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Conflitti e governo del territorio: analisi di scenari futuri tra dispute territoriali e nuove voci progettuali

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Academic year: 2021

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Ad Andrea, alla sua forza e alla sua caparbietà Alla mia famiglia, alla nostra capacità di tornare al punto di equilibrio dopo le tempeste

Miriam Mastinu Conflitti e governo del territorio. Analisi di scenari futuri tra dispute territoriali e nuove voci progettuali

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Abstract

The topic of territorial disputes in a community as for the control and management of the land is an historical component of every people. And the way a territorial dispute influences the development of the territory itself depends on the will of the members of the community to carry on the conflict and the will of local administrations, or governments, to embrace and support such forms of mobilization.

The present thesis aims at giving an interpretation of the various dispute-types, considering them useful occasions to define new stategies of local development and the management of the land.

The community and the territory on which the dispute arises, are the main subjects of the research which tries to give a new meaning to dispute: the community expresses itself through its own ethnogeography (cultural conception of a territory), and claims its own territorial right by suggesting strategies of development.

Two border situations have therefore been analyzed: the case of Tentizzos – Bosa and the case of the outskirts in the Nurra region. The study of such examples of disputes aims at pointing out the new projects on the territory and at giving answers to the needs of the territory and its people.

Miriam Mastinu Conflitti e governo del territorio. Analisi di scenari futuri tra dispute territoriali e nuove voci progettuali

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Introduzione... 7

1.Comunità, concezioni della terra...11

e nuove progettualità... 11

2.Una nuova interpretazione del conflitto: ... 15

disputa territoriale e progettualità collettiva...15

2.1 Dalle comunità etnogeografiche alle concezioni del territorio...17

3. Cittadinanza e associazionismo...23

3.1. La cittadinanza. Teorie a confronto... 24

3.2 Il diritto alla cittadinanza nelle parole di Marshall e Lefebvre ...27

3.3 Comunità e sviluppo locale... 34

3.4 Reti, relazioni e capitale sociale... 41

3.5 Comitati spontanei di cittadini: associazionismo e protesta...52

4. I conflitti territoriali... 57

4.1 Come e perché nascono...59

4.2 Classificazione dei conflitti... 61

4.3 Attori, protagonisti, comparse. Il conflitto urbano e territoriale come ambiente di apprendimento...83

5. Gli attori e il territorio: il caso studio di Tentizzos – Bosa...90

6. Una nuova interpretazione del conflitto territoriale: ...98

nuovi attori e nuova posta in gioco... 98

7. Il caso studio: ... 101

“Comune di Porto Conte”, Alghero... 101

7.1 Trama del conflitto: protagonisti e comparse...110

7.2 Comitati e associazioni a confronto... 114

8. Conclusioni... 124

Bibliografia... 132

Miriam Mastinu Conflitti e governo del territorio. Analisi di scenari futuri tra dispute territoriali e nuove voci progettuali

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La ricerca proposta si pone l’obiettivo di analizzare e definire nuove forme di conflitto territoriale, ponendo l’attenzione sulle controversie che nascono all’interno di una comunità per la gestione e il governo delle trasformazioni dello spazio urbano e territoriale.

La ricerca è volta a scoprire quali siano, nel contesto specifico sardo, le nuove voci progettuali che si relazionano con gli scenari di sviluppo locale; non è intenzione della ricerca definire e affermare quale sia lo scenario o il progetto di sviluppo meglio definito per il territorio analizzato, quanto piuttosto ragionare intorno alle caratteristiche e alle potenzialità progettuali degli scenari proposti dalle comunità.

Andare oltre il principio di interesse e analizzare i possibili esiti a breve e lungo termine, è un modo per confrontare le varie voci progettuali con l’intento di estrapolarne gli elementi positivi e migliorativi per il territorio.

Protagonista degli studi e dei temi trattati è la comunità nella sua capacità di associarsi e di impegnarsi nella rivendicazione di un diritto territoriale; i conflitti territoriali generati dalla presenza di un agente esterno o dispute territoriali tra membri di una stessa comunità per la gestione di un medesimo territorio, sono i contesti in cui si muove la ricerca tentando di analizzare la protesta e la mobilitazione in funzione di uno scenario futuro che si fonda sulla comunità stessa e sulla concezione della terra che la popolazione esprime.

L’autodeterminazione delle comunità non deve muoversi a partire dalla definizione dei propri confini ma piuttosto dalla dichiarazione dei propri valori e obiettivi in relazione al contesto in cui essi agiscono.

La ricerca, che può essere divisa in quattro parti, è strutturata a partire dall’analisi di alcuni concetti chiave, nel campo dei conflitti territoriali, proposti da Kolers (2009); l’idea della ricerca è di muoversi a partire da tali considerazioni, analizzando tutti gli elementi che possono integrarle, con l’obiettivo di delineare una nuova definizione dei conflitti territoriali. La scelta di aprire la tesi con le riflessioni nate nell’ultimo periodo della ricerca, è legata alla volontà di dare un taglio non analitico – descrittivo bensì operativo. In questo senso, la letteratura e le teorie analizzate, non assumono la funzione di fondamento della ricerca ma piuttosto sono i fattori che legittimano le considerazioni prodotte e le rendono

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operative. La tesi infatti si conclude con la riflessione, a partire da un caso studio, riguardo la possibilità di risolvere il conflitto attraverso strategie di sviluppo che vedono come protagonisti la comunità e il territorio. La tesi produce quindi una metodologia di analisi di scenari futuri che si delinea attraverso la consapevolezza che il conflitto esiste e che, se questo viene destrutturato da un punto di vista creativo e innovativo, può generare situazioni di crescita e di condivisione da parte del territorio stesso. Le risorse, siano esse elementi fisici o immateriali (know how, conoscenze), concorrono alla definizione di programmi e progetti alternativi, che smuovono lo stato delle cose e producono trasformazioni urbane e territoriali, nelle quali la popolazione si riconosce e se ne fa portavoce. Le associazioni e le varie forme di condivisione che si sviluppano all’interno della comunità, rappresentano un elemento determinante la nascita e la formazione dei conflitti. Diventano, attraverso, la rivendicazione della propria concezione culturale della terra, i protagonisti delle trasformazioni; l’autodeterminazione di un popolo, o di una piccola comunità, modifica la spazialità e produce la riterritorializzazione (Magnagi, 2010) di un luogo: l’autogoverno e le forme di gestionale sostenibile si configurano così come una possibile alternativa alla gestione non oculata e contestata.

La prima della tesi quindi, ha l’obiettivo di ragionare intorno ad una nuova definizione e strutturazione del conflitto territoriale: gli elementi che lo caratterizzano sono la concezione culturale del territorio, la sua “pienezza” (Kolers, 2009) e la sua antifragilità (Taleb, 2013). La condivisione di una medesima concezione culturale della terra favorisce la produzione di una visione futura del territorio determinata dalle caratteristiche insite in esso e dalle esigenze che quel territorio determina. In una situazione di conflitto o più in generale di crisi, la forza di una comunità e di un territorio sta nella capacità di ritornare ad un punto di equilibrio.

Nella seconda parte, di stampo teorico, si è scelto di introdurre i concetti e le teorie che rendono concrete le prime considerazioni e le danno un carattere di operatività. È dedicata all’analisi delle principali teorie riguardo la cittadinanza (Marshall, 1976; Lefebvre, 1970, 1974), il capitale sociale (Putnam, 1993, 1995, 2000; Coleman, 1988; Mutti, 1998) come forma elemento caratterizzante le comunità e le diverse forme di associazionismo che rappresentano una modalità

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di comunicazione della popolazione. La ricerca continua, associando il concetto di cittadinanza attiva con quello di sviluppo locale, ragionando intorno a teorie (Latouche, 2010; Magnaghi, 2010; Carta, 2002) che individuano come elementi fondanti le politiche e le strategie, la comunità e il territorio.

L’obiettivo è quello di far emergere l’esistenza di un possibile coinvolgimento della popolazione, non tanto nella definizione delle strategie di sviluppo locale, quanto almeno nella loro messa in opera.

La terza parte della tesi è invece dedicata all’analisi del conflitto territoriale come momento nel quale la popolazione, manifestando un disagio, esprime la propria voce progettuale e fa emergere le potenzialità insite nel territorio.

L’analisi, dunque, delle principali tipologie studiate in letteratura (Bobbio, 1994, 2002, 2010, 2011; De Marchi, 2002, 2010, 2011; Fagarazzi, 2006) aiuta a capire quale sia la trama del conflitto ma soprattutto quali siano le categorie di attori che ne possono far parte.

Questa sezione si conclude con l’analisi della struttura di una situazione conflittuale individuata nel territorio sardo, la proposta di cementificazione di una parte dell’area costiera di Bosa.

La quarta ed ultima parte, ripartendo da tutte queste considerazioni, si chiude con l’analisi di un caso studio attuale e non ancora risolto, il caso del nuovo comune di Porto Conte (Alghero).

L’analisi di tale conflitto territoriale genera alcune domande: le concezioni culturali, espressione delle comunità, esistono? E se queste esistono, le comunità basano su di esse le proprie proposte progettuali?

La capacità di autodeterminarsi, non si concretizza con la formulazione di progetti che producono nuovi confini e delimitazioni ma attraverso la definizione di proposte di governo del territorio che vedano come protagonista la comunità stessa e il territorio su cui essa si riconosce.

Miriam Mastinu Conflitti e governo del territorio. Analisi di scenari futuri tra dispute territoriali e nuove voci progettuali

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1. Comunità, concezioni della terra

e nuove progettualità

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Il tema della conflittualità all’interno delle comunità per la gestione e il controllo su un dato territorio è una componente storica di qualsiasi popolazione. Il grado di incidenza del conflitto sullo sviluppo di un territorio dipende dalla volontà dei membri di una comunità di portare avanti la mobilitazione e dalla volontà stessa delle amministrazioni locali o più in generale dei governi di aderire e supportare tali forme di mobilitazione.

La presenza di una comunità all’interno di un conflitto (generato dall’arrivo di un agente esterno o nato per una difficoltà interna alla popolazione stessa), può produrre, due effetti: la pura protesta o la mobilitazione accompagnata da forme di sviluppo alternative alle proposte.

Ciò a cui si assiste, nella maggior parte dei casi, è il primo effetto. La popolazione rappresentata da una comitato spontaneo di cittadini, si mobilita contro un agente esterno, ostacolando il progetto e la strategia di sviluppo che questo propone. La protesta si limita così ad un disturbo fisico delle opere e dei progetti ma non porta avanti una protesta in forma di dialogo che produca delle alternative e si risolva attraverso la definizione di compromessi. Nell’analisi dei conflitti infatti, raramente, ci si imbatte in forme di protesta che vedano un legame collaborativo e di aiuto alle decisioni che individuino, come protagonisti, gli attori del conflitto.

Le due o più parti in conflitto portano avanti le proprie ragioni e le proprie esigenze evitando il dialogo e favorendo così lo sbilanciamento delle decisioni e la dissoluzione del conflitto. In questo senso, forse la peggiore delle conseguenze possibili, la problematiche che ha generato il conflitto, perde la sua importanza e riduce le esigenze delle parti ad una attenzione temporanea e fine a sé stessa.

Il territorio, e la sua comunità, perde una occasione di confronto e di crescita a partire da esigenze e alternative progettuali. La critica che si può muovere, quindi, nei confronti della popolazione è di una mancata organizzazione e di una scarsa volontà al fine di favorire lo sviluppo del territorio. Limitandosi ad ostacolare l’operato di un gruppo di portatori di interesse, si rischia di non far emergere la propria voce progettuale e di non dar voce all’idea di sviluppo alternativo per un territorio che ogni comunità può produrre.

In questo senso, i comitati di cittadini che sposano una linea ambientalista, in molti casi si limitano alla protesta ragionando non in termini di sviluppo ma di

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pura tutela del territorio (es. caso studio Tentizzos - Bosa).

In un periodo storico, in cui le forme di governo del territorio e le scelte di pianificazione devono essere interconnesse con le dinamiche ambientali e climatiche, in un contesto economico sempre più in declino (Donolo, 2011), la capacità di una comunità di interagire e di sviluppare una relazione con le forme di governo è di fondamentale rilevanza.

Proporre e promuovere nuove forme di sviluppo a partire dalle esigenze e dalle caratteristiche del territorio, risulta essere una strategia favorevole sia per la comunità che per il territorio (Magnaghi, 2010).

Esistono comunque, in questo dedalo di conflitti, situazioni in cui le comunità (o i comitati spontanei di cittadini), si muovono nella protesta a partire dalla volontà di sviluppare idee e voci progettuali spesso alternative alla voce grossa degli agenti esterni. Altrettante volte, tali voci progettuali, nascono come elemento correlativo e di supporto ad un progetto già definito e vanno a colmare lacune e mancanza legate agli aspetti sociali e di comunità.

In questi casi, i comitati, tentano di farsi portavoce di una concezione del territorio comune alla popolazione o ad una buona parte di essa. A scala locale, tale propensione all’associazionismo e alla definizione di una voce progettuale che accolga le proposte e le esigenze di un ampia componente della comunità, nasce da forme di attaccamento al territorio (le troppo usate forme identitarie) che a scala territoriale possono essere definite “comunità etnogeografiche” (Kolers, 2009). Con questo termine l’antropologo canadese infatti indica un gruppo di persone che condividono una stessa etnogeografia1 e le cui pratiche di

uso del suolo interagiscono densamente e diffusamente.

La condivisione di una medesima concezione culturale della terra favorisce la produzione di una visione futura del territorio determinata dalla caratteristiche insite in esso e dalle esigenze che quel territorio determina. In una situazione di conflitto o più in generale di crisi, la forza di una comunità e di un territorio sta nella capacità di ritornare ad un punto di equilibrio. Tale capacità si può tradurre in un unico termine, resilienza, anch’esso abusato in letteratura negli ultimi decenni.

1 L’etnogeografia è considerata una sottodisciplina della geografia che studia le credenze geografiche di varie culture. Si occupa quindi delle concezioni culturali specifiche del territorio ovvero le ontologie della terra e il rapporto di un individuo o ancor meglio di una comunità con essa.

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Le situazioni di conflitto, però, possono generare anche effetti differenti: la produzione di progettualità del territorio da parte della comunità o comunque in collaborazione con enti e gerarchie più alte a livello amministrativo o privati, può portare alla formulazione di progetti che non si limitano al raggiungimento di un punto di equilibrio quanto piuttosto il suo superamento. In questo caso è utile introdurre un termine, coniato da Taleb (2012), l’antifragilità.

Il raggiungimento del carattere di antifragilità, produce un aumento del livello di complessità di un territorio (plenitudine2) e di conseguenza una sua maggiore

capacità di resistere agli urti (ambientali, sociali ed economici), attraverso strategie di sviluppo che puntino al miglioramento della vivibilità di un territorio.

L’importanza della visione futura di un contesto da parte dei cittadini risiede nella capacità di dar voce ad un progetto che punti all’aumentare il livello di capitale sociale di una comunità (e quindi tra le altre cose, ad aumentare il livello di impegno civico) e alla promozione di forme alternative di sviluppo che nascano dal territorio stesso e da chi lo vive.

In questo senso, il conflitto territoriale può leggersi in una nuova chiave: gli aspetti determinanti la protesta vanno oltre il puro ostacolo di un progetto già definito, ma lavorano insieme alla formulazione di uno più adeguato e mirato alle necessità e alle caratteristiche del territorio.

La cittadinanza così, da passiva si traduce in attiva, dando voce, attraverso la propria progettualità, ad esigenze e concezioni territoriali forse celate.

In queste situazioni il ruolo delle comunità è quasi posto sotto esame; emerge infatti il livello di impegno civico e la volontà di una comunità di prendere parte alla vita pubblica e di produrre idee. È chiaro che in questo senso, anche le amministrazioni o comunque coloro che gestiscono il governo del territorio ricoprono un ruolo importante anche in termini di partecipazione e accettazione delle proposte dei cittadini; in questa sede, si è scelto però di non approfondire tale questione ma invece di soffermarsi sul ruolo della comunità e sulla possibile potenzialità delle loro progettualità.

2 A tal proposito si rimanda al capitolo 2

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2. Una nuova interpretazione del conflitto:

disputa territoriale e progettualità collettiva

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Raramente, in letteratura e nel dibattito pubblico italiano, si affronta il tema del conflitto territoriale che vede contrapporsi (per visioni ed obiettivi) membri di una stessa comunità rispetto alla gestione di uno spazio appartenente (giuridicamente) a tutti.

Si tratta di conflitti che si vivono quotidianamente all’interno di una società per l’appropriazione di determinati spazi, da parte popolazioni che li vivono in modalità differenti; la gestione di un piccolo spazio pubblico contesa, per esempio, da gruppi di adolescenti che ne propongono usi differenti o ancora l’appropriazione da parte degli automobilisti mediante la sosta delle auto di spazi legati alla quotidianità e alla vita delle persone. Sono tutte battaglie che si risolvono con accordi e regole non scritte di gestione dello spazio che aumentano la vivibilità di un’area urbana al fine di migliorare la qualità della vita di tutte le popolazioni.

In questi casi, le controversi si risolvono in maniera pacifica e senza il necessario intervento delle amministrazioni o dei comitati spontanei di cittadini: si tratta infatti di conflitti gestibili dalla comunità stessa, la cui risoluzione produce norme non scritte per una migliore vivibilità degli spazi.

All’interno di un territorio o un area urbana però si possono verificare e svilupparsi conflitti che vedono partecipare attivamente i comitati dei cittadini, le amministrazioni locali o sovra locali.

Al contrario dei conflitti descritti tradizionalmente in letteratura3, esistono

controversie che vedono contrapporsi membri di una medesima comunità per il controllo e la gestione di un territorio condiviso.

Tali conflitti sono facilmente individuabili quando i protagonisti sono gli Stati, e la posta in gioco è il controllo di un territorio o di un’area che ricade ai confini dei due stati.

La posta in gioco in questi casi è il controllo e la gestione di uno spazio o di un territorio più esteso, per cui membri della comunità si associano e condividono una medesima visione futura.

3 Si rimanda al capitolo 4

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2.1 Dalle comunità etnogeografiche alle concezioni del territorio

In merito alla capacità di associarsi da parte delle comunità o parti di esse, con il fine di difendere e valorizzare le proprie risorse e il proprio territorio, Avery Kolers, afferma che una popolazione deve assumersi la responsabilità della gestione dei propri beni pubblici attivando strategie di successo e non esclusivamente affidandosi al concetto mitico di identità (Kolers, 2009). È dunque responsabilità della comunità, nei confronti del proprio territorio, attivarsi e collaborare per garantire la stabilità, sia essa economica, politica, ambientale o culturale.

Parlando di comunità e territorio, Kolers introduce nelle suoi studi due termini che caratterizzano la totalità della sua indagine: diritto territoriale e comunità etnogeografiche.

Kolers, affronta il tema delle etnogeografie a livello globale e nazionale ma ciò non esclude la possibilità di poter traslare i due concetti su un piano strettamente locale o regionale.

Il diritto territoriale è inteso come,

“a territorial right is a right of a group to control, or possibly to share with other groups in controlling, the legal system of a territory” (Kolers, 2009, p. 10)

Un gruppo quindi nel rivendicare il proprio diritto territoriale, può generare un conflitto per cui, le parti interessate, non solo possono avere valori politici e culturali differenti ma anche concezioni incompatibili della terra.

La disputa territoriale può sorgere però anche nel momento in cui un gruppo rivendica il diritto di proprietà e la proprietà stessa di un territorio. A tal proposito è utile far riferimento alle parole di Levy (2000), secondo cui non si può parlare di proprietà quanto piuttosto di sovranità e non si può concepire la terra come una proprietà ma come un luogo in cui si sviluppano e si intrecciano relazioni di tipo sociale, culturale ed economico.

Levy introduce anche la differenza tra disputa territoriale e disputa di confine per cui,

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Mere boundary disputes occur because two conflicting parties want a piece of land for the same reason – a tax base, national security, a source of natural resources, or even a shared conception of sacredness. Territorial disputes proper are at their core disputes between conflicting ontologies of land (Kolers, 2009, p. 14)

Le dispute di confine sono quelle situazioni che si verificano quando due parti entrano in conflitto poiché rivendicano il diritto di “possesso” su un territorio per il quale definiscono un medesimo uso. Le vere dispute territoriali invece sono controversi che nascono tra diverse ontologie della terra e quindi tra etnogeografie.

Tutto nasce quindi perché qualcuno rivendica il proprio diritto su un territorio? E se tali diritti in realtà non esistessero come si attuerebbe il governo e il controllo su un territorio?

Se per Levy, i diritti territoriali si configurano attraverso il riconoscimento di un’ontologia del territorio, per molti altri teorici politici, i diritti territoriali non esistono. Le teorie post-moderne infatti, escludono l’esistenza di identità pre-politiche e differenze di identità tra Stati. Anche in questo caso, il concetto di identità, viene messo in discussione e forse può essere definito come una forma di attaccamento al territorio. Alcuni tra gli studiosi meno “duri” rispetto all’esistenza dei diritti territoriali affermano che essi sono una derivazione di forti interessi individuali; tale approccio potrebbe far conciliare l’interesse generale e quello individuale e così di eviterebbero situazioni conflittuali.

Tra gli individualisti c’è chi afferma che, essendo il territorio un bene comune, questo possa essere rivendicato da chiunque sia capace di proporre una strategia di sviluppo e di miglioramento di tali beni pubblici.

L’attaccamento al territorio può essere quindi considerato come una forma di riconoscimento di un gruppo ad territorio; di conseguenza si può rivendicare il diritto territoriale nel momento in cui tale forma di attaccamento viene riconosciuta. Tra le teorie individualiste, quella che maggiormente può essere associato al concetto di attaccamento, è quella che prevede la rivendicazione di un diritto nel momento in cui si propone un’alternativa valida per quel territorio.

Tale diritto non presuppone la proprietà d tale territorio quanto piuttosto la possibilità di disporre di una strategia di sviluppo che soddisfi le esigenze del

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territorio stesso e della sua popolazione; ciò accade dunque, nel momento in cui emergono delle voci progettuali che si fanno portavoce di un’idea condivisa del territorio. Nel ragionamento proposto da Kolers, un diritto territoriale è quindi il diritto a rendere valida la propria etnogeografia attraverso il controllo giuridico di un territorio. Seppur nella presente ricerca non si abbia la volontà di approfondire il tema della disputa territoriale a livello nazionale, è necessario, con il fine di traslare tali concetti a livello locale, soffermarsi anche sulla questione dell’etnogeografia proposta da Kolers.

L’etnogeografia è considerata una sottodisciplina della geografia che studia le credenze geografiche di varie culture (Blaut, 1979).

Si occupa quindi delle concezioni culturali specifiche del territorio ovvero le ontologie della terra e il rapporto di un individuo o ancor meglio di una comunità con essa. Parlando di rapporto, si intende, la relazione che intercorre tra una popolazione e il territorio in cui essa si stabilizza, includendo di conseguenza i vari aspetti che la rendono tale: economici, urbani, politici, ambientali etc.

In questo senso i diritti territoriali e l’etnogeografia entrano in relazione: un diritto territoriale è infatti il diritto a manifestare la propria etnogeografia; coloro che posso rivendicare tale diritto sono coloro che appartengono a una comunità etnogeografica, un gruppo di persone caratterizzate dalla loro concezione culturale della terra e dall’uso che di essa fanno. Il territorio si configura così come il manifesto di un’etnogeografia.

A livello locale non si può parlare di etnogeografie quanto piuttosto di concezione culturale della terra. Il termine etnogeografia è difficilmente associabile ad un contesto locale; in senso etimologico infatti, il concetto di etnia si allontana troppo dalle dinamiche locali. Per questo motivo è preferibile, in questa sede, utilizzare la locuzione ‘concezione culturale della terra’ e più in generale riferita al contesto in cui una popolazione vive.

L’uso che si fa di un territorio o la concezione che si ha di esso producono un attaccamento più o meno forte e duraturo con il contesto. L’incapacità, spesso, di individuare tali ontologie e caratteri appartenenti al territorio produce progetti di sviluppo carenti e scarsamente definiti che generano effetti, sia in termini ambientali, sia economici che sociali al territorio stesso e a che lo vive.

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comunità che si riconoscono in un’etnogeografia e portano avanti in quel processo, la medesima concezione culturale e il medesimo progetto di sviluppo.

La riconoscibilità all’interno di una comunità etnogeografica, legittima il diritto a rendere valida la propria etnogeografia attraverso il controllo giuridico di un territorio, a livello politico ed economico.

Ciò può produrre l’imposizione della concezione della terra da parte della comunità etnogrografica “dominante” e allo stesso tempo l’attribuzione di un valore alla terra stessa, nuovo o migliorativo che, attraverso l’attività economica la trasformi o la promuova, non come una merce ma piuttosto come una riserva di risorse naturali e dalle potenzialità economiche; la pluralità di etonogeografiche quindi, all’interno di un conflitto è fondamentale in quanto emergono valori e ontologie culturali diverse che producono progetti di sviluppo e ipotetici risultati altrettanto differenti.

È proprio quello che sta succedendo ultimamente: ciò che si sta verificando infatti, all’interno dei processi di gestione e di governo del territorio è che stanno entrando in gioco più attori contrapposti, facendo emergere così diverse concezioni culturali del territorio.

Spesso le differenze tra queste sono minime e quindi il dialogo è possibile ma in altri casi, le ontologie caratterizzanti le comunità sono estremamente differenti e produco così un conflitto di più difficile gestione.

Nella maggior parte dei casi non è tanto la concezione culturale differente ma piuttosto l’idea di sviluppo del territorio e quindi l’uso che di esso si intende fare a generare il conflitto. L’elemento intellettuale che contraddistingue due comunità etnogeografiche in molti casi non prevede lo stessa concezione materiale della terra.

Quotidianamente infatti le persone appartenenti ad una comunità (sia essa di carattere rionale, locale ecc) sono impegnate in relazioni reciprocamente formative con la terra in cui vivono che permettono così di sviluppare differenti ontologie e idee di sviluppo dello spazio.

Il territorio è quindi la manifestazione diretta di una comunità etnogeografica poiché si trasforma e viene plasmato in relazione alle esigenze, all’ontologia e agli scenari futuri che la comunità stabilisce. Secondo Kolers, se un gruppo di persone condivide la stesso ontologia della terra ma non lo stesso progetto di uso della stessa, non può essere considerato una comunità etnogeografica e non

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è idoneo a far valere e promuovere rivendicazioni territoriali.

L’essere parte di una comunità quindi, produce degli effetti sociali e politici sul territorio. L’appartenenza ad un territorio giuridico definisce il proprio diritto territoriali e quindi il proprio diritto a rivendicare la propria etnogeografia; nel caso specifico della gestione e del governo del territorio ciò deve essere portato avanti attraverso la presentazioni di progetti e idee di sviluppo che tengano conto di elementi quali la propria ontologia e dunque la propria territorialità.

Tale distinzione è necessaria per evitare che si dia peso a semplici gruppi di persone che non rientrano all’interno di una comunità etnogeografica.

In tal caso, è chiaro che tale diritto sia universale ed universalmente rivendicabile ma in quanto strategicamente utilizzato sul territorio, quale bene della collettività, è necessario precisare che gli interessi che possono essere portati avanti sono di tipo pubblico o che apportano benefici alla collettività. Gli interessi deliberatamente privati sono dunque esclusi da tali processi di rivendicazione.

In un primo momento le comunità etnogeografiche sono riconoscibili ma possono non essere definite da un punto di vista organizzativo. Nel momento in cui però decide di definire un progetto del territorio, l’ontologia che la caratterizza si manifesta nell’organizzazione materiale.

L’ontologia diventa quindi parte integrante del progetto del territorio ma allo stesso tempo, il progetto elaborato dalle comunità etnogeografiche rappresenta una parte del concetto che in letteratura viene chiamato plenitudine (abbondanza, pienezza).

L’abbondanza ha però una doppia valenza: è sia un progetto a cui si dedicano gruppi di persone ma è anche una proprietà empirica di un luogo. Definisce un alto grado di diversità interna ed esterna di un luogo e quindi ne individua le caratteristiche.

Il progetto, invece, si concretizza a partire dalla posizione che si adotta rispetto ad un luogo; si può quindi decidere se migliorare la plenitudine di un luogo o conservarne gli elementi caratterizzanti.

Infatti tali progetti o più genericamente azioni decisionali, non necessariamente devono prevedere l’aumento del numero degli elementi di un luogo ma anche pensare alla loro riduzione con l’obiettivo di migliorarne la

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“pienezza”.

Quando un gruppo di attori si impegna in un progetto di valorizzazione e/o conservazione della plenitudine empirica di un luogo, intenzionalmente, sta adottando una linea di sviluppo coerente con la propria etnogeografica.

Proporre un progetto di sviluppo locale per un determinato territorio e quindi rivendicarne il diritto territoriale, presuppone un interesse. Tale interesse deve mirare al miglioramento della resilienza di un territorio, sia in termini ambientali, sia economici che sociali, prevenendo per esempio l’abbandono, la speculazione e il disuso.

L’obiettivo deve essere quello di mantenere la resilienza ad un livello tale da essere sufficiente ad assorbire crisi prevedibili associate alle circostanze ambientali e sociali. È chiaro che in questo ragionamento, la resilienza non può essere concepita solo in termini ecologici ma piuttosto economici, gestionali e di governo e quindi politici. Se la resilienza, in questa definizione, viene considerata come obiettivo principale da raggiungere in un processo di sviluppo del territorio, la comunità e le ontologie diventano i protagonisti dello scenario. In fase di pianificazione, la resilienza deve essere una condizione necessaria per la stabilità di un territorio giuridico. È impensabile ragionare intorno ad un tematica territoriale non valutando l’importanza di tale concetto.

La possibilità di legare le esigenze della comunità e del territorio, può produrre un progetto che va oltre la resilienza, oltre il punto di equilibrio resiliente, raggiungendo il grado di anti fragilità. Tale concetto, elaborato da Taleb (2013), traslato in termini di sviluppo locale può essere pensato come il massimo grado di complessità del territorio; il raggiungimento del grado di antifragilità comporta il miglioramento e la valorizzazione della complessità empirica del territorio. Ciò è possibile attraverso la formulazione di progettualità del territorio che prendono in considerazione la comunità ma soprattutto gli elementi che definiscono la plenitudine del luogo.

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La ricerca, in questa prima fase, analizza e approfondisce il tema della comunità e del diritto alla cittadinanza in relazione allo sviluppo locale e alle forme di protesta che prendono vita all’interno di un territorio.

L’analisi delle teorie principali di cittadinanza (liberale, neo-comunitarista, neo-repubblicana), ha l’obiettivo di chiarire come le comunità si definiscano attraverso i tre diritti fondamentali che la storia ha prodotto e come la stessa comunità prenda coscienza di sé attraverso l’appartenenza, l’attaccamento al territorio e l’impegno civico nella sfera pubblica.

Ci si muove così dalle teorie della cittadinanza al concetto di cittadinanza attiva, passando dal concetto di capitale sociale (e le sue componenti), arrivando all’analisi dei comitati e associazioni di cittadini che nascono, nella maggior parte dei casi, per motivi di protesta legati alla salvaguardia o alla valorizzazione del territorio di appartenenza.

La salvaguardia e la valorizzazione dello spazio, sono i fattori alla base delle forme di conflitto che si sviluppano all’interno delle comunità e che possono sfociare in mere proteste e mobilitazioni ma anche in progetti di sviluppo del territorio.

3.1. La cittadinanza. Teorie a confronto

“La cittadinanza viene comunemente definita come appartenenza ad un comunità politica, la quale definisce i criteri attraverso i quali si diventa cittadini” (De Marchi, 2010, p. 43).

Da questa prima definizione, possono emergere due termini chiave che aiutano a esplicitare in maniera più approfondita il concetto: appartenenza e comunità politica. Il primo può rimandare ad un punto di vista giuridico e il secondo ci avvicina più ad una sfera teorico-politica.

A livello giuridico infatti, la cittadinanza descrive uno “status normativo” (De Marchi, 2010, p. 43) ovvero l’appartenenza di un individuo all’ordinamento giuridico di uno Stato.

Il concetto di cittadinanza si compone di due principali elementi:

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l’appartenenza ad una comunità politica che non sempre corrisponde alla comunità sociale e un insieme di diritti e doveri. Riguardo a questi ultimi si può fare riferimento all’impegno civico, al diritto e dovere di voto.

A partire da questi due elementi fondanti la cittadinanza, sono state proposte e discusse diverse teorie: la teoria fondazionista o liberale, la teoria neo-comunitaria e la teoria neo-repubblicana.

Secondo la teoria liberale (che vede come maggiori esponenti Rawls, Dworkin e Nozick), il cittadino è colui che è titolare dei diritti fondamentali. Il soggetto e l’oggetto della teoria fondazionista sono l’individuo e l’individualismo che lo caratterizza; “il soggetto cardine della giustificazione politica è l’individuo e tutto l’orizzonte costituito dai suoi interessi e dai suoi bisogni” (DeMarchi, 2010, p. 51). Secondo il liberalismo, fondato sull’idea del punto cardine, individuato nell’uomo, afferma che gli individui possiedono una propria identità politica indipendente da quella etico-religiosa e culturale.

Definendo come assodate le caratteristiche etico-religiose e culturali dell’identità di un individuo, quest’ultimo deve essere assistito dallo Stato che si organizza e struttura in modo tale che l’identità politica venga tutelata e che quest’ultima non interferisca con la sfera privata di ciascun soggetto.

A partire, dunque, dalla presa di coscienza che esistano due sfere nettamente distinte, quella privata e quella pubblica, secondo la teoria liberale è anche possibile distinguere un insieme di valori che caratterizzano la “dimensione del bene (la definizione della vita buona)” (De Marchi, 2010, p. 52) e un altro corollario di valori che definiscono la sfera della giustizia, chiamata anche sfera del “cos’è giusto”. I valori riguardanti il bene, appartengono alla sfera privata e i valori relativi ai criteri di giustizia si riflettono sulla sfera pubblica e quindi sulla dimensione politica della società e delle scelte pubbliche.

Il cittadino, dunque, inserito in un contesto politico definito, “accoglie anche quelle concezioni del giusto che si sono diffuse all’interno di una determinata comunità politica, mettendo tra parentesi le proprie appartenenze specifiche” (De Marchi, 2010, p. 52).

Le specificità religiose o culturali diventano solamente degli aspetti marginali che non concorrono alla definizione strutturale della dimensione politica e pubblica della comunità; la situazione che produce tale differenziazione di valori

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può portare alla generazione di conflitti tra gruppi identitari differenti che possono essere superati attraverso l’iniziativa dello Stato; quest’ultimo propone accordi razionali che non concernono la sfera pubblica dei valori politici ma piuttosto il concetto di giustizia.

La prima e fondamentale differenza che distingue la teoria liberale da quella neo comunitaria risiede nel fatto che la seconda fonda le sue convinzioni sul concetto di appartenenza: si tratta infatti di una relazione sia politica ma anche culturale ed etica.

Studiosi come Taylor4 e Sandel5 affermano che, l’identità dei soggetti appartenenti ad una comunità non può essere definita senza prendere in considerazione le proprie specificità culturali, religiose ed etiche che influiscono quindi anche l’identità politica.

Un ulteriore elemento che distingue le due teorie, fa riferimento all’individuazione delle sfere del bene e del giusto. Secondo i neo - comunitaristi, è impossibile attuare una netta distinzione, in quanto non è possibile capire a quale sfera possa appartenere un dato valore e ancor meno capire a quale dei due dare priorità.

Lo Stato, con l’obiettivo di tutelare l’identità plurivaloriale dell’individuo, è costretto a non operare una distinzione di valori ma piuttosto fonda le proprie scelte e azioni sui principi fondamentali riguardanti la giustizia, non escludendo però anche i valori riguardanti il bene (la sfera privata dei liberali).

Ogni scelta politica dunque, sia essa definita dalla Stato o da un singolo individuo, fa riferimento a valori precisi, siano essi di tipo politico, siano elementi caratterizzante la sfera dell’etica, della cultura e della religione. Ciò è sottolineato con forza dalla teoria neo-comunitaria di cittadinanza secondo cui, diritti e doveri del cittadino, si fondino sul concetto di appartenenza.

L’ultima teoria di cittadinanza analizzata è la teoria neo-repubblicana che si è sviluppata in Europa con Habermas e negli Stati Uniti con Sunstein e che fonda le sue idee sul concetto di democrazia partecipativa.

Tale teoria che prende corpo negli ultimi anni del secolo scorso, accoglie 4Taylor C. (2009), L’età secolare, Feltrinelli, Milano, cit. in De Marchi et al. (2010)

5

Sandel M. J. (2009), Justice: What’s the Right Thing to Do?, Farrar, Straus and Giroux, cit. in De Marchi et al. (2010) Miriam Mastinu Conflitti e governo del territorio. Analisi di scenari futuri tra dispute territoriali e nuove voci progettuali

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alcuni caratteri delle teorie precedentemente menzionate, in alcuni casi accettandole e in altri casi reinterpretandole e ridimensionandole rispetto al contesto attuale.

I neo repubblicani accolgono l’idea liberale, secondo cui l’elemento cardine della cittadinanza sia l’individuo e la sua individualità politica, specificando però l’importanza del valore di appartenenza che, associato alla partecipazione, caratterizza al meglio il ruolo dell’uomo all’interno del rapporto Società - Stato.

Seppur accolgano entrambe le teorie, alcuni tra i principali promotori della teoria neo repubblicana, affermano che l’identità politica è “cosa” diversa dalle specificità e seppur in relazione queste devono essere concettualmente distinte.

Essendo una elemento a sé stante, l’identità politica ha una sua formazione specifica che non può prescindere dalla relazione con la quotidianità della sfera pubblica. L’identità dell’individuo, dunque, seppur si fondi anche su specificità che esulano dal contesto politico, si costruisce a partire dalla partecipazione alla sfera pubblica, quindi politica.

La cittadinanza dunque, “non può essere solo il risultato di un’eredità, né il semplice fatto di essere nati all’interno di uno Stato per nascita rende i soggetti politici dei veri e propri cittadini” (De Marchi, 2010, p. 57).

L’appartenenza alla sfera pubblica, di cui tratta la teoria neo repubblicana, si articola attraverso una serie di valori e dimensioni che si muovono dalla sfera culturale, toccando i caratteri etici e religiosi, fino ad arrivare alla dimensione associativa. Tali dimensioni si riflettono sulla quotidianità a livello di quartiere, a livello locale ma anche statale.

3.2 Il diritto alla cittadinanza nelle parole di Marshall e Lefebvre

I paragrafi che seguono analizzano il concetto di cittadinanza teorizzato da Thomas Marshall e da Henry Lefebvre al fine di approfondire il rapporto tra la comunità, lo spazio e le sue forme di appropriazione, riconoscimento e gestione.

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3.2.1 Marshall e il concetto di cittadinanza

Uno dei massimi studiosi delle teorie della cittadinanza moderna è Thomas Humphrey Marshall6, che si muove attraverso le teorie liberali di Rawls e quelle comunitarie, per coglierne gli aspetti più importanti e darne una nuova definizione.

Tale definizione si basa su tre livelli di conoscenza: il civile, il politico e il sociale. Si tratta di un insieme di elementi caratterizzanti la collettività, a partire dal diritto di parola e di pensiero, dal diritto di partecipare alla vita pubblica (mediante il voto e l’impegno civico) arrivando a quello sociale che, secondo Marshall, è il principio di più difficile definizione (Marshall, 1976).

La cittadinanza secondo Marshall, si definisce a partire dai concetti di partecipazione alla sfera pubblica ma anche grazie alla “fedeltà ad una civiltà che è possesso comune” (Marshall, 1976, p. 34). L’impegno civico e la formulazione di diritti e doveri, permette al cittadino di confrontarsi con la sfera pubblica appartenendo ad uno status che pone tutti sullo stesso piano. Ciò permette di aver il diritto di proporre la propria opinione e di poter difendere davanti alla sfera pubblica, e quindi a tutta la comunità e agli enti che la regolano, le corti giudiziarie (per l’ambito giuridico), le forme di governo (per l’aspetto politico) e i servizi al cittadino (per il contesto sociale).

Il diritto alla cittadinanza e al fare comunità, è l’elemento che differenzia le democrazie da altre forme di governo della società e del territorio. Il dialogo e la partecipazione alla sfera pubblica, secondo Marshall, aumenta il potenziale reale di ciascun individuo (e di conseguenza della comunità a cui appartiene) e diminuisce le forme di disuguaglianza sociale (sia in termini economici che culturali).

Secondo Marshall, infatti, il cittadino esprime il suo diritto alla cittadinanza quando fa parte di “un’esperienza sociale condivisa” (Marshall, 1976): l’individuo non ha solo il diritto di partecipare alla sfera pubblica ma anche il dovere di sostenere la società esprimendo la propria identità culturale e politica.

La definizione del concetto di cittadinanza mediante i diritti civili, politici e sociali, permette di reinterpretare lo status del cittadino, accogliendo oltre i 6 Sociologo e storico delle istituzioni e delle culture contemporanee

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principi di autonomia e libertà anche quelli di benessere e sicurezza che si relazionano fortemente con la città vissuta dagli individui.

Le garanzie su cui si può fondare la partecipazione alla vita pubblica devono, quindi, essere uguali per ciascun cittadino prescindendo dalla propria identità politica (teoria liberale) e dalle appartenenze (teoria neo comunitaria). Tali garanzie (o diritti), caratterizzanti l’individualità di un cittadino, non generano una società omogenea ma piuttosto producono l’attenuazione delle disuguaglianze che permettono un più semplice dialogo nella sfera pubblica.

“La tesi marshalliana tende a promuovere l’immagine di una comune cultura interclassista, evidenziando l’utilità dell’inclusione dell’elemento sociale nel corpo dei diritti di cittadinanza affinché sia ridotta la disuguaglianza di classe ed ampliata la partecipazione” (Baglioni, 2008, p. 24).

3.2.2 Lefebvre e il diritto alla cittadinanza nella sfera urbana

Quando Lefebvre7 tratta il tema della cittadinanza, associa tale concetto alla

sfera urbana e spaziale che contraddistingue una comunità.

È necessario, prima di affrontare il tema del diritto alla cittadinanza, analizzare gli aspetti che costituiscono il concetto di città a partire dagli studi del filosofo francese.

Partendo dall’idea di spazio, formulata intorno agli anni ’70, si iniziano a percepire quali siano gli ingredienti su cui si fonda il concetto di cittadinanza: opera e stile, centralità e simultaneità, diritto alla città e festa (Chiodelli, 2009).

Lo spazio urbano si caratterizza per due elementi che lo compongono e per il rapporto che intercorre tra loro: l’opera e lo stile.

L’opera è un oggetto unico che non si può sostituire; per comprendere meglio il senso di questa affermazione è utile conoscere il significato del termine che ne rappresenta l’opposto: il prodotto. Quest’ultimo, infatti, è definito da Lefebvre come il risultato di gesti, standardizzati e previsti, legati strettamente alla logica del lavoro. Si tratta quindi di un rapporto in cui un’agente dominante definisce forma e funzione di un oggetto (in astratto) e un individuo (o gruppo 7 Sociologo e urbanista francese o come si definiva egli stesso: “l’ultimo marxista francese”

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di individui) esegue alla lettera ciò che è stato pensato.

Secondo Lefebvre però, in relazione alla città, “la capacità creativa è sempre riferita ad una comunità o collettività” (Lefebvre, 1976, p. 128); con queste parole, egli intende definire tutte le idee, le opinioni e le azioni in cui tutti i cittadini possono riconoscersi. L’opera è quindi il risultato di un insieme di strategie, di racconti, di sistema di idee e azioni promosse dalla popolazione, che Lefebvre definisce con il termine “stile”.

Se, nella costituzione di un prodotto, chi ne determina l’esito è una singola persona (è il risultato del potere), nella concretizzazione dell’opera, la collettività è il soggetto protagonista. Nel tesi di Lefebvre, la città è un’opera e la cittadinanza la sua generatrice (Lefebrve 1970). Il conflitto è comunque parte di tale concettualizzazione, poiché si contrappongo (in una lotta di classe), la classe dominante e quella dominata seppur avendo entrambi uno spazio d’azione. Lefebvre traduce così questo concetto:

“le lotte politiche tra popolo minuto e popolo grasso, aristocrazia, hanno per terreno e posta la città. Questi gruppi sono rivali in amore per la propria città” (1970, p. 24)

Sono quindi le relazioni che si instaurano all’interno della società che producono la forma e le funzioni della città: “la città cambia quando la società cambia nel suo insieme” (Ivi, p. 64). La città, dunque, dipende dalle relazioni, dai rapporti tra i gruppi e gli individui che costituiscono la società; anche Chiodillo (2009, p. 105), a tal proposito, afferma che,

“l’urbano è un insieme di differenze8, alle quali esso fornisce un luogo

e un momento di incontro, concetto che precisa meglio la ragione per la quale lo spazio della città […] non può che essere opera, frutto del processo collettivo, dell’incontro e dello scontro delle contraddizioni e delle diversità sociali”.

Dalla definizione di città come spazio delle differenze e delle relazioni, ci si

8 Lefebvre afferma che la città si può definire anche attraverso le caratteristiche di centralità e simultaneità. Il primo concetto fa riferimento alla capacità dello spazio urbano di attrarre in sé tutto (cose diverse tra loro entrano in relazione); con il termine simultaneità egli suole indicare la capacità dello spazio di accogliere nello spazio e nel tempo situazioni conviviali, di incontro.

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muove verso il concetto, introdotto dal sociologo francese, del diritto alla città9 e

alla cittadinanza.

Tale nozione si pone come un diritto universale a partecipare alla vita urbana e sociale. Diritto alla città e città stessa, quindi, si muovono parallelamente: la città per essere definita tale ha necessità della presenza e dell’azione costante dei cittadini e quest’ultimi per essere considerati tali hanno di un luogo (la città stessa) per esprimersi.

Di conseguenza, il cittadino ha il diritto a partecipare alla vita pubblica dello spazio urbano ma allo stesso tempo, ha il dovere di parteciparvi (impegno civico) per non limitarsi all’osservazione passiva delle trasformazioni bensì per essere protagonista attivo della gestione dello spazio e del governo della città e del territorio.

Il diritto alla città è proposto, da Lefebvre, come

“una pratica fondamentale per sovvertire l’arena decisionale, riconducendola al di fuori del potere totalitario statale, verso una produzione democratica dello spazio sociale” (Borrelli 2011, p. 158)

Il diritto alla città, dunque, permette che lo spazio urbano non sia un prodotto (definito dal potere) ma che sia un’opera, pensata e definita a partire dalla collettività e dalle relazioni che all’interno della società si intrecciano e che ne modificano la forma e la concezione. È quindi il risultato di azioni fisiche che modificano la struttura dello spazio ma al contempo è il luogo che permette la concretizzazione delle relazioni che apportano le modifiche alla città.

Il diritto alla città si costituisce di due parti fondamentali: il diritto alla partecipazione (alla vita pubblica) e il diritto all’appropriazione. Il primo sostiene che i membri di una comunità dovrebbero poter partecipare alla vita pubblica della città, contribuendo alla produzione delle spazio (Lefebrve, 1976). Con il termine produzione dello spazio si fa riferimento alla sfera decisione della produzione (con l’obiettivo di generare un’opera e non un prodotto).

Il diritto all’appropriazione invece sostiene che i cittadini possono accedere allo spazio e utilizzarlo. Il diritto di appropriarsi di uno spazio promuove le logiche della responsabilizzazione dei cittadini in quanto essi stessi sono i 9 Lefebvre trasla il diritto di cittadinanza dalla sfera universale, proposta da Marshall, a quella locale della città.

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produttori reali di un dato luogo e di conseguenza nei sono i “protettori”.

La città quindi può, per i propri membri, svolgere un ruolo fondamentale: quello di incubatore di idee e relazioni proficue per la città stessa.

I cittadini ricoprono, così, un ruolo guida per le trasformazioni del territorio; a partire da questo assunto, Lefebvre, introduce un binomio (difficilmente traducibile in italiano se non con i termini individuo e cittadino10): citoyen e citadin.

Il citoyen fa parte legalmente di una comunità ma il citadin ha l’opportunità di partecipare attivamente alla vita della città. La vera essenza della cittadinanza è, quindi, essere citadin piuttosto che citoyen.

Il diritto alla città di Lefebvre mette quindi tutti sullo stesso piano e assegna ad ogni cittadino il diritto di poter contribuire alla produzione dello spazio.

3.2.3 Brevi considerazioni

Il diritto alla cittadinanza di Lefebvre presuppone che al di sopra dei cittadini ci sia una forte forza politica democratica (Purcell 2002, 2003); il sociologo francese infatti, non definisce il diritto alla città come un diritto che si esprime mediante processi partecipativi (su forme di rappresentanza) che prevedono un contributo dei cittadini filtrato dalle istituzioni. Al contrario, non dovrebbero esistere filtri, i cittadini dovrebbero essere i protagonisti attivi della produzione dello spazio.

Probabilmente non esistono tali forme governative che legittimano a tal punto il diritto di cittadinanza delle comunità. In ogni caso, a livello locale, o ancora più di quartiere, i cittadini riescono a determinare la produzione dello spazio e la sua riappropriazione mediante micro interventi che rispondono alle esigenze fisiche e sociali.

L’autorganizzazione dello spazio è infatti una delle pratiche sociali che più si sta promuovendo in questi anni, con l’obiettivo chiave di riappropriarsi di alcuni spazi della città e luoghi del territorio in cui ci si può riconoscere. La riappropriazione non prevede solo il riutilizzo di uno spazio ma anche l’opportunità di intrecciare relazioni e modificare così la struttura urbana a livello individuale e collettivo.

10 Chiodillo, 2009, p. 107

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Con questi due termini si vuole indicare sia la relazione personale che si instaura con un dato spazio, sia l’opportunità di uno spazio di essere riconosciuto collettivamente. Tale condizione reciproca (comunità-spazio), promuove forme di responsabilità e cura del territorio. La consapevolezza di essere parte di una relazione fisico - culturale con un luogo, responsabilizza l’individuo non solo nei confronti di uno spazio che egli riconosce come suo perché lo viva ma anche nei confronti di luogo e spazi che risultano essere di passaggio o temporanei.

L’esperienza sociale di cui parla Marshall, l’espressione della propria identità culturale e politica, può essere associata al concetto di concezione culturale del territorio di cui parla Kolers (2009): è la plenitudine intenzionale, la volontà di produrre un’alternativa a partire dalla forme di conoscenza del territorio.

Allo stesso modo, lo stile e la capacità creativa di Lefebvre, sono parte del prodotto e della complessità dello spazio. Il territorio acquisisce complessità e pienezza attraverso le azioni e le relazioni che promuovono i membri della comunità.

Se il diritto alla cittadinanza, oltre ad essere un diritto, presuppone anche la responsabilità e quindi il dovere, ciò permette ad una città di produrre relazioni forti e durature non basate sull’utilizzo temporaneo di uno spazio ma sull’attaccamento che si ha a questi. Il diritto territoriale, quindi, può essere una declinazione del diritto alla cittadinanza: non è un diritto ad appropriarsi (giuridicamente) di uno spazio bensì il diritto ad accedervi e ad utilizzarlo; a questo si deve legare il dovere di curare e gestire il territorio con il fine di aumentare la sua fruibilità e funzionalità a livello collettivo. L’individuo agisce sul bene pubblico con finalità pubbliche.

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3.3 Comunità e sviluppo locale

A partire dalle parole di Marshall ma soprattutto di Lefebvre, è chiaro come la comunità possa e debba essere protagonista della trasformazioni che investono il proprio territorio.

Si può quindi fare un ulteriore passo in avanti, associando al governo del territorio, il concetto di sviluppo locale11.

Di seguito vengono proposte due teorie riguardo il concetto di sviluppo locale, inserito nel contesto storico attuale: Latouche e Magnaghi propongono infatti due teorie di sviluppo strettamente connesse al territorio e al ruolo che può ricoprire la popolazione. Anche a partire da queste teorizzazioni si può ragionare, rispetto al governo del territorio, attraverso i termini introdotti da Taleb e Kolers; antifragilità e concezioni culturali della terra, si possono riconoscere nelle parole dei due studiosi: le visioni future di Latouche riguardo la decrescita di avvicinano al concetto di Taleb di “prosperare nel disordine” e di andare oltre il punto di equilibrio raggiunto da una comunità.

Allo stesso tempo, l’idea di Magnaghi di ripensare lo sviluppo locale in riferimento al territorio e alle sue potenzialità, mette in evidenza come la progettualità di un territorio derivi, in maniera diretta, dalla concezione culturale di una popolazione.

Tali ragionamenti, aiutano a capire come il territorio, detti le esigenze e le voci progettuali che prendono corpo attraverso la popolazione; quest’ultima risulta essere così protagonista in entrambe le teorie: nella prima è il soggetto che pone in essere gli elementi che determinano la decrescita serena e nel secondo caso, la comunità è protagonista in quanto racconta la propria concezione della terra e definisce i caratteri progettuali dei possibili scenari futuri a partire da questa.

11

“[…] carattere essenziale senza il quale non si può parlare di sviluppo locale: la partecipazione della società civile alle prese di decisioni at- traverso le quali si definiscono gli obiettivi, gli strumenti, i mezzi e gli impegni dei soggetti coinvolti nel promovimento dello sviluppo di un territorio. […] Ne deriva che lo sviluppo locale è una via di mezzo tra un indirizzo di politica territoriale e un sistema di gestione del potere locale orientato allo sviluppo del territorio” (Sforzi, 2005)

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2.3.1 Latouche e la decrescita serena

Nel testo “Breve trattato sulla decrescita serena” (2007), Serge Latouche, analizza lo sviluppo economico – sociale attuale, evidenziando problematiche e proponendo sin dalle prime pagine un’alternativa in contrapposizione all’idea di crescita proposta dall’economia tradizionale.

Il suo è un approccio differente rispetto a quello dei tradizionalisti. Questi ultimi parlano di crescita e progresso, al contrario Latouche si sofferma sulla definizione di un nuovo concetto, quello della decrescita. L’obiettivo è di smuovere le coscienze e sottolineare con forza che la crescita illimitata è un traguardo impensabile e irraggiungibile.

Quando Latouche parla di decrescita, fa riferimento alla necessità di abbandonare il concetto di crescita illimitata, voluta dai detentori del capitale, che genera conseguenze irreversibili per l’ambiente e quindi per l’uomo stesso.

Quando però si utilizza questo termine, in molti pensano che ci si riferisca all’idea di crescita in negativo, quindi Latouche chiarisce il concetto utilizzando un ulteriore concetto: acrescita.

Ponendosi sulla stessa linea del concetto di ateismo, quindi all’abbandono di una fede o un culto, fa riferimento alla rinuncia alla religione dell’economia e del profitto.

L’autore si fa portavoce dell’idea che, in seguito all’era dell’industrializzazione, si sia raggiunto un grado di sviluppo tale da dover pensare ad un’alternativa per una politica del dopo sviluppo affinché non si arrivi ad una catastrofe ambientale e ad un punto di non ritorno. Si parla quindi di una società che, raggiunto un livello di sviluppo, deve abbandonare l’idea di crescita illimitata e, deve scegliere l’opzione del “lavorare meglio consumando meno” (Latouche, 2007).

Si sofferma su quest’alternativa, descrivendo la possibilità di dare spazio alla creatività dell’individuo bloccata fino ad ora dalle logiche economiche e progressiste.

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egli chiama “il circolo delle R”.

La prima è la R di Rivalutare: l’autore si riferisce alla rivalutazione dei valori ormai persi della società. “L’altruismo dovrebbe prevalere sull’egoismo, la collaborazione sulla competizione sfrenata, il piacere del tempo libero e l’ethos del gioco sull’ossessione del lavoro, l’importanza della vita sociale sul consumo illimitato, il locale sul globale, l’autonomia sull’eteronomia, il gusto della bella opera sull’efficienza produttiva, il ragionevole sul razionale, il relazionale sul materiale ecc.” (Latouche, 2007).

Il secondo elemento caratterizzante l’idea proposta è la Riconcettualizzazione; è pensato come il passo successivamente logico alla prima “R” nel quale si rinnova e si ridefinisce l’idea per esempio di ricchezza e povertà, scarso/abbondante. Ristrutturare e Ridistribuire fanno riferimento alla riorganizzazione delle strutture produttive e dei rapporti sociali e alla riassegnazione delle ricchezze e della possibilità di poter accedere alle risorse naturali a livello statale ma anche all’interno della società, tra cittadini e generazioni.

Latouche pensa anche alla produzione interna alla società e per questo motivo introduce il concetto di Rilocalizzazione. Egli propone la produzione dei prodotti basilari per la soddisfazione dei bisogni della popolazione a livello locale, finanziando con un fondo collettivo le imprese del posto.

Le ultime due “R” si riferiscono invece ai concetti di Riduzione e Riciclo. Sono senza dubbio legati tra loro e si completano a vicenda.

Riduzione è in primo luogo riferito a livello ambientale e quindi alla diminuzione dell’impatto sulla biosfera e alla limitazione del sovra consumo e degli sprechi che ogni giorno ci caratterizzano.

Per molti, la proposta di Latouche è una soluzione utopica ma egli preferisce definirla come una sfida politica. Per questo motivo tutti secondo Latouche, a iniziare dai governi dovrebbero lavorare al fine di trasformare in primo luogo le istituzioni esistenti; si tratterebbe di cambiare le strutture sociali, i rapporti di produzione e soprattutto la cultura attuale. Quest’ultima ora incentrata e basata sulla crescita illimitata e sulla convinzione che la crescita sia l’obiettivo primario della vita.

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Questa è sicuramente un’idea di sviluppo molto controcorrente e rivoluzionaria che in pochi, per ora, apprezzano e accettano forse anche perché vedono il raggiungimento del suo obiettivo molto lontano e difficoltoso.

Pare anche che per Latouche le relazioni sociali, l’impegno civico e la partecipazione siano elementi fondamentali per il cambiamento. La capacità di auto organizzarsi e gestire al meglio le risorse che rimangono ancora inviolate per rispondere ai bisogni della comunità, sempre nel rispetto dell’ambiente e del territorio in cui vivono le società.

3.3.2 Magnaghi e la nuova idea di territorio

Di rispetto del territorio e tutela dell’ambiente parla anche Magnaghi. Il suo è un approccio che si contrappone, come accade per Latouche, all’economia tradizionalista liberal-capitalista. Egli basa il suo pensiero sull’approccio territorialista, secondo il quale il territorio, oramai degradato e sfruttato dall’uomo, deve riemergere non come supporto per una crescita illimitata ma come fondamento per la scoperta di una ricchezza durevole e lontana dalla logica dei profitti.

Il vero patrimonio per una società è ciò che si trova intorno ed è quindi fondamentale, per una nuova cultura del territorio e dello sviluppo, trovare la propria identità territoriale e interpretarne la propria “sapienza ambientale”, per costruire un sapere forte e duraturo. L’insieme delle caratteristiche peculiari dei territori, sono denominati da Magnaghi attraverso la locuzione “massa territoriale” che raccoglie in sé tutte le emergenze storiche come architetture, infrastrutture di comunicazione, ponti, terrazzamenti. Attraverso questi elementi è possibile quindi ricostruire un’identità che possa servire sia come legante tra la comunità che come volano per lo sviluppo futuro senza però alterarne le condizioni iniziali.

Non ci si deve però limitare ad una salvaguardia del territorio ma anche ad una sua valorizzazione; l’allontanamento della popolazione dal luogo di vita, legato anche alla problematiche della globalizzazione, ha portato ad una perdita sempre più marcata dell’identità e del rapporto ancestrale con il territorio o nello specifico con il luogo in cui si vive.

Figura

Tabella 1: amministrazioni che hanno espresso parere contrario o favorevole.
Figura 3: Catena causale conflitto – Environmental Change and Acute Conflict 40
Figura 5: Modello esplicativo EAWS – Fonte: Opuscolo_EASW_PP_LIFE_RII
Figura 4: Modello del PRIO 48
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Riferimenti

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