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La categoria che indica la relazione tra queste due dimensioni è quella di verisimile, anch’essa tra le più fraintese. Il ‘vero’, di cui la poesia è somiglianza, non è la

fattualità pura e semplice ma la fattualità sottoposta al trattamento del poeta: una fattualità idealizzata. E trattandosi di azioni dell’uomo siamo quindi in presenza di un doppio movimento che consiste nell’idealizzazione dell’umano e nell’umanizzazione dell’ideale.

I protagonisti dell’epos e delle tragedie sono dunque figure che condividono le ansie e le paure degli umani, ne hanno le fattezze fisiche, vivono in questo mondo ma sono al tempo stesso figure della lontananza sia temporale sia assiologica, sono “uomini migliori di noi”, come li definisce Aristotele.

Spostiamo ora l’attenzione verso quell’età in cui la memoria dell’antico ha segnato il profilo culturale di un’intera stagione artistica e, segnatamente, della riflessione teorica sulle ragioni fondative della letteratura. Mi riferisco al Rinascimento e, in particolare, a quella seconda metà del Cinquecento in cui si colloca la rilettura dei fondamenti della poetica operata da Torquato Tasso nei Discorsi dell’arte poetica e

in particolare sopra il poema eroico, pubblicati a Venezia nel 1587 ma letti

all’Accademia Ferrarese probabilmente non oltre il 1570.

Qui l’interesse principale è costituito dall’epos e in particolare dalla legittimazione di una sua componente fondamentale, che già Aristotele aveva individuato come tale, ossia il meraviglioso.

Cos’è dunque il meraviglioso e perché è così centrale nella narrazione epica?

La questione, all’altezza della seconda metà del Cinquecento, è di assoluta attualità teorica perché la tradizione dei poemi epico-cavallereschi costituiva una sfida

all’ortodossia aristotelica che aveva assunto una rinnovata centralità normativa nelle poetiche coeve.

Qual era il problema, dunque? Era quello di accettare nella compagine narrativa la presenza di “quelle meraviglie, che tanto muovono non solo l’animo de gl’ignoranti, ma de’ giudiziosi ancora: parlo di quelli anelli, di quelli scudi incantati, di que’ corsieri volanti, di quelle navi converse in ninfe, di quelle larve che fra’ combattenti si trasmettono e d’altre cose sì fatte”.4

Gli esempi, tutti ariosteschi ad eccezione della “navi converse in ninfe” prelevato dall’Eneide, disegnano una popolazione di figure e di icone solidamente insediate nell’immaginario narrativo quattro-cinquecentesco ma a tutta prima in flagrante opposizione al dettato aristotelico della verisimiglianza. Il problema di Tasso era proprio questo: come si concilia il ‘verisimile’ con il ‘meraviglioso’? Come si

concilia il precetto della mimesis con i corsieri (cavalli) volanti e soprattutto lo scudo di Achille con gli scudi incantati? In una parola: come trattenere normativamente la lezione poetica e teorica dell’Antico di fronte all’urgenza verso il fantastico della tradizione romanzesca italiana, quella che il Tasso chiama dei “moderni scrittori”, alludendo in particolare all’Ariosto e al Trissino?

Al Signor Scipion Gonzaga, a cui i Discorsi sono rivolti, Tasso spiega che:

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diversissime sono, signor Scipione, queste due nature, il maraviglioso e’l verisimile, ed in guisa diverse che sono quasi contrarie fra loro: nondimeno l’una e l’altra al poema è necessaria.5

La soluzione prospettata da Tasso è una sorprendente conciliazione degli opposti: …bench’io stringa il poeta epico ad un obbligo perpetuo a servare il verisimile, non però escludo da lui l’altra parte, cioè il maraviglioso; anzi giudico che un’azione medesima possa essere e maravigliosa e verisimile.6

Ebbene, a tutta prima sembra un’impresa impossibile e ricorda quella manzoniana di due secoli e mezzo dopo, alle prese con il problema della legittimazione del romanzo storico: storia e invenzione possono coesistere nella medesima compagine narrativa? Ma, a differenza di Manzoni, che si rassegnerà all’impossibilità di un esperimento di questo tipo, Tasso è convinto che la soluzione ci sia e del tutto conforme ai dettami aristotelici.

La soluzione che propone non è una “volontaria sospensione dell’incredulità”, come la chiamerà Coleridge, ma uno sdoppiamento prospettico operato sul concetto stesso di verisimiglianza.

Il suo ragionamento è sostanzialmente questo: da un lato c’è una cognizione costruita a partire dalla comune esperienza del mondo, che ritiene non veritiere le fate, i maghi e i prodigi dei romanzi cavallereschi. Dall’altra c’è una fede nel soprannaturale, ossia in un ordine del mondo che non è quello stabilito dagli “uomini scienziati” –

l’espressione è ancora di Tasso – e questa fede fa apparire verisimile ciò che all’apparenza è meraviglioso.

Come si può intuire, lo sdoppiamento prospettico del verisimile implica

necessariamente uno sdoppiamento del lettore-fruitore. Un argomento che era già stato fatto valere da Jacopo Mazzoni nella sua Difesa della Commedia di Dante (Cesena 1587) e che, al pari di Tasso, si rifà ai Discorsi intorno al comporre dei

romanzi, delle commedie e delle tragedie, di G.B. Giraldi Cintio (Venezia 1544).

Un argomento questo che sarà speso un secolo dopo anche nelle discussioni sul

Paradise Lost di Milton.

La conclusione provvisoria di questa breve escursione attraverso le riflessioni tassiane sul poema eroico è che il meraviglioso nei limiti del verisimile ci presenta l’essenza dicotomica degli statuti di verità su cui si appoggia la ricezione del fruitore: il capovolgimento dello statuto di verità della natura come oggetto della mimesis del poeta fa sì che vero sia il falso e falso il vero.

In questa inversione prospettica, che implica lo sdoppiamento del fruitore, si racchiude al tempo stesso il senso profondo della fictio del poeta: da un lato essa costruisce un mondo ‘simile al vero’ e dall’altro è mendacium dicere.

Il tema della menzogna della letteratura non può essere trattato in questa sede. D'altronde, come diceva Manganelli in La letteratura come menzogna: “L’opera

5 Ibid., p. 8.

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letteraria è un artificio, un artefatto di incerta e ironicamente fatale destinazione”; ossia, una “pseudoteologia”, dove “tutto è esatto, e tutto è mentito”7.

Mi limito quindi a un accenno forse meno noto: sul finire del Seicento un pastore calvinista, Gotthard Heidegger, bollerà i romanzi – tutti, anche quelli meno avventurosi e più nobilmente conformi alla verità del mondo – come blasfemi. L’opera in cui esprimerà le sue severe critiche al romanzo è Mythoscopia romantica

oder Discours von den so benannten Romans (Mitoscopia romantica ovvero discorso

sui cosiddetti romanzi, Zurigo 1698).

L’interdetto calvinista avrà un peso non indifferente sul destino moderno del

romanzo, a partire da quello inglese del Settecento. Se ne scorgono evidenti le tracce nella “true history of facts” con cui Defoe, o meglio l’editore del Robinson Crusoe, presenta ai suoi lettori il romanzo.

Spostiamoci ora brevemente sul terzo territorio del fare del poeta.

Siamo ancora nel campo della narrazione, ma l’oggetto non è più una vicenda

paradigmatica agita da personaggi emblematici assegnati all’ambito dell’eccellenza e portatori di un ethos perfettamente coerente con le azioni da essi compiute.

Siamo nel territorio del cosiddetto ‘romanzo di formazione’, dove l’eroe protagonista è una figura non più della lontananza ma della prossimità.

La sua condizione è quella di un soggetto non garantito dall’assegnazione a priori di una marca identitaria ma alla ricerca di una sua forma stabile che gli consenta di sapere chi egli sia e quale sia o sarà il suo ruolo nel mondo.

In particolare, il protagonista dei romanzi di formazione si trova nella condizione di oscillare tra l’affermazione autonoma della sua volontà e il sospetto di essere

eterodiretto da una ratio superiore o da una volontà che lo sovrasta e che, a dispetto della sua vocazione sperimentale, gli ha già da sempre assegnato un ruolo. Il timore che lo affligge lo si può esprimere con le parole di Epitteto:

Ricorda che sei attore di un dramma, ed è chi lo allestisce a stabilire di quale dramma: se lo desidera breve, di un dramma breve; se lo desidera lungo, di uno lungo; qualora desideri che tu sostenga la parte di un mendicante, cerca di recitare con bravura anche questa parte, e così per la parte di uno zoppo, di un magistrato, di un privato cittadino: infatti questo è il tuo compito: impersonare bene il personaggio assegnato; sceglierlo spetta ad un altro.8

Nondimeno la sua ansia di crescere – i protagonisti sono adolescenti in transito verso la prima gioventù – e di appropriarsi del mondo, il suo streben nach, gli fornisce la conferma, o l’illusione, che il suo destino è nelle sue mani, ossia nella disponibilità della sua intelligenza delle cose e della sua volontà.

La filigrana filosofica che è sottesa ai maggiori romanzi di formazione della seconda metà del Settecento – Agathon di Wieland (1766), Anton Reiser di Karl Philipp Moritz, (1785-90), Wilhelm Meister di Goethe (1795-96), Franz Sternbald di Tieck (1798) – si basa in estrema sintesi sulla dicotomia ‘libertà-necessità’.

7 G. Manganelli, La letteratura come menzogna, Milano 1967, 2004, p. 176.

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Da un lato la hybris di chi crede di inventarsi un destino, dall’altra la ricostruzione ex

post della sua vita, talvolta nella finzione di una memoria autobiografica, che

dimostra come la libertà delle scelte compiute e l’apparente casualità degli eventi accaduti sia in realtà riconducibile a una ratio. Quanto sia affidabile questa chiave di lettura unitaria non è dato di saperlo ma certamente essa rappresenta un elemento d’ordine nel caos apparente della vita.

Emblematico di questo rovesciarsi del caso in necessità è quanto scrive Moritz introducendo la seconda parte del suo romanzo, che come sottotitolo recita “un romanzo psicologico”:

Chi rivisita attentamente il proprio passato, all’inizio spesso crede di non vedere altro che cose prive di senso, fili spezzati, confusione e tenebre… ma quanto più lo sguardo vi si sofferma, tanto più le tenebre si diradano, ciò che appariva privo di senso a poco a poco invece lo riacquista, i fili spezzati si riannodano nuovamente, ciò che era confuso e intricato si riordina (…) e la dissonanza, quasi inavvertitamente, si trasforma in melodiosa armonia.9

L’armonia di cui parla Moritz, quella che nasce dalla dissonanza, è il prodotto del legame necessario che unisce gli eventi, spesso di importanza minima, che accadono all’eroe protagonista dei romanzi di formazione. Qui si sarebbe indotti a cogliere echi leibniziani piuttosto evidenti: narrare una vita significa scoprire una trama di

connessioni invisibili che legano le vite dei singoli e le rapportano alla connessione universale che tiene unito in un disegno coerente e razionale l’intero universo. Eppure in Moritz, a dispetto di questa apparente cornice di sistemazione filosofica, prevale il fondamento aporetico che segna l’esperienza del mondo del suo

protagonista e l’incertezza che ne deriva. Se la socializzazione di Reiser fallisce e la malinconia prende il sopravvento sullo streben, sull’anima desiderante del suo protagonista e sulle sue proiezioni utopiche, ciò accade non perché lo ha preteso una

ratio superiore ma perché, con le parole di Moritz:

siamo per così dire collocati in un labirinto di cui non riusciamo a ritrovare il filo e che forse non dobbiamo nemmeno ritrovare: noi annodiamo pertanto il filo della storia, ove si dipanano i nostri ricordi e, nel momento in cui l’esistenza ci abbandona, ritorniamo a vivere in quella che ci ha preceduti. Non vi è stato ancora un Teseo che abbia ritrovato, attraverso la memoria del passato, l’uscita da questo intricato labirinto della vita… 10

Le due immagini care a Moritz sono quelle dell’oblio e del naufragio a cui siamo scampati per un attimo nascendo: “La nostra infanzia sarebbe allora il Lete da cui avremmo bevuto per non naufragare nel tutto che ci ha preceduti e che verrà dopo di noi e che ci consente di avere una personalità individuale e definita”.11

9 Karl Philipp Moritz, Anton Reiser. Ein psychologischer Roman (1785-90), Frankfurt am Main 1979, p. 107 (trad.it. mia).

10 In Gnothi Sauton oder Magazin zur Erfahrungsseelenkunde, IV, 3, pp. 2-3. Un’edizione anastatica della rivista di Moritz è uscita nel 1979 presso la casa editrice Antiqua Verlag, Lindau i. B. a cura di Anke Bennholdt-Thomsen e Alfredo Guzzoni.

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“Individuale e definita”. L’auspicio verso una demarcazione identitaria del nostro io è però palesemente smentito non solo dal corso della vita di Anton Reiser ma anche da quello di Wilhelm Meister e di una lunga galleria di eroi che animeranno la grande stagione dei romanzi ‘realisti’ dell’Ottocento (dove è bene utilizzare, come

suggerisce Nabokov, le virgolette scrivendo o pronunciando la parola ‘realismo’). Assai più spesso prevarrà l’indefinibilità della relazione tra soggetto e oggetto, la corrispondenza tra il profilo incerto e inattingibile del proprio io e l’enigmaticità labirintica del mondo.

Cito un passo dell’Anton Reiser in cui l’impotenza della ragione introspettiva fa tutt’uno con quella del fare, fino a spegnere nel protagonista ogni altro suo desiderio tranne quello del proprio annientamento. È il peso insopportabile della propria

esistenza, la fatica di identificare il proprio Sé da cui Anton desidera liberarsi: Una sera si trovò a vagare per strada triste e sconsolato; era l’ora del tramonto, ma non faceva ancora abbastanza buio per sottrarsi agli insopportabili sguardi della gente, giacché credeva di essere solo un oggetto di scherno e di disprezzo.

C’era un’aria umida e fredda, pioveva e nevicava allo stesso tempo – tutti i suoi vestiti erano fradici – improvvisamente ebbe come l’intuizione di non poter sfuggire a se stesso. Il peso gravava su di lui come il peso di una montagna- Reiser tentava tenacemente di risollevarsi, ma sembrava schiacciato dal masso della sua esistenza. Ogni giorno, tutti i giorni dover trovare al risveglio se stesso, con se stesso andare a dormire, e a ogni passo dover trascinare il proprio odiato Sé.

La sua autocoscienza, unita al sentimento d’essere spregevole e rifiutato, gli divenne altrettanto molesta del suo corpo, tormentato dall’umidità e dal freddo; e in quei frangenti si sarebbe spogliato volentieri del suo guscio mortale quanto dei suoi fradici vestiti – se da qualche cantuccio gli avesse arriso una gradita morte.

Dover essere immancabilmente se stesso, senza mai poter essere un altro; costretto e confinato nei propri limiti – lo portò man mano a un tale grado di disperazione da condurlo in riva al fiume che attraversava una parte della città, in un punto sprovvisto di qualsiasi parapetto.

Quivi rimase per una mezz’ora, lottando tra un terribile taedium vitae e l’istintiva, inspiegabile brama di continuare a respirare, finché stremato si accasciò su un tronco divelto che giaceva non lontano dalla riva.12

Tutto questo produce sofferenza ma stranamente anche voluttà e compiacimento. A tratti Anton Reiser, che vive una vita palesemente sdoppiata tra realtà e

immaginazione, tra malinconia ed esaltazione, tra desiderio di vivere e di morire, annega i suoi dubbi sulla vita e su se stesso nell’appagante indeterminazione del suo percorso e nella ricorsività dei suoi abbandoni sentimentali al teatro.

In conclusione, se prendiamo l’immagine del labirinto (citata poco fa) come figura dell’incertezza e della destabilizzazione identitaria dell’eroe protagonista, assistiamo a qualcosa che Walter Benjamin in un passo di “Parco centrale” ha descritto come antitetico all’ottimismo della ragione che governerebbe il romanzo di formazione:

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Il labirinto è la patria dell’esitazione. La via di chi teme di arrivare alla meta traccerà, facilmente, un labirinto. Così fa l’istinto negli episodi che precedono la sua soddisfazione. Ma così fa anche l’umanità (la classe) che non vuol sapere dove va a finire.13

Il lessico aporetico che si evidenzia a uno sguardo ravvicinato sul romanzo di

formazione, ossia sul primo tentativo di analisi narrativa della soggettività moderna osservata dalla specola del suo divenire, vede stagliarsi coppie di contrari come oblio e memoria, ordine e caos, ragione e malinconia.

Il dominio del mondo si alterna alla paura del mondo, il desiderio di parvenir di Eugène de Rastignac al cupio dissolvi di Anton Reiser, quello che si attiva quando Anton sta per cedere alla tentazione di gettarsi nel fiume per sciogliere la sofferenza del proprio io nell’irenica dispersione della condizione primordiale. E sottrarsi così al peso insostenibile della sua individuazione, cioè del suo essere nel mondo con se stesso e con gli altri.

Le sagome contraddittorie di questi primi eroi narrativi della precarietà umana hanno in comune la condizione di Don Quijote, quella di vittime del disincantamento del mondo, che è in definitiva la perdita dell’incanto della lontananza: le loro incertezze sono il frutto di progetti di senso conflittuali, che l’imprevedibilità del destino si incaricherà di banalizzare. Particolarmente significativa è da questo punto di vista la banalità dell’happy end matrimoniale con cui si chiude il Meister goethiano.

Una volta compiuta la loro storia, resta al lettore il sospetto che quella fine si possa fissare per sempre nella rigidità dell’allegoria benjaminiana che “immobilizza i sogni” e irrigidisce l’inquietudine, consegnandosi alla memoria dei posteri come un’icona ormai fossilizzata.

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