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«…l’uomo non è più» : il rapporto letteratura e lavoro fra il miracolo economico italiano e la grande recessione

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Academic year: 2021

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Corso di Laurea magistrale

in Filologia e Letteratura Italiana

Tesi di Laurea

«…l’uomo non è più»:

il rapporto letteratura e

lavoro fra ‘il miracolo

economico italiano’ e ‘la

grande recessione’

Relatrice

Prof.ssa Ilaria Crotti

Correlatori

Prof. Valerio Vianello Prof.ssa Michela Rusi

Laureanda

Sofia Demasi Matricola 871754

Anno Accademico

(2)
(3)

Introduzione

...

5

LETTERATURA E LAVORO NEL BOOM ECONOMICO ...8

I.1. «Il menabò di letteratura» come spazio di analisi teorica del

rapporto Letteratura-Industria

...

8

I.2 Tre autori per tre diverse prospettive

...

23

I.2.1. Essere intellettuali: da Kansas City alla grande metropoli ...24

I.2.2. Donnarumma all’assalto: quando alienazione e disoccupazione combaciano ...39

I.2.4. Per un bilancio parziale ...62

LE NUOVE SCRITTURE WORKING CLASS FRA TEORIA E NARRAZIONI 67

I.2. Spazi di confronto e teorie sulla nuova narrativa working class

italiana

...

67

II.2. La letteratura working class del nuovo millennio: esempi di

sperimentazione

...

82

II.2.1. Meccanoscritto: un ponte storico di scrittura collettiva ...83

II.2.2. «Ci raccontiamo da soli per non farci raccontare dagli altri»: Amianto e 108 metri ...95

II.2.3. La collana Working Class ...110

II.2.4. Per un bilancio parziale ...119

(4)

BIBLIOGRAFIA

...

133

SITOGRAFIA

...

144

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(6)
(7)

Introduzione

«Quando ti rubano il lavoro vai in fabbrica al solito turno, pur sapendo di non fare niente. Quando ti rubano il lavoro stai in piazzale con gli occhi fissi nel niente a gironzolare. Quando ti rubano il lavoro giri per i reparti vuoti e silenti come cimiteri, eppure hai in testa ancora i numeri della produzione e le imprecazioni degli operai. Quando ti rubano il lavoro le colleghe fingono di sentirsi ancora attive spazzando la sala del consiglio di fabbrica. Quando ti rubano il lavoro qualcuno (a testa bassa) gira il piazzale con paletta e scopa a raccogliere le cicche delle sigarette. Quando ti rubano il lavoro guardi i giornalisti e i fotografi come animali in un circo mediatico (che ci è assolutamente estraneo). Quando ti rubano il lavoro a casa non hai voglia di raccontare niente, e poi non dormi la notte. Quando ti rubano il lavoro la mamma di ottant’anni ti offre gli ultimi 20 euro della sua pensione. Quando ti rubano il lavoro ti rubano gli ideali e la dignità e… l’uomo non è più» 1

R. GIANOLA, Diario Operaio. La condizione del lavoro nella crisi italiana, Roma,

1

(8)

È il 2008 quando i lavoratori della Sirma di Marghera, prima di lasciare per sempre la fabbrica, scrivono questa poesia-manifesto dal titolo Quando ti

rubano il lavoro dichiarando: «Il senso del nostro dramma sociale rivive in

queste poche righe» . 2

Così il testo letterario diventa strumento rivendicativo e di creazione di immaginario: esso restituisce al lettore il punto di vista alternativo, lo sguardo obliquo, rispetto ad una questione sociale considerata marginalmente dalla narrazione dominante.

L’obiettivo di questo elaborato è proprio quello di comprendere attraverso testi di narrativa come il rapporto letterario e sociologico fra letteratura e lavoro si va creando, quali siano gli impianti teorici dello stesso e quali gli scopi oltre la mera rappresentazione.

Si andranno ad analizzare due fasi storiche differenti: quella del boom economico, conosciuto anche come ‘miracolo italiano’, della fine degli anni Cinquanta e quella conseguente alla crisi economica del 2008.

Lo si farà prendendo in esame sia dibattiti di teoria della letteratura sia testi di narrativa, provando con ciò a restituire la complessità legata al tema.

La scelta di trattare queste due epoche è motivata dal fatto che, dopo la grande recessione, in Italia si è ricominciato a narrare il lavoro e lo si è fatto cercando di creare una frattura con quella che viene definita invece narrativa industriale: con questo elaborato si indagheranno i presupposti storici e teorici delle due tendenze narrative, divenute poi correnti, cercando per mezzo

Idem.

(9)

dell’analisi del testo e del commento critico di evidenziarne punti in comune, differenze, elementi di autonomia e caratteristiche.

Si cercherà di comprendere ed esporre come la letteratura possa essere strumento e mezzo di attivazione sociale e allo stesso tempo in quale modo scrittori e teorici provino a renderla tale.

Perché il lavoro? Il primo gennaio del 1948 entra in vigore la Costituzione della Repubblica Italiana che all’articolo 1 recita: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.».

Il lavoro, valore fondamentale dunque per il Paese, subisce, negli anni a seguire, variazioni legate a scelte politiche e di interesse economico che comportano che ciò che viene valutato in termini formali e giuridici come un diritto fondamentale oggigiorno sia in realtà divenuto un peso insostenibile in termini sociali.

La Letteratura, fuori da convenzioni e canoni prestabiliti, può dunque superare l’ostacolo della formalità istituzionale per dare spazio alle tante sfumature del reale con il fine di aprire spiragli verso un nuovo mondo possibile creando così una resignificazione del concetto di lavoro.

(10)

CAPITOLO PRIMO

LETTERATURA E LAVORO NEL BOOM ECONOMICO

I.1. «Il menabò di letteratura» come

spazio di analisi teorica del rapporto

Letteratura-Industria

«Il menabò di letteratura» è una rivista letteraria aperiodica creata da Elio Vittorini e co-diretta assieme ad Italo Calvino dal 1959 al 1966, anno della sua morte.

Il progetto si pone l’obiettivo, attraverso i suoi numeri, con uscite una o due volte l’anno, di rimettere in discussione il ruolo della letteratura in rapporto alle questioni culturali, storiche e sociali di quegli anni per mezzo sia di dibattito teorico-sociologico che di brevi opere in prosa e testi poetici. Ogni numero ha una tematica principale che viene quindi analizzata sotto molteplici aspetti e sguardi con il rimando al numero successivo per ulteriori analisi, commenti e approfondimenti. Si viene di conseguenza a creare un dibattito dilatato nel tempo rispetto a tematiche di attualità provando in questo modo a capire come la letteratura e la narrazione letteraria si debbano approcciare ed intersecare con le stesse.

(11)

Non si parla di conclusioni fatte e finite, ma di una costruzione teorica in continua evoluzione che tenta di seguire i forti cambiamenti sociali di un paese, l’Italia, che nel secondo dopoguerra prova a stare al passo con i grandi mutamenti economici e sistemici determinati da una fase storica e politica colma di novità.

Il caso di studio di questo capitolo prende in analisi il quarto e il quinto numero de «Il menabò di letteratura» editi presso Einaudi nel 1961 e 1962. Li esaminerà solo in maniera parziale provando a dare gli strumenti e le linee del dibattito teorico di quegli anni rispetto al rapporto fra Letteratura e Industria. Quando si parla di Industria non ci si limita a considerare l’azione lavorativa, ma come si vedrà si include un aspetto determinante della storia novecentesca che cambiò la concezione di vivere e vedere il mondo.

Questa tessitura teorica servirà per analizzare poi alcuni esempi narrativi legati a tale tematica e a costruire una comparazione con scritti contemporanei che trattano la questione del lavoro nella letteratura.

Necessario è però, ancor prima di aprire ai testi e ai loro autori, comprendere in quale fase storica si collocano questi numeri de «Il menabò di letteratura» e cosa si intende in termini soprattutto sociali quando si parla di ‘miracolo italiano’ o ‘boom economico degli anni Cinquanta’.

Il boom economico conseguente all’ultimazione del Piano Marshall aprì le porte dell’Italia all’interscambio commerciale trasformandola da un paese povero ad una potenza economica. L’industrializzazione, figlia del sistema neocapitalista, creò nuovi posti di lavoro comportando conseguentemente

(12)

importanti flussi migratori dal sud al nord del paese nonostante l’industria si fosse espansa anche nel meridione. Il mestiere dell’operaio industriale divenne così un lavoro sicuro per assicurare un futuro degno non solo ai lavoratori, ma anche alle loro famiglie. Questo non servì a colmare i divari sociali esistenti, ma fu mezzo nelle mani della comunicazione politica per dimostrare strumentalmente le capacità governative nei riguardi delle politiche lavorative post belliche. Tale fenomeno modificò da una parte la concezione di lavoro e le condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici, dall’altra le tipologie di mestieri: lo spostamento delle attività lavorative non si ebbe solo da una parte all’altra dell’Italia, ma anche dalle campagne ai centri abitati comportando appunto una diminuzione dei mestieri tradizionalmente legati alla natura.

Nel 1957 Ottiero Ottieri attraverso la prospettiva delle trasformazioni urbane descrisse perfettamente questo mutamento:

La città avanzando ha preso dentro interi borghi agricoli con le cascine e la chiesa ornata di campanile. In fondo al viale, lontanissimo, è riconoscibile proprio una cascina, per l’architettura bassa, il colore denso e antico dei muri marroni.Le fabbriche sono nate dai prati, dalla terra; ma la campagna distrutta, debole e pallida come il cielo, sembra che non si difenda e che non la rimpianga più nessuno. 1

Proprio questo senso del non rimpianto esplicato da Ottieri, questa spinta verso un mondo che sembrava nuovo e redditizio, ma che celava un patto di ferro all’interno della retorica del “vivere per lavorare o lavorare per vivere”,

O. OTTIERI, Tempi stretti, Torino, Einaudi, 1964, pp. 20-21.

(13)

ovviamente con un input dipendente dalle necessità di sussistenza, furono i sentimenti che spinsero tanti italiani ed italiane a cambiare vita.

Le forze politiche in campo, in particolare la Democrazia Cristiana, alla ricerca di un consenso sempre più ampio e di un’egemonia elettorale, sfruttarono la fase propulsiva per creare una base che non potesse avere alcun tipo di spazio di azione al di fuori del lavoro individuale.

In quegli anni, come Guido Crainz racconta nel suo primo libro della trilogia sulla storia dell’Italia contemporanea Storia del Miracolo Italiano , vi fu una 2

completa depoliticizzazione della classe operaia con la conseguente perdita di qualsiasi tipo di piano collettivo possibile. I tesseramenti ai sindacati della sinistra calarono vertiginosamente, come il numero degli operai iscritti al Partito Comunista Italiano. La DC impose inoltre limitazioni all’antifascismo in Italia dichiarandolo anacronistico rispetto alla fase politica, questo con il mero scopo di allontanare la nuova classe operaia da posizioni politiche radicali e dar loro il centrismo come unica scelta sostenibile.

Questo piano politico comportò uno stato di alienazione e isolamento dell’operaio che come si vedrà sarà elemento centrale all’interno del dibattito letterario de «Il menabò di letteratura».

Diretta conseguenza fu inoltre l’aumento dei consumi e una resignificazione del concetto di consumismo, come si può ben evincere leggendo il testo di Italo Calvino La “belle époque” inaspettata, pubblicata per la prima volta nel sesto numero della rivista «Tempi moderni» nel 1961:

G. CRAINZ, Storia del Miracolo Italiano, Roma, Donzelli, 2005.

(14)

All’euforia del consumo effettivo che regna in noi, corrisponde, di là, l’euforia di un consumo possibile, posto come obiettivo raggiungibile e quasi principale, l’euforia di poter finalmente sognare il consumo senza sentirsi in colpa.‑3

Sin dall’editoriale di Elio Vittorini posto in introduzione al quarto numero de «Il menabò di letteratura» si evincono le linee guida e i punti focali di quello che sarà il piano di discussione dei vari saggi posti all’interno della raccolta.

Il principio da cui la trattazione parte è proprio quello di cercare di comprendere come la letteratura fosse in grado di rappresentare, indagare, ricostruire e creare immaginario rispetto alle «cose nuove» che quella che 4

Vittorini chiama «ultima rivoluzione industriale» aveva portato. 5

Sin da una prima lettura emerge in fulcro centrale della problematizzazione intrinseca alla creazione di tale immaginario: il punto di partenza dello scrittore. La Letteratura dell’Ottocento era difatti solita trattare la questione del lavoro in termini sia individuali che collettivi, ma con una prospettiva che partiva dal piano della natura: i mestieri si basavano infatti quasi esclusivamente sul lavoro contadino e quindi il focus preponderante riguardava proprio il rapporto fra l’uomo e lo spazio naturale.

Con l’industrializzazione degli anni Cinquanta cambia, come già si anticipava, il contesto non solo lavorativo, ma anche e soprattutto vitale. L’altro in rapporto con l’io-essere umano non è più la natura, ma l’artificiale.

I. CALVINO, La “belle époque” inaspettata, in Una pietra sopra, Milano, Mondadori,

3

1995, p. 114.

E. VITTORINI, Industria e letteratura, in «Il menabò di letteratura» , 4, 1961, p. 13.

4

Idem.

(15)

Vittorini proprio nei riguardi di tale fenomeno denota in termini critici ed interrogativi i limiti degli scrittori e colleghi che si ponevano l’obiettivo di narrare l’industria. Analizza le lacune esistenti fra punto di partenza, l’autore, e punto di arrivo, l’opera compiuta: risulta, a suo parere, estremamente complesso, ai limiti dell’impossibile, poter cominciare dalla concezione naturale per riuscire ad arrivare alla rappresentazione del lavoro industrializzato. Si evidenzia quindi un

continuum con la letteratura precedente rispetto al punto di partenza che però

non trova corrispondenza nel punto di arrivo.

Questo quadro è reso ancora più difficile dalla condizione di alienazione obbligata del lavoratore che non è spinto in alcun modo a raccontarsi e raccontare la propria esperienza, ma anzi gli praticamente impedito.

In questo senso Vittorini cita un passaggio del racconto inserito ne «Il menabò di letteratura» 4 di Ottiero Ottieri dal titolo Il taccuino industriale : «Il 6

mondo delle fabbriche, è un mondo chiuso […] Lo scrittore, il regista, il sociologo, o stanno fuori e allora non sanno; o, per caso, entrano e allora non dicono.”‑7 »

Oltre l’anacronismo, emerge quindi la complessità del narrare ciò che non si conosce e che allo stesso tempo non ha margini di conoscibilità.

Ottieri attraverso il testo dimostra inoltre ciò che Crainz scrisse anni dopo, cioè le condizioni avverse nella ricerca della possibilità di riuscire ad entrare nella fabbrica senza divenirne subalterno, quindi attraverso le rappresentanze sindacali e partitiche: l’allontanamento della politica inerente al sociale dai

O. OTTIERI, Taccuino Industriale, in «Il menabò di letteratura» , 4, 1961, pp. 21-84.

6

E. VITTORINI, Industria e letteratura, cit., p. 19.

(16)

luoghi di lavoro da parte della Democrazia Cristiana comporta l’ennesimo ostacolo per lo scrittore e narratore verso l’avvicinamento a quel mondo.

Proprio sulla prima questione posta da Vittorini si concentra il saggio di Gianni Scalia, docente di Letteratura presso l’Università di Siena e critico letterario, autore della riflessione intitolata Dalla natura all’industria . 8

Un testo estremamente ricco di concetti chiave dove si porranno in luce gli elementi ritenuti utili per le analisi dei prossimi capitoli.

Innanzi tutto Scalia dona la sua visione dell’industria in contrapposizione alla natura rilevando come il rapporto uomo-natura, di stampo ottocentesco e positivista, fosse un rapporto di reciprocità, di interscambio, mentre nei confronti della questione industriale l’uomo affronta uno stato di irreversibilità basato su «una scelta decisiva nella costruzione di un potere umano di decisione e controllo antinaturali» . La sfida in questo senso è quella di 9

collettivizzare questo potere facendo sì che la decisionalità sia in mano a tutti gli uomini e non solo a chi detiene il potere formale e riuscendo così ad uscire dalla fase di stallo descritta, in cui non esiste una prospettiva progressista, ma solo di sviluppo, facendo riferimento anche alla successiva analisi pasoliniana 10

che in tale contesto risulta calzante.

L’autore si concentra specificatamente sul concetto di creazione di «potere del potere industriale» . Questa creazione è l’unico strumento per 11

G. SCALIA, Dalla natura all’industria, in «Il menabò di letteratura» , 4, 1961, pp.

8

93-114. Ivi, p. 109.

9

Si veda P.P. PASOLINI, Sviluppo e Progresso, in Scritti Corsari, Milano, Garzanti,

10

1975, pp.184-187.

G. SCALIA, Dalla natura all’industria, cit., p. 110.

(17)

abbandonare definitivamente l’alienazione industriale e creare un’idea di futuro: difatti tale visione dell’industria priva di progresso pone un blocco rispetto alla possibilità di vedere il futuro, l’autore infatti vede l’industria come “il mondo in assenza di futuro” . 12

Posti questi nodi sistemici e problematici, che impongono inoltre un sentimento di disillusione rispetto alla prospettiva industriale e alla visione del rapporto uomo-lavoro di tradizione marxista, Scalia ricerca gli strumenti funzionali alla risoluzione di tali nodi: lo strumento centrale è quello della creazione di una «nuova antropologia» all’interno della quale la letteratura si 13

possa definire per mezzo di un sistema integrato con le scienze sociologiche. Il motivo che sta alla base di tale proposta si evince dalle parole del critico: «Il concetto metodico-interpretativo di industria si è esteso oltre il livello economico; è una struttura significativa complessa e globale ». 14

Questa complessità e questa globalità implicano dunque il bisogno di una ricerca sociale necessaria per la letteratura.

Partendo da questi presupposti la letteratura gioca un ruolo primario insieme alla sociologia: quello della «ricerca interpretativa della realtà» . Lo scrittore 15

deve rappresentare il mutamento, dunque «la realtà del lavoro e dell’alienazione del lavoro». La materia letteraria, secondo Scalia, deve essere in grado di porsi allo stesso livello di quella industriale perché se così non fosse

Ivi, p.101. 12 Ivi, p. 95. 13 Ivi, p. 96. 14 Ivi, p.97. 15

(18)

dimostrerebbe una sua lacuna conoscitiva della stessa; lo scrittore deve porsi, utilizzando le sue stesse parole, «nell’alienazione contro l’alienazione» . 16

Conseguentemente la letteratura, raggiunto il livello conoscitivo necessario, ha il compito non solo di rappresentare l’alienazione, ma anche la risoluzione di tale stato.

Lo scrittore e le sue opere hanno quindi un obiettivo sociale, quello di comprendere e trasformare «l’industria industriale nell’industria umana» . 17

Come già si rilevava precedentemente la densità del testo di Scalia pone dei punti chiave per le successive analisi testuali: oltre ad esprimere il bisogno di un rinnovamenti degli studi sociali in simultanea alla trattazione letteraria, ripone nello scrittore e in generale nella letteratura una responsabilità rispetto alla modifica dello status quo. La scrittura diviene quindi parte attiva nel processo di cambiamento desiderato e non solo mera testimonianza di ciò che avviene; la decisionalità e il libero arbitrio dello scrittore rispetto agli argomenti da trattare e la modalità in cui gli stessi vengono trattati, anche in termini linguistici, sono la base per donare alla letteratura tale ruolo.

L’ultimo testo preso in esame del quarto volume de «Il menabò di letteratura» è Comunicazione letteraria e organizzazione industriale di 18

Agostino Pirella.

L’autore esprime la necessità di attribuire una nuova prospettiva al lavoro industriale: attraverso la risoluzione del problema riguardante il potere e la

Idem.

16

Ivi, p. 113.

17

A. PIRELLA, Comunicazione Letteraria e organizzazione industriale, in «Il menabò di

18

(19)

liberazione è possibile creare una visione positiva del lavoro. In questo contesto la comunicazione letteraria detiene una responsabilità socio-culturale che può essere rispettata solo attraverso le scelte dello scrittore rispetto al livello in cui si pone nei confronti dell’argomento trattato. Tali scelte implicano anche il comprende da parte dello stesso chi sia il destinatario della propria opera. Pirella ritiene che il rischio possa essere quello di rassegnarsi nel pensare che il lettore faccia esclusivamente parte della borghesia.

La questione posta implica un ulteriore ragionamento non solo riguardante la materia trattata, ma anche rispetto al registro da tenere e al bisogno concreto di rendere accessibile l’opera per fornire strumenti e spunti necessari a chi le industrie le vive realmente con il fine creare organizzazione e destrutturare le dinamiche di potere.

Il quinto numero de «Il menabò di letteratura» fornisce ulteriori elementi 19

analitici sul rapporto letteratura lavoro, anche se, come dichiarato da Vittorini stesso in introduzione , non chiude il dibattito in termini sintetici, ma dà spazio 20

nuove questioni ancora irrisolte. Preponderante per questa ricerca è il piano interdisciplinare messo in atto per mezzo dello scritto del militante e sindacalista Gianluigi Bragantin dal nome La questione del potere a cui 21

immediatamente risponde Italo Calvino con La “tematica industriale” . 22

«Il menabò di letteratura», 5, 1962.

19

E. VITTORINI, Introduzione a «Il menabò di letteratura», 5, 1962, pp.1-4.

20

G. BRAGANTIN, La questione del potere, in «Il menabò di letteratura», 5, 1962, pp.

21

10-18.

I. CALVINO, La “tematica industriale”, in «Il menabò di letteratura», 5, 1962, pp.

22

(20)

Bragantin riprende le parole di Vittorini del numero precedente per evidenziare le lacune teoriche presenti all’interno della trattazione. Innanzi tutto sostiene che sia indispensabile definire la «verità industriale» citata dal 23

curatore, ma prima di tutto erigere le fondamenta di tale definizione: è opportuno capire in quale sistema politico e sociale si inserisca l’industria a lui contemporanea e di conseguenza analizzarla e determinarla storicamente. Esistendo plurime visioni di tale sistema e di tale determinazione storica non si può accettare l’idea che esista una sola verità industriale . 24

L’autore evidenzia le criticità riscontrate negli scritti del quarto numero, soffermandosi sui vuoti da colmare e gli errori da correggere per riuscire a raggiungere la visione sistemica globale e a scardinarla dalla base.

Innanzitutto Bragantin sostiene che lo scrittore non possa essere acritico nei confronti del neocapitalismo e che, allo stesso tempo, debba avere un atteggiamento ottimista; solo in questo modo può riuscire a fornire un contributo alla trasformazione.

Come infatti nota Bragantin tutti i testi, primo su tutti il Taccuino industriale di Ottieri offrono una visione pessimistica secondo la quale per lo scrittore, nonostante le premesse e i tentativi, sia impossibile inserirsi e allo stesso tempo raccontare quel mondo.

Se Vittorini portava alla luce il bisogno da parte dello scrittore di compenetrarsi con l’industria, Bragantin esprime l’esigenza di delimitare questa compenetrazione:

G. BRAGANTIN, La questione del potere, cit., p.10.

23

Ivi, p.11.

(21)

Rinuncia a capire, impossibilità di rappresentare: ma anche standoci dentro il mondo delle fabbriche non può essere un mondo necessariamente chiuso, per quanto concerne la comunicazione letteraria, così come non lo è per quanto concerne altri generi di comunicazione. Lo diventa quando di esso ci si compenetri fino a perdere autonomia di giudizio o di azione, illudendosi che abbia in sé quelle istanze trasformatrici che il sistema politico e sociale non può consentire; o quando la “denuncia” non contenga l’ambizioso ma possibile obiettivo della trasformazione ad ogni costo di una realtà verificata come inaccettabile. 25

Da queste poche righe si evince lo spirito e le capacità che l’autore pretende dallo scrittore: deve avere uno spirito critico, non può permettersi di perdere l’autonomia e di considerare il contesto come chiuso e al tempo stesso impossibile da aprire, in fine deve essere forza motrice per il cambiamento.

Più in generale Bragantin si sofferma sulle carenze della letteratura affermando che questa si basa su una «insufficienza ideologica» che la porta 26

a rappresentare solo «fette di vita» e non un «orizzonte totale» . Per avere 27 28

questa visione globale, la letteratura non può esimersi dal prendere una posizione nella «questione del potere» . Senza questi passaggi essa potrà 29

Ivi, p. 13. 25 Ivi, p. 16. 26 Ivi, p. 127. 27 Idem. 28 Idem. 29

(22)

solamente modificare e aggiornare forme e temi, ma non potrà cambiare prospettiva attraverso un reale «impegno ideologico» 30

Subito a seguire interviene l’autorevole voce di Italo Calvino, assente nel numero precedente, per provare a tirare le somme mettendo il discussione l’intervento di Bragantin e per poi introdurre il suo saggio La sfida del Labirinto, che, nonostante tratti di letteratura ed industria, viene inserito all’interno del volume e non nel frontespizio, spazio dedicato alle riflessioni sul tema.

Calvino sostiene che lo scrittore nella trattazione industriale sia portato a scrivere più in forma saggistica che in forma realmente narrativa, quando poi si trova a dover narrare realmente subentra la difficoltà: il linguaggio in questo senso è forma e strumento di una narrazione efficiente.

Tuttavia l’autore dichiara: «Certo, non basta la scelta d’un’impostazione di linguaggio; o meglio il concetto di “linguaggio” va considerato nella sua accezione letteraria più estensiva, come metodo di rappresentazione del mondo.» 31

Dunque il linguaggio secondo Calvino va considerato come uno strumento di visione e rappresentazione a tutto tondo, come una lente attraverso cui lo scrittore offre tale punto di vista.

Risponde poi direttamente a Bragantin riprendendo la questione dell’ideologia necessaria per lo scrittore. L’autore capovolge la divisione di responsabilità esposta dal sindacalista domandandosi come possa uno

Ivi, p.18.

30

I. CALVINO, La “tematica industriale”,cit., p. 20.

(23)

scrittore prendere il posto di chi si deve occupare della costruzione di un’ideologia.

Secondo Calvino non è dunque lo scrittore ad avere delle carenze, ma l’ideologia che sta alla base ad essere manchevole e lo scrittore in sé non può sobbarcarsi la responsabilità di colmare tali lacune.

Egli, introducendo il suo saggio successivo, afferma che per capire fino in fondo come la letteratura si debba rapportare alla struttura e all’ideologia vi sia il bisogno di ripercorrere la storia del rapporto fra letteratura industria e lavoro: partire dal passato, dalla prima Rivoluzione Industriale, per comprendere come agire sul presente e sul futuro.

Parlando dell’Ottocento Calvino individua l’estetismo come «frutto primo e diretto della società industriale» , tuttavia nei riguardi della prima rivoluzione 32

industriale sostiene che la critica fosse nata da un punto di vista borghese, quindi difficile da prendere in esame poiché considerato già viziato. Egli individua nella “fondazione di un nuovo stile” l’unica soluzione possibile. 33

Passando alla seconda Rivoluzione Industriale e quindi all’argomento principe di questa prima parte di trattazione Calvino non individua alcun termine di paragone precedente, né tanto meno una prospettiva sul futuro ,evidenziando inoltre l’impossibilità di riconoscibilità esteriore dell’industria.

L’uomo è spinto ad un individualismo tale da non riconoscersi più all’interno di un’ «opposizione dialettica fra soggetto ed oggetto» . 34

ID., La sfida al Labirinto, in Una pietra sopra, Milano, Mondadori, 1995, p. 130.

32

Ivi, p. 134.

33

Ivi, p. 137.

(24)

Calvino nota: «La letteratura, puntando su questa zona interna all’individuo, cerca di far breccia là dove la cultura ideologica presenta una lacuna.» 35

La forma dei due scritti di Calvino è una forma inedita rispetto a quelle viste precedentemente poiché al contrario degli altri testi vi è un botta e risposta immediato.

Le argomentazioni inerenti alla mancanza di fondamenti ideologici da una parte e alla lacunosità dell’ideologia dall’altra fanno emergere un’evidente difesa di categoria da parte di entrambi gli autori, ma simultaneamente si rende palese con ancora più forza la caotica difficoltà nel riuscire ad esaminare una fase di capovolgimento degli equilibri sociali, culturali, sistemici, naturali.

La nuova fase, inedita, coglie tutte le categorie impreparate, scrittori in particolare e il dibattito de «Il menabò di letteratura» 4 e le riprese de «Il menabò di letteratura» 5 ne sono la dimostrazione: positiva è la rimessa in discussione dei compiti di ciascun soggetto chiamato in causa, ma anche la ricerca di un nuovo destinatario che possa fruire in maniera propositiva dell’opera scritta.

Degna di nota è inoltre l’importanza, la centralità attribuita alla letteratura che diventa uno strumento sociale utile al riequilibrio delle forze in campo: non solo rappresentazione, ma mezzo di trasformazione.

La disputa ultima rispetto al rapporto fra ideologia e compito dello scrittore, richiama l’esigenza del sistema integrato, della nuova antropologia richiesti da Scalia nel numero precedente.

Idem.

(25)

Stimolanti risultano essere altresì gli interrogativi riguardanti il destinatario e dove lo stesso si colloca nel mondo industrializzato; identica cosa vale per il mittente, lo scrittore, che attraverso una presa di responsabilità più o meno importante può scegliere dove porsi e quale prospettiva assumere.

I.2 Tre autori per tre diverse

prospettive

Poste le trattazioni teoriche riguardanti il rapporto fra letteratura e lavoro si andrà ora ad analizzare in questo capitolo le opere di tre autori scritte fra la fine degli anni cinquanta e la prima metà degli anni sessanta che trattano da differenti prospettive la questione lavorativa di quegli anni: Il lavoro culturale, edito nel 1957 presso Feltrinelli, e L’integrazione, edito nel 1960 presso Bompiani, di Luciano Bianciardi, Donnarumma all’assalto, pubblicato anch’esso da Bompiani nel 1959, di Ottiero Ottieri e Memoriale di Paolo Volponi, che ha visto la luce nel 1962 grazie alla casa editrice Einaudi.

La scelta dei tre testi è data proprio dalla necessità, al fine della ricerca, di mettere a confronto contesti differenti, ma simultanei: da una parte il lavoro intellettuale visto dagli occhi di un giovane studioso di provincia; dall’altra la fabbrica e la disoccupazione nel Meridione dalla prospettiva di un amministrativo; dall’altra ancora l’occupazione in un’industria piemontese raccontata da un operaio.

In termini metodologici, si partirà dalla contestualizzazione e dall’analisi generica dei testi, della trama, dei personaggi, dello stile e della forma, della

(26)

tecnica narrativa e descrittiva, per poi estrapolarne gli elementi necessari per creare un quadro complessivo di comparazione e una messa a sistema degli elementi narrativi utilizzati, con l’obiettivo di dare una restituzione della fase storica, politica e sociale del tempo, ma anche, ove possibile, per comprendere come gli autori siano stati in grado, avendone la volontà, di creare un piano di critica sistematica ed esprimere quel bisogno di attivazione di cui molto si scrisse nei due volumi de «Il menabò di letteratura» già analizzati.

I.2.1. Essere intellettuali: da Kansas City alla grande

metropoli

Luciano Bianciardi nacque a Grosseto, provincia nel sud della Toscana, nel 1922 da una famiglia medio borghese. Figlio di un’insegnante e un banchiere, svolse gli studi superiori presso il Liceo Classico Carducci-Ricasoli e, ottenuta la licenza media nel 1940, si traferì a Pisa per frequentare la Facoltà di Lettere e Filosofia riuscendo inoltre ad accedere alla Scuola Normale Superiore.

Significativi rispetto a questo periodo sono le restituzioni che Pino Corrias riporta nella biografia Vita agra di un anarchico , edita per la prima volta nel 36

1993.

L’attività universitaria di Bianciardi sarà interrotta dalla chiamata in guerra che nel 1943 lo porterà ad abbandonare Pisa, dove poi tornerà per chiudere il

P. CORRIAS, Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano. Nuova edizione,

36

(27)

percorso di studi nel 1948 con una tesi su John Dewey. Nello stesso anno si sposa con Adria Belardi, da cui avrà due figli.

Il ritorno a Grosseto lo porterà ad intensificare la sua attività culturale: prima professore di Liceo e poi direttore della Biblioteca Chelliana, sarà motore attivo della creazione ed implementazione del circolo grossetano di lavoro culturale legato al Partito Comunista e per cui sarà promotore del progetto del “Bibliobus”, un autobus che consegnava i libri nelle campagne maremmane. Proprio in questo contesto, nel 1953, durante un convegno a Livorno, incontra la donna che lo accompagnerà fino alla fine dei suoi giorni Maria Jatosti, funzionaria dei Circoli del Cinema a Roma che davanti a Corrias dichiarerà: «Avevo due sogni: scrivere e fare la Rivoluzione. Certo, l’amore era importante, ma c’era tempo. Mi ricordo il saluto di Luciano dal treno, pensai che non l’avrei mai più rivisto» . 37

Dopo un anno Maria viveva con lui a Milano, dove Luciano si era trasferito a seguito dello scoppio nella miniera di Ribolla, luogo a lui caro e oggetto dei suoi studi e ricerche. Proprio nel 1956 scriverà in collaborazione con Carlo Cassola, amico e collega, I minatori di Maremma , un reportage sulle condizioni dei 38

lavoratori e delle loro famiglie.

Questo avvenimento creò in lui tanta delusione da assumere la decisione di autoesiliarsi a Milano per collaborare alla «grossa iniziativa» di fondazione e 39

conseguente inaugurazione della casa editrice Feltrinelli, da cui verrà licenziato per “scarso rendimento” e per la quale rimarrà un collaboratore occasionale.

Ivi, p. 69.

37

L. BIANCIARDI, C. CASSOLA, Minatori di Maremma, Bari, Laterza, 1956.

38

L. BIANCIARDI, L’integrazione, Milano, Feltrinelli, 2014, p.16 [=LI].

(28)

In Lombardia ebbe modo di confrontarsi con molti intellettuali, ma anche di scontrarsi con l’industria culturale e il consumismo di massa di stampo neocapitalista. Nonostante le numerose collaborazioni giornalistiche e le molte opere di narrativa pubblicate, Bianciardi soffrì con rabbia e con spirito anarchico la delusione di quella fase storica tanto da aggravare la depressione ormai cronica e sfociare nell’alcolismo.

Nei suoi ultimi anni di vita visse fra Rapallo e Grosseto, dove tornò spesso per rimediare alla lunga assenza senza tuttavia riuscirci, ma anzi peggiorando ancor più la sua condizione. Morì a Milano nel 1971 senza poter godere in alcun modo della rinascita collettiva e sociale di quegli anni.

Il lavoro più importante e interessante che Bianciardi portò avanti durante la breve vita fu quella che critici e biografi chiamano “trilogia della rabbia”: Il

lavoro culturale, L’integrazione e La vita agra . 40

Corrias afferma che con questi scritti svelò «una storia che fu collettiva, generazionale, come le illusioni che la nutrirono. Ma che resta unica (e tragica) nel disamore privato che l’ha sigillata» . 41

Fabio Danelon qualche anno prima esplicò sinteticamente gli obiettivi delle opere di Bianciardi: «l’autore intende operare una lettura anticonformista (ma rigorosa) di certi miti ed illusioni della società italiana a cavallo tra anni ’50 e

L. BIANCIARDI, La vita Agra, Segrate, Rizzoli, 1962.

40

P. CORRIAS, Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano. Nuova edizione,

41

(29)

’60, praticando una delle prime esperienze di letteratura «contestatrice» nel dopoguerra» . 42

Le prime due opere assumono centralità nell’analisi sul rapporto fra letteratura e lavoro di quegli anni. Nonostante lo sviluppo indiscriminato che ebbe l’industria, il tentativo di depoliticizzazione e individualizzazione ebbe le sue conseguenze anche nel contesto culturale ed intellettuale. Bianciardi subì questo fenomeno e lo trasformo in opera. Un’ opera che parte e si interseca con la sua esperienza di vita reale.

Si prenderanno in esame le prime due opere della trilogia perché fanno propria una forma più sperimentale: possono esser definite come un esperimento letterario, una contaminazione fra pamphlet di analisi sociologica e romanzo breve che, se letti in sequenza e comparati, restituiscono il quadro contestuale del lavoro visto dal punto di vista dell’intellettuale di provincia che cerca la risposta nella grande metropoli industrializzata. Risposta che non gli piacerà.

Il lavoro culturale racconta dunque gli anni della giovinezza di Bianciardi

partendo proprio dalla prospettiva provinciale: «La provincia, culturalmente, era la novità, l’avventura da tentare.» 43

Luciano, voce narrante, e Marcello Bianchi sono fratelli e protagonisti del racconto. Tentano per mezzo di conoscenze e nuovi incontri di creare una nuova cultura in un luogo dove gli unici spazi ad essa dedicati sono circoli

F. DANELON, Sulla prima stagione narrativa di Luciano Bianciardi. La storia di una

42

sconfitta: Il lavoro culturale, L'integrazione, La vita agra, Milano, Università degli studi

di Milano, 1988, p.101.

L. BIANCIARDI, Il lavoro culturale, Milano, Feltrinelli, 1997, p.19 [=LC].

(30)

ristretti e chiusi della medio-alta borghesia, spazi superficiali dove la cultura veniva sfruttata per farsi un nome, per dimostrarsi superiori al resto degli abitanti, che per la maggior parte risultano essere lavoratori proletari del settore edilizio, contadini ed affaristi.

«Infine c’eravamo noi, i giovani, la generazione bruciata, decisi a rompere con le tradizioni ed a rifare tutto da capo.» (LC,p.12): proprio con queste parole Luciano presenta se stesso e il suo gruppo di amici dove da subito emerge la figura di Marcello, giovane intellettuale che deciderà di sposare un donna non laureata creando uno scompiglio familiare dato dalla non accettazione, da parte del ragazzo, dello strumento culturale come ascensore sociale. Egli, prima insegnante del liceo e poi direttore della biblioteca comunale, è un alterego di Luciano Bianciardi, che utilizza l’espediente del fratello per raccontarsi, ovviamente in maniera romanzata, in terza persona, dando comunque al narratore un ruolo interno alla storia.

I giovani applicheranno vari approcci per arrivare alla nascita di un esperimento culturale controcorrente: dai cineclub ai dibattiti con intellettuali provenienti dalle grandi città; dal confronto con la cultura sovietica agli investimenti sulla biblioteca e il tentativo di risoluzione della ‘crisi del libro’ con una base teorica gramsciana di estensione della conoscenza a tutte le stratificazioni sociali; fino al tentativo di instaurare una coscienza collettiva fra i docenti della città.

Nonostante i tentativi, le avversità storiche, economiche e sociali avranno la meglio: è qui che si evidenzia come le politiche messe in campo in quegli anni fossero, parvenza a parte, i reali blocchi sociali. I costi ingenti dei diritti d’autore

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portano alla chiusura del cineclub; il timore di un avvicinamento agli ideali comunisti o, senza troppo pretendere, ad un piano collettivo di organizzazione parasindacale porta i docenti ad allontanarsi dal progetto di Marcello, che a sua volta viene più volte richiamato dai suoi superiori per le sue amicizie e frequentazioni ‘troppo politiche’.

Ed ecco l’occasione, «la grossa iniziativa» (LI, p. 16) che porta Marcello e Luciano a trasferirsi a Milano, la stessa Milano per la quale solo pochi anni prima nessuno di loro «si sarebbe mai sognato, un giorno, di partire» (LC, p. 20).

L’integrazione non può essere considerato un diretto sequel in termini

narrativi: i personaggi sono gli stessi, ma i profili sono in parte differenti dall’opera precedente e vi sono delle incoerenze, seppur legittime, rispetto alla storia. Ciò che tuttavia dimostra coerenza è lo spirito autobiografico. In questo caso Bianciardi non proietta sul fratello il suo profilo, ma crea una sorta di doppio di se stesso attraverso i due fratelli, mantenendo alcune delle caratteristiche di partenza.

I due si trasferiscono a Milano ed iniziano a svolgere il loro lavoro nella casa editrice vivendo in una pensione e subendo la città, immagine del consumismo e della mercificazione.

Stentano ad arrivare a fine mese e frequentano caffè dove giovani intellettuali come loro si recano per conoscere persone e per farsi conoscere, ma senza mai mangiare. È questo l’iter di ogni intellettuale che vuole far della sua passione la sua ragione di vita, un ciclo continuo di giovani che per

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raggiungere i propri obiettivi prima sono costretti a soffrire e poi a scendere a mediazione, ad accettare compromessi.

L’ambiente di lavoro, inizialmente positivo e propositivo, si trasforma, attraverso licenziamenti silenti, in uno spazio di mera mercificazione della cultura: al posto di una linea che prediliga i saperi critici e sperimentali, si mettono solo paletti e costrizioni. L’unica linea da seguire è quella di non pestare i piedi a nessuno e di guadagnare il più possibile. La ricerca di idee interessanti per la pubblicazione si trasforma nella ricerca di ciò che è vendibile. Si perdono intere riunioni a parlare di regole grafiche e si limitano i dibattiti tematici e più approfonditi per volontà dei dirigenti.

Le politiche di gestione del personale sono comparabili a quelle delle fabbriche: bisogna essere produttivi e performanti verso il profitto. Basti vedere come più volte il dirigente rimarca davanti a Luciano quanto sia un errore assumere donne, anche se competenti, perché prima o poi si sposano, fanno figli e l’azienda va i perdita.

I due vengono poi licenziati, ridimensionamento del personale e assenteismo ne sono i motivi, e scelgono due strade completamente diverse: Luciano va a lavorare in un’azienda come pubblicitario e sceglie quindi il compromesso; Marcello invece si abbandona alla depressione e all’alcolismo, continuando a scrivere saltuariamente secondo i propri interessi e facendo il

ghostwriter per racimolare ciò che gli serve per vivere, senza mai cedere alle

(33)

Proprio questa scissione rappresenta per chi legge l’emblema delle costrizioni a cui la società del miracolo economico italiano, più in particolare per coloro che volevano fare della cultura una ragione di vita, era sottoposta.

I due fratelli, sempre con degli input autobiografici, diventano esemplificazione di due scelte radicalmente differenti, diventano due stereotipi della Milano intellettuale di cui l’autore si serve per dimostrare il fallimento.

«Io sono diventato una persona seria ora. Vita nuova, lavoro nuovo e un nuovo modo di guardare le cose» (LI, p. 71) : così si presenta Luciano nel penultimo capitolo, ambientato due anni dopo rispetto al precedente. Il capovolgimento dello stato precedente si manifesta attraverso le riflessioni che subentrano a questa frase: la stima immensa per il capo, la gioia nell’avere responsabilità per un lavoro concreto ,quasi come se i sogni e le speranze del lavoro culturale passato fossero soltanto illusioni date dall’incoscienza giovanile.

Rileva ancora: «Inutile dire che sono contento delle mie responsabilità: ho la sensazione, finalmente di essere nel giusto, nel gioco anzi, di partecipare costruttivamente alla vita di questa grande città.» (LI, p. 74).

Essere forza lavoro entusiasta per un’azienda in una città come Milano significa per il Bianciardi autore arrendersi alla speculazione sulla vita delle persone, alzare le mani difronte al neocapitalismo e assecondarlo in ogni sua forma.

Poi c’è Marcello che da quando non lavora più per la casa editrice si è rinchiuso nella sua casa di periferia. Di lui Luciano racconta: «I miei consigli Marcello non li vuole accettare. Dice che, pagnotta per pagnotta, è meglio così,

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e che lui il tram per andare al lavoro sotto padrone non lo vuol prendere più» (LI, p. 78).

È l’esatto opposto del fratello, ma anche lui a suo modo non ha reagito al sistema che non vuole accettare e a cui non vuole sottostare, ma anzi si è rinchiuso, nel dolore, quasi come se non volesse vedere come la società e la cultura stavano cambiando.

Per concludere questo duplice stato di resa Bianciardi offre un’immagine metaforica di un’espressività unica. Luciano va a trovare il fratello e lo incontra sopra il terrazzo:

C’è un punto dove il parapetto, per certi infiltrazioni dell’acqua piovana, si sta sgretolando. All’improvviso ho visto mio fratello svellere una mattone, ed alzarlo a mezz’aria. Ma non l’ha fatto. Signore, perché, a che servirebbe tanto? (LI, p. 85)

Proprio questa è l’immagine dell’uomo che vuole reagire e non ci riesce, vuole lanciare un mattone addosso a quella città che lo ha reso impotente nei confronti delle ingiustizie del presente, ma rimane bloccato.

In entrambe le opere le città, infatti, sono elemento fondamentale del racconto . È soprattutto la descrizione dei cambiamenti urbani che si riesce ad ottenere un’immagine chiara della realtà sociale e di come le novità industriali abbiano modificato quest’ultima.

(35)

Prima di allora non esisteva, era stata fondata dagli americani, che, giungendo fra noi, avevano spianato un campo per farvi atterrare gli arei, aperto rivendite di coca-cola, spacci di generi alimentari, dancings, depositi di materiale, creando all’improvviso un centro di traffici nuovo.

Da ogni dove, allora erano accorse folle di gente a quella nuovissima mecca. (LC, 15)

L’immagine che Bianciardi dona al lettore è quella di una città in evoluzione, figlia del piano Marshall e degli interventi economici statunitensi. La vita dei giovani grossetani illuminati si svolge fra i caffè e il cinema storico del centro città, dentro alle mura medicee, ma il loro interesse è altrove: nelle periferie che crescono a dismisura, mangiandosi campagne e poderi e dalle quattro strade, simbolo periferico dei collegamenti con il resto del Paese.

Questa rapida espansione è anche una crescita inconsapevole che non crea e non pretende aspettativa nei riguardi della questione culturale. I protagonisti dunque vivono delle attese che si creano autonomamente e collettivamente.

Il rapporto dei fratelli Bianchi con la città è intimo e complessivo tanto da poter affermare che i personaggi creati ad hoc da Bianciardi interiorizzano la città e attraverso le loro voci, pensieri e programmi ne esprimono le necessità. Necessità che non corrispondono alla soddisfazione intellettuale dei nuovi abitanti, ma che riescono a connettere il nuovo con ciò che già esiste:

giusto anche sostenere le ragioni della provincia: la città aperta ai venti e ai forestieri, Kansas City […] il cinema, il jazz; tutto

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giusto, ma che tenessimo in mente una cosa fondamentale: ogni cultura dimostra la sua forza e la sua modernità solo confrontandosi con la realtà storica e sociale che ci sia dinanzi, solo se riesce a liberare tutti, a liberare i contadini, a capirli, a farceli simili a noi. (LC, p.40)

Nell’ultimo capitolo aggiuntivo , Ritorno a Kansas City (LC, pp. 108-112), 44

Bianciardi racconta appunto il ritorno nella città natale, con cui ora da Linate può arrivare persino in aereo. Descrive in poche pagine una città che punta solo al commercio e alla turistificazione, mentre nelle campagne ogni possibilità di organizzazione e socializzazione è stata eliminata dalla divisione dei latifondi e dalla proprietà privata. Ogni tentativo giovanile di Luciano o Marcello è risultato vano e le parole ultime dell’autore attestano un senso di colpa determinato dalla responsabilità e dal senso del dovere che non sono stati in grado di seguire:

Eppure Kansas City è una città tremendamente seria, e io ci torno ogni volta con un po’ di magone e parecchio rimorso: d’esserne fuggito nottetempo senza domandarne il permesso, e portando via parecchia roba, quasi tutto quel che ho, come i ladri della collana vetuloniese. Con la differenza che la collana vetuloniese si potrebbe sempre restituirla, la roba che ho preso io no. (LC, pp. 111-112)

Bianciardi aggiunse un ultimo capitolo, edito per la prima volta nel 1964, per

44

raccontare il suo ritorno, avvenuto dopo la prima pubblicazione, presso la città natale. Nel capitolo aggiuntivo egli analizza le sensazioni provate e le novità incontrate nel rivedere Grosseto.

(37)

Dall’altra parte c’è Milano; già nella prima opera Bianciardi la descrive nei termini seguenti:

Milano era lontana, su, oltre il Po, vicino alla Svizzera, una città di fabbriche, di grandi imprese, di traffici. Gli intellettuali lassù sparivano dietro a un grosso nome […] non erano più il sale della terra, i cani da guardia della società, i pionieri dell’avvenire, gli ingegneri dell’anima. (LC, p. 21)

È ne L’integrazione che questa idea prende forma scontrandosi con la realtà. Si potrebbe ipotizzare che la concezione di Milano che l’autore fa emergere ne

Il lavoro culturale sia stata influenzata dal fatto che lo stesso Bianciardi già

vivesse nella metropoli lombarda al tempo della scrittura e pubblicazione della prima opera.

Anche nella seconda il sentimento che la città provoca è fattivamente legato alla storia che racconta, questo dato si rende evidente sin dalle prime pagine. La metropoli viene descritta come un agglomerato di pile e pile di macchine e di persone ammucchiate sui tram. Non è un’immagine di una città a cui il boom economico ha donato dinamismo e brillantezza, ma anzi di una città cupa e caratterizzata dal grigiore che vive per lavorare.

Lo si vede bene nella descrizione della pensione dove i protagonisti vivono: non hanno un loro spazio privato di vita reale, l’unico motivo per cui vi abitano è il lavoro.

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Il diurno era sotto il piano della strada, e bisognava scendere una rampa di scale a chiocciola. Laggiù scoprivi un labirinto si piastrelle bianche e tante porte. […] I clienti invece stavano seduti in fila su certi sgabelletti cromati, in attesa del turno. All’ingresso ti davano un biglietto con il numero, e dovevi star ben attento, quando la donna lo chiamava, altrimenti c’era il pericolo che quella passasse al numero successivo, e il turno andava perso. (LI, pp. 20-21)

Anche un’azione quotidiana o comunque solita come quella di lavarsi, della cura della persona associata spesso al relax diventa una sorta di catena di montaggio dove tutto è meccanico, dove chi è più attento o, per meglio dire, meno stanco, può passare avanti agli altri.

Anche i caffè, come già si accennava, non sono veri luoghi di interscambio amicale, come potevano essere quelli di Grosseto, bensì spazi per emergere sugli altri, per dimostrare il valore individuale, per soffrire guardando chi può permettersi di utilizzarli per il loro vero scopo.

Dunque se la provincia toscana era l’elemento da rispettare, comprendere ,capire, la base da cui partire per mettere in atto un riscatto culturale e sociale, Milano è invece un macigno sulle spalle dei più deboli, impone i ritmi, le regole, lo stile di vita, è insomma la città piena di cemento dove le persone non hanno spazio per camminare e dove i palazzi si mangiano il cielo. Milano, attraverso le parole di Bianciardi, costituisce l’esemplificazione dell’alienazione umana e dell’individualismo, della mercificazione, del profitto.

Bianciardi con i suoi due scritti dimostra per mezzo di una commistione di esperienze personali e di espedienti letterari come anche il lavoro culturale

(39)

fosse stretto nella morsa del neocapitalismo e come qualsiasi settore, compreso quello che in molti giudicavano essere un settore salvifico, fosse omologato alle necessità di mercato e non alle necessità sociali.

Come ricorda Danelon, Bianciardi individua le cause del fallimento del lavoro cultura proprio «nel profondo distacco tra “mondo della politica” e società» : lo 45

si vede nel racconto ambientato a Grosseto e nel modo in cui funzionari di partito si succedano l’un l’altro senza riuscire a dare forma alle loro campagne e a raggiungere i loro obiettivi.

Non è solo fallimento della politica, ma anche delusione nel vedere quanto lontani dalla realtà fossero gli intellettuali inviati dal partito in quell’epoca. I film e la cultura sovietica, come lo stesso autore più volte rimarca, erano sì interessanti, ma il mito sovietico non poteva, secondo il suo parere, essere preso ad esempio per il lavoro culturale in Italia:

Questa era la differenza: a loro premeva la sicurezza e la dignità dell’uomo, mentre il nostro pubblico va per il brivido. No, la verità è che non potevano capire quel mondo, loro cresciuti in una società marshalizzata come la nostra. (LC, p. 61)

Allo stesso modo, sempre in un’occasione affine, ma durante la proiezione di

Ladri di biciclette, il critico arrivato da Roma era interessato al fatto che nel film

vi fosse, elemento nuovo, come protagonista un operaio disoccupato evidenziando che però questo era un elemento anacronistico, dato che la disoccupazione non era un problema dei loro tempi e che inoltre la narrazione

F. DANELON, Sulla prima stagione narrativa di Luciano Bianciardi. La storia di una

45

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del film era errata perché non vi erano organizzazioni sindacali, ma solamente un uomo solo.

Marcello, da parte sua, trova una diversa chiave di lettura, molto più reale ed umana che dimostra la lontananza degli intellettuali dall’alienazione umana:

“Ma io,” intervenne Marcello “pensavo appunto che questo fosse il nocciolo drammatico dell’opera del De Sica: la solitudine dell’uomo. Non siamo forse noi tutti degli uomini soli?” (LC, p.55)

Con queste conversazioni l’autore espone come realmente stavano le cose, come vi fossero interessi e visioni completamente differenti e come il Partito fosse inadeguato a svolgere la funzione che si era prefissato.

L’integrazione è un testo ricco di dimostrazioni effettive dello stato delle

cose, basti pensare a come la casa editrice dove i due protagonisti lavorano cambi nel corso della storia: inizialmente spazio di condivisione di idee, fucina culturale e luogo di conoscenza acquisisce poi la forma di una vera e propria industria.

Interessante in questo senso è un elemento marginale, ma efficace: all’inizio del racconto più volte il protagonista narra delle pause caffè che insieme ai colleghi andava a fare al bar. Questa azione appunto potrebbe sembrare di poco conto, fino a quando la pausa caffè esterna dall’ufficio viene vietata: l’autore con questo racconto esprime implicitamente un senso di oppressione, di eliminazione di ogni componente umano.

(41)

Degno di nota è il racconto che Luciano fa del ritorno alla casa editrice dopo qualche anno: orologi segnatempo, cartellini da timbrare, nuove impiegate che vanno avanti e indietro dagli uffici in maniera efficiente, rumore di macchine da scrivere.

Proprio coloro che avrebbero dovuto assumere il ruolo di motore critico, si appropriano degli aspetti del sistema alienante. 46

I.2.2. Donnarumma all’assalto: quando alienazione e

disoccupazione combaciano

Ottiero Ottieri nacque a Roma nel 1924, di origini toscane passò gran parte della propria vita a Milano, dove si trasferì nel 1948. Considerato fra i più significativi scrittori industriali della seconda metà del Novecento fece dell’autobiografismo lo strumento fondamentale per ‘narrare’ la realtà della fabbrica.

Ne è una dimostrazione il già citato Taccuino Industriale , scritto 47

pionieristico, che, dopo l’inserimento in rivista, venne pubblicato in versione

Per approfondire gli argomenti trattati in questo sottocapitolo si veda anche: G.C.

46

FERRETTI, Lavoro e non-lavoro nell'esperienza intellettuale di Luciano Bianciardi, in

«Allegoria», 47, 2004, pp. 67-72; R. DAINOTTO, Luciano Bianciardi e il lavoro culturale,

in «Italian Studies», 3, 2010, pp. 361-375; F. FISTETTI, Da "Il lavoro culturale" a "La vita

agra". L'impossibile autobiografismo di Bianciardi, in «La nuova ricerca», 20, 2011,

pp. 105-120.

O. OTTIERI, Taccuino Industriale, cit., pp. 21-84.

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integrale nel 1963 sotto il nome La linea gotica edito presso Bompiani, che 48

rimarrà la casa editrice di riferimento per circa diciassette anni.

È un diario-reportage scritto dall’autore negli anni che vanno dal 1948 al 1958 e che pone gli interrogativi riguardanti gli strumenti per narrare in modo completo e reale l’industria.

Scopo di Ottieri, infatti, è sempre stato quello di distaccarsi dalla dinamica intellettuale di analisi della fabbrica come caso di studio da una prospettiva esterna per riuscire ad entrarvi concretamente, nella logica per cui non si può narrare l’industria senza farvi parte.

Dopo aver lavorato presso la Mondadori e aver collaborato con numerosi giornali e periodici, finalmente, nel 1953, viene assunto dall’Olivetti come selezionatore del personale. Una forma di meningite lo coglie quasi subito ed è costretto a a seguire le cure sino al 1955 quando Olivetti stesso gli propone di trasferirsi presso la nuova sede dell’azienda a Pozzuoli.

Sono questi gli anni in cui Ottieri scrive Donnarumma all’assalto. L’opera è formata da un insieme di riflessioni e racconti da una prospettiva interna anch’essi posti sotto forma di diario, dal 1955 al 1957. La voce narrante è quella dell’autore reale che svolge il suo lavoro di selezionatore del personale. Il racconto include tutto il periodo di permanenza a Pozzuoli. 49

È un punto di vista differente da quello “settentrionalocentrico”: tutti i problemi individuati dalle grandi analisi intellettuali e sociologiche sul rapporto

ID. , La linea gotica, Milano, Bompiani, 1963.

48

Si veda anche: O. CERETTA, L'autobiografia che cura: esperienza e scrittura del

49

(43)

fra lavoratori, industria e società, l’alienazione operaia determinata dalla fabbrica e dal sistema neocapitalista, le condizioni di lavoro vengono sovrastati da un altro problema, al tempo poco considerato socialmente, la disoccupazione nel sud dell’Italia.

Attraverso il suo diario Ottieri racconta giornate di lavoro infinite e spesso così simili l’un l’altra da essere interscambiabili. Giornate in cui dai test si passa ai colloqui individuali per poi arrivare all’ultimo scoglio, la visita medica e il colloquio con il direttore. I candidati sono così tanti che, nonostante la volontà dei selezionatori di sentire la voce di tutti, molti vengono scartati sin dal test iniziale.

Ma qui la fabbrica non si trova a scegliere fra un gruppo di operai, per dividerli secondo le loro attitudini e le nostre esigenze. Qui giudichiamo un popolo intero. Gli eletti possono anche venir assunti, ma dove vanno i reprobi? 50

Questo si chiede il protagonista durante i suoi primi giorni di lavoro, ma lo scoprirà ben presto: gli scartati, disoccupati e senza niente da perdere, stanno fuori dal cancello della fabbrica in attesa che qualcuno “di potere” passi per potergli elemosinare un colloquio, una promessa non scritta, un rimborso una

tantum.

Donnarumma, che dà il nome al romanzo, è proprio una di queste persone che pretendono il lavoro, consapevoli che poter permettersi di mangiare sia un diritto.

ID., Donnarumma all’assalto,Milano, Garzanti, 2004, p. 20 [=DA].

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Un anno prima del suo trasferimento Ottieri annotava: «Io non voglio a Napoli affogare nella “questione meridionale” e tanto meno nel folklore che la circonda. Altri lo hanno fatto o lo fanno meglio di me. La mia àncora è lo stabilimento, l’industria.» 51

Il confronto con la realtà lo porterà però a comprendere che la “questione meridionale” in uno stabilimento del sud fa da padrona, che non è possibile scindere le dinamiche della fabbrica da ciò che avviene fuori dai cancelli o dentro gli uffici di selezione del personale.

L’ambientazione in questo senso gioca un ruolo fondamentale, a Milano, nel nord del Paese, dove i tempi, lo stile di vita, la fotografia urbana risultano essere diretta conseguenza dell’industria. A Pozzuoli, a Santa Maria questo non accade.

Come afferma l’autore stesso la fabbrica inganna i dirigenti e gli impiegati, li induce al «colonialismo»(DA, p.41), ma la realtà di quei luoghi è un’altra:

Dobbiamo uscire dalla fabbrica e sentirci, come siamo, una goccia nel mare: il lavoro ci tiene il giorno intero nello stabilimento, ma fuori, per le campagne, lungo la costa, muoiono aziendalismo e colonialismo, e le nostre acque si disperdono. Al di là dello stabilimento gonfia una vita collettiva […] vorrei vivere fino in fondo nelle terre attraverso cui passo quattro volte al giorno.(DA, p.41)

ID., Taccuino Industriale, cit., p. 23.

(45)

Il modo di vivere l’industria, le abitudini, i territori limitrofi sono dunque molto diversi da quelli a cui l’autore è abituato e che avrebbe voluto narrare. Come già si sottolineava le ambientazioni sono specchio ed immagine della realtà sociale che le abita e anche la fabbrica lo è. Ottieri evidenzia le differenze a partire dall’interno dei luoghi di lavoro: a Pozzuoli sono colorati, i macchinari sono dipinti, dalle finestre si vede la costa.

La fabbrica Olivetti a confronto con ciò che avviene fuori è un luogo di gioia e di vittoria personale, non di depressione ed alienazione.

Come ricorda Montesano «Per lo psicologo-narratore Ottieri la vera alienazione umana è la disoccupazione, e qualsiasi lavoro che provenga dalla logica dell’industria è meglio dell’assenza di lavoro, di quella voragine oscura di passività che circonda la Ragione all’opera nel ‘castello’ illuminato che è la fabbrica modello.» 52

L’assenza di lavoro diventa il motivo centrale dell’opera e del lavoro del protagonista ed è da qui che si va a delineare lo stato psicologico del narratore.

In principio, come già si anticipava, lo psicologo e selezionatore si trova a dover far fronte ad innumerevoli richieste ed espone il suo interesse nel voler comunque svolgere i colloqui con tutti, anche con coloro che non erano stati in grado di superare il test psicotecnico . È un dettaglio non di umanità, come esprime lui stesso, ma di giustizia scientifica che tuttavia si scontra con il tempo e le possibilità dell’impiegato:

G. MONTESANO, Donnarumma Liberato, in Donnarumma all’assalto,Milano, Garzanti,

52

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«Ma gli altri?»

«Come ieri. Diamo il rimborso spese e li mandiamo a casa.» Ma bisogna almeno guardarli in faccia, da soli, sentirne la voce.«Non ci si può fidare soltanto dei test» ho detto con convinzione non umanitaria, scientifica. (DA, p. 81)

Frattanto la Signorina S., sua collaboratrice e da più tempo in quella fabbrica, quasi si beffeggia di lui, ormai disillusa e abituatasi al fatto che non vi sarà mai tempo, né spazio per tutti.

Come lo stesso Ottieri afferma non è solo una questione di capacità, saranno i migliori fra i capaci ad essere selezionati e questo non implica che verranno assunti, ma anzi probabilmente non succederà. Perché nella fabbrica descritta non vi sono posizioni aperte ed immediate, continuare a fare selezioni serve esclusivamente per avere persone pronte nel caso la produzione aumentasse e la fabbrica dovesse ingrandirsi.

Ottieri vive con sofferenza l’avere la responsabilità nel dare false illusioni, di giocare con la vita degli ultimi e di essere strumento per un compromesso di politica aziendale, di avere delle colpe:

Per sfuggire alla colpa, non bisognava impiantare una fabbrica quaggiù. […]

Molti, a freddo, da lontano, potrebbero rimproverarci questo metodo; ma se è l’unico modo di sopravvivere… (DA, p.21)

Ottieri al contrario di altri, attraverso la sua narrazione, non applica un approccio critico, o almeno non espone un critica riflessiva completa, ma dona

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al lettore i possibili strumenti di lettura critica per mezzo del racconto. Anche il suo ruolo in questo senso, pur esprimendo il disagio di non poter dare sicurezze, è riportato in maniera chiara e diretta. Il fatto che non vi siano riflessioni personali profonde, il fatto che sottolinei che opera in nome dei criteri scientifici e non di quelli umani dimostra come sia completamente calato nel suo compito.

Lo continuerà a dimostrare anche difronte ai tanti disoccupati che incontrerà durante questi anni.

Quello che la Olivetti cerca non sono figure professionali qualificate, per queste ci sono i pochi ingegneri che si donano al miglior offerente o quelli che le direzioni centrali inviano dal nord. I candidati sono molto spesso lavoratori di altri settori, da pescivendoli a magazzinieri, che dopo anni di lavoro sono stati licenziati o hanno visto il fallimento della propria attività.

Il concetto che più volte viene espresso da questi nei colloqui, ufficiali o rubati davanti ai cancelli, è quello di “averne più bisogno degli altri”. I motivi posti sono molteplici: c’è chi deve mantenere sette figli, chi vuole sposarsi ma non può permetterselo, chi vive in una grotta e non ha altra ragione di vita.

Il problema vero, che Ottieri ben evidenzia è che queste condizioni di vita o di non-vita non hanno creato in alcun modo una coesione sociale perché non esiste nemmeno una classe operaia:

In questa zona industriale, l’industria vive arroccata, goccia nel mare o nella sabbia di una civiltà di pescatori senza barca e di contadini senza terra. Nessun tessuto lega una fabbrica

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