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Andrea Panaccione, Il 1956. Un svolta nella storia del secolo

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Andrea Panaccione, Il 1956. Una svolta nella storia del secolo, Unicopli, Milano 2006, pp. 162, euro 11

L'agile volumetto (di cui si suggerisce la lettura insieme al n. 54 della rivista "Giano", dedicato sempre alla "svolta" del 1956, con interventi di Agosti, Bongiovanni, Cortesi, Masi e dello stesso Panaccione) fa parte della collana "Questioni di storia contemporanea" e rappresenta un riuscito tentativo, grazie anche alla vasta conoscenza, da parte dell'autore, della storiografia russa e internazionale più aggiornata e all'ampia appendice documentaria, di approfondire uno dei nodi centrali della storia contemporanea, quello legato agli avvenimenti del '56, nell'Est europeo e nel Medio Oriente. In realtà, nella sua introduzione, Panaccione prende l'avvio dalla morte di Stalin ritenuto "il primo anello di una catena estremamente condensata di eventi" (p. 9) che porterà, dopo l'eliminazione di Berija, alla formazione di un nuovo gruppo dirigente del PCUS, guidato da Nikita Chruscev, con tutti i conseguenti contraccolpi sui partiti dei paesi appartenenti al blocco sovietico (con la particolarità del caso cinese). La strategia del nuovo segretario (basata su una cauta destalinizzazione e un nuovo stile di direzione politica) si mostrerà in tutta la sua evidenza al XX congresso e soprattutto con il "rapporto segreto", il cui scopo, a livello internazionale, consisteva soprattutto nel miglioramento dei rapporti con la Jugoslavia di Tito (il 17 aprile venne sciolto il Cominform). Il quadro descritto da Panaccione, nel prosieguo degli avvenimenti, è sicuramente complesso, ma l'autore abbraccia esplicitamente la tesi del carattere "rivoluzionario" dei fatti di Ungheria: "Che si debba parlare di una rivoluzione mi sembra giustificato prima di tutto dall'esistenza di un grande movimento di massa per l'abbattimento del regime esistente, indipendentemente dalla diversità delle forze che vi partecipano e delle finalità che perseguono" (p. 24), negando parimenti l'ipotesi di un ritorno controrivoluzionario a prima del 1945. Panaccione riprende quindi, anche nel titolo, la tesi di una "svolta" avvenuta nel '56 (anche se, oggettivamente, chi avesse voluto sapere quale fosse la natura reale del sistema di potere sovietico aveva già da tempo una serie di letture a sua disposizione): "credo che si possa dire che il '56 è per le sinistre del mondo la fine del mito dell'Urss, che da allora diventa semplicemente una realtà o una presenza della quale naturalmente si deve tenere conto" (p. 34), anche se l'autore ritiene che non possa essere ritenuto "la prefigurazione di una catastrofe inevitabile" (p. 35), per la differenza del contesto storico e della situazione sociale, ancora animata, rispetto all'89 (ma forse anche al '68...), da idee e propositi di riforma del sistema. Va inoltre sottolineata la dimensione globale di questa vicenda, che vede aprirsi, negli stessi giorni dell'Ungheria, un altro scenario per certi versi più importante, quello del Medio oriente, con il fallimento dell'impresa anglo-francese a Suez (che, tra l'altro, contribuì, oltre che ad accellerare il processo di decolonizzazione, alla decisione sovietica del secondo intervento a Budapest, fornendo il pretesto per il tentativo di giustificarlo), segno inequivocabile della fine delle velleità del colonialismo europeo e dell'affermazione, nelle relazioni internazionali, del bipolarismo. Un bilancio quindi complesso, ma restano, anche nel confronto con l'analisi di Panaccione, le parole scritte a ridosso dei fatti, da Antonio Giolitti: "Le rivelazioni scaturite dal XX congresso del PCUS e dai fatti di Polonia e di Ungheria stanno a dimostrare che non solo la via italiana al socialismo può essere diversa da quella percorsa dall'Unione Sovietica e dalle democrazie popopolari, ma soprattutto che essa non può non essere diversa. Gli errori da evitare non sono accessori, ma essenziali; vietano, per non essere ripetuti, di percorrere la stessa strada. E sia detto suibito, senza la minima esitazione o reticenza - proprio per tagliare tutti i ponti e le vie traverse che a quella strada potrebbero inevitabilmente condurre - che si tratta non solo di errori ma di delitti. Quelli che commette l'imperialismo, quando massacra in Algeria e in Malesia, nel Guatemala e in Corea, nel Kenya e in Indocina, ci ripugnano ma non suscitano in noi lo stesso genere d'indignazione: l'imperialismo fa il suo mestiere, lo sappiamo e perciò lo combattiamo. Ma se si macchiano degli stessi orrori le forze che portano il socialismo, allora non sono soltanto offese la civiltà e l'umanità, ma sono dilaniate le nostre speranze, calpestate le nostre convinzioni, sporcati i nostri ideali". (Riforme e rivoluzione, Einaudi, Torino 1957, pp. 48-9)

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