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Guarda Lima Barreto - L’uomo che sapeva il giavanese

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Academic year: 2021

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Lima Barreto

L’uomo che sapeva il giavanese

Traduzione di Sofia Castagneto e Francesca Debernardis

Afonso Henriques de Lima Barreto (1881-1922) nacque a Rio de Janeiro da genitori di origine schiava. Nella sua breve e tormentata vita, afflitto da problemi economici e da crisi di alcolismo, si dedicò al giornalismo e alla narrativa, privilegiando le tematiche sociali ed esercitando la satira politica. Venne severamente criticato dai critici del tempo per lo stile colloquiale e a dir loro sciatto.

Questo racconto venne inizialmente pubblicato nel 1911 sulla Gazeta da Tarde di Rio de Janeiro e poi incluso in una raccolta intitolata O homem que sabia javanês e outros contos.

Una volta, in una pasticceria, raccontavo al mio amico Castro di come, per campare, mi fossi preso gioco delle convinzioni e della rispettabilità.

Addirittura, ci fu una volta, quando mi trovavo a Manaus, in cui ero stato costretto a nascondere i miei studi per guadagnarmi la fiducia dei clienti che giungevano al mio studio di fattucchiere e indovino. Ecco cosa gli raccontavo.

Il mio amico mi ascoltava in silenzio, rapito, così divertito dal mio vissuto alla Gil Blas che, in una pausa del discorso, svuotati i bicchieri, se ne uscì dicendo:

― Hai avuto una vita proprio bizzarra, Castelo!

― Non si può che vivere così… Questa storia di avere un unico impiego, uscire e tornare a casa sempre alla stessa ora, non è noioso? Non so come ho fatto a resistere là al consolato!

― Ci si stanca; ma non è di questo che mi stupisco. Quello che mi stupisce è che tu abbia vissuto così tante avventure qui, in questo Brasile imbecille e burocratico.

― Ma come! Proprio qui, mio caro Castro, si possono scrivere delle belle pagine di vita. Pensa che sono stato addirittura professore di giavanese!

― Quando? Qui, dopo che sei tornato dal consolato?

― No, prima. E, fra l’altro, sono stato nominato console proprio per questo. ― Raccontami com’è andata, allora. La bevi un’altra birra?

― Certo.

Ordinammo un’altra bottiglia, riempimmo i bicchieri, e continuai:

― Ero arrivato da poco a Rio e mi trovavo letteralmente in miseria. Vivevo vagando da una pensione all’altra, senza sapere dove e come guadagnarmi dei soldi, quando lessi sul Jornal do Commercio il seguente annuncio:

“Cercasi professore di lingua giavanese. Documenti ecc.”

Bene, mi sono detto, ecco un posto che non avrà molti concorrenti; se ne masticassi due parole in croce, mi potrei presentare. Uscii dal locale e camminai per le strade, immaginandomi già professore di giavanese, col mio stipendio, viaggiando in tram evitando così spiacevoli incontri con i creditori. Senza neanche accorgermene, mi diressi alla Biblioteca Nazionale. Non sapevo bene quale libro avrei chiesto, ma entrai, lasciai il cappello al portiere, ritirai il

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contrassegno e salii. Sulle scale, mi venne in mente di chiedere la Grande

Encyclopédie, lettera G, per consultare la voce riguardante Giava e la lingua

giavanese. Detto fatto. In pochi minuti, scoprii che Giava era una grande isola dell’arcipelago della Sonda, colonia Olandese, e che il giavanese, lingua agglutinante del gruppo maleo-polinesiano, possedeva una letteratura degna di nota e scritta in caratteri derivanti dal vecchio alfabeto hindu.

L’Enciclopedia citava studi sulla lingua malese, e non esitai a consultarne uno. Copiai l’alfabeto, la sua pronuncia figurata e uscii. Vagai per le strade, passeggiando e ruminando parole.

Nella mia testa danzavano geroglifici; di tanto in tanto consultavo i miei appunti; entravo nei giardini e scarabocchiavo quei simboli nella sabbia per imprimerli bene nella memoria e abituare la mano a scriverli.

Quella sera, quando riuscii a entrare in casa senza essere visto, per evitare le domande indiscrete del portiere, continuai a ripassare l’ABC malese nella mia stanza, e con grande determinazione decisi che la mattina dopo lo avrei saputo alla perfezione.

Mi convinsi che quella era la lingua più facile del mondo e uscii, ma non abbastanza in fretta da non imbattermi nel riscossore degli affitti:

― Signor Castelo, quando salda il suo conto?

Gli risposi, sfoderando il più accattivante ottimismo:

― Presto… aspetti ancora un po’… abbia pazienza… a breve sarò nominato professore di giavanese, e…

A quel punto l’uomo mi interruppe:

― E di che diavolo si tratta, signor Castelo?

Cogliendo al volo il diversivo, approfittai del suo patriottismo. ― È una lingua che si parla dalle parti di Timor. Sa dove si trova?

Oh, povero ingenuo! Il tipo si scordò del mio debito e mi disse con quel vocione da portoghese:

― Per dirla tutta, non lo so, ma ho sentito dire che sono delle terre che possediamo dalle parti di Macao. E lei, lo sa, Signor Castelo?

Ringalluzzito dalla scappatoia che mi offriva il giavanese, tornai a cercare l’annuncio. Eccolo. Con slancio, decisi di propormi come professore della lingua oceanica. Redassi la risposta, passai dal Jornal e la consegnai. In seguito, tornai alla biblioteca e continuai i miei studi di giavanese. Quel giorno non feci grandi progressi, non so se perché giudicassi l’alfabeto giavanese l’unica conoscenza necessaria per un professore di lingua malese o perché mi fossi dedicato più che altro alla bibliografia e alla storia della lingua che avrei insegnato.

Due giorni dopo, ricevetti per lettera l’invito ad andare a parlare al dottor Manuel Feliciano Soares Abernaz, barone di Jacuecanga, in rua Conde de Bonfim, non mi ricordo bene che numero. Senza contare che nel frattempo avevo continuato a studiare il mio malese, ossia il giavanese. Oltre all’alfabeto, avevo imparato i nomi di alcuni autori, sapevo anche chiedere “come sta?” e due o tre

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Non ti immagini neanche le enormi difficoltà che ho avuto a racimolare i quattrocento reis del viaggio! Fidati, è stato più facile imparare il giavanese… alla fine sono andato a piedi. Arrivai sudatissimo e, con cura materna, gli alberi di mango secolari che formavano il viale davanti alla casa del titolare mi ricevettero, mi accolsero e mi diedero conforto. In tutta la mia vita, fu l’unico momento in cui giunsi a percepire l’abbraccio della natura…

Era una casa enorme che sembrava deserta; era tenuta male ma, non so perché, mi venne da pensare che in quell’incuria ci fossero più abbandono e indolenza che propriamente povertà. Saranno stati anni che non veniva ridipinta. Le pareti si stavano scrostando e le grondaie, prive qui e là di quelle piastrelle smaltate di altri tempi, parevano sorrisi sdentati e malcurati.

Mi fermai un po’ a guardare il giardino e notai la fibra vendicativa con cui lo zigolo infestante e la bardana avevano cacciato il caladio e le begonie. I croton, invece, continuavano a crescere con il loro fogliame dai colori mortiferi. Bussai. Ci misero parecchio ad aprire. Alla fine giunse un anziano nero africano, alla cui fisionomia barba e capelli di cotone conferivano una forte impressione di vecchiaia, dolcezza e sofferenza.

Nella sala c’era una galleria di ritratti: arroganti signori barbuti si profilavano inquadrati in enormi cornici dorate, e dolci profili di signore dai capelli raccolti e con grandi ventagli sembravano voler prendere il volo, sospinte dagli ampi vestiti a campana; ma tra quelle vecchie cose, sulle quali la polvere aveva depositato ancora più antichità e rispetto, quella che mi piacque di più fu un bel vaso di porcellana cinese o indiana, come si dice. La purezza di quell’oggetto, la sua fragilità, l’ingenuità del decoro e quel suo opaco bagliore di luna, mi dicevano che era stato fatto da mani bambine, sognanti, per l’incanto degli occhi affaticati dei vecchi disillusi…

Aspettai per un minuto il padrone di casa. Ci mise un po’ ad arrivare. Zoppicando leggermente, portandosi con venerazione dal fazzoletto al naso il tabacco invecchiato, fu così, con grande dignità, che lo vidi arrivare. Mi venne voglia di andarmene. Anche se non fosse stato lui l’alunno, era pur sempre un delitto imbrogliare quell’anziano, la cui vecchiaia mi faceva venire in mente qualcosa di augusto, di sacro. Esitai, ma rimasi.

― Io, ― incominciai ― sono il professore di giavanese di cui ha detto di avere bisogno.

― Si sieda, ― mi rispose il vecchio ―. È di qui? Di Rio? ― No, sono di Canavieiras.

― Come? ― disse ― Parli più forte, che sono sordo. ― Sono di Canavieiras, Bahia ― insistetti.

― Dove ha studiato? ― A Salvador.

― E dove ha imparato il giavanese? ― Indagò, con quella insistenza tipica dei vecchi.

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Non avevo calcolato questa domanda, ma immediatamente architettai una menzogna. Gli raccontai che mio padre era giavanese. Membro dell’equipaggio di una nave mercantile arrivata a Bahia, si era stabilito nei pressi di Canavieiras come pescatore, si era sposato e aveva fatto fortuna, era stato da lui che avevo imparato il giavanese.

― E lui ci ha creduto? E l’aspetto fisico? ― chiese il mio amico, che fino ad allora mi aveva ascoltato in silenzio.

― Non sono poi così diverso da un giavanese ― obbiettai. ― Questi miei capelli lisci duri e spessi e la mia pelle brunita possono darmi tranquillamente l’aspetto di un meticcio figlio di malese… Sai bene che fra di noi c'è di tutto: indios, malesi, taitiani, malgasci, guanci, perfino goti. È un’accozzaglia di razze e tipi da fare invidia al mondo intero.

― Bene, ― fece il mio amico ― Continua.

― Il vecchio, ― ripresi, ― mi ascoltò attentamente. Osservò a lungo il mio aspetto, sembrò che mi considerasse davvero figlio di un malese e mi chiese con dolcezza:

― E dunque sarebbe disposto a insegnarmi il giavanese? La risposta mi uscì senza volere: - Ma certo.

― Potrà sembrarle strano - aggiunse il barone di Jacuecanga ― che io a questa età voglia ancora imparare qualcosa, ma…

― Non mi sembra strano, si sono visti moltissimi casi assai fecondi… ― Quel che voglio, mio caro signor…

― Castelo, ― continuai.

― Quel che voglio, mio caro signor Castelo, è tener fede ad un giuramento di

famiglia. Non so se lei sa che sono il nipote del consigliere Albernaz, colui che accompagnò Pedro I quando abdicò. Tornando da Londra portò qui un libro in una lingua strana, a cui teneva moltissimo. Era stato un indù o un siamese a darglielo, a Londra, come ringraziamento per non so quale favore che mio nonno gli aveva fatto. Quando stava per morire mio nonno chiamò mio padre e gli disse: “Figlio mio, ho qui questo libro, scritto in giavanese. Chi me lo ha dato mi ha detto che evita disgrazie e porta felicità a chi lo possiede. Io non so se sia vero. Ad ogni modo, conservalo; ma, se vuoi che la premonizione che mi ha fatto il saggio orientale si avveri, fai in modo che anche tuo figlio lo capisca, così che la nostra discendenza possa essere felice per sempre”. Mio padre, continuò il vecchio barone, non credette molto a quella storia; ciò nonostante, conservò il libro. In punto di morte, me lo diede e mi disse ciò che aveva promesso al padre. All’inizio, feci poco caso alla storia del libro. Lo misi da parte e andai avanti per la mia strada. Arrivai al punto di dimenticarmene; ma, da un po’ di tempo a questa parte, ho sopportato così tante pene, e così tante disgrazie hanno funestato la mia vecchiaia che mi sono ricordato del talismano di famiglia. Devo leggerlo, comprenderlo, se non voglio che i miei ultimi giorni segnino il disastro per i miei posteri; e, per

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Si azzittì, e notai che i suoi occhi di vecchio si erano inumiditi. Se li asciugò discretamente e mi chiese se volessi vedere il famoso libro. Gli risposi di sì. Chiamò il domestico, gli diede istruzioni e mi spiegò che aveva perso tutti i figli e i nipoti, gli era rimasta solo una figlia sposata, la cui prole, però, era ridotta a un solo figlio, dal corpo debole e dalla salute fragile e instabile.

Portarono il libro. Era un vecchio tomo, un in-quarto antico, rilegato in cuoio, stampato a grandi lettere, su carta spessa e ingiallita. Mancava la facciata iniziale, e per questo non si poteva leggere la data di stampa. C’erano anche alcune pagine di prefazione, scritte in inglese, in cui lessi che si trattava di storie del principe Kulanga, scrittore giavanese di grande importanza.

Informai subito di questo il vecchio barone che, non essendosi accorto che ci ero arrivato grazie all’inglese, finì per avere un’ottima opinione delle mie competenze malesi. Stavo ancora sfogliando lo scartafaccio, con l’aria di chi conosceva perfettamente quella specie di ostrogoto, quando infine contrattammo le condizioni di prezzo e orario, e io mi impegnai a fare in modo che fosse in grado di leggere quel vecchio libro entro un anno.

Da lì a poco, diedi la mia prima lezione, ma il vecchio non fu diligente quanto me. Non riusciva a imparare a distinguere o a scrivere nemmeno quattro lettere. Alla fine, per fare metà alfabeto ci impiegammo un mese, e il signor barone di Jacuecanga non era poi così signore della materia: imparava e disimparava.

La figlia e il genero (penso che fino ad allora non sapessero nulla della storia del libro) vennero a conoscenza degli studi del vecchio e non si preoccuparono. Lo trovarono divertente e pensarono che fosse un’ottima distrazione per lui.

Ma quello che ti stupirà, mio caro Castro, è l’ammirazione che il genero iniziò a provare nei confronti del professore di giavanese. Che cosa incredibile! Non si stancava di ripetere: “Che meraviglia! Così giovane! Se lo sapessi io il giavanese, ah, dove sarei adesso!”.

Il marito di Dona Maria da Gloria (così si chiamava la figlia del barone), era un giudice, uomo potente dalle molte conoscenze, che però non esitava a mostrare di fronte a tutti la sua ammirazione per il mio giavanese. D’altra parte, il barone era contentissimo. Dopo i primi due mesi, aveva lasciato perdere l’apprendimento e mi aveva chiesto che gli traducessi, con una certa frequenza, brani del libro incantato. Gli bastava capirlo, mi disse; non aveva nulla in contrario se qualcuno lo traduceva e lui ascoltava. Così facendo, evitava la fatica dello studio mantenendo lo stesso la promessa.

Sai bene che ancora oggi non so nulla di giavanese, ma inventai alcune storielle assurde e le propinai al vecchio come se fossero racconti epici. E come si beveva quelle fesserie!

Era estasiato, come se stesse ascoltando le parole di un angelo. E come cresceva la sua ammirazione nei miei confronti!

Mi invitò a vivere a casa sua, mi riempiva di regali, aumentava il mio compenso. Alla fine stavo facendo una vita da pascià.

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A questo contribuì il fatto che avesse ricevuto un’eredità da un parente dimenticato che viveva in Portogallo. Il buon vecchio attribuì la cosa al mio giavanese e arrivai quasi a crederlo anch'io.

Pian piano iniziai a non avere più rimorsi; ad ogni modo avevo sempre paura che mi spuntasse davanti qualcuno che sapeva davvero quel patuá malese. E questa mia paura crebbe quando il dolce barone mi mandò con una lettera dal Visconte di Caruru perché mi facesse entrare in diplomazia. Gli feci tutte le obiezioni possibili: la mia bruttezza, la mia mancanza di eleganza, il mio aspetto così levantino.

― Ma come! ― ribatteva ― Suvvia, figliolo, tu sai il giavanese! ― Andai. Il Visconte mi mandò alla segreteria del Ministero degli Esteri con diverse raccomandazioni. Fu un successo.

Il direttore chiamò i capi gabinetto: “Guardate un po’! un uomo che sa il giavanese, che portento!”

I capi gabinetto mi condussero dagli impiegati e dagli scribacchini, e uno di loro mi guardò più con odio che con invidia o ammirazione. E tutti mi chiedevano: “Quindi sa il giavanese? E’ difficile? Qui non c’è nessuno che lo sappia”.

E allora quello che mi aveva guardato con odio si intromise: “È vero, ma io so il Kanak. E lei? Lei lo sa?”. Gli dissi di no e andai a presentarmi al ministro.

L’autorità si alzò, appoggiò le mani sulla sedia, si sistemò sul naso il pince-nez e chiese: ― E dunque conosce il giavanese? ―. Risposi di sì, e alla domanda su dove l’avessi imparato, gli raccontai la storia del famoso padre giavanese. ― Bene ―, mi disse il ministro, ― Lei non può entrare in diplomazia, non ha l’aspetto adatto… la cosa migliore sarebbe un consolato in Asia o in Oceania. Al momento non ci sono posti, ma farò una riforma e lei potrà entrare. Da oggi in poi però, lei entra a far parte del mio ministero e voglio che l’anno prossimo parta per Bali, dove rappresenterà il Brasile al Congresso di Linguistica. Studi, legga Hovelaque, Max Muller e tutti gli altri!

Pensa che fino ad allora non sapevo nulla di giavanese, eppure ero stato assunto e avrei rappresentato il Brasile ad un convegno di sapientoni.

Il vecchio barone morì: lasciò il libro al genero perché lo facesse avere al nipote una volta raggiunta l’età adeguata e mi citò nel testamento.

Mi dedicai con zelo allo studio delle lingue maleo-polinesiane, ma non c’era verso!

A pancia piena e ben vestito, dormivo tra due guanciali, non avevo l’energia necessaria per farmi entrare nella capoccia quelle cose strambe. Comprai libri, mi abbonai a riviste: Revue Anthropologique et Linguistique, Proceedings of the

English-Oceanic Association, Archivio Glottologico Italiano, chi più ne ha ne metta,

ma niente! E intanto la mia fama cresceva. Per strada, quelli che lo sapevano mi indicavano, dicendo agli altri: “Ecco quel tizio che sa il giavanese”. Nelle librerie, i grammatici mi consultavano sulla collocazione dei pronomi in quel gergo delle isole della Sonda. Ricevevo lettere dagli eruditi dell’interno del paese, i giornali

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capire il famoso giavanese. Su invito della redazione scrissi sul Jornal do

Commercio un articolo a quattro colonne sulla letteratura giavanese, antica e

moderna…

― Ma come hai fatto, se non sapevi niente? ― mi interruppe Castro, sempre attento.

― Molto semplicemente: per prima cosa, ho descritto l’isola di Giava, con l’aiuto di dizionari e qualche nozione di geografia, e poi ho citato a più non posso.

― E non si sono mai insospettiti? ― mi chiese ancora il mio amico.

― Mai. Cioè, una volta sono quasi stato beccato. La polizia aveva arrestato un soggetto, un marinaio, un tipo abbronzato che parlava solo una lingua strana. Chiamarono diversi interpreti, ma nessuno lo capiva. Anche io fui chiamato, con tutto il rispetto che la mia conoscenza meritava, naturalmente. Esitai, ma alla fine andai. L’uomo era già stato liberato, grazie all’intervento del console olandese, da cui si fece capire con una mezza dozzina di parole olandesi. E quel marinaio era veramente giavanese, fiu!

Arrivò infine il giorno del congresso, e giunsi infine in Europa. Che bellezza! Assistetti all’inaugurazione e alle sessioni preparatorie. Venni iscritto alla sezione del tupì-guaranì e partii per Parigi. Prima, però, feci pubblicare sul “Messaggero di Bali” la mia foto, le note biografiche e bibliografiche. Quando tornai, il presidente si scusò per avermi assegnato a quella sezione: non conosceva i miei lavori e aveva pensato che, essendo io americano brasiliano, la sezione del tupi-guarani mi spettasse naturalmente. Accettai le sue spiegazioni e ancora oggi non sono riuscito a scrivere le mie opere sul giavanese per mandargliele come promesso.

Terminato il congresso, feci pubblicare degli estratti dell’articolo del “Messaggero di Bali” a Berlino, Torino e Parigi, dove i lettori delle mie opere mi offrirono un banchetto, presieduto dal Senatore Gorot. Ridendo e scherzando, il tutto, compreso il banchetto che mi era stato offerto, finì per costarmi circa diecimila franchi, quasi tutta l’eredità di quel buon credulone del barone di Jacuecanga.

Non persi il mio tempo né il mio denaro. Diventai una gloria nazionale e, quando approdai al molo Paroux, ricevetti un’ovazione da tutte le classi sociali e il presidente della Repubblica, nei giorni successi, mi invitava a pranzare in sua compagnia.

Nel giro di sei mesi fui inviato come console all’Havana, dove rimasi per sei anni e dove tornerò per perfezionare i miei studi delle lingue malesi e polinesiane.

― È fantastico, ― osservò Castro, afferrando il bicchiere di birra. ― Senti: se non fossi contento così, sai che cosa diventerei? ― Cosa?

― Un eminente batteriologo. Si va? ― Si va.

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