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Micro/macro = locale/globale? il problema della località in una storia spazializzata

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Academic year: 2021

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Angelo Torre, Università del Piemonte Orientale, Italy

Micro/macro = locale/globale? il problema della località in una storia spazializzata

Da più parti, negli ultimi tempi, si sono levate proposte di mediazione tra le storiografie che hanno dominato gli ultimi quaranta anni, una storiografia del micro, con cui intendiamo di volta in volta una storiografia delle relazioni di piccola scala o del quotidiano, e uno studio della macrostoria, con cui

intendiamo una storiografia a scala planetaria o sub-planetaria: si è proposta cioè una “global microhistory”, o una “storia translocale” con un invito un po’ rapido a tenere uniti ambiti che, a uno sguardo minimamente attento, si rivelano in realtà lontani e, se non inconciliabili, quanto meno eterogenei1.

Nel 1995, nell’introduzione a uno dei cinque volumi celebrativi del cinquantesimo anniversario della Association of Social Anthropology, Richard Fardon insisteva sul fatto che stavamo assistendo a un

“conceptual shift” nel modo di intendere l’universo delle relazioni umane: da una coppia di concetti

consolidata – società da un lato e cultura dall’altro – che aveva dominato le scienze umane nel XX secolo, si stava passando a una nuova coppia – globale da un lato e locale dall’altro. Coppie intrinsecamente differenti, proseguiva, ma egualmente vaghe e problematiche. Le sue simpatie andavano alla seconda coppia, perché sembrava concedere maggior spazio alla fluidità (trasgressiva) con il concetto di globale, e trovava nei confini locali il suo limite logico2. In altri termini, permetteva (in modo provocatorio da un punto di vista etnografico) di parlare di una unità globale di cultura (ben lontano dal proverbiale “mosaico di culture” immaginato dalla storia e dall’etnografia colonialiste e nazionaliste) e, al contrario, di società discrete, separate, distinte.

Questo è lo sfondo in relazione al quale propongo di considerare i rapporti fra micro, macro, locale e globale. Di solito, infatti, si fa della polarità di locale e globale una specie di analogo del micro e del macro, 1 Francesca Trivellato, Is there a Future for Italian Microhistory in the Age of Global History?, California Italian Studies, 2/1, 2011 rielabora Microstoria, storia del mondo e storia globale, in Paola LANARO (ed.), Microstoria: A venticinque anni da L’eredità immateriale, Milano 2011, pp. 119-31. L. PUTNAM,To Study the Fragments/Whole: Microhistory and the Atlantic World, in Journal of Social History,39/3, 2006 (), come studi più recenti hanno detto con chiarezza. F. DE VIVO, Prospect or Refuge? Microhistory, History on the Large Scale: A Response, in «Cultural and Social History»,7 (2010), pp. 387-97. Istvàn Szjiarto e Gylfi Sigurdur Magnusson, What is Microhistory?, London -New York, Routledge, 2013. Trivellato, Un nouveau combat pour l’histoire au XXIe siècle?, in Annales. Histoire, Sciences Sociales, LXXXVI/2, 2015, pp. 333-43 (dossier dedicato a La longue durée en débat, che contiene il saggio di David ARMITAGE e Jo GULDI, Le retour de la longue durée: une perspective anglo-américaine; Ead., Microstoria/ Microhistoire/Microhistory, in French Politics, Culture & Society, 33/1, 2015, pp. 122-34, trad. it. in Antonella Romano , Silvia Sebastiani, eds., La forza delle incertezze: Dialoghi storiografici con Jacques Revel, Bologna 2016, pp. 49-69; Emma Rotschild (Isolation and Economic Life in Eighteenth-Century France, in «American Historical Review», 119/4, October 2014, pp. 1055-82. A wquesto materiale si devono aggiungere alcune giornate di discussione: a Budapest da parte del MicroHistory Network del settembre 2015, all’università di Duke di poco successiva, del novembre dello stesso anno (i cui risultati sono confluiti nel numero speciale Microhistory and the Historical

Imagination: New Frontiers del Journal of Medieval and Early Modern Studies, 47/1, 2017, curato da Th. Robisheaux, Th.V. Cohen, I.M. Sijártó), due panel della convention della renaissance Society of America a Berlino nel 2015, e, nei mesi scorsi, una giornata di discussione promossa da Past and Present (“The Space Between: Connecting Microhistory and Global History”, Venezia, febbraio 2017: http://studylib.net/doc/12461998/‘the-space-between--connecting-microhistory-and-global-hi) e una dell’Institute for Historical Research (Londra, 20 giugno 2017: cfr. il blog The many-headed monster<comment-reply@wordpress.com) sembrano costituire i punti di un dossier forse destinato ad

arricchirsi in tempi brevi. Per le attuali difficoltà della Global History cfr. Sebastian Conrad, What is global history, Princeton University Press, 2016, cap. 10 dedicato alla “politics of Global History” e Richard Drayton e David Motadel, Discussion: the futures of global history, Journal of Global History, 13, 1, 2018, pp. 1-21.

2 R. Fardon, Counterworks. Managing the diversity of knowledge, Routledge, London 1995, pp. 1-9. “It is unnecessary, therefore, to reach agreement about the exact referents of ‘global’ and ‘local’ to argue that things look different in these terms than they did in terms of—just-as-contested—ideas of society and culture” (p.2). “Culture and society reached this pass after a century of intensive use but, remarkably, the terms local and global—which have been called upon to qualify or even replace them in some usages—were problematic from the instant of their popularization” (p.2). “Globalization appears as a pervasive condition of transgression not only because it suggests culture to be fluid (a landscape become waterland), but because culture was conceptualized proprietorially. People possessed culture, but were also possessed by it so that nothing else could possess them without displacing, diluting or hybridizing inherited genius. Perception of cultural globalization relies, necessarily and without paradox, upon recognition being accorded more local cultural boundaries; globalization would not be discernible were there no such boundaries to be transgressed (or transcended) and affirmed as ‘real’ in consequence” (p.6). Va notato che la stessa collezione della ASA Decennial Conference Series portava il titolo di “The Uses of Knowledge: Global and Local Relations”. Un titolo che rinvia agli anni ruggenti della globalizzazione, e, come vedremo, alle categorie che ne stavano sostenendo l’impatto.

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con una equazione implicita in base alla quale il locale sarebbe il micro, e il globale sarebbe il macro3. In questa configurazione appaiono inappropriate sia l’equazione (micro=locale) che la contrapposizione. (piccolo vs grande). Entrambe dimenticano che non si tratta di oggetti, ma di scale: il locale e il micro non sono “piccoli”, sono “visti da vicino”, così come il globale e il macro sono “visti da lontano”4. Quindi non hanno uno spazio intrinseco, ma quello definito dalla prospettiva di osservazione.

Ciò che segue vorrebbe perciò tentare di capire se le storiografie che si sono richiamate

rispettivamente al “micro” e al “macro” abbiano utilizzato, e in che modo, categorie legate allo spazio. Non sarà difficile verificare come entrambe queste tradizioni metodologiche siano indifferenti alla categoria di spazio, così come le ipotesi di mediazione tra le due scale di analisi che sono state avanzate negli ultimi anni. O meglio, i riferimenti spaziali di micro e macro sono di tipo formale, di ordine “logico”.

Al contrario, per capire “locale” e “globale” è necessario introdurre una dimensione spaziale. Gli spazi a cui ciascuno di essi fa riferimento non sono affatto comparabili e, come vedremo, hanno

caratteristiche incommensurabili. Per semplicità, potremmo dire che il globale non è la somma degli infiniti locali di cui si compone spazialmente, ma qualche cosa di più complesso, in grado di plasmare ciascuno di essi. Allo stesso modo, il locale non è il globale ai minimi termini ma ha un suo punto di vista

insopprimibile. Per capire questa seconda coppia – locale e globale -, è necessario a mio avviso introdurre nella discussione un approccio storiografico che si è soliti indicare con il nome di “spatial turn”. Attraverso la sua genealogia è infatti possibile notare come le categorie spaziali abbiano connotato il rilancio di quella che chiamiamo “World History” o la nascita della cosiddetta “Global History” (i due termini non sono affatto equivalenti). Analogamente, radici spaziali hanno caratterizzato gli studi del “locale”, ma l’hanno fatto in modo radicalmente diverso. Dobbiamo perciò chiederci come si possa riconfigurare, in questa prospettiva, la storia “locale”, e quali mediazioni possano esistere tra questa dimensione e il “globale”.

Micro, Macro e lo spazio

Con la fine degli anni ottanta la storia sociale ha cessato di essere il paradigma di punta della ricerca storica5. Nuove prospettive di ricerca emergono in quella congiuntura, la microstoria, la macrostoria, la storia culturale. Tutte criticano la storia sociale: la prima per non tenere sufficientemente in conto gli attori sociali, la seconda per non considerare le strutture (mondiali) del potere, la terza per ignorare l’influenza esercitata dai modelli culturali sulle pratiche sociali6. Nonostante il riferimento a elementi spaziali, tutte queste

prospettive sono indifferenti allo spazio in quanto tale. Lo spazio delle microstorie potrà essere quello di una comunità (Levi) o di una città (Cerutti), di una valle (Ramella e Merzario), di una famiglia (Modica), di un borgo cittadino (Gribaudi), di un’istituzione (Cavallo, Guarnieri), ma si tratta soprattutto di un ambito di relazioni, sia pure localizzato con precisione7. Lo si può esprimere in termini di reti, di alberi, di classi (Thompson), di mobilità sociale, ma non si tratta tanto di uno spazio fisico quanto dell’estensione di una modalità8: è una “costruzione logica”9. Allo stesso modo, il mondo di cui si occupano le storiografie macro è

3F. Trivellato, art. cit., propone esplicitamente di comprendere il locale nel micro (o viceversa), § I, p. 3.

4 P.-A. Rosental, “Construire le “macro” par le “micro”: Fredrik Barth et la microstoria” in Jeux d'échelles: la micro-analyse à l'expérience, J. Revel ed., Paris, Gallimard, 1996, pp. 141-160. Cfr. anche R.S: Scott, Small-Scale Dynamics of Large-Scale Processes, American Historical Review, Vol. 105, No. 2 (Apr., 2000), pp. 472-479. 5 Sewell W.H., The political unconscious of social history, in Id., Logics of history. Social theory and social transformation, University of Chicago Press, 2005, pp. 22-90.

6 Cfr. fra molti Lynn Hunt, ed., The new cultural history : essays. Berkeley, U. California Press, 1989; Joel Appleby, Lynn Hunt and Margaret Jacob, eds., Telling the Truth about History, New York, Norton, 1995.

7 IL riferimento è a: LEVI, G., 1988, Inheriting power : the story of an exorcist, Chicago : University of Chicago Press; CERUTTI, S., 1992, Mestieri e privilegi : nascita delle corporazioni a Torino, secoli 17.-18, Torino, Einaudi;

RAMELLA, F., 1983, Terra e telai: sistemi di parentela e manifattura nel Biellese dell’Ottocento, Torino, Einaudi; Il paese stretto. Raul Merzario. Publisher, G. Einaudi, 1981; Sara Cabibbo, Marilena Modica, La santa dei Tomasi. Storia di Suor Maria Crocifissa (1645-1699), Turin, Einaudi, 1989; Maurizio Gribaudi, Mondo operaio e mito operaio : spazi e percorsi sociali a Torino nel primo Novecento, Einaudi, torino 1987; Sandra Cavallo. Charity and power in early modern Italy : benefactors and their motives in Turin, 1541-1789,Cambridge ; New York, NY, USA : Cambridge University Press, 1995; Patrizia Guarnieri, L'ammazzabambini : legge e scienza in un processo toscano di fine Ottocento, Torino, Einaudi, 1988

8 Treccani, Vocabolario on line, v. spazio. V. Levi critica alle monografie regionali RSI 1973.

9 P. Dockès, Lo spazio nel pensiero economico dal XVI al XVIII secolo, a cura di M. De Stefanis, Milano Feltrinelli 1971 (da cui la citazione, p. 204 dell’ed. it.)

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una dimensione elaborata non dalla geografia ma dalla sociologia dei sistemi o dalla scienza economica10 e fa riferimento, ancora una volta, a delle modalità di relazione quali ad esempio lo studio dell’asimmetria fra centro e periferia11 o istituzioni economiche come proprietà, costi di transazione ecc.. Il riferimento alle scienze sociali è forse la caratteristica che consente a questo genere di studi una grande vitalità e rapporti durevoli con l’economia o con il diritto12. Nel caso della storia culturale, nonostante i suoi contorni siano molto indefiniti, i modelli culturali e le pratiche che li attivano sono sensibili alla dimensione della circolazione13, e anzi oggi giocano una parte rilevante nelle discussioni intorno alla storia globale.

E’ chiaro che la comune indifferenza allo spazio consente una comunicazione tra i due poli della micro e della macrostoria. Intanto, i modelli di microstoria che si sono affermati sul piano internazionale hanno proposto un uso sistematico della biografia (Levi), al punto che l’identificazione fra microstoria e biografia è stata sottolineata da più parti14. E’ stato attraverso il modello di indagine biografico che si è tentato di sviluppare ricerche su scale anche macroscopiche. Per questo motivo infatti si sono potuti sviluppare tanto un filone di “biografie cross culturali”15, cui si sono dedicate storiche come Natalie Zemon Davis, Linda Colley, Mercedes Garcia Arenal ecc., e storici come Tonio Andrade, quanto un genere storiografico nuovo le Global Lives16: queste hanno studiato galassie relazionali sovralocali (o trans-nazionali) di ambito popolare, imperiale ecc. I macrospazi sono stati definiti attraverso la dimensione biografica.

10 Su Wallerstein e i sistemi mondo cfr. David Palumbo-Liu, Bruce Robbins, and Nirvana Tanoukhi, editors., Immanuel Wallerstein and the problem of the world: system, scale, culture, Duke University Press 2011. Wallerstein, I., Spazio economico, in Enciclopedia Einaudi, vol. XIII, Torino 1981, pp. 304-313. Il Fernand Braudel che si lega a Wallerstein non è quello della Méditerranée ma quello di Structures of everyday life : the limits of the possible New York, Harper and Row, 1981 (ed. or. 1979); Braudel, F., Afterthoughts on material civilization and

capitalism, Baltimore 1977 (tr. it.: La dinamica del capitalismo, Bologna 1981). Ma cfr anche Douglass C.North e Robert P.Thomas, The Rise of the Western World, a new economic history, Cambridge, Cambridge University Press, 1973.

11 André Gunder Frank,Dependent accumulation and underdevelopment, London, Macmillan, 1978; Andre Gunder Frank and global development : visions, remembrances and explorations, edited by Patrick Manning and Barry K. Gills.Milton Park, Abingdon, Oxon, New York, Routledge, 2011.

12 G. Arrighi, The geometry of imperialism : the limits of Hobson's paradigm , London, NB 1978 and ID., The long twentieth century : money, power, and the origins of our times, New York, Verso, 1994; L. Benton, Law and colonial cultures : legal regimes in world history, 1400-1900, New York, Cambridge University Press, 2002; Ead., A search for sovereignty : law and geography in European empires, 1400-1900,New York, Cambridge University Press, 2010; Ead., ed.. Legal pluralism and development : scholars and practitioners in dialogue, Ivi, 2012

13 Carlo Ginzburg, “Latitude, Slaves, and Bible: An Experiment in Microhistory.” Critical Inquiry, 31, 2005, 3 3, pp. 665-83. Sanjay Subrahmanyam, Explorations in connected history, New Delhi, Oxford University Press, 2005; Sanjay Subrahmanyam and Muzaffar Alam, Writing the Mughal World: Studies on Culture and Politics, Columbia scholarship Online, 2015; Id., Aux origines de l’histoire globale.Leçon inaugurale prononcée le jeudi 28 novembre 2013,

www.collegedefrance.fr; Id., Global Intellectual History Beyond Hegel And Marx, History and Theory 54 (February 2015), 126-137;Antonella Romano, Impressions de Chine : l'Europe et l'englobement du monde, 16.-17. Siècle, Paris, Fayard, 2016.

14 Cfr. ad es. Jill Lepore, “Historians Who Love Too Much: Reflections on Microhistory and Biography.” The Journal of American History 88, 2001, 1, pp. 129-44. Ora Sabina Loriga, Le petit x : de la biographie à l'histoire , Paris, Seuil, 2010.

15 Il riferimento è a Natalie Zemon Davis, Fiction in the archives : pardon tales and their tellers in sixteenth-century France, Stanford, U.P., 1987; Colley, Linda. 2007. The Ordeal of Elizabeth Marsh: A Woman in World History. NewYork, HarperCollins, M. Garcia Arenal A man of three worlds : Samuel Pallache, a Moroccan Jew in Catholic and Protestant Europe. Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2007; T. Andrade,. “A Chinese Farmer, Two Black Boys, and a Warlord: Towards a Global Microhistory.” The Journal of World History 21, 2011, 4, pp. 573-91.

16 Per alcuni esempi: C. Ginzburg, “Latitude, Slaves, and Bible: An Experiment in Microhistory.” Critical Inquiry, 31 (3), 2005, pp. 665-83; Francesca Trivellato, The Familiarity of Strangers. The Sephardic Diaspora, Livorno, and Cross-Cultural Trade in the Early Modern Period, Yale, Yale University Press, 2009; Sanjay Subrahmanyam, Mondi connessi. La storia oltre l’eurocentrismo (secoli XVI-XVIII), Roma: Carocci, 2014 (a cura di Giuseppe Marcocci); John-Paul A. Ghobrial, ‘The secret life of Elias of Babylon and the uses of global microhistory’, Past & Present, Volume 222, 1, 2014, Pages 51–93; Comparativ, Ausgabe, 6, 2013, Lives Beyond Borders: A Social History 1880-1950, numero speciale curato da Madeleine Herrren e Isabella Löhr. Clare Anderson, Subaltern Lives. Biographies of Colonialism in the Indian Ocean World, 1790-1920, Cambridge: Cambridge University Press, 2012.

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Una seconda via per ipotizzare le relazioni fra la “parte” e il “tutto” le ha concettualizzate come un rapporto fra scale, ma ha inteso la scala non tanto come uno sguardo quanto piuttosto come “un distinto valore euristico”17: la scala dunque è fatta di oggetti dalle dimensioni precise – villaggio, provincia, stato, area transregionale, ecc. Nelle parole di Christian De Vito “Ciò porta a sovrapporre indebitamente il livello dell’analisi (micro/macro) con l’estensione spaziale della ricerca (locale/globale) e a postulare la

suddivisione dei compiti tra un livello macro-analitico in grado di cogliere le strutture e un livello micro-analitico rivolto a comprendere l’agency. La verticalità dei ‘giochi di scala’ finisce così anche per impedire l’esplorazione dei rapporti tra siti nello spazio accidentato della storia”18.

Space or Place?

Queste storiografie dell’ultimo quarto del secolo scorso, pur metodologicamente agguerrite, hanno prestato un’attenzione molto scarsa alla dimensione spaziale. In parte ciò costituiva una reazione a tendenze precedenti: durante il XX secolo molti storici infatti hanno utilizzato uno sguardo geografico, e in tutte le principali culture storiografiche si sono condotte ricerche geografico-storiche di ispirazione positivistica19. In parte tuttavia questa indifferenza era il riflesso della relativa sottovalutazione di tale dimensione da parte delle scienze sociali. Al contrario, con sempre maggior insistenza a partire dagli anni ottanta del secolo scorso si sono levate voci, e si sono condotte ricerche caratterizzate da una diversa sensibilità alla dimensione spaziale. A partire da alcune fondamentali intuizioni di Georg Simmel, Michel De Certeau, Michel Foucault tra molti altri si sono moltiplicate le ricerche orientate allo spazio: l’ecologia storica, lo spazio pubblico, lo spazio sacro, il paesaggio, la città, la cartografia storica, una nuova storiografia dei viaggi e delle esplorazioni geografiche, una storiografia delle infrastrutture ne sono testimonianza20.

Queste voci e queste ricerche vengono in genere indicate con il termine di “Spatial Turn”, un’etichetta di comodo che nasconde un universo molto frastagliato ed eterogeneo di campi di ricerca21. Intanto, va precisato che per spazio e spazializzazione molti suoi praticanti e sostenitori non intendono la semplice localizzazione dei fenomeni. Nel linguaggio della storiografia “spazialista” un luogo non è un punto nello spazio, ma è un nodo di valori, pratiche, identificazioni ecc22. Allo stesso modo, le storie

17 Christian G. De Vito, “Verso una microstoria translocale (micro-spatial history)”, Quaderni storici, 50, 150, 2015, 3, pp. 815-833, n. 23-26 con riferimento a Jacques Revel, ‘Microanalisi e costruzione sociale’, in Idem, ed., Giochi di scala. La microstoria alla prova dell’esperienza, Roma, Viella, 2006; Maurizio Gribaudi, Scala, pertinanza,

configurazione, in Revel, Giochi di scala, soprattutto p. 121-122; Angelo Torre, ‘I luoghi dell’azione’, in Revel, op. cit., pp. 301-317; Juliane Schiel, ‘Zwischen Panoramablick und Nahaufnahme. Wie viel Mikroanalyse braucht die

Globalgeschichte?’, in Tillman Lohse and Benjamin Scheller, eds., Europa in der Welt des Mittelalters. Ein

Colloquium für und mit Michael Borgolte, Berlin and Boston, De Gruyter, 2014, pp. 119-140. Per un recente dibattito tra storici sulla questione della scala: ‘AHR Conversation: How Size Matters: The Question of Scale in History’, Participants: Sebouh David Aslanian, Joyce E. Chaplin, Ann McGrath, and Kristin Mann, American Historical Review, 118, 3, 2013, pp. 1431-1472. Cfr. De Vito, art. cit., n. 4

18 De Vito, art. cit., p. 816

19 Dietro l’influenza di Paul Vidal de la Blache, cfr. Lucien Febvre, La terre et l’évolution humaine: introduction géographique à l’histoire, Paris, A. Michel, 1922; F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Paris, Colin, 1949; sulla Germania cfr. Schweerhoff, sotto; H.C. Darby, An historical geography of England before 1800, Cambridge,University Press, 1936; Ralph H. Brown, HIstorical geography of the United States, New York, Harcourt, Brace, 1948. Lucio Gambi, Una geografia per la storia, torino, Einaudi, 1973.

20 A titolo esemplificativo: Georg Simmel, the Metropolis and Mental Life, Oxford, Blackwellpublishing (online); Michel De Certeau, The practice of everyday life, 2 vols, Berkeley, University of California Press, 1984; Michel Foucault, Space, knowledge and power, in Id., Power, ed. by James D. Faubion, New York, New Press, 2000, pp. 349-364; Beat Kumin, ed., Political space in pre-industrial Europe, Farnham Ashgate, 2009; Sacred Space in Early Modern Europe, ed. Andrew Spicer and Will Coster, Cambridge, University Press, 2005; Susanne Rau and Gerd Schwerhoff, eds., Topographien des Sakralen. Religion und Raumordnung in der Vormoderne, Hamburg u. München, Doelling und Galitz, 2008; sul paesaggio Simon Schama, Landscape and Memory, New York, Knopf, 1995; Denis Cosgrove, The Iconography of landscape : essays on the symbolic representation, design, and use of past environments, Cambridge, UNiversity Press, 1988; sulla città Maurizio Gribaudi, Paris, ville ouvrière : une histoire occultée, 1789-1848, Paris, Découverte, 2014; sulla cartografia storica Bernard Klein, Maps and the Writing of Space in Early Modern England and Ireland (Basingstoke, UK, Palgrave, 2000); una nuova storiografia dei viaggi Sanjay Subrahmanyam, The career and legend of Vasco da Gama, Cambridge,University Press, 1997; una storiografia delle infrastrutture Jo Guldi, Roads to power : Britain invents the infrastructure state, Cambridge, Mass., Harvard University Press 2012; in generale

cfr. Alan R.H. Baker, Geography and history : bridging the divide, Cambridge, University Press, 2003.

21 Christian Jacob, Qu'est-ce qu'un lieu de savoir ?, Marseille, OpenEdition Press, 2014, capitolo su “Spatial Turn”. 22 Leif Jerram, Space: a useless category for historical analysis? History and Theory, 52, 2013, 3, pp. 400-419.

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orientate allo spazio non hanno molto in comune con le procedure della geografia storica della seconda metà del secolo scorso e neppure con le tradizioni storiografiche che, come in Germania, hanno costantemente mantenuto un rapporto con la dimensione spaziale (urbana ma soprattutto regionale)23.

I tentativi di dare un contenuto a questa “nuova” sensibilità storiografica non sono mancati.

Ovviamente non sono affatto univoci, anche se condividono una propensione a concepire lo spazio come una dimensione simbolica piuttosto che come una dimensione concreta24. Diciamo che, pur nel consenso sul fatto che ci si trovi di fronte a una “svolta”, si possono notare due atteggiamenti contrapposti: da un lato vi è chi cerca di trovare continuità e genealogie con i metodi consolidati di analisi spaziale. Così, una geografa storica come Jo Guldi ha sostenuto che lo “Spatial Turn” sarebbe un movimento generale di convergenza delle scienze umane intorno alla prospettiva spaziale che coinvolgerebbe l’antropologia, la storia dell’arte, la psicologia e l’architettura, la religione e la letteratura oltre che la storia25. Ma il movimento sarebbe

riconducibile a una “riflessione generale sulla natura umana situata nello spazio”, una tendenza che andrebbe da Henry Summer Maine a Mircea Eliade, dagli anni 1880 agli anni 1960. Questa tendenza generale delle scienze umane (molto, se non troppo, schematicamente richiamata da Guldi) avrebbe trovato nuovo vigore con l’interesse per lo spazio astratto simbolico e per la località da parte del pensiero teorico francese (Foucault, Lefebvre, De Certeau e Virilio) dell’ultimo terzo del XX secolo. A questa convergenza,

l’invenzione delle tecniche di georeferenziazione (GIS) sviluppatesi negli anni 1960 grazie al “Canada Land Inventory” e progressivamente adattate alle discipline umanistiche, avrebbe fornito strumenti di utilizzazione praticamente universali e un nuovo slancio, al quale stiamo assistendo in questi ultimi anni26.

Se Guldi non attribuisce particolari contenuti alle ricerche di orientamento “spaziale”27, Beat Kumin, Cornelie Hubson e Gerd Schwerhoff, che hanno tentato qualche anno fa un profilo dello “Spatial Turn in History”, hanno insistito sul fatto che l’interesse attuale degli storici è per la natura relazionale dello spazio: secondo un approccio che risalirebbe addirittura a Leibniz, non è lo spazio assoluto, cartesiano ad attirare i ricercatori, ma lo spazio relazionale e il costrutto mentale da cui è prodotto28. Per questi storici lo spazio è una costruzione sociale, una “sintesi mentale”29. L’invito è a studiare le interrelazioni in ambiti dati (ad esempio lo spazio domestico, le osterie ecc.) 30. Gli aspetti privilegiati sembrano del tutto compatibili con i “cultural studies”31 : un approccio costruttivista allo spazio e il privilegiamento dell’analisi simbolica. Ma, ancora una volta, lo spazio è inteso non tanto come una dimensione oggettiva, assoluta, ma come “the common medium for the construction of meaning”32. Lo spazio è una dimensione comunicativa, e resiste a qualsiasi tentativo di classificazione rigida (pubblico/privato): sono le azioni e le pratiche a riempirlo di connotazioni, a farlo esistere.

C’è tuttavia chi si è spinto più in là e ha visto nella svolta legata allo spazio un mutamento più profondo, di ordine epistemologico. Una nuova dimensione, quella del luogo, sembra costituire la sfida più impegnativa: se c’è un termine chiave nella nascita dello “spatial turn”, questo è “place”, che esprime a ogni livello semantico l’importanza della dimensione locale. E’ proprio considerando questo aspetto della

23 Gerd Schwerhoff, Spaces, Places, and the Historians: a Comme nt from a German Perspective, History and Theory, 52, 2013, 3, pp. 420-432.

24 Angelo Torre, « Un « tournant spatial » en histoire ? Paysages, regards, ressources », Annales. Histoire, Sciences Sociales, 63, 2008, 5, pp. 1127-1144. Christian Jacob, Qu'est-ce qu'un lieu de savoir, cit..

25 Guldi, Spatial Turn in the Humanities, www.spatial.scholarslab.org.

26 A titolo esemplificativo: Steven J. Steinberg, Sheila L. Steinberg, GIS: geographic information systems for the

social sciences : investigating space and place, Thousand Oaks, Calif., SAGE, 2006; per un esempio di ricerca, v. il sito cassini.ehess.fr; per un uso sociale e culturale del GIS cfr.il sito web della New York Public Library.

27 Nell’elencodi Guldi c’è un po’ di tutto, da Ranke a Braudel. Cfr.Guldi, Spatial Turn in History, ivi.

28 Beat Kumin e Cornelie Usborne, At Home and in the Workplace: A historical introduction to the “spatial turn”, History and Theory, 52, 2013, pp. 305-318; Gerd Schwerhoff, Spaces, Places,cit. Il riferimento a Leibniz è: The Leibniz-Clarke Correspondence, ed. by H.G. Alexander,

Manchester-New York, Manchester University Press-Barnes nd Noble, 1956, Lettera V, § 27-32, pp. 63-64.

29 Il riferimento è a Martina Löw, Raumsoziologie (Frankfurt: Suhrkamp, 2001); 30 Kumin, Art. cit., pp. 309-318.

31 Doris Bachmann-Medick, “Der Spatial Turn als Cultural Turn,” in Eadem, “Cultural Turns”: Neuorientierungen in den Kulturwissenschaften, 4th ed., Reinbek bei Hamburg: Rowohlt, 2011, pp. 284-328

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discussione che ci si rende conto di come località non abbia alcuna analogia con la “localizzazione”: “place” ha infatti una relazione problematica con lo “spazio”33.

Era stato un politologo, John Agnew, a rivendicare fin dal 1987 la possibilità di un’analisi geografica della politica statunitense e scozzese, nella quale sosteneva che il comportamento politico non trovava spiegazioni tanto in gruppi sociali o etnici quanto in “località”, nodi di relazioni e costruttrici di visioni del mondo e valori34; lo stesso Agnew aveva denunciato due anni dopo la “devaluation of place” nelle scienze sociali, lamentando il fatto che da decenni la località non costituiva una categoria interpretativa della sociologia politica ed elettorale35. Una tesi variamente criticata, ma convincente nell’indicare una “rinascita del luogo” al centro degli studi geografici e politici36. A rafforzare gli argomenti di Agnew era sceso in campo del tutto indipendentemente il filosofo Edward J. Casey37, che aveva contrapposto da un punto di vista

fenomenologico una dimensione locale soggettiva a una dimensione spaziale assoluta, cartesiana, e ne aveva fatto un filo rosso che percorrerebbe tutta la storia della filosofia occidentale38.

In questo stesso senso uno dei protagonisti della svolta “spaziale”, Denis Cosgrove, segnalava nel 2004 la comparsa di “more culturally and geographically nuanced work, sensitive to difference and specificity, and thus to the contingencies of event and locale”. Proponeva intanto di riconsiderare forme di pensiero e rappresentazione geografica allora svalutate, come la corografia, cioè una dimensione di rappresentazione dello spazio dal punto di vista “ego-centrato” e riteneva che la categoria di paesaggio permettesse di analizzare la realtà geografica incorporando i punti di vista soggettivi. Cosgrove sosteneva poi che questa nuova sensibilità, riferita indifferentemente a una svolta “spaziale” o “culturale”39, proponeva una nuova relazione fra scienze sociali e i tradizionali campi ermeneutici degli studi umanistici. La svolta

privilegiava questioni di interpretazione rispetto a teorie mutuate da economia, biologia, psicologia o politologia. Poneva poi al centro di questa trasformazione la geografia, che dopo ricorrenti crisi di identità era emersa come un “key point of reference within this disciplinary convergence”40. Si trattava in realtà, come è stato fatto notare, di uno “spazio” simbolico, metaforico, che giustifica il parallelo fra “spaziale” e “culturale” suggerito dal geografo inglese41. Questo spazio simbolico ha ispirato numerose ricerche di geografia culturale: dallo studio delle associazioni nella valle della Loira da parte di Alan Baker alle ormai numerosissime indagini sul paesaggio come forma culturale42.

A riprova del carattere interdisciplinare di questa prospettiva analitica centrata sul “place”, vanno poi tenute presenti le considerazione di antropologi come Arjun Appadurai, che partono dalla fragilità costitutiva dello spazio locale - il fatto che in ogni momento le unità insediative, i vicinati, si possono contrapporre 33 Leif Jerram, art. cit.

34 Una bella discussione del libro da parte di Fred M. Shelley e D.G. Pringley in Classics in human geography revisited, Progress in Human Geography 27, 2003, 5, pp. 605–614, con una replica dello stesso Agnew.

35 J. Agnew. Place and politics : the geographical mediation of state and society, Boston, Allen and Unwin, 1987; Agnew and James S. Duncan, eds., The power of place : bringing together geographical and sociological imagination, Boston, Unwin Hyman, 1989; Charles W. J. Withers, Place and the "Spatial Turn" in Geography and in History, Journal of the History of Ideas, Vol. 70, No. 4 (Oct., 2009), pp. 637-658 non crede tanto alla causalità proposta da Agnew, ma è d’accordo sul “revival of place”, p. 646, secondo lui visibile anche nell’ingresso di geografi (Felix Driver) nelle riviste di storia, ad esempio History Workshop nel 1995. Cfr. Felix Driver and Raphael Samuel, “Rethinking the Idea of Place”, History Workshop Journal, 39 (Spring, 1995), pp. v-vi.

36 Whithers, art. cit.

37 Edward S. Casey, The fate of place: a philosophical history, Berkeley, University of California Press, 1997; Exploring the work of Edward S. Casey : giving voice to place, memory, and imagination, edited by Azucena

Cruz-Pierre and Donald A. Landes ; including interviews with Edward S. Casey, New York : Bloomsbury Academic, 2013.

38 Casey, How to Get from Space ato Place in a Fairly Short Stretch of Time, in Steven Feld and Keith H.Basso, Senses of Place, School of American Research Press, Santa Fe, 1996, pp. 13-52.

39 Cfr. R. Kingston, Mind over matter. History and the spatial turn, Cultural and Social History, 7, 2010, 1, pp. 111– 121.

40 COSGROVE, D., Social formation and symbolic landscape, Totowa, Barnes and Noble, 1984. Id., “Landscape and Landschaft”, German Historical Institute Bulletin, 35, (special issue dedicated to The Spatial Turn in History,ed. byT. ZELLER), p. 57-71, in part. p. 58.

41 Torre, Un “tournant spatiale en Histoire?” cit.

42 Alan H.R. Baker, Fraternity among the French peasantry : sociability and voluntary associations in the Loire valley, 1815-1914, Cambridge, Cambridge University Press, 1999. sulla cultural geography cfr. William Norton, Margaret Walton-Roberts, Cultural geography : environments, landscapes, identities, inequalities , Ontario, Oxford University Press, 20143 e Don Mitchell, Cultural geography : a critical introduction , Malden, Mass, Blackwell, 20012.

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reciprocamente o dividere al proprio interno – per ipotizzare la costante necessità di tecniche di controllo. Attraverso un processo che è stato definito di “produzione di località”, è possibile produrre figure sociali riconoscibili, dotate cioè di competenze localmente condivise: si costruiscono, cioè, figure di “nativi”, di cittadini del luogo, che ne incarnano la cultura, le pratiche, i modi condivisi di pensare e di agire43. Si tratta di un processo basilare, cui è stata finora dedicata scarsa attenzione, e che è invece in grado di spiegare aspetti cruciali delle società locali e delle loro connessioni più ampie44

Esiste dunque una tensione fra “locale” e “spaziale” che impedisci di pensarli come poli di un unico continuum: essa non investe tanto problemi di scala, ma di sguardo, di punti di osservazione. Dobbiamo chiederci quanto tale tensione sia destinata a influenzare le ricerche concrete.

Global

Questo tentativo di “spazializzare la narrazione storica”, come aveva invocato uno dei suoi profeti, il geografo americano Edward Soja, è stato addirittura riproposto come metodologia della ricerca storica, ma il campo di studi in cui lo troviamo maggiormente applicato è la storiografia della globalità45.

A partire dal 1992 il termine sembra fare il suo ingresso nella letteratura storica e soprattutto sociologica con il senso comunemente attribuitogli oggi46. Successivamente il campo di studi che usano questo termine si è talmente allargato, da renderne impossibile una definizione. In un puntuale tentativo di ricostruzione storica, Dominic Sachsenmaier insiste sull’inesistenza di consenso fra i globalisti su aspetti cruciali quali la scala e la cronologia e si limita a caratterizzare le “many facets” della global history (d’ora in poi: GH)47: essa viene di volta in volta intesa come un’area di indagine geografica, come un periodo specifico (ad es. il periodo early modern), oppure le si attribuiscono significati teleologici (globale = moderno)48. La GH si è dovuta intanto differenziare dalla World History, che aveva tradizioni più consolidate. Entrambe si occupano di fenomeni transregionali (con cui si intendono ambiti più ampi degli stati nazionali). L’interesse della “World History” per la circolazione delle persone e delle cose, ma soprattutto una forte ostilità nei confronti della dimensione nazionale, fanno parlare di una dimensione “transnazionale”: questa etichetta, molto diffusa nelle scienze sociali fin dagli anni ottanta, si è estesa agli studi storici solo alla fine degli anni novanta49. GH è diventata così un “intellectual trend” che pretende di esercitare attrazione su alcune tradizioni metodologiche rivali: soprattutto la storia comparata, che viene accusata di “ignorare le mutue influenze” tra gli oggetti da confrontare, di considerarli “aprioristicamente isolati” per fini metodologici: alla comparazione si oppone il “border-crossing” 50. Un segno di questa pretesa di inglobamento può essere ravvisata nella creazione nel 43 Ariun Appadurai, The production of locality, in FARDON, Counterworks, pp. 204-226 . Cfr. Anne Gerritsen, Scales of a Local.The Place of Locality in a Globalizing World, in A Companion to World History, ed. by Douglas Northrop, Blackwell Publishing, 2012, pp. 213-226, p. 217 per un diverso riferimento alla produzione di località, su cui infra.

44 Angelo Torre, Luoghi. La produzione di località in età moderna e contemporanea, Roma, Donzelli, 2011. 45Edward Soja, Postmodern Geographies: The Reassertion of Space in Critical Social Theory, London-New York, Verso, 1989. Philip J. Ethington, Placing the Past, Rethinking History, 11, 4, 2007, pp. 465-493.

46 Geoff Eley, Historicizing the Global, Politicizing Capital: Giving the Present a Name, History Workshop Journal, 63, 2007, pp. 154-188, con i commenti di Maxine Berg e Sanjay Subrahmanyam. Eley riconduce a Roland Robertson, Globalization: social theory and global culture, London, Sage,1992 l’avvio della discussione critica sulla

globalizzazione, p. 184. Secondo Sachsenmaier, op. cit., p. 68: il termine “globale” fino agli anni sessanta è stato usato per riferirsi alla storia intera del mondo o alla modernità.

47 Non ultima, e paradossale, la sua articolazione “nazionale”: Stati Uniti, Germania e Cina praticherebbero approcci diversi alla GH: Sachsenmeier, Global Perpsectives on Global History. Theories and Approaches in a Connected World, Cambridge, University Press, 2011, pp. 59-232. Si veda anche Catherine Douki e Philippe Minard, Historie globale, histoires connectées:un changement d’échelle historiographique? Introduction, Revue d’histoire moderne et contemporaine, 64, 4, 2007, pp.7-21. Una importante critica della “global history” in Frederick Cooper, What is the concept of Globalization for? An African Historian’s Perspective, African Affairs, 100, n. 399, 2001, pp. 189-213. 48 Sachsenmaier , pp. 72-73.

49 Ivi, 75-76; Kenneth Pomeranz, Histories for a Less National Age, American Historical Review, 119, 1, 2014, pp. 1-22, p. 2. Pierre-Yves Saunier, “Learning by doing. Notes about the Making of the Palgrave Dictionary of Transnational History”, Journal of Modern European History, 6, 2008, 2, 159-180 e Patricia Clavin , Defining Transnationalism, Contemporary European history, 14, 2005, 4, 421-39.

50 Simona Cerutti – Isabelle Grangaud, Sources and Contextualizations: Comparing Eighteenth-Century North African and Western European Institutions, Comparative Studies in Society and History, 59, 1, 2017, pp. 5-33; Sachsenmaier, pp. 80-82.

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1999 da parte della “American Historical Review” della categoria “Global and comparative” nella sezione delle recensioni51. Perciò, quando, nel 2006, nel presentare la nuova rivista “Journal of Global History”, Patrick O’Brien sosteneva che “comparisons and connections are the dominant styles of GH”, in realtà esprimeva forse la volontà di annettere un intero settore di studi nella nuova disciplina 52.

E’ certo il secondo aspetto – quello delle connessioni - a caratterizzare più specificamente la tendenza “globalista”.Ciò potrebbe forse spiegare il rapido abbandono di approcci dualistici (centro periferia53, ma soprattutto basso-alto54), che avevano segnato le tradizioni intellettuali e le discussioni metodologiche nei periodi precedenti. Questa conversione si accompagna significativamente al nuovo favore accordato ad approcci che rivalutano fenomeni di ibridazione e influenze reciproche55. A questi aspetti si è aggiunta poi la critica dell’eurocentrismo da parte degli “area studies”, che hanno lavorato sulle influenze extraeuropee sulla stessa storia europea56.

Uno dei contributi più unanimemente riconosciuti della nuova etichetta storiografica, in ogni caso, è la creazione di “more complex notions of historical space”57. La ricerca di nuove categorie spaziali di interpretazione ha investito per prima la storia economica, una delle protagoniste della corsa verso la GH: l’esempio più clamoroso, ed efficace, è l’analisi su scala continentale condotta da Kenneth Pomeranz combinandola con studi locali (regionali) piuttosto che con gli stati proto- o nazionali58. Accanto alle divergenze transcontinentali, si sono studiate reti mercantili, commercio transregionale (e in generale “flussi” di persone e cose), organizzazioni translocali59. Da questo punto di vista la GH ha messo in luce

“macroscopic transfers no longer through nations or Western-centered biases”60. Ma ne è stata investita anche la storia sociale, come mostrano lo studio delle migrazioni e la scoperta delle dimensioni

“diasporiche” della storia umana. Tutti questi fattori hanno sottolineato l’esistenza di dimensioni spaziali in precedenza mai prese in considerazione. Da queste nuove dimensioni spaziali, la GH ha creato “new approaches to political formations”61: l’attenzione alle élites transnazionali, o addirittura a ordini giuridico-istituzionali internazionali, la diffusione globale di singole istituzioni hanno fatto profondamente rivisitare 51 Sachsenmaier, p. 81.

52 Patrick K. O’Brien, “Historiographical Traditions and Modern Imperatives for the Restoration of Global History,” The Journal of Global History 1, 1, 2006, pp. 3-40.

53 Tra infiniti esempi: Edward Shils, Center and periphery : essays in macrosociology, Chicago, University of Chicago

Press, 1975; Cfr. S. Tarrow, Between center and periphery : grassroots politicians in Italy and France, New Haven, Yale University Press, 1977; Christopher Chase-Dunn and Thomas D. Hall, eds., Core/periphery relations in

precapitalist world, Boulder, Westview Press, 1991.

54 Eric J. Hobsbawm, Social bandits and primitive rebels; studies in archaic forms of social movement in the 19th and 20th centuries, Glencoe, Ill., Free Press, 1959; Edward P. Thompson, Whigs and Hunters. The origins of the Black Act, London, Allen Lane, 1975. Natalie Zemon Davis, Society and Culture in Early Modern France: Eight Essays.

Stanford, CA: Stanford University Press, 1975.

55 Soprattutto analisi del colonialismo: Frederick Cooper, Colonialism in question : theory, knowledge, history, Berkeley, University of California Press, 2005.

56 Guido FRANZINETTI, The strange death of area studies and the normative turn, Quaderni storici, 150, 1, 2016 , pp. 834-872; Ali Mirsepassi, Amrita Basu, and Frederick Weaver, eds., Localizing knowledge in a globalizing world :

recasting the area studies debate, Syracuse, N.Y., Syracuse University Press, 2003; Sachsenmeier, p. 82. Jack Goody, The theft of history, Cambridge, Cambridge University Press, 2006.

57 Sachsenmaier, p. 81.

58 Kenneth Pomeranz, The great divergence: China, Europe, and the making of the modern world economy, Princeton

NJ, University Press, 2000.

59 Kenneth Pomeranz, Political Economy and Ecology on the Eve of Industrialization: Europe, China and the Global Conjecture, American Historical Review, 107, 2, 2002, pp. 425-446; Daron Acemoglu, Simon Johnson e James A. Robinson, Reversal of Fortune: Geography and Institutions in the Making of Modern Income Distribution, The Quarterly Journal of Economics, 117, 4, 2002, pp. 1231-1294; Claude Markovits, The Global World of Indian Merchants, 1759-1947: Traders of Sind from Bukhara to Panama, Cambridge, University Press, 2000; James Tracy, ed., The rise of Merchant Empires: Long Distance Trade in the Early Modern World, Cambridge, University Press, 1990; Hsin-ju Liu, The Silk Road; Overland Trade nd Cultural INteractions in Eurasia, Washington, DC, American Historical Association, 1998; Bruce Mazlish e Alfred D. Chandler, eds., LEAviathans: Multinational Corporations and the New Global History, Cambridge, University Press, 2005; Shigeru Akita, ed., Gentlemanly Capitalism, Imperialism, and Global History, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2002.

60 Sachsenmaier, 84. 61 Ivi, p. 89

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criticamente la dimensione nazionale – in parallelo con la World History - e scoprire le dimensioni sovranazionali di molti fenomeni culturali62. Sono inoltre nati “global frames” che sottolineano come fenomeni a lungo collegati alla peculiarità europea (libertà, diritti) siano nati da un “complex Atlantic nexus”; oppure come caratteri creduti nazionali (ad esempio la “Britishness”) possano essere considerati il prodotto di fenomeni transcontinentali; infine GH fa vedere come nazioni e “imperial order” co-evolvano come parti di un medesimo processo 63.

Nuovi spazi dunque attirano lo sguardo degli storici, e stimolano la nascita di una inedita coscienza della necessità di interrogarsi su di essi. Tuttavia non è chiaro come questi studi, che rivendicano tutti la loro “novità” a partire dal nuovo interesse per lo spazio, trattino in effetti questo nuovo oggetto. Sebastian Conrad, in una importante messa a punto si è chiesto con quali strumenti la GH abbia affrontato l’analisi dello spazio64. Quel che è interessante per lo storico tedesco non è tanto l’uso di categorie spaziali “planetarie”, come oceani, mari ecc., imperi, commercio di lunga distanza o ambiente65. Tali categorie, infatti, non impediscono di affrontarne lo studio su scale “incongrue” come quelle nazionali (ad esempio un fenomeno globale come la schiavitù non dovrebbe essere studiato a una scala nazionale). Se è legittimo dire che “non tutto quel che è non-nazionale è globale”, è lo spazio globale a dover essere ripensato. A questo fine, Conrad individua almeno quattro strategie di ricerca: la costruzione di regioni transnazionali, la definizione di specifici paradigmi di ricerca, il pensare per networks, la costruzione di microstorie del globale. Ciascuno di questi aspetti merita un commento specifico.

La costruzione di regioni transnazionali è passata attraverso la definizione di unità che mediano tra condizioni locali e grandi costellazioni: dalla regione atlantica – uno dei fulcri della dimensione

transnazionale e globale – in età moderna e contemporanea, alla tradizione eurasiatica. Infine l’attenuazione della “narrativa eurocentrica” per le aree periferiche del pianeta66 ha prodotto categorie come Zombia, la transregione asiatica teorizzata da Alfred Michaud e oggetto di un importante libro di Jim Scott67. Gli specifici paradigmi di ricerca cui Conrad fa riferimento consistono in una procedura che egli chiama “following” e che egli stesso rivendica direttamente desunta dalla nuova antropologia culturale degli anni 62 La cucina è uno degli esempi più diffusi: cfr. Food, Migration, and Mobility in Historical Perspective, Nineteenth to Twenty-First Century,ed. by Simone Cinotto, special issue of Quaderni storici, 151, 1, 2016. Cfr.anche Jeffrey Pilcher, Food in world history, New York Routledge, 2006 and Id., ed., The Oxford handbook of food history, Oxford - New

York, Oxford University Press, 2012.

63 Sugli imperi atlantici cfr. J.H.Elliott, Empires of the Atlantic world : Britain and Spain in America, 1492-1830, New

Haven, Yale University Press, 2006; per un’interpretazione co-evolutiva cfr. Tamar Herzog, Frontiers of possession :

Spain and Portugal in Europe and the Americas, Cambridge Mass., Harvard University Press, 2015. Al di fuori dalla biologia, sul concetto di co-evoluzione cfr. Richard B. Norgaard, Development Betrayed: The End of Progress and a Co-Evolutionary Revisioning of the Future., London, Routledge, 2006.

64 Sebastian Conrad, What is Global History?, Princeton, Princeton University Press, 2016, cap. 2, 6 e 10 in

particolare. Barney Warf and Santa Arias, The Spatial Turn: Interdisciplinary Perspectives, London, Routledge, 2008. 65 Ma v. ora David Armitage, Alison Bashford e Sujit Sivasundaram, Oceanic Histories, Cambridge, Cambridge University Press, 2018

66 Conrad si riferisce a Dominic Sachsenmaier, Recent Trends in European History: The World beyond Europe and Alternative Historical Spaces, Journal of Modern European History 7 (2009), 5–25; Markus P. M. Vink, Indian Ocean Studies and the “New Thalassology,” Journal of Global History 2 (2007), 41–62; Michael N. Pearson, The Indian Ocean, London (Routledge) 2003; Denys Lombard, Le carrefour javanais: Essai d’histoire globale, 3 volumes, Paris (École des hautes études en sciences sociales) 1990; Charles King, The Black Sea: A History, New York (Oxford University Press) 2004; Matt Matsuda, The Pacific, American Historical Review 111 (2006), 758–780; Katrina Gulliver, Finding the Pacific World, Journal of World History 22 (2011), 83–100; R. Bin Wong, Between Nation and World: Braude-lian Regions in Asia, Review 26 (2003), 1–45; Sunil Amrith, Crossing the Bay of Bengal: The Furies of Nature and the Fortunes of Migrants, Cambridge, MA (Harvard University Press) 2013;. Takeshi Hamashita, China, East Asia and the Global Economy: Regional and Historical Perspectives, ed. by Linda Grove and Mark Selden, New York (Routledge) 2008; Mizoguchi Yuzo, Hamashita Takeshi, Hiraishi Naoaki, and Miyajima Hiroshi (eds.), Ajia kara kangaeru [Rethinking History from the Perspective of Asia], 7 volumes, Tokyo (University of Tokyo Press) 1993–94; John Lee, Trade and Economy in Preindustrial East Asia, c. 1500-c. 1800: East Asia in the Age of Global

Integration,Journal of Asian Studies 58 (1999), 2–26; Sugihara Kaoru, Ajia taiheiyō keizaiken no koryū [The Rise of the Asia-Pacific Economy], Osaka (Osaka Daigaku Shuppankai) 2003.

67 Jim Scott, The art of not being governed : an anarchist history of upland Southeast Asia, New Haven, Yale

University Press, 2009; Willem van Schendel,. "Geographies of knowing, geographies of ignorance: Jumping scale in Southeast Asia", in Kratoska, P. H.; Raben, R.; Nordholt, H. S. Locating Southeast Asia: Geographies of Knowledge and Politics of Space. Singapore University Press, 2005 pp. 275-307 e Jean Michaud. “Editorial – Zomia and beyond", Journal of Global History, 5, 2010. Conrad, p. 227.

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ottanta: seguire le persone, le cose, le parole e le metafore era il programma lanciato in un celebre intervento da George M.Marcus, uno dei protagonisti di quella stagione68. Per Marcus si tratta del progetto di una nuova etnografia “multi-centrata” che estende il metodo dell’osservazione partecipata, peculiarità dell’osservazione antropologica, da situazioni “chiuse” a una molteplicità di siti in connessione reciproca. Invita perciò a considerare flussi e movimenti anche su grandi distanze invece di ambiti sociali o culturali circoscritti, villaggi, quartieri, o luoghi di socialità69. In questo senso la “multi-sited analysis” ha un legame diretto con una nozione aperta di spazialità, costruita sui networks. Di questa strategia analitica interessa soprattutto la possibilità offerta di seguire gli attori: una delle bandiere metodologiche della microstoria italiana viene così ricondotta alle sole intuizioni di Bruno Latour70, e si ricollega così strettamente alla metodologia del

“seguire”. Seguire persone cose e simboli e costruire le reti tra i siti delle loro interconnessioni rende dunque possibile la quarta strategia, che abbiamo già incontrato all’inizio di questa carrellata: la ricostruzione di microstorie globali. Questo terreno ha prodotto una grande quantità di lavori anche di ottimo livello, cui ho accennato all’inizio71, e che hanno effettivamente mostrato la percorribilità di queste nuove dimensioni della ricerca e di cui, come ho suggerito, la connessione con lo spazio è assai problematica.

Di queste quattro strategie, mi sembra cruciale soprattutto la seconda, il metodo del “seguire”: essa mi sembra in grado di spiegare l’insistenza di molti “global historians” sul carattere “intrinsecamente relazionale” della loro pratica storiografica: nelle parole di Conrad le unità storiche (le nazioni come le famiglie) non si sviluppano isolatamente ma possono essere capite attraverso interazioni con altri72. La relazionalità del passato mette in crisi racconti etnocentrici che possiamo comprendere nel genere ‘Rise of the West’, e insiste sul ruolo costitutivo dell’interazione tra regioni, o tra Europa e il resto del mondo. In una parola il cambiamento storico non si spiega “from within”73.

Sarebbe interessante chiedersi da dove provenga questa convinzione, se sia un risultato totalmente empirico o se dipenda da qualche assunto teorico. Una pista ovvia è rappresentata dalla semantica, in cui la polemica che ha opposto “internalisti” – non esiste nulla al di là del linguaggio e delle sue regole – ed “esternalisti” – il linguaggio si spiega con il rapporto tra parola e mondo - ha segnato la storia della

disciplina74. Ma anche altre direzioni sarebbero da esplorare – penso soprattutto alle critiche decostruzioniste e alle geografie della letteratura, che hanno fatto delle interazioni e dei flussi di informazioni e modelli una qualificante chiave interpretativa75. Meno implicati mi paiono gli economisti o gli storici dell’economia: essi parlano, a proposito del globale, di “market integration”, di “convergence” piuttosto che di “connection”76. Anche se sono auspicabili ulteriori approfondimenti, la connessione sembra essere uno specifico paradigma di natura antropologico-culturale.

68 George E. Marcus, Ethnography in/of the World System: The Emergence of Multi-Sited Ethnography,

Annual Review of Anthropology, Vol. 24 (1995), pp. 95-117, p.99: “The global is an emergent dimension of arguing about the connection among sites in a multi-sited ethnography”. Curiosamente, un saggio fondamentale della

microstoria, come Il nome e il come di Carlo Poni e Carlo Ginzburg, oltretutto precedente, non viene neppure ricordato a questo proposito: Carlo Ginzburg, and Carlo Poni, “The Name and the Game: Unequal Exchange and the

Historiographical Marketplace” (1979), in Edward Muir and Guido Ruggiero, eds., Microhistory and the Lost People of Europe. Selections from Quaderni storici, Baltimore, Johns Hopkins University Press 1991, p.1-10.

69 L’esempio più ovvio a questo proposito, è il libro di Sidney Mintz, Sweetness and power : the place of sugar in modern history , Viking, New York, 1985. Ma la bibliografia è ormai assai ampia. Cfr. Susan Ossman, Moving Matters. Paths of Serial Migration, Stanford, Stanford University Press, 2013 che esplicitamente si rifà a Marcus.

70Il riferimento è a Bruno Latour, Reassembling the Social: An Introduction to Actor-Network Theory, Oxford, Oxford University Press, 2005.

71 Qui sopra, secondo paragrafo.

72 Ancora Trivellato, art. cit., passim ma § VII in particolare

73 Conrad, p. 4 e cap. 3: p. 65 “global histories are inherently relational. This means that a historical unit—a

civilization, a nation, a family—does not develop in isolation, but can only be understood through its interactions with others. In fact, many groups only jelled into seemingly fixed units as a response to exchange and circulation”. Anche in polemica con le storie postcoloniali ecc.“all rely on internalist logics in their attempt to explain what must be

understood as a global phenomenon”, p. 75.

74Steven Davis and Brendan S. Gillon, Semantics: a reader, Oxford, Oxford University Press, 2004.

75 L. Lutwack, The Role of Place in Literature, Syracuse U.P., Syracuse, NY, 1984; W.E. Mallory e P. Simpson-Housley, eds., Geography and Literature. The Meeting of the Disciplines, Syracuse, NY, Syracuse U.P., 1987; Franco Moretti, Graphs, maps, trees: abstract models for a literary history, London, Verso, 2007 and Id., Atlas of the European novel, 1800-1900, ivi, 1998.

76 A pur o titolo di esempio cfr. Kevin H. O’Rourke e Jeffrey G. Williamson, Globalization and History. The Evolution of a Nineteenth-Century Atlantic Economy, MIT Pres, Cambridge Mass., 1999.

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Tutti questi spunti, in ogni caso, mi sembrano puntare in una direzione precisa, e cioè l’influenza sempre più netta della “cultural history” – soprattutto nelle sue componenti legate all’analisi dello spazio - sui paradigmi esplicativi della storia globale77. Mi pare, di più, che questo riconoscimento permetta di capire alcune delle caratteristiche di questo genere storiografico: allo stesso tempo, però, esse mi paiono aprire uno squarcio su alcuni degli aspetti che maggiormente sembrano limitare la profondità analitica della GH.

Mentre di solito i critici della GH si concentrano sulla distanza degli storici della globalità dalle fonti d’archivio, se non addirittura sull’indifferenza per le informazioni di prima mano che caratterizza questo genere di lavori, vorrei qui sottolineare soprattutto il fatto che essi tendano appunto a limitarsi a constatare la globalità delle relazioni e degli scambi, cioè a verificare le connessioni piuttosto che a spiegarle.

Difficilmente, mi pare, si va al di là di questa dimensione: così, limitare il lavoro a una dimensione constatativa, ha come effetto di estromettere dall’analisi i funzionamenti della società (o della cultura) e soprattutto i significati che – nella nuova infrastruttura concettuale – gli attori stessi davano o potevano dare alle pratiche – locali come translocali.

Per maggiore chiarezza, vorrei illustrare questo aspetto con l’esame di un lavoro importante, l’articolo di Emma Rotschild su Angoulême nel secolo XVII e XVIII. Di questa città della Charente, spesso assunta a simbolo di una “France profonde”, l’autrice mostra, in polemica con le monografie regionali della storiografia economico-sociale francese, le non sporadiche connessioni con una economia “globale” 78: “A history of economic life in the French provinces in the eighteenth century can question the assumption that outside events were unimportant to real or interior or national histories”79.

L’“outside” non è rappresentato dallo stato, come presupponeva la tradizione delle monografie regionali, ma dalla Martinica e dalle Antille francesi. Esito di questa analisi, condotta sulle fonti

demografiche e notarili, è la ricostruzione di reti che uniscono sistematicamente, strutturalmente si sarebbe tentati di dire, abitanti della città con parenti e conoscenti emigrati oltreoceano. Questa constatazione cambia certamente il nostro quadro della società locale, nella quale i legami con le località transoceaniche producono pratiche e documenti straordinari. L’analisi di Rotschild si concentra in particolare sulle reti di relazione locali e sui legami che esse dimostrano con le Antille. Questa analisi mostra in modo impeccabile la sua inaspettata apertura atlantica e ci convince pienamente della necessità di liberarci dell’idea che quella società possa essere studiata con un’analisi endogena (“from within”). Allo stesso tempo, però, non ci dice nulla di quella stessa società. Il problema non sta tanto nell’indifferenza al significato che le pratiche rintracciate potevano avere per i loro protagonisti – e per noi dopo di loro. Piuttosto, la comprensione più piena di una pratica sociale generata dalle relazioni globali ma che si esplica alla scala locale – i suoi motivi, la sua frequenza, i suoi obiettivi - non chiarirebbe solo la storia della società locale, ma soprattutto chiarirebbe i caratteri intrinseci di quella globalità.

Un’indagine delle pratiche sociali a cui una simile scelta si lega avrebbe certamente fatto avanzare la nostra conoscenza non solo di Angouleme, ma soprattutto del senso attribuito localmente ai rapporti fra Angouleme e la Martinica. Insomma, constatare la necessità di un ribadimento di legami locali tra persone e gruppi legati a località oltre Atlantico qualificherebbe quegli stessi legami.

Local

Il richiamo alla necessità di una storia locale punteggia la letteratura sulla GH, e sono consueti i tentativi di mettere in relazione le due dimensioni. Non senza ambiguità, perché, proprio come è avvenuto a proposito della dimensione globale, anche a proposito di quella locale le definizioni sono impossibili: nella letteratura globalista la dimensione di “locale” può andare da quella regionale (sovranazionale) a quella nazionale, e solo in qualche caso raggiunge la dimensione delle unità sociali di base come il villaggio.

Fin dagli anni novanta, e soprattutto da parte degli scienziati sociali teorici della globalizzazione si è insistito sul fatto che locale e globale siano dimensioni complementari, che si richiamano cioè l’una all’altra. Si è sostenuto che la dimensione globale dei fenomeni è verificabile essenzialmente a livello locale, e che 77 Matthias Middell and Katja Naumann, ‘Global history and the spatial turn: from the impact of area studies to the study of critical junctures of globalization’, Journal of Global History, 5, 2010, p. 149-170; Conrad, p. 66: GH “forms part of the larger ‘spatial turn’”.

78 Emma Rotschild, Isolation and Economic Life in Eighteenth-Century France, American Historical Review, 119, 4, 2014, pp. 1055-1082.

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anzi è la dimensione locale a permettere di vedere la sostanza della dimensione globale. Termini come “glocalità” sono stati proposti per descrivere il supposto trionfo delle forze omogeneizzanti.80 Ma, in questi approcci, per “locale” si intende la semplice localizzazione di fenomeni generali o, per restare alla

terminologia usata in questo lavoro, si adotta una griglia di lettura centrata sullo “spazio” piuttosto che sulla località .

Più recentemente sono state avanzate più precise ipotesi di lettura delle culture locali come espressione delle connessioni globali di un luogo. La ricerca di Anne Gerritsen sulla produzione della località nella provincia cinese dello Jiangxi mostra con abbondanza di dettagli il caso di una élite

amministrativa interessata allo studio dei templi locali e alla produzione letteraria della località nel quadro imperiale81. Successivamente la stessa Gerritsen ha tentato di comparare questa situazione con località pur vicine ma votate alla produzione industriale di ceramica, e ha mostrato come proprio i legami con il mercato globale costruiscano e rafforzino l’identità locale anche in assenza di una élite intellettuale attiva82.

Non si può non apprezzare lo sforzo analitico di entrare nelle maglie delle società locali, di coglierne le specificità culturali e produttive. Ma anche in questo caso il solo punto di osservazione, di riferimento, resta il globale. Nelle parole della stessa Gerritsen il locale resta una “perspective” (limitata nello spazio) con cui si guarda il “global development and increasing connectedness”83: l’oggetto vero rimane superimposto alla realtà osservata.

Certamente, un simile atteggiamento nasce dalla diffidenza nei confronti delle tradizioni precedenti di studio della storia locale: nell’intento di dimostrare il primato delle connessioni globali, ad esempio, Gerritsen si lancia in una forte polemica con la English Local History: nella prospettiva degli storici locali “each local community was a ‘distinct and separate entity’ …and …a ‘cultural whole’” 84. Ella rivendica una carica dirompente della prospettiva “global” nei confronti della tradizione, o delle tradizioni, di storia locale in auge fino alla seconda metà del Novecento85.

Questa polemica si spiega senza dubbio con le origini della storia locale: essa è sempre stata un settore di studi dai forti contenuti pratici, di rivendicazione di diritti o di prerogative, avanzati tra XVI e XVIII secolo dalla scienza giuridica e dall’erudizione86. Per gli stessi motivi la professionalizzazione della storiografia nel secolo successivo l’ha messa in relazione – talvolta tesa - con i grandi processi di

formazione e trasformazione istituzionale87. Tuttavia nel secolo XX gli storici della società locale,

particolarmente in Inghilterra, hanno tentato di indagare con metodi propri le società locali e hanno elaborato un metodo di analisi “topografica” della realtà storica delle campagne inglesi che ha trasformato in modo

80 Roland Robertson, Glocalization: Time-space and homogeneity-heterogeneity, in Mike Featherstone , Scott Lash , and Roland Robertson , eds, Global Modernities, pp. 25-44, London, Sage,1992; Anthony Giddens,The Consequences of Modernity . Cambridge, Polity, 1990. Cit. in Anne Gerritsen, Scales of a Local.

81 Anne Gerritsen, Ji'an Literati and the local in Song-Yuan-Ming China, Leiden Boston, Brill, 2007 82 Gerritsen, Scale of a Local, cit.

83 Ivi, p. 216.

84 Ivi, pp. 213-14. La polemica è con H.P.R. Finberg, The local historian and his theme. Introductory lecture delivered at the University College of Leicester, Nov. 6 1952.

85 Dietro esempio di Matthew Kurtz, Re/Membering the town body: Methodology and the work of local history, Journal of Historical Geography 28 ( 1 ), 2002, pp. 42 – 62, che per la verità è uno studio sulla memoria. Ma si veda anche Anthony Hopkins, ed.,. Global History: Interactions between the Universal and the Local. Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2006: globale corrisponde a universale, e locale a soggettivo.

86 Eduard Fueter, Storia della storiografia moderna, 2 vol., Napoli, Riccardi, 1943, vol. 0, pp. 000-00; VittorioTigrino,

Sudditi e confederati : Sanremo, Genova e una storia particolare del Settecento europeo, Alessandria, Dell’Orso, 2009;

Marie, Lezowski, “Conflitti di precedenza, uso degli archivi e storiografia locale alla fine del cinquecento (Pavia 1592)”, Quaderni Storici, 45, 133, 1, 2010, pp. 7–39. Enrico Artifoni e Angelo Torre, eds.,1996, “Erudizione e fonti. Storiografie della rivendicazione”, Quaderni storici, 93; John Brewer, The pleasures of the imagination : English culture in the eighteenth century, London, Harper Collins, 1997;

87 Gian Maria Varanini, ed., Carlo Cipolla e la storiografia italiana fra Otto e Novecento : atti del Convegno di studio : Verona, 23-24 novembre 1991, Verona, Accademia di agricoltura scienze e lettere, 1994; Enrico Artifoni, La

storiografia della nuova Italia, le deputazioni regionali, le società storiche locali, in Una regione e la sua storia. Atti del convegno celebrativo del centenario della Deputazione, 1896-1996, a cura di Paola Pempinelli e Mario Roncetti, Perugia, Deputazione di storia patria per l’Umbria, 1998.

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sostanziale i metodi dell’analisi storica, per esempio rinnovando l’ interpretazione sociale della storia politica inglese88.

La storia locale preconizzata dalla GH rovescia questo assunto, lo riconduce alle spiegazioni “from within”, e fa della località l’esito di un processo di costruzione sociale e culturale direttamente legato alle connessioni globali89. I contorni di questa analisi del locale, in ogni caso, mi sembrano interamente definiti da questa polemica e dall’uso metaforico dello spazio che deriva dallo Spatial Turn. Come nel caso dell’articolo di Rotschild sopra citato, il processo di produzione della località non viene sostanzialmente affrontato. Occorre chiedersi perché, anche qui, ci si arresti a questo punto dell’analisi. Mi pare di poter individuare almeno due motivi: da un lato lo spazio è considerato come una dimensione astratta, resta un guscio vuoto, cartesiano, incapace di condizionare pratiche, visioni del mondo, azioni. La sua realtà è altrove, nelle connessioni appunto. Dall’altro lato, la rinuncia all’analisi concreta dello spazio, che questi lavori palesano, impedisce di cogliere la natura dei rapporti fra località e globalità.

Lo spatial turn, come abbiamo visto, privilegia uno spazio astratto, figurato, metaforico, visuale, e perde di vista lo spazio concreto, vissuto e denso di pratiche che era oggetto di studio delle tradizioni precedenti. Se si pensa lo spazio in termini metaforici, è possibile limitarsi a immaginare che l’interazione con l’esterno “produca” il luogo, mentre nel caso di uno spazio concreto il procedimento richiede faticosi percorsi analitici tra le fonti d’archivio - tribunali, notai, cartografi, fonti osservazionali – e soprattutto esige un approccio interdisciplinare alla località per le molteplici competenze necessarie a comprendere tutte le dinamiche presenti in un luogo90. Ma, quel che è più importante – e che viene ignorato nella prospettiva globalista – è che la prospettiva locale cambia il nostro modo di leggere i documenti. Mentre una storia istituzionale (economica, giuridica o politica, ecc.) privilegia una lettura tipologica delle fonti, la storia locale esige una prospettiva topografica, o per meglio dire la rende possibile. La lettura topografica delle fonti consente di restituire alla spazialità la concretezza che altre prospettive le sottraggono, nel senso che sottolinea la compresenza nello spazio di fenomeni tipologicamente diversi: un tempio, un forno e una pecora possono occupare lo stesso spazio, e mettere in relazione sfere sociali e culturali che dall’esterno noi siamo portati a ritenere del tutto separate. I risultati che si possono ottenere con un’analisi concreta di uno spazio specifico sono di grande interesse: episodi anche minimi nelle dinamiche di attivazione delle risorse vegetali di un luogo hanno conseguenze di grande rilievo, cambiano costantemente il paesaggio rurale91.

Da un altro punto di vista la storia locale prodotta dalla GH, dunque, nel praticare una lettura della località nei termini di un processo di costruzione sociale e culturale direttamente legato alle connessioni globali92, non riesce a dare interamente conto della natura della località. La sua prospettiva di analisi giunge fino al riconoscimento – di derivazione fenomenologica93 - del fatto che le località sono prodotte

soggettivamente. Non sono costruite attraverso azioni concrete, ma attraverso sentimenti: costituiscono “‘a structure of feeling’ rather than an existing social form”94. Il problema è che, con la concezione dello spazio che presiede a queste analisi delle connessioni, non si compie l’indispensabile passo successivo, che consiste nel riconoscere che il locale non è una dimensione soggettiva, ma “emica”95, cioè è costruita con pratiche e 88 William G. Hoskins, Local history in England, Longman, London, 19722; E. Grendi, Storia di una storia locale: l’esperienza ligure, 1792-1992, Venezia, Marsilio,1996; Id., CharlesPhythian Adams e la “Local history” inglese, Quaderni storici, XXX, 89, pp. 559-578. Alan Everitt, Change in the provinces: the seventeenth century, Leicester, Leicester U.P., 1969; Id., Ways and means in local history, London, National Council of Social Service for the Standing Conference for Local History, 1971.

89 Anne Gerritsen, Scales of a Local; De Vito, Verso una microstoria translocale (micro-spatial history), con bibliografia. Cfr. ora Christian De Vito - Anne Gerritsen, ed., Micro-spatial history of the Global Labour, London, Palgrave, 2017: Introduction: Micro-Spatial Histories of Labour: Towards a New Global History, pp. 1-24.

90 Grendi, Storia di una storia locale cit.,; Hoskins, Local History cit., 91 Angelo Torre, Un tournant spatial cit.

92 Anne Gerritsen, Scales of a Local; De Vito, Verso una microstoria translocale 93 Gerritsen, p. 217.

94 Gerritsen, Scales

95 La discussione sulle categorie emic/etic è molto sviluppata tra gli antropologi. Gli storici sembrano meno interessati a esplicitare questi problemi. Si veda in ogni caso Carlo Ginzburg, “Our Words, and Theirs: A Reflection on the Historian’s Craft, Today,” in Susanna Fellman and Marjatta Rahikainen, eds., Historical Knowledge: In Quest of

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