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Ripresa economica, conflitti sociali e tensioni geopolitiche in Asia

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Academic year: 2021

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21 July 2021 Original Citation:

Ripresa economica, conflitti sociali e tensioni geopolitiche in Asia

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Odoya - I libri di Emil

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«ASIA MAIOR» desidera ringraziare la Biblioteca Enrica Collotti Pischel e il Centro Studi Vietnamiti di Torino e, in particolare, la sua direttrice, Sandra Scagliotti, per il prezioso supporto offerto alle attività dell’associazione.

Coloro che apprezzano questo volume possono contribuire a rendere possibile, se lo ritengono opportuno, la continuazione dell’attività di Asia Maior e la pubbli-cazione dei futuri volumi annuali attraverso il 5x1000. È sufficiente, al momen-to della compilazione della dichiarazione dei redditi (CUD, Mod. 739, Mod. 749, Mod. I Mod. UNICO), apporre la propria firma nel riquadro dedicato “al sostegno del volontariato delle organizzazioni non lucrative di utilità sociali, del-le associazioni e fondazioni”, indicando come beneficiaria l’associazione «Asia Maior» e, nello spazio sottostante la firma, indicando il Codice Fiscale 97439200581.

Grazie.

© 2011 Casa Editrice Emil di Odoya srl Tutti i diritti riservati

ISBN 978-88-96026-61-8 Progetto grafico di Nicola Mocci

I libri di Emil

Via Benedetto Marcello 7 – 40141 - Bologna www.odoya.it

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Asia Maior

Osservatorio italiano sull’Asia

2010

Ripresa economica,

conflitti sociali

e tensioni geopolitiche

in Asia

a cura di

Michelguglielmo Torri

e Nicola Mocci

(4)
(5)
(6)

11 «ASIA MAIOR»

13 PREMESSA I: I PRIMI VENT’ANNI DI «ASIA MAIOR»: L’EREDITÀ PO

-LITICO-CULTURALE DI GIORGIO BORSA

di Michelguglielmo Torri

27 PREMESSA II: RIPRESA ECONOMICA, CONFLITTI SOCIALI E TEN

-SIONI GEOPOLITICHE IN ASIA

di Nicola Mocci

1. La ripresa economica in Asia nel 2010 p. 27; 2. I conflitti sociali e il lavoro p. 30; 3. Il ritorno degli USA in Asia Orientale e l’inasprirsi delle tensioni con la Cina p. 37.

45 IRAN: REPRESSIONE, SANZIONI E STALLO SUL NUCLEARE

di Riccardo Redaelli

1. Il pugno di ferro e la fine delle proteste p. 45; 2. La sorpresa dell’accordo sullo scambio di uranio arricchito con Turchia e Brasile e le nuove sanzioni ONU p. 46; 3. «L’affaire Sakineh» e il crescente isolamento nazionale p. 49; 4. Gli effetti paradossali della crisi eco-nomica e delle sanzioni internazionali p. 50; 5. Il brusco allontana-mento del ministro degli Esteri Manouchehr Mottaki p. 53.

57 UN PAESE FORTEMENTE EUROASIATICO: IL KAZAKISTAN DI N UR-SULTAN NAZARBAYEV

di Giuseppe Sacco

1. Premessa p. 57; 2. Una natura più forte dell’uomo p. 58; 3. La debolezza dell’individuo p. 60; 4. Il melting pot dell’homo sovieticus p. 65; 5. Dopo l’URSS p. 66; 6. Nazarbayev: una carriera fondata sul merito p. 67; 7. La quarta potenza nucleare mondiale p. 69; 8. Vent’anni di costruzione nazionale p. 71; 9. Un’economia di successo p. 73; 10. Gli sradicati p. 75; 11. L’evoluzione istituzionale del Ka-zakistan indipendente p. 78; 12. La questione della cultura naziona-le p. 82.

87 IL KIRGHIZISTAN TRA CRISI DELLO STATO E NORMALIZZAZIONE DELLA VIOLENZA

di Matteo Fumagalli

1. Introduzione p. 87; 2. Da un pluralismo inatteso a una involu-zione autoritaria: i regimi di Akaev (1990-2005) e Bakiev (2005-2010) p. 88; 3. Dalla «rivoluzione dei tulipani» alla fine ingloriosa del regime di Bakiev. La crisi di aprile p. 91; 3.1 La questione etnica nel Kirghizistan Meridionale. La crisi di giugno p. 92; 4. Alla ricer-ca di una nuova legittimità: dal referendum costituzionale alle ele-zioni parlamentari p. 93; 5. Le crisi del 2010 e la stabilità in Asia

(7)

Centrale p. 94; 5.1 Il ruolo dell’Uzbekistan durante il conflitto del giugno 2010 p. 94; 6 «La politica delle basi»: il Kirghizistan nel contesto delle strategie di Russia e Stati Uniti p. 95; 6.1. Gli Stati Uniti e l’ossessione per Manas p. 96; 6.2. La presenza e gli interessi russi in Kirghizistan p. 97; 7. Conclusione p. 99.

101 L’AFGHANISTAN: LA NUOVA IMPASSE ELETTORALE E I TENTATIVI DI RICONCILIAZIONE NAZIONALE

di Diego Abenante

1. Introduzione p. 101; 2. Le elezioni parlamentari p. 102; 3. La campagna elettorale e il ruolo dei partiti p. 104; 4. L’esito delle ele-zioni p. 106; 4.1. Il «rebus» di Ghazni p. 108; 5. La «Policy Re-view» di Obama p. 110; 6. La riconciliazione nazionale p. 111; 7. La situazione economica p. 114.

119 PAKISTAN: UN ANNO NERO PER ZARDARI

di Marco Corsi

1. Premessa p. 119; 2. Il «diciottesimo emendamento» p. 120; 3. L’alluvione e le sue conseguenze p. 121; 4. La militanza nel Nord-ovest p. 123; 5. I disordini di Karachi p. 125; 6. Rapporti tra Paki-stan e Stati Uniti p. 126; 7. Rapporti tra Pakistan e India p. 127; 8. Economia p. 128.

131 RIPRESA ECONOMICA, CONFLITTI SOCIALI E SCANDALI POLITICI IN

INDIA

di Michelguglielmo Torri

1. Premessa p. 131; 2. La ripresa economica p. 132; 3. I limiti della ripresa economica p. 135; 4. Le ragioni della ripresa economica p. 136; 5. La legge di bilancio 2010-11 p. 137; 6. Il permanere della crisi agraria p. 140; 7. L’insorgenza naxalita: dalla guerra di guer-riglia alla guerra mobile p. 141; 8. Perché lo stato indiano non sta vincendo la guerra contro i naxaliti p. 142; 9. Chi aiuta i naxaliti? p. 145; 10. Come sconfiggere i naxaliti? Il dibattito all’interno del Congresso p. 146; 11. «L’anno di tutte le frodi» p. 150; 12. I Giochi del Commonwealth p. 151; 13. Lo scandalo della svendita delle ban-de elettromagnetiche 2G p. 153; 14. Conclusione p. 156.

161 NEPAL, LA DIFFICILE COSTRUZIONE DELLA NAZIONE: UN PAESE SENZA COSTITUZIONE E UN PARLAMENTO SENZA PRIMO MINISTRO

di Enrica Garzilli

1. Premessa p. 161; 2. Il dibattito sulla nuova costituzione p. 161; 3. L’inclusione dei gruppi marginalizzati nel processo costituzionale p. 162; 4. L’inclusione dei gruppi marginalizzati nel processo costitu-zionale p. 164; 5. Punti di disaccordo: la promulgazione della bozza viene rimandata p. 165; 6. La lotta per il potere e il governo provvi-sorio: senza un primo ministro p. 166; 7. Un paese sempre più

(8)

po-vero p. 168; 8. La supremazia civile, le accuse di corruzione, il caos e le nostalgie monarchiche p. 168.

171 SRI LANKA 2010: L’ANNO DEL PRESIDENTE

di Marzia Casolari

1. Premessa p. 171; 2. Il presidente e il generale: la fine di un idillio p. 172; 3. Le elezioni presidenziali del 26 gennaio 2010 p. 174; 4. La resa dei conti p. 176; 5. Crimini di guerra e diritti umani violati p. 179; 6. Autoritarismo e crisi dello stato di diritto p. 181; 7. Un bilancio, a distanza di un anno p. 184.

187 MYANMAR: SPIRAGLI DI DEMOCRAZIA? di Piergiorgio Pescali

1. Introduzione: un percorso lungo e tortuoso p. 187; 2. Primi se-gnali di apertura p. 188; 3. Il programma nucleare del Myanmar p. 189; 4. Le Guardie di Frontiera Armate e il conflitto del Kokang p. 190; 5. Gli interessi economici cinesi e indiani in Myanmar p. 191; 6. Le sanzioni economiche p. 192; 7. Verso le elezioni: la costituzione contestata p. 193; 8. Le elezioni del 7 novembre 2010 p. 194; 9. La liberazione di Aung San Suu Kyi p. 196; 10. I conflitti etnici chiave della democratizzazione p. 197.

203 LA CRISI POLITICA IN THAILANDIA

di Monica Ceccarelli

1. Introduzione p. 203; 2. Proteste di piazza, violenze e repressione p. 204; 3. La monarchia e la successione: dal sovrano divinizzato al principe demonizzato p. 209; 4. Il troppo debole governo di Abhisit p. 211; 5. Situazione economica p. 211; 6. Diritti umani p. 212; 7. Relazioni internazionali p. 214.

217 LA MALAYSIA FRA CRISI ECONOMICA GLOBALE E TRANSIZIONE PO-LITICA INTERNA

di Claudio Landi

1. Introduzione p. 217; 2. La Malaysia nella crisi economica globale p. 218; 3. Le tensioni ‘religiose’ e le manovre politiche p. 221; 4. L’UMNO in ripresa tra processo Anwar ed elezione a Selangor p. 224; 5. La biografia contestata p. 227; 6. L’UMNO alle prese con il Rajah bianco di Sarawak p. 228; 7. Il fronte del porto ed altri scan-dali p. 230; 8. Ombre e luci sui diritti civili in Malaysia p. 232; 9. La Malaysia difficile p. 234.

239 SINGAPORE: SUCCESSI ECONOMICI E AUTORITARISMO

di Nicola Mocci

1. Introduzione p. 239; 2. L’economia e la finanza prima di tutto: elenco dei record p. 240; 3. Le questioni interne p. 242; 4. Lavoro,

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immigrazione e questione razziale p. 245; 5. Questioni regionali e internazionali p. 247.

253 INDONESIA: IN BILICO FRA ASPIRAZIONI INTERNAZIONALI E L’EREDITÀ DI SUHARTO

di Massimo Riva

1. Il nuovo mandato di Susilo Bambang Yudhoyono p. 253; 2. Il ca-so della Bank Century, la delegittimazione del KPK e altri scandali p. 254; 3. La crescita della violenza nel corso delle elezioni locali p. 256; 4. Il varo del bilancio per il 2011 e la situazione economica complessiva p. 257; 5. Tensioni in Papua Occidentale p. 259; 6. Disastri naturali e il loro contraccolpo p. 261; 7. Passi avanti, passi indietro p. 262.

265 COSA RESTA A TIMOR EST? di Marco Vallino

1. Premessa p. 265; 2. Il governo dell’AMP p. 265; 3. Il Caso Rei-nado p. 266; 4. La politica estera dell’AMP p. 269; 5. Conclusioni p. 273.

277 L’ELEZIONE DI BENIGNO AQUINO ALLA PRESIDENZA DELLE FI

-LIPPINE: FINALMENTE UNA SVOLTA? di Giorgio Vizioli

1. Introduzione p. 277; 2. L’elezione di Noynoy p. 278; 3. Nascita di una dinastia (liberale)? p. 279; 4. Sangue sul voto p. 280; 5. La corruzione, prima piaga delle Filippine p. 281; 6. Difficili rapporti tra il governo e la Chiesa p. 282; 7. La lotta alla povertà p. 284; 8. L’annosa questione musulmana p. 285; 9. La politica estera p. 287. 289 CINA: LAVORO AL CENTRO

di Francesca Congiu

1. Tra conflitto sociale e conflitti geopolitici p. 289; 2. Stato, lavoro e capitale. Il diritto di sciopero e il ruolo del sindacato: forme di rap-presentanza in transizione p. 291; 2.1. Attori e luoghi della mobili-tazione: i lavoratori migranti nel Guangdong p. 296; 2.2 Il movi-mento operaio, le aziende e le istituzioni locali p. 299; 3. Crescita stabile e «inclusiva»: verso il 12° piano quinquennale (2011-2015) p. 303; 4. Hong Kong e Taiwan: nuove politiche laburiste p. 306; 5. Conflitti geopolitici p. 308; 5.1 Rivalità globali p. 308; 5.2 Ri-valità geopolitiche in Asia Orientale e Sud-orientale p. 310; 5.3 Ri-valità economico-finanziarie: la guerra delle valute p. 313.

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319 LA PENISOLA COREANA TRA QUESTIONE SUCCESSORIA E RISCHIO DI UNA NUOVA GUERRA

di Barbara Onnis

1. Introduzione p. 319; 2. Il mistero della successione «svelato» p. 321; 2.1 Le tappe del passaggio di consegne p. 321; 2.2 I «fre-quenti» viaggi di Kim Jong-il in Cina p. 325; 2.3 La scelta di Kim Jong-un e le reazioni dei familiari p. 327; 2.4 Kim Jong-un: un nuovo Deng o un vecchio Kim? p. 328; 3. Le due Coree tra tensione e timidi tentativi di riappacificazione p. 329; 3.1 Il 2010 tra retori-ca altisonante e il rischio di una nuova guerra p. 329; 3.2 Le «ra-gioni» di Pyongyang p. 335; 3.3 Il «ritorno» degli Stati Uniti in A-sia Nord-orientale p. 338; 3.4 Il discredito di Pechino p. 339; 3.4. La mano «tesa» di Lee Myung-bak p. 341.

347 GIAPPONE: IL DECLINO DEL GIGANTE? di Marco Del Bene

1. Il sorpasso cinese: Japan as number three? p. 347; 2. Le dimissioni di Hatoyamap. 348; 3. L’empasse politico-istituzionalep. 350; 4. Lo stallo dell’economiap. 355; 5. Una diplomazia sospesa fra Cina e Stati Unitip. 358; 6. Le tendenze sociali e culturalip. 362.

365 INDICE DEI NOMI

371 «ASIA MAIOR» E I VOLUMI DA ESSA PUBBLICATI

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«ASIA MAIOR» è un osservatorio sull’Asia ideato nel 1989 da Giorgio Borsa e da allora attivo come associazione informale. Nell’ottobre 2006, «Asia Maior» si è costituita come associazione senza scopo di lucro. La sua attuale sede è a Torino, via Campana 24.

Il direttivo di «Asia Maior» Marzia Casolari (presidente),

Enrica Garzilli (segretario), Nicola Mocci (vice presidente),

Riccardo Redaelli,

Michelguglielmo Torri (responsabile scientifico).

Il Comitato scientifico di «Asia Maior» Guido Abbattista (Università di Trieste), Domenico Amirante (Università «Federico II», Napoli),

Elisabetta Basile (Università «La Sapienza», Roma), Luigi Bonanate (Università di Torino), Claudio Cecchi (Università «La Sapienza», Roma),

Alessandro Colombo (Università di Milano), Thierry Di Costanzo (Université de Strasbourg),

Max Guderzo (Università di Firenze), Franco Mazzei (Università «L’Orientale», Napoli),

Paolo Puddinu (Università di Sassari), Filippo Sabetti (McGill University, Montréal),

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I PRIMI VENT’ANNI DI «ASIA MAIOR»:

L’EREDITÀ POLITICO-CULTURALE DI GIORGIO BORSA

di Michelguglielmo Torri

Il presente volume di «Asia Maior» è il ventesimo della serie ori-ginariamente ideata e voluta da Giorgio Borsa. Non parrà quindi fuori luogo se, quest’anno, il volume stesso si apre con questa pre-messa dedicata al passato di «Asia Maior» e, quindi, implicitamente, anche al suo futuro. Il modo migliore per farlo è, credo, quello di i-niziare soffermandomi sul suo ideatore e fondatore, Giorgio Borsa. «Asia Maior», infatti, è figlia delle sue idee e dei suoi ideali. Non so-lo; per quanto Giorgio Borsa sia scomparso nel 2002, e nonostante che, da parte di alcuni temporanei collaboratori del gruppo, vi siano stati tentativi di proporre nuove formule e obiettivi differenti da quelli voluti dal suo fondatore, «Asia Maior» ha continuato a muo-versi lungo il solco da lui tracciato. Ma, di questo, diremo più avanti.

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Giorgio Borsa concepì l’idea di fondare «Asia Maior» in con-comitanza con quel séguito d’eventi che, il 9 novembre 1989, sfociò nella caduta del muro di Berlino, cioè nell’avvenimento che prean-nunciò, anche se pochi allora se ne resero conto, il prossimo collasso della stessa Unione Sovietica. Borsa, a differenza dei tradizionali o-rientalisti, non considerava le civiltà asiatiche come aree separate dall’Occidente, che obbedivano a modalità di sviluppo storico a loro peculiari e, in ogni caso, profondamente diverse da quelle che in-formano lo sviluppo della civiltà occidentale. Egli era invece con-vinto - decenni prima che il termine «globalizzazione» fosse inven-tato - che sia le civiltà asiatiche sia la civiltà occidentale fossero parte di un unico insieme politico, economico e culturale; a suo modo di vedere, quindi, sia le une sia l’altra erano attraversate dagli stessi processi di mutamento e di trasformazione; di conseguenza, le ci-viltà asiatiche andavano studiate utilizzando le stesse metodologie che si impiegavano per la civiltà occidentale. In altre parole, Borsa

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era convinto dell’esistenza di profonde, e reciproche, interconnes-sioni fra Occidente e civiltà asiatiche, in particolare a partire dal pe-riodo che aveva visto la nascita del «mondo moderno». Questo era da lui definito come il mondo nato dalla rivoluzione industriale e ca-ratterizzato dalle conseguenze di tale rivoluzione, non solo a livello economico, ma anche politico, militare e culturale.1

Coerentemente con questa sua visione, Borsa si rese immediata-mente conto che gli epocali sviluppi che si stavano verificando in Europa non potevano non avere una ricaduta sull’Asia. Secondo la sua teoria, la modernizzazione in Asia si era storicamente verificata non per un’imposizione dall’alto (per un «travaso» di civiltà, quasi che la civiltà fosse un liquido, come Borsa amava puntualizzare iro-nicamente2

), ma attraverso l’attiva risposta delle diverse civiltà asiati-che all’impatto occidentale. Coerentemente con questa sua visione, Borsa ipotizzò che le ricadute in Asia degli eventi in Europa non sa-rebbero state un’accettazione passiva da parte delle nazioni asiatiche degli sviluppi verificatisi in Occidente, ma una risposta attiva, che avrebbe comportato una rilettura e una rielaborazione di quegli svi-luppi, cioè la formulazione di una risposta - che, a seconda dei casi, sarebbe stata peculiarmente cinese, giapponese, indiana ecc. - agli eventi dell’89 e ai problemi di cui essi erano causa ed effetto allo stesso tempo. Da studioso empirico qual era, Borsa decise allora di creare un osservatorio sull’Asia, con il compito specifico di analiz-zare il concreto dispiegarsi delle vicende politiche ed economiche nelle nazioni asiatiche, sia nelle loro dinamiche sia alla luce e come conseguenza degli eventi in Europa. Questo osservatorio venne bat-tezzato da Borsa «Asia Maior», con un preciso riferimento geografico e culturale a quella parte dell’Asia che esisteva al di là dell’«Asia Mi-nor» degli antichi.

Concretamente, il principale compito dell’osservatorio ideato da Borsa doveva essere quello di produrre, con scadenza annuale, un volume collettaneo, composto di saggi dedicati alle singole nazioni asiatiche, le più importanti analizzate appunto con scadenza an-nuale, quelle meno rilevanti con minor frequenza, quando gli svi-luppi politici ed economici lo avessero giustificato. Tali saggi, inol-tre, non avrebbero dovuto essere semplici, per quanto diligenti, cro-nache, che ricostruissero puntualmente gli accadimenti di quel sin-golo paese nel periodo in esame. Il metodo che si sarebbe dovuto usare sarebbe invece stato quello tipico dello storico, anche se appli-cato al tempo presente e a periodi in genere di un anno; tale me-todo, cioè, si sarebbe basato sull’individuazione per ciascun paese, nel periodo in esame, dell’evento o degli eventi più rilevanti e, quindi, tali da caratterizzare quel periodo, per poi procedere a fis-sare le differenti catene d’eventi che, intersecandosi a quel determi-nato punto, producevano l’evento o gli eventi individuati come ca-ratterizzanti.3

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Non sempre, ovviamente, i collaboratori di «Asia Maior» sono stati in grado di applicare nella prassi le indicazioni appena ricor-date, né, del resto, tutti i collaboratori di «Asia Maior» sono stati de-gli storici di professione. Tuttavia, le direttive metodologiche fissate da Borsa sono state applicate - e non solo dagli storici che hanno fat-to parte dell’impresa, ma anche da studiosi di diversa formazione - abbastanza spesso e con sufficiente correttezza da dare ai volumi fin qui prodotti la caratteristica di fondo che li contraddistingue: quella di essere formati da scritti che, quasi sempre, si sforzano di analizza-re il panalizza-resente come storia. Si tratta di un metodo che, attraverso l’individuazione dei fatti rilevanti e dell’intersecarsi delle catene di avvenimenti che li hanno prodotti, è in grado di dare un’immagine non transitoria del presente. La controprova del successo di tale me-todo è il fatto che, volgendo lo sguardo all’indietro, cioè agli oltre vent’anni in cui sono comparsi i saggi di «Asia Maior», la lettura di quanto si è scritto rivela come la maggior parte delle analisi elabora-te dal gruppo sia formata da scritti che non rivelano - o rivelano solo in modo decisamente marginale - l’usura del tempo. In altre parole - e con alcune inevitabili eccezioni - la capacità euristica di saggi scritti dieci, quindici o vent’anni fa rimane sostanzialmente immutata. E, se anche - per volontà dello stesso Borsa - parte integrante della filoso-fia di «Asia Maior» è quella di non fare previsioni sul futuro, molti dei singoli saggi pubblicati nei passati vent’anni circa rivelano, a li-vello implicito, la capacità di prefigurare quello che sarebbe successo dopo.

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Se quello appena ricordato per sommi capi è stato il bagaglio metodologico di «Asia Maior», è bene però sottolineare che esso, di per sé, sarebbe una sorta di scatola vuota se fosse disgiunto dal ba-gaglio filosofico e politico, parte integrante della vicenda culturale di cui il presente volume è espressione. E, anche qui, la personalità culturale e politica di Giorgio Borsa ha un ruolo assolutamente de-terminante, su cui è necessario soffermarsi. Per farlo è bene ricor-dare quali siano state le origini culturali e politiche di Giorgio Borsa, non solo perché, come si è appena ricordato, esse hanno condizio-nato in maniera decisiva l’intera impresa di «Asia Maior» (e, più in generale, tutta l’attività scientifica di Borsa), ma anche perché quello che fino a qui si sapeva sul retroterra politico e culturale di Borsa è, nel complesso, abbastanza poco. E, vale subito la pena di ricordare, è un fatto che rivela allo stesso tempo l’importanza culturale di Bor-sa e, ahimè, la povertà dell’Orientalismo italiano (ma su questo tor-neremo), che tali radici culturali siano state riscoperte, di fatto per caso, da un eminente storico dell’Italia contemporanea, Pier Giorgio

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Zunino, nel corso di una ricerca che, come diremo fra poco, nulla aveva a che vedere con il mondo dell’Orientalismo italiano.

È cosa nota che Giorgio Borsa (Milano 1912 - Milano 2002) fos-se figlio di Mario Borsa, un noto giornalista di idee antifasciste e, dopo il crollo del Fascismo, un critico non compiacente delle pro-fonde e ramificate complicità presenti nella società italiana nei con-fronti del Fascismo.4

Era quindi in una famiglia antifascista da sem-pre che il giovane Giorgio venne a formarsi culturalmente e politi-camente; e questa sua formazione originaria lo indirizzò sia nella scelta degli studi universitari, sia nelle frequentazioni culturali di quel periodo. Borsa si laureò una prima volta, nel 1933, in giuri-sprudenza a Milano, con una tesi intitolata La cessazione dei mandati internazionali; si trattava di un tema che non solo denotava l’interesse già presente per tematiche extraeuropee, ma che, come notato da Pier Giorgio Zunino, era «di non modesta attualità politica nell’Italia del tempo»5

. Due anni dopo, sempre presso l’Università di Milano, Giorgio si laureava una seconda volta, in filosofia, con una tesi su Il fondamento morale e religioso della azione di Gandhi.6

Lo stesso Borsa ha spiegato le origini del suo interesse per Gan-dhi, sia in conversazioni personali con i suoi discepoli, sia nell’introduzione all’edizione del 1983 della sua biografia del Ma-hatma. «Erano - anche quelli - ‘anni di piombo’.» scriveva Borsa, pa-ragonando gli anni del terrorismo brigatista agli anni Trenta. «La maggioranza degli italiani era in preda alla retorica fascista o badava al suo particulare. Noi eravamo un piccolo gruppo di studenti uni-versitari collegati con ‘Giustizia e Libertà’ e ci sforzavamo, con po-chissimo successo, di promuovere una qualche manifestazione di pubblico dissenso, come quando cercammo (finendo subito a San Vittore) di trascinare il loggione della Scala in una dimostrazione a favore di Arturo Toscanini, che era poco prima stato bastonato dai fascisti per non aver voluto dirigere Giovinezza ad un concerto. La gente non ne voleva sapere; e proprio in quegli anni, Gandhi era riuscito a indurre più di cinquantamila persone a farsi volontaria-mente incarcerare violando, con un gesto simbolico, la legge britan-nica sul monopolio del sale.» «Da dove traeva questo piccolo uomo così fragile ed indifeso, sgangherato nell’aspetto, tanta forza morale e tanta capacità di suggestione e di persuasione? - si chiedeva Borsa. E continuava dicendo - È così che incominciai a interessarmi a lui e, per rispondere a questa domanda, alla vigilia del conflitto, scrissi la sua biografia.»7

È indubitabile, quindi, che gli interessi culturali di Borsa fossero solidamente basati sulle sue idee politiche. Tali idee, però, non deri-vavano originariamente e solo dall’esempio gandhiano, ma, come si è già detto, dall’ambiente familiare e, come lo stesso Borsa ricorda nel brano appena citato, dalle frequentazioni dei circoli antifascisti

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milanesi. Fu in questo ambito che Giorgio Borsa incontrò, per ve-nirne poi profondamente influenzato, il filosofo Piero Martinetti.

Un nome ormai dimenticato dai più, quello di Piero Martinetti (1872-1943) merita di essere ricuperato dall’oblio, per il semplice fatto che egli fu uno dei 12 professori universitari italiani che, nel 1931, rifiutò il giuramento di fedeltà al Fascismo, perdendo di con-seguenza il proprio posto di lavoro.8

Borsa, sempre avaro di notizie sulla sua vita personale, non ricordò mai, almeno a chi scrive (che, tuttavia, lo frequentò assiduamente lungo un arco temporale di circa trent’anni), il suo sodalizio con Martinetti. È tuttavia chiaro che - come puntualizzato da Pier Giorgio Zunino - questo sodalizio vi fu e fu importante. Esso è attestato soprattutto da due tracce. La prima si trova nel primo libro di Borsa, quel Gandhi e il risorgimento indiano, che nacque dalla rielaborazione della sua seconda tesi di laurea.9 Qui, la conclusione del libro si soffermava sulla filosofia politica di Gandhi e si chiudeva riproponendo il giudizio di Martinetti su Gan-dhi, tratto da una raccolta di scritti del filosofo, pubblicata nel 1926. 10

Che la frequentazione di Martinetti da parte di Borsa non fosse episodica, risulta ancora più chiaramente dal fatto che, nel 1951, a pochi anni dalla morte di Martinetti, Borsa ne curasse una nuova raccolta di scritti, in parte inediti, a cui premetteva una corposa in-troduzione.11

È in questa introduzione che compaiono sia l’unico frammento salvatosi dell’ultima lettera nota di Pietro Martinetti («Io sono sempre stato un filosofo inattuale»12

), sia una sintetica indica-zione di quale fosse stato il ruolo intellettuale di Martinetti ancora nell’ultima parte della sua vita, quando era stato allontanato dall’insegnamento universitario a causa del suo mancato giuramento di fedeltà al Fascismo. «Negli ultimi anni - scrive Borsa a proposito di Martinetti - ormai lontano ed estraneo al mondo accademico, riunì idealmente intorno a sé una comunità di amici devoti, quasi un collegium di discepoli con cui continuava, soprattutto per lettera, i di-scorsi interrotti dalla cattedra».13

Si trattava di un collegium di disce-poli di cui - come evidenziato dalle ricerche di Pier Giorgio Zunino - facevano parte nomi illustri dell’intellettualità italiana, da Gioele So-lari a Norberto Bobbio. E, anche, di un circolo di persone con ben precise connotazioni politiche, se è vero, come ricordato da Diego Fusaro, che Martinetti finì in carcere dal 15 al 20 maggio 1935 «per la sua sospetta corrispondenza con intellettuali invisi al regime, in particolare con alcuni esponenti del movimento clandestino ‘Giusti-zia e Libertà’ di cui naturalmente non fece mai parte».14

A questo collegium di amici e di discepoli di Martinetti apparte-neva, evidentemente, Borsa, com’è chiaro dal fatto che, come ricor-dato dallo stesso Borsa, i due fossero legati da una corrispondenza epistolare. Si può ipotizzare che la frequentazione del filosofo abbia avuto un ruolo nell’indirizzare Borsa definitivamente verso lo studio delle civiltà extra europee. Infatti, vi era un chiaro interesse da parte

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di Martinetti per la filosofia indiana, tanto che la sua prima opera fi-losofica, pubblicata nel 1897 e frutto della rielaborazione della tesi di laurea (conseguita a Torino nel 1893), era una monografia su un sistema filosofico indiano, il Sāṃkhya15; inoltre, i riferimenti alla

filo-sofia indiana, parte del bagaglio filosofico di Martinetti, e presenti negli scritti del filosofo, erano noti a Borsa (che li cita, ad es., nella sua introduzione agli scritti di Martinetti16

). Ma, ad avere un ruolo più importante nella formazione intellettuale di Borsa, più che le suggestioni degli studi sulla filosofia indiana fu, indubbiamente, il fatto che Martinetti fosse «una singolare figura di intellettuale ‘laico’, distante tanto dalla filosofia accademica ufficiale, l’attualismo di Giovanni Gentile, quanto dalla caleidoscopica mappa politico-reli-giosa imperante, ovvero la chiesa cattolica da una parte, i neonati fa-scisti e le opposizioni socialiste e comuniste dall’altra.» Un intel-lettuale, insomma, che «non si preoccupa[va] di apparire favorevole all’uno o all’altro schieramento in campo.»17

È questo un giudizio che si può riproporre, mutatis mutandis, a proposito dello stesso Borsa. Borsa era, infatti, un laico, un antifasci-sta, un progressista e una persona che si tenne lontana sia dalle po-sizioni dei cattolici sia da quelle dei marxisti, quando, nei decenni successivi al secondo dopoguerra, queste due correnti culturali e po-litiche erano dominanti in Italia. Coerentemente col suo passato in ‘Giustizia e Libertà’, egli si considerava un liberale, ma un liberale nel significato anglo-sassone del termine. Da questa posizione cultu-rale e politica discendeva, da parte di Borsa, la totale e sincera aper-tura alla discussione, al confronto intellettuale e un dialogo scevro da pregiudizi con persone con idee politiche anche profondamente diverse dalle sue. Che tale atteggiamento metodologico, di cui chi scrive può dare testimonianza diretta, non fosse superficiale ma fa-cesse parte della personale visione del mondo di Giorgio Borsa è te-stimoniato dal fatto che uno degli allievi a lui più vicini, Enrica Col-lotti Pischel, fosse persona di idee politiche diversissime dalle sue: non solo una marxista dura e pura, ma, a tutti gli effetti, un in-tellettuale organico del PCI.

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È sulle basi culturali e politiche fin qui ricordate che Borsa svol-se il suo ruolo di filosofo prestato alla storia dell’Asia moderna e contemporanea. Borsa era entrato nell’ambito degli studi storici sull’Asia nel 1942, con la pubblicazione del già citato Gandhi e il ri-sorgimento indiano e, per quanto, come si è visto, questo passaggio non fosse allora ancora definitivo, lo divenne nel decennio succes-sivo.18

A partire dagli anni Cinquanta, Borsa studiò la storia dell’Asia dal punto di vista delle relazioni internazionali19

; successivamente, pur senza mai abbandonare i suoi interessi per la storia delle

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rela-zioni internazionali20

, esaminò quelli che considerava i tre paesi chiave dell’Asia Orientale - Cina, Giappone e India - soprattutto dal punto di vista della storia politica, sociale ed economica. Fu negli anni Cinquanta e Sessanta che Borsa elaborò la sua teoria della mo-dernizzazione, che trovò piena espressione nella maggiore delle sue opere, La nascita del mondo moderno in Asia Orientale, probabilmente il più importante libro scritto sulla storia dell’Asia da uno studioso ita-liano nella seconda metà del ‘900.21

Ripercorrere la teoria della modernizzazione borsiana sarebbe interessante, ma, strictu sensu, esula dalla tematica di questo scritto.22 Quello che è qui importante sottolineare, prima di tornare alla sto-ria di «Asia Maior», è il fatto che Borsa si trovò ad operare in un mondo, quello dell’orientalismo italiano, che era profondamente impregnato di conservatorismo metodologico e politico e che, an-cora nei primi decenni del secondo dopoguerra, era profondamente segnato e condizionato dalle sue compromissioni col Fascismo.23

In questo contesto, Borsa e i suoi discepoli rappresentarono una cor-rente profondamente diversa da quella dominante; una corcor-rente minoritaria, ma viva; non solo innovativa sul piano metodologico (almeno per quanto riguardava la situazione culturale italiana), ma, sia pure nelle evidenti differenze ideologiche che contraddistingue-vano i suoi membri, caratterizzata da una visione del mondo laica, progressista e antifascista.

È quindi dalle idee metodologiche di Borsa, dalla Weltan-schauung che era alla base della sua scuola e dallo sforzo collettivo di studiosi che, originariamente, erano quasi esclusivamente parte di tale scuola che nacque «Asia Maior» o, meglio, come allora venne chiamata, «Asia Major».24

Inizialmente i volumi annuali vennero pubblicati grazie all’ap-poggio dell’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) di Milano; nel 1994, tuttavia, vi fu una sorta di divorzio fra l’ISPI e Borsa (a dir la verità, non il primo nella storia dei rapporti fra i due); un evento che, in un primo tempo, sembrò destinato a porre prematuramente termine all’impresa. Nel 1995, tuttavia, le pub-blicazioni ripresero, grazie all’appoggio del CeSPEE (Centro Studi per i Popoli Extra-Europei «Cesare Bonacossa»), dell’Università di Pavia.

Borsa, quando lanciò «Asia Maior», aveva poco meno di ot-tant’anni (era nato nel 1912); ciò nonostante, fino all’anno prima della sua morte (avvenuta nel 2002), svolse un ruolo di leadership intellettuale assolutamente dominante e indiscusso, scrisse i capitoli sulla Cina nei primi quattro volumi (fino a quello del 1994), svolse il ruolo di curatore del volume, in genere con l’aiuto di un suo disce-polo25

, e scrisse la prefazione di tutti i volumi fino a quello pubbli-cato alla vigilia della sua morte. La scomparsa di Borsa, per quanto dolorosa sul piano personale per i suoi discepoli e amici, non giunse

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inaspettata, non solo data la sua età, ma anche perché, circa un anno prima della sua morte, la sua salute aveva subìto un drastico peggio-ramento, tale da costringere Borsa ad una radicale riduzione della sua attività. Questo significa che un piccolo nucleo di collaboratori di «Asia Maior» si era da tempo preparato alla transizione, fra l’altro sviluppando, su impulso soprattutto di chi scrive, una sorta di leadership collettiva. Questa, negli ultimissimi anni della vita di Bor-sa, già, in pratica, si era fatta carico di sostituirlo in gran parte del lavoro di curatela (anche se l’ultima parola in casi controversi e l’onere di scrivere la presentazione del volume annuale rimasero a lui fino alla fine). Il fatto che alla morte di Borsa seguisse, di lì ad al-cuni mesi, quella di Enrica Collotti Pischel rese la transizione più difficile, ma non insuperabile. Con l’appoggio del direttore del C

E-SPEE, Marco Mozzati (egli stesso un discepolo di Borsa), la pubbli-cazione del volume proseguì sotto la direzione di una sorta di trium-virato, che si era formato già negli anni precedenti alla scomparsa di Borsa, e che era composto da Corrado Molteni, da Francesco Mon-tessoro e da chi scrive.

A interrompere la prima serie di «Asia Maior» fu il fatto che nel 2005, dopo due successivi e rapidi cambiamenti al vertice del C

E-SPEE, il nuovo direttore, adducendo sopravvenute difficoltà finan-ziare, manifestò l’indisponibilità del Centro a continuare la pubbli-cazione di «Asia Maior» secondo le modalità e le scadenze fino a lì seguite. Quello che veniva proposto era un controllo più stretto da parte del Centro sui lavori di «Asia Maior» a cui si accompagnava una vaga disponibilità a pubblicare saltuariamente su «Il Politico», la rivista politologica dell’Università di Pavia, una selezione dei saggi che sarebbero stati prodotti dai membri del gruppo.

La proposta venne giudicata inaccettabile e portò alla decisione da parte del gruppo dei collaboratori «storici» di trasformare «Asia Maior» da associazione informale, quale era stata fino a quel mo-mento, ad associazione formalmente registrata presso un notaio. Il fine era quello di ricercare finanziamenti da altre fonti, che per-mettessero la continuazione della pubblicazione del volume annuale, secondo le modalità volute da Borsa.

La costituzione di «Asia Maior» in associazione formale avvenne il 5 ottobre 2005; a questo si accompagnò un generoso supporto fi-nanziario offerto dal Ministero degli Esteri, che, nel 2006, permise la ripresa delle pubblicazioni con un volume doppio.26

Da allora la nuova serie ha regolarmente mantenuto la propria scadenza annuale.

Ciò non toglie che, da allora, la nuova «Asia Maior» abbia do-vuto confrontarsi con due problemi non piccoli. Il primo è rappre-sentato dal graduale inaridirsi delle risorse economiche necessarie a proseguire la pubblicazione. L’appoggio economico del ministero degli Esteri, come conseguenza dei tagli ai propri bilanci subìti negli scorsi anni, è radicalmente diminuito nel corso del tempo. D’altra

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parte, il tentativo di ottenere sovvenzioni da altre fonti si è finora ri-velato vano. Il che è una dimostrazione di come, al di là della reto-rica sulla crescente importanza dell’Asia e sulla necessità per l’Italia di agganciarsi alle nuove locomotive economiche, rappresentate da paesi quali la Cina e l’India, nel mondo imprenditoriale italiano la ricerca è considerata, a tutti gli effetti, un orpello inutile. Si può an-che indossarlo, se lo si può fare a titolo gratuito; ma, chiaramente, è giudicato qualcosa per cui non merita di spendere, neppure cifre che, paragonate ai bilanci complessivi di alcune delle organizzazioni a cui «Asia Maior» si è rivolta, non sono nulla di più che gocce d’acqua in un oceano. Per quanto «Asia Maior» non si sia scoraggiata - e continui nella ricerca di mecenati che abbiano interesse nell’approfondimento della conoscenza della realtà politica ed eco-nomica dell’Asia - nel fare questo bilancio del primo ventennio dell’impresa voluta da Giorgio Borsa non si può fare a meno di mani-festare, da questo punto di vista, una certa preoccupazione sul futuro.

Il secondo problema con cui ha dovuto confrontarsi la nuova «Asia Maior» è legato al fatto che, dopo la scomparsa di Borsa e, so-prattutto, in seguito al divorzio fra «Asia Maior» e il CESPEE di Pa-via, era aumentato il numero di collaboratori che non facevano parte dell’originario gruppo dei discepoli dello stesso Borsa e che, in ogni caso, non erano stati influenzati né dalla sua Weltanschauung, né dalla sua metodologia. Si trattava di un gruppo che auspicava un ripensamento della struttura del volume e delle attività dell’associa-zione alla luce delle necessità e dei desiderata di ipotetici, quanto fantomatici, «committenti». Di fronte alla scelta della maggioranza dei soci di proseguire lungo la linea della continuità con il progetto di Borsa, coloro che ne auspicavano l’abbandono hanno deciso di lasciare «Asia Maior».

È stato, l’evento in questione, la dimostrazione del detto cinese secondo cui una crisi è anche un’opportunità. Nel caso di «Asia Maior», il primo risultato raggiunto è consistito nel ribadire, ancora una volta, la validità delle linee culturali e politiche fissate a suo tempo da Giorgio Borsa; il secondo risultato, che può essere verifi-cato in prima persona da tutti i lettori di questo volume, è che il rin-novamento nei collaboratori di «Asia Maior» si è tradotto non in un abbassamento, ma in un innalzamento del livello qualitativo della produzione scientifica dell’associazione.

A conclusione di queste note, nel fare il bilancio di questi primi vent’anni di «Asia Maior» è infine bene sottolineare il consegui-mento di due risultati, di non poca importanza. Il primo è il fatto stesso che, nonostante tutte le difficoltà finanziarie e nonostante la caducità delle pubblicazioni periodiche, il volume annuale di «Asia Maior» continui ad uscire. Il secondo è che il rinnovamento stesso dei collaboratori di «Asia Maior» e la loro dimostrata capacità di produrre analisi di livello qualitativo sempre più alto sono prova del

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fatto che, nonostante la crisi dell’Università italiana in generale e nonostante, in particolare, la situazione di virtuale collasso, in am-bito universitario, degli studi sul mondo extra-europeo, in tale area vi siano ancora forze vive e vitali, prevalentemente, anche se non e-sclusivamente, rappresentate da giovani studiosi. Non per merito delle istituzioni, quindi, bensì dello spirito garibaldino di questi sin-goli studiosi (in genere condannati dal nostro sistema universitario alla precarietà o all’emigrazione), è ancora possibile portare avanti un’impresa come quella voluta a suo tempo da Giorgio Borsa.

Sia pure fra mille difficoltà, quindi, «Asia Maior» va avanti... Per aspera ad astra!

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Note alla premessa

1. La formulazione più completa della teoria delle modernizzazione ela-borata da Giorgio Borsa è stata fatta nel suo La nascita del mondo mo-derno in Asia Orientale, Rizzoli, Milano 1977.

2. Ad es. ibid., p. 10.

3. Per le idee di Giorgio Borsa sul metodo storico, si veda il suo Introdu-zione alla storia, Le Monnier, Firenze 1980. Chi scrive ha anche tenuto conto di una serie di conversazioni con Borsa su tale soggetto, svoltesi nel periodo successivo alla pubblicazione del libro appena citato. 4. Su Mario Borsa si veda Pier Giorgio Zunino, La Repubblica e il suo

pas-sato, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 510-13.

5. In una conversazione con chi scrive, dicembre 2010.

6. Queste informazioni, raccolte da Pier Giorgio Zunino, nell’ambito di una ricerca volta alla preparazione dell’edizione critica dell’epistola-rio di Piero Martinetti, e da lui comunicate a chi scrive nel corso di una serie di conversazioni durante il 2010, sono ora riassunte nella nota in calce all’ultima lettera di Piero Martinetti, posta a chiusura dell’epistolario. Si veda Piero Martinetti, Lettere 1919-1943, a cura di Pier Giorgio Zunino e Giulia Beltrametti, Olschki, Firenze 2011, pp. 245-46 e nota 167. In realtà l’ultima lettera di Martinetti non è che un frammento di una missiva indirizzata dal filosofo a Giorgio Borsa, frammento che ci è pervenuto solo perché Borsa lo cita nella sua in-troduzione ad una raccolta di scritti di Martinetti da lui curata. Si ve-da inoltre, nota 11.

7. Giorgio Borsa, Gandhi, Bompiani, Milano 1983, p. 9.

8. Così come meritano di essere ricordati i nomi degli altri 11 (sui 1.225 professori universitari dell’epoca): Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Bartolo Nigrisoli, Edoardo e Francesco Ruffini, Lionello Venturi, Vito Volterra. Accanto a costoro vi fu poi un certo numero di professori che rifiutarono il giuramento ma furono dispensati e altri ancora che, per non giurare, scelsero il prepensionamento.

9. Giorgio Borsa, Gandhi e il risorgimento indiano, Milano, Bompiani 1942. 10. Ibid., p. 299 e nota 1. «Egli [Gandhi] - scriveva Borsa - ha intuito,

forse senza neppure rendersene conto, quali sono le ragioni profon-de profon-della crisi in cui si dibatte la civiltà occiprofon-dentale e ha fatto molto per preservare l’India dallo stesso pericolo. Ha intuito che l’attuazione di un ordine sociale e politico giusto e duraturo non di-pende dalla riforma di questo o di quell’istituto, dall’adozione di que-sta o quella teoria economica, dal maggiore o minore benessere ma-teriale raggiunto; ma dalla risurrezione o dalla morte definitiva di un ordine spirituale nell’intimo delle coscienze, dalla capacità dei popoli ad esprimere da sé ancora una volta quelle energie ideali in cui risie-de la verità più profonda risie-degli istituti sociali e politici e risie-delle forme del vivere civile.» Questo giudizio, come indicato in nota, era basato su «P. Martinetti, Saggi e discorsi, Paravia, [Torino] 1926, p. 62».

11. Piero Martinetti, Il compito della filosofia e altri saggi inediti ed editi, con introduzione e commento di Giorgio Borsa, Paravia, Torino 1951. 12. Cit. in Borsa, Introduzione, ivi, p. XII. La lettera era stata scritta da

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Martinetti a Borsa. Questo frammento è posto a chiusa dell’epistola-rio curato da Zunino e Beltrametti.

13. Ibid., p. X.

14. Diego Fusaro, Piero Martinetti (http://www.filosofico.net/martinetti.htm). Quel «evidentemente» fa riferimento all’indisponibilità di Martinetti a limitare la propria libertà di giudizio accettando le indicazioni di un partito o di una chiesa.

15. Piero Martinetti, Il sistema Sankhya. Studio sulla filosofia indiana, Lat-tes, Torino 1896. Gli indologi utilizzano la grafia «Sāṃkhya», a cui ci atteniamo nel testo.

16. Borsa, Introduzione cit., p. XI, dove si fa riferimento al Breviario spiri-tuale di Martinetti (Libreria Ed. Lombarda, Milano 1929, p. 23). 17. Fusaro, Martinetti cit.

18. Anche se Borsa non perse mai l’interesse per la filosofia, che riprese a studiare in modo sistematico una volta raggiunta l’età della pensione. 19. Le sue due più importanti monografie di quel periodo furono L’

E-stremo Oriente fra due mondi: le relazioni internazionali nell’EE-stremo Oriente dal 1842 al 1941, Laterza, Bari 1961, e Italia e Cina nel secolo XIX, Edi-zioni di Comunità, Milano 1961.

20. In effetti, l’ultima monografia da lui pubblicata fu una ricerca di re-lazioni internazionali. Si veda Giorgio Borsa, Dieci anni che cambiarono il mondo, 1941-1951: storia politica e diplomatica della guerra nel Pacifico, Corbaccio, Milano 1995.

21. Si veda la nota 1.

22. In ogni caso, chi scrive si è in più occasioni soffermato su di essa. Si vedano: Michelguglielmo Torri, Studies in Italy on Modern and Contem-porary India, in Storia della Storiografia/History of Historiography, 34, 1998, pp. 119-51; id., L’Indianistica italiana dagli anni Quaranta ad og-gi, in Agostino Giovagnoli e Giorgio Del Zanna (a cura di), Il mondo visto dall’Italia, Guerini e associati, 2004, pp. 247-263; e id., Eu-rocentrismo, asiacentrismo e orientalismo. La critica di Giorgio Borsa, in «Contemporanea», XI, 1, gennaio 2008, pp. 115-122.

23. Ben evidenti anche nel caso del più eminente fra gli orientalisti ita-liani, Giuseppe Tucci (Macerata, 5 giugno 1894 - San Polo dei Cava-lieri, 5 aprile 1984). Sulla figura di Tucci e sulle sue compromissioni col Fascismo sta per comparire un’importante biografia ad opera di Enrica Garzilli. Si veda Enrica Garzilli, L’esploratore del Duce. Le avven-ture di Giuseppe Tucci e la politica italiana in Oriente da Mussolini a An-dreotti. Con il carteggio di Giulio Andreotti, Le Lettere, Firenze (in corso di stampa).

24. Secondo Marco Mozzati, uno degli allievi di Borsa, anche se un afri-canista, la trasformazione della «i» di «Maior» in «j» fu frutto di un er-rore tipografico compiuto dalla casa editrice (il Mulino) in occasione della pubblicazione del primo volume. In seguito, per ragioni di con-tinuità, Borsa avrebbe deciso di utilizzare la nuova grafia. La verità, però, sembra essere differente, dato che era abitudine di Borsa utiliz-zare la grafia con la «j», già molto prima della pubblicazione del pri-mo volume di «Asia Maior». Questo risulta in maniera incontroverti-bile dalla Prefazione del suo La nascita del mondo moderno cit., p. 7 («È questo il caso dell’Asia major nell’ultimo trentennio...»). D’altra parte è innegabile, come può testimoniare chi scrive, che l’«Asia Maior» era

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definita da Borsa come quella parte di Asia che esisteva oltre l’«Asia Minor» degli antichi. In altre parole, «Asia Maior» dovrebbe essere la riproposizione di una definizione geografica presa dal mondo classi-co greclassi-co-romano, ma la «j» non classi-compare né nell’alfabeto greclassi-co, né in quello latino. È quindi probabile che la dizione «Asia Major» sia stata frutto di un errore dello stesso Borsa, dovuto all’ingresso inavvertito nel suo lessico di un inglesismo, poi utilizzato nell’intitolare il primo volume della serie. La spiegazione data da Marco Mozzati va quindi rettificata nel senso che l’errore vi fu, ma fu commesso da Borsa. È possibile che Borsa - che, del resto, era in genere molto attento ad e-vitare gli inglesismi - si sia poi reso conto che la dizione «Asia Major» non fosse corretta, ma che, come riferito da Mozzati, decidesse di continuare ad usarla per ragioni di continuità. In effetti, la scelta in questione era criticabile anche da un altro punto di vista, cioè in base al fatto che esisteva già un’altra «Asia Major». «Asia Major», infatti, era - ed è - anche il titolo di una rivista, dedicata allo studio della Ci-na e del mondo cinese, fondata nel 1923, in Germania, da Bruno Schindler (1882-1964). Tale rivista venne lì pubblicata fino al 1933, quando le leggi razziali costrinsero Schindler (che era un ebreo) a fuggire dalla Germania e a porre fine alla prima serie della sua «Asia Major». La pubblicazione venne ripresa da Schindler in Inghilterra, a partire dal 1949, sotto gli auspici dell’Università di Cambridge, e continuò anche dopo la morte di Schindler, fino al 1975. In quell’anno, le difficoltà economiche che colpirono il mondo universi-tario britannico posero fine anche alla seconda serie della rivista. Questa, però, venne ripresa nel 1988 da Denis Twitchett, sotto gli au-spici dell’Università americana di Princeton. Essa, quindi, era rego-larmente pubblicata quando venne inaugurata l’«Asia Major» italiana. Nel 1998, di nuovo a causa di difficoltà economiche, la pubblicazione dell’«Asia Major» fondata da Schindler passò all’Institute of History and Philology dell’Academia Sinica di Taipei, dove, da allora, ha continuato ad essere pubblicato sotto la guida di Tu Cheng-sheng, il direttore dell’Istituto. Nel circolo dei più stretti collaboratori di Borsa, posso testimoniare che Paolo Beonio Brocchieri (che curò insieme a Borsa i primi volumi di «Asia Maior») era al corrente dell’esistenza di un’altra «Asia Major», ragion per cui non poteva non esserne al corrente an-che lo stesso Borsa.

25. Nei primi due volumi, il co-curatore fu Paolo Beonio Brocchieri, che Borsa considerava apertamente il proprio erede. Disgraziatamente, Beonio Brocchieri, nato nel 1934, scomparve prematuramente nel 1991.

26. È interessante notare, anche se duole doverlo fare, che, una volta av-viata quella che possiamo definire la nuova serie di «Asia Maior», il C

E-SPEE dell’Università di Pavia, che si era dichiarato inabile a mandare avanti la vecchia «Asia Major» a causa della mancanza di risorse eco-nomiche, trovò allora i finanziamenti necessari a riprendere le pubbli-cazioni, iniziando un’altra serie di «Asia Major». Questa manteneva il nome della vecchia serie (dato che «Asia Major», con la «j», era un marchio di proprietà dell’Università di Pavia), ma si discostava to-talmente sia nell’impostazione, sia nell’area geografica di riferimento (la totalità dell’Asia più l’Africa) dall’«Asia Major» di Giorgio Borsa.

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RIPRESA ECONOMICA, CONFLITTI SOCIALI E TENSIONI GEOPOLITICHE IN ASIA

di Nicola Mocci*

1. La ripresa economica in Asia nel 2010

Nel corso del 2010, mentre la gran parte dei paesi occidentali era alla ricerca di soluzioni efficaci per lenire gli effetti della crisi economica scoppiata nel 2008, l’Asia Maior (quella parte dell’Asia delimitata a Nord dal Caucaso e dai confini meridionali della Russia e a Occidente dalla Turchia e dai paesi arabi), ha fatto ulteriori passi da gigante. I paesi asiatici, infatti, hanno trainato la ripresa econo-mica mondiale e hanno consolidato posizioni di primato nei diversi settori della scienza, della tecnologia e della politica.

Per quanto l’indice di crescita del prodotto interno lordo sia oramai un indicatore vetusto e vieppiù inadeguato a misurare la ric-chezza degli stati, nel 2010 la regione dell’Asia dell’est ha segnato un incremento medio del PIL del 7,5% rispetto al 2009. In quest’a-rea spiccano la vertiginosa ripresa dell’economia della Cina, con un indice del 10,5%, e quella record di Singapore vicina al 15%. Nell’Asia del sud il tasso medio di crescita è stato del 6%, dato che ha risentito del rallentamento del Pakistan, in seguito ai disastri causati dalle alluvioni e dalle inondazioni, ma dove l’India ha regi-strato un incremento del 9,7% rispetto al 2009 [IMF 2010, cap. 2]. Anche la macro regione dell’Asia Centrale ha dimostrato di aver ini-ziato una ripresa economica sostanziale, trainata soprattutto dalla crescita economica della Russia, che costituisce il partner commer-ciale più importante delle ex repubbliche sovietiche. A questa si sono uniti gli effetti dei provvedimenti di stimolo alla domanda at-tuati nel 2009 dai governi centroasiatici, oltre alla rendita dell’espor- tazione delle immense risorse di gas naturale e di petrolio. Spicca, tra questi paesi, l’apice raggiunto dal PIL del Turkmenistan,

* Desidero ringraziare Michela Cerimele, Francesca Congiu, Barbara Onnis, Sa-brina Perra e Michelguglielmo Torri per i preziosi consigli e per aver commenta-to e corretcommenta-to la prima versione di quescommenta-to scritcommenta-to. Ovviamente la responsabilità per ogni rimanente imperfezione o errore è solo mia.

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aumentato del 9,4% rispetto al 2009, e il dato negativo -3,5% del Kirghizistan, dovuto al lungo periodo di conflitti interetnici che, du-rante il 2010, hanno tenuto il paese in stallo.

Ma ciò che ha sorpreso maggiormente gli analisti è stato il dato clamoroso secondo cui la ricchezza prodotta dalla Cina per la prima volta avrebbe superato quella del Giappone e, di questo passo, nell’arco di una decina di anni, potrebbe sorpassare quella degli Stati Uniti. Il prodotto interno lordo nipponico, infatti, è cresciuto a un tasso annuo di appena il 2,8%, ben al di sotto del 4,4% registrato nel primo trimestre del 2010, per raggiungere nel periodo maggio-settembre un livello assoluto di 1.286 miliardi di dollari, a fronte dei 1.335 miliardi di dollari raggiunti dal PIL cinese nello stesso perio-do [W/B 16 agosto 2010, «China GDP Surpasses Japan, Capping Three-Decade Rise»]. Si consideri, inoltre, che il Giappone ha rag-giunto anche il record di debito pubblico pari al 200% del PIL e che le previsioni indicano ulteriori aggravamenti [W/EIU 25 ottobre 2010, «Economy: More stimulus»]. Vale la pena ricordare che sulla base dei parametri dell’Unione Europea, un tasso di debito pubblico di queste dimensioni farebbe parlare di pericolo di default, cioè di fallimento del paese.

Il superamento del Giappone da parte della Cina, per quanto prevedibile e atteso, ha suscitato clamore e interesse sia per l’inar-restabile crescita cinese quanto per il continuo declino della potenza nipponica. In realtà, analisti e politici sono interessati a capire le conseguenze che questo declino giapponese avrà nello scacchiere geopolitico mondiale e regionale. Il dato in questione ha rappre-sentato, infatti, un’ulteriore conferma delle difficoltà politiche della dirigenza della Sinistra nipponica a porre rimedio al ciclo negativo del capitalismo giapponese e alle sue conseguenze sociali.

I fattori che hanno determinato la rapida ripresa economica a-siatica sono stati di varia natura. I dati pubblicati dagli istituti di Wa-shington (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale) e dall’Asian Development Bank hanno indicato un rafforzamento del-la domanda interna, in tutta del-la regione asiatica, dovuto in parte alle diffuse agevolazioni fiscali e agli stimoli ai consumi attuati durante il corso del 2009 e del 2010. Il declino nella seconda parte del 2010 e, in particolare, negli ultimi quattro mesi dell’anno, è coinciso, infatti, con l’esaurimento degli incentivi statali, tranne che in Giappone, dove un massiccio piano di sostegno al consumo del valore di 61 mi-liardi di dollari è continuato fino alla fine del 2010 e i cui effetti si vedranno solo nel 2011 [W/EIU, 25 ottobre 2010 «Economy: More stimulus»].

Oltre alla crescita della domanda interna, la ripresa economica della regione asiatica è stata accompagnata da segnali, seppur debo-li, di rivitalizzazione delle esportazioni. Insieme all’aumento dei con-sumi interni, le esportazioni hanno consentito alle «tigri asiatiche» e

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alle economie in transizione sia di riportarsi ai livelli di produzione precedenti alla crisi sia di tenere sotto controllo la disoccupazione.

Tuttavia, è apparso evidente come le economie di molti paesi a-siatici, con la Cina in prima fila e, a seguire, i paesi dell’ASEAN, ab-biano intrapreso dei cambiamenti strutturali nel loro modello di svi-luppo. A suscitare maggiore interesse sono stati i provvedimenti di quei paesi che hanno avuto come obiettivo principale la crescita del-la domanda interna. Ciò dimostra che il modello che ha caratteriz-zato il sistema industriale produttivo degli ultimi trent’anni delle e-conomie emergenti dell’Asia, orientato quasi esclusivamente all’e-sportazione, si è rivolto in maniera più massiccia ai consumi interni. Questo processo è dovuto a un insieme di cause esogene e endoge-ne. Nel primo caso, è stato la conseguenza della drastica riduzione delle importazioni da parte delle economie occidentali (America del Nord e Europa) che, a partire dal secondo dopo guerra, ma in modo sistematico a partire dagli anni Settanta, avevano garantito l’assorbi-mento delle produzioni asiatiche. Si trattava della domanda di beni durevoli a medio-alto contenuto cognitivo, come i prodotti dell’alta tecnologia, che hanno caratterizzato il processo di industrializzazio-ne del Giappoindustrializzazio-ne, dei cosiddetti NIC (Newly Industrialized Coun-tries: Corea del sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore) e delle «tigri asiatiche» (Thailandia, Malaysia e Taiwan, a cui recentemente si so-no aggiunti il Vietnam e la Cambogia). In effetti, Vietnam e Cambo-gia erano stati gli ultimi paesi della regione a orientare il proprio modello di sviluppo alla produzione di beni per l’esportazione. Il modello vietnamita e quello cambogiano si distinguevano, tuttavia, da quello degli altri paesi della regione per le produzioni a basso-medio contenuto cognitivo, come quelle del settore tessile.

I fattori endogeni che hanno reso fattibile questo nuovo orien-tamento, soprattutto in Cina, sono dovuti innanzitutto alla crescita della ricchezza nominale, a una maggiore facilità di accesso al credi-to della classe operaia, oltre che alle agevolazioni fiscali concesse dallo stato. In realtà, il governo cinese, attraverso il 12° piano quin-quennale, annunciato nel novembre 2010, intende riportare i con-sumi interni ai livelli del 2000, quando la domanda interna era tale da creare il 46% del PIL, mentre con la crisi del 2008-2009 è scesa fino al 35% [W/EIU 18 ottobre 2010, «Central planning 12.0»]. I provvedimenti che il governo ha attuato per raggiungere tali risul-tati hanno comportato, tra l’altro, l’aumento dei salari minimi e l’as-sicurazione delle garanzie sociali anche ai lavoratori migranti [W/EIU 11 novembre 2010 «Possibility of wages being increased»].

Non si deve trascurare, inoltre, il fatto che i dati positivi nell’e-conomia cinese insieme a quelli delle cosiddette economie emergen-ti, come l’India e i NIC, sono il frutto di imponenti programmi di investimento nella cultura e nella ricerca, attuati a partire dalla fine della guerra fredda. I processi di internazionalizzazione delle

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uni-versità cinesi, ad esempio, hanno consentito una crescita del livello della ricerca scientifica e una regionalizzazione della conoscenza. Tali risultati hanno permesso agli istituti cinesi di iniziare un per-corso competitivo con i santuari del sapere nord-americani e euro-pei [Pinna 2009]. Appare significativo il fatto che il settore dell’istru-zione, insieme a quello della salute, sia stato fra quelli in cui il nume-ro di occupati è cresciuto più di tutti gli altri [W/ILO 2010b, pp. 15-16; ILO 2009]. Ciò ha consentito a molti paesi asiatici di entrare in possesso di capacità progettuali e di produzione tali che, unite al basso costo del lavoro, hanno consentito di accelerare la transizione del processo industriale verso una fase di terziarizzazione.

Ciò detto, bisogna anche sottolineare che la ripresa economica dell’Asia Maior, nonostante abbia corso su tassi doppi rispetto alla media dell’indice di crescita mondiale, nel corso del 2010 è stata ac-compagnata da molteplici conflitti sociali. Ciò potrebbe far pensare che la ripresa economica asiatica non sia stata socialmente inclusiva. Tali argomenti verranno approfonditi nei paragrafi seguenti. 2. I conflitti sociali e il lavoro

Per quanto riguarda i conflitti sociali, si è assistito in Asia, du-rante il corso del 2010, all’emergere di istanze espresse da soggetti-vità eterogenee che hanno interessato il lavoro, la rappresentanza e la rappresentatività politica. In alcuni casi questi fenomeni si sono sovrapposti e hanno interagito l’uno con l’altro.

Il lavoro, in particolare, fin dalla fine della guerra fredda, ha subìto su scala globale le conseguenze peggiori, in termini qualitativi e quantitativi, dovute alla mondializzazione del capitalismo e all’ege-monia neoliberista [Vasapollo, Casadio, Petras, Veltmeyer 2004]. La crisi globale degli ultimi anni ha ulteriormente inasprito il conflitto capitale-lavoro e, soprattutto, nelle economie industrializzate asiati-che, lo ha esasperato facendo emergere nuovi conflitti per le classi sociali urbane e nuove porzioni di classi operaie agricole.

Come ha affermato Lazlo Andor, commissario europeo per il Lavoro e gli affari sociali, durante una conferenza tenutasi nel mese di settembre del 2010 a Oslo, organizzata congiuntamente dall’ILO (Organizzazione internazionale del lavoro) e dall’FMI (Fondo mo-netario internazionale), su scala globale il 2010 è stato l’annus orri-bilis per la disoccupazione; in mancanza di politiche adeguate, il 2011 lo sarà per la coesione sociale. I dati presentati da Lazlo par-lano di 210 milioni di lavoratori senza lavoro, con un aumento di 34 milioni negli ultimi tre anni (il più alto livello mai raggiunto nella storia) e di una situazione in cui oltre l’80% della popolazione mon-diale è priva di misure di welfare. Quasi un miliardo e duecentomila persone, pari al 40% della forza lavoro mondiale, non riescono a

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guadagnare più di due dollari al giorno e, di conseguenza, non sono in grado di sostentare se stesse e le proprie famiglie [W/O].

I paesi dell’Asia Maior si sono discostati da questa tendenza glo-bale e hanno presentato una situazione meno drammatica. Dai dati pubblicati dall’ILO, concernenti il 2010, si scorge nella regione una stabilità nel numero degli occupati e un aumento delle retribuzioni dei lavoratori in media dell’8%, tra i maggiori a livello mondiale (nel triennio 2006-2009 sono cresciute in media del 7%). In Cina i dati ufficiali del «China Yearbook of Statistics», relativi alle retribuzioni (al netto dell’inflazione calcolata sull’indice dei prezzi al consumo dell’FMI), hanno mostrato una serie positiva dal 2007 al 2009 (+13,1% nel 2007, +11,7% nel 2008, +12,8 nel 2009). Tuttavia, è necessario precisare che tali dati si riferiscono ai salari delle indu-strie statali o delle unità produttive legate allo stato. Infatti, un’in-dagine pilota del National Bureau of Statistic cinese ha mostrato come i salari del settore privato sono cresciuti solo del 6,6% nel 2009 [ILO 2010, pp. 3-4].

La crisi delle esportazioni e della perdita del lavoro da parte degli operai si è fatta sentire in alcuni paesi di recente industrializ-zazione meno che in altri. In Vietnam, per esempio, gran parte dei lavoratori licenziati nei distretti industriali ha trovato impiego in al-tri settori, come quello delle costruzioni, che ha goduto di incentivi da parte dello stato o in quello dell’agricoltura [Manning 2010].

Tuttavia, è bene chiarire che, sebbene la situazione regionale ab-bia mostrato segnali positivi sia in termini di stabilità dell’occupazio-ne che in termini di aumenti salariali (influenzata dai dati della Ci-na, che conta più della metà dei lavoratori dell’intera regione), alcu-ni paesi hanno sofferto più di altri il fenomeno della disoccupazio-ne e della riduziodisoccupazio-ne salariale. In Giappodisoccupazio-ne, per esempio, il tasso di disoccupazione è aumentato dal 4% del 2007 al 5,1 del 2010. Rispet-to al 2009, le retribuzioni in Giappone e in Thailandia sono calate del 2%, mentre in Malaysia e nelle Filippine del 4%. Inoltre, i dati su scala regionale degli ultimi 15 anni hanno rappresentato una situa-zione tale per cui alla crescita economica non è corrisposta un’unifor-me crescita salariale. In generale c’è stato, infatti, un auun’unifor-mento delle retribuzioni dei quadri e un abbassamento dei salari relativi ai lavori in cui sono richiesti livelli minimi di istruzione [W/ILO 2010, p. 12].

L’UNDP in uno studio del 2006, precedente quindi alla crisi e-conomica globale, ha dimostrato come la crescita ee-conomica dell’A-sia abbia determinato un aumento di ricchezza ma non di lavoro e, al contrario, il fenomeno della globalizzazione, intesa come apertura della grande maggioranza dei paesi asiatici della competizione capi-talistica, abbia creato ineguaglianze ed esclusione sociale [UNDP 2006]. Si consideri, inoltre, che l’Asia, nonostante i dati in contro-tendenza rispetto all’andamento dell’economia mondiale, presenta infatti una situazione tale per cui il 35% dei lavoratori appartiene a

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quella galassia del lavoro non registrato e, di conseguenza non re-golato, del cosiddetto lavoro informale [ILO 2010, p. 1].

I dati dell’ILO relativi al 2010 hanno dimostrato come il feno-meno dell’informalità sia oramai diffuso in maniera massiccia anche nelle economie più avanzate dell’Asia, come per esempio il Giappo-ne e i NIC. Questo avvieGiappo-ne attraverso due modalità: la prima è rap-presentata dall’impiego di lavoratori immigrati da realtà poverissi-me (Myanmar, Laos, Filippine), ai quali non vengono garantiti i di- ritti minimi e la sicurezza sociale; la seconda modalità è rappresen-tata dall’uscita dei lavoratori dalle liste ufficiali, per entrare nel sot-toproletariato del «lavoro nero». In Giappone, per esempio, si calco-la che i calco-lavoratori stranieri ufficialmente registrati nel settore manu-fatturiero e nei servizi sociali siano soltanto l’1,5% del totale dei la-voratori, contro il 16,3% degli USA o l’11,8% del Regno Unito. Per-tanto è evidente che il paese possiede un’alta percentuale di lavoro sommerso [W/EIU 21 ottobre 2010, «Japan risk: Alert - Risk scenario watch-list»]. L’ufficio regionale dell’ILO di Bangkok aveva stimato nel 2007 un numero di lavoratori pari a 5,3 milioni di immigrati so-lo nei paesi di Singapore, Malaysia, Brunei e Thailandia, pronti a svolgere i lavori cosiddetti di «3D» (dirty, dangerous, difficult, ovve-ro sporchi, pericolosi e difficili) [ILO 2007]. Si tratta, inoltre, di real-tà in cui la rappresentanza sindacale è fortemente limitata o perfino vietata all’interno delle fabbriche, come nel settore dell’elettronica in Malaysia, e dove la libertà di manifestare o di scioperare non è garantita.

Ora, un quadro di questo genere dimostrerebbe in maniera in-confutabile che i processi della globalizzazione e la recente crisi eco-nomica mondiale abbiano contribuito a indebolire i lavoratori e i lo-ro movimenti. L’ipermobilità del capitale plo-roduttivo avrebbe creato un fenomeno che la sociologa americana Beverly Silver ha descritto come «gara al ribasso» dei salari e delle garanzie dei lavoratori, con conseguenze sugli stessi lavoratori e sulla sovranità degli stati. Infat-ti, gli stati che non smantellano le garanzie di welfare o che le raf-forzano vengono puniti dal blocco dei flussi di investimenti e a loro vengono preferiti gli stati del Sud del mondo in cui le condizioni di profittabilità sono maggiori [Silver 2004, pp. 4-5].

Tuttavia, come ha dimostrato Silver nel suo studio, l’ipermobili-tà del capitale e i suoi spostamenti verso il Sud del mondo non lo hanno rafforzato, ma, al contrario, lo hanno indebolito. Il motivo è rappresentato dalla nascita di nuove organizzazioni e di nuovi movi-menti operai nei paesi del Sud, impegnati nella lotta per ottenere le garanzie già conquistate dai paesi industrializzati del Nord. Di qui deriva la dimostrazione della teoria di Silver, secondo la quale il conflitto va dove va il capitale. Vale la pena di ricordare che Silver, nel suo studio, ha analizzato i movimenti operai su una serie storica di lungo periodo, attraverso l’utilizzo del prestigioso database del

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