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Narratori argentini: Falco. Sogni di fuga dalla provincia argentina

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Academic year: 2021

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(1)

di EMANUELE TREVI

S

i arriva letteralmente stremati all’ultima pa-gina di Camminare

(traduzione di Giovan-na Agabio, Adelphi, pp.125, e 13,00), la bre-ve ma densissima no-vella ambulatoria pub-blicata da Thomas Bernhard nel 1971,a quarant’anni esatti.Non esistonomezzemisure,conque-sto prosatore ipnotico e avvol-gente. A differenza di quanto è accadutoadaltrimaestridelNo-vecento, il tempo non ne ha mi-nimamente attenuato l’effica-cia,il poterediseduzione.A me-no di me-non rifiutarlo preventiva-mente, non è possibile leggerlo in maniera continuata senza che, prima o poi, si venga lette-ralmente risucchiati dentro il suo universo mentale, soccom-bendo al ritmo implacabile del-le sue feroci e ilari rottamazio-ni. Il principio retorico basilare della forza di persuasione di Bernhard sembra consistere nella ripetizione.

Come in un rito ossessivo

In una pagina memorabile del suo Tristram Shandy, Sterne ave-va affermato che il segreto della sua prosa consisteva nel diffici-le, paradossale equilibrio della progressione e della digressio-ne. Anche Bernhard, come tutti igrandiinventori, è unnipotino più o meno diretto di Sterne. Se va avanti, come pure è necessa-rio non solo a ogni narrazione, ma all’atto linguistico stesso, lo fa sempre sfidando l’ostacolo, mettendo in campo una forza contraria. Ma non è il principio della digressione a ispirarlo: la qualità essenziale del suo mon-do psichico è tutt’altro che di-gressiva. Nel suo modo di rac-contare, è la ripetizione a farla da padrona, per non dire da ti-ranna. Come in un rito ossessi-vo, ogni minimo passo in avanti va ottenuto ricapitolando il già noto, ancora e ancora ribaden-dolo fino a superare il limite dell’insignificanza. Perché se la vecchiadigressioneerapursem- preunarricchimentodeldiscor-so, la ripetizionetrasformaogni cosa designata nella grottesca parodia di se stessa.

Camminare è un esempio per-fettodell’artediBernhardal suo apicedi genialità ecorrosività. È importante notare il fatto che si tratta di un racconto in prima persona, anche se l’«io» del nar-ratore affiora molto raramente nel flusso verbale. Di lui sappia-mo solo che era abituato a cam-minarenellaperiferiadi Vienna con due compagni: Oehler il mercoledì, Karrer il lunedì. Ma oracheKarrerèimpazzito,erin-chiuso nel manicomio dello Steinhof, cammina con Oehler entrambi i giorni. Fatta questa necessaria premessa, l’io nar-rante restringe radicalmente le sue prerogative. Come in tanti altri capolavori di Bernhard, il suo dire consiste quasi integral-mente in un riferire le parole dell’altro. Il racconto è scandito da infiniti «così (disse) Oehler» e

ruota intorno alla crisi di nervi che ha portato il sistema nervo- sodiKarreraltracolloeall’inter-namento allo Steinhof.

Oehler, a sua volta, riferisce molte opinoni di Karrer. Ad ac-comunare questi imperterriti camminatoristaillucido,dispe-rato pessimismo che per Ber-nhard è la naturale conseguen-za della capacità stessa di pensa-re. «Sappiamo che il pensiero è piena insensatezza», afferma Oehler, ma «sappiamo con al- trettantaprecisionechenoisen-za l’insensateztrettantaprecisionechenoisen-za del pensiero non siamo, ovvero non siamo nulla». Il narratore sembra sog- giogatodaOehlercosìcomeque-sti sembra dipendere dal folle Karrer,cheasuavoltaevocacon-tinuamente, nei suoi discorsi, il fantasma di Hollensteiner, un genio della chimica, scienziato e filosofo, costretto al suicidio dall’indifferenza dello Stato au-striaco, nemico giurato di ogni forma di valore individuale.

Il suicida, il pazzo e il cammi-natore sembrano comporre un’allegoria,unaspeciedigerar-chia gnostica lungo la quale

pa-re trasmettersi un sapepa-re, un’«arte» di resistere alla pres-sione intollerabile del mondo.

A complicare questo mecca-nismo in cui ogni enunciato vie-ne riferito con uno scrupolo di esattezzache finiscenecessaria- menteperesseresospetto,inter-viene anche la presenza negati-va di Scherrer, psichiatra dello Steinhof, che invita Oelher, te-stimone dell’episodio, a riferire inogniminimo dettaglio la fata-le scenata di Karrer nel negozio dipantalonidiRustenschacher. In questo labirinto di voci, nonesiste unpercorsodisalvez- zarealmentepraticabile.L’eser-cizio del pensiero e quello del camminare, che un luogo co-mune fra i più longevi della tra-dizione vorrebbe strettamente imparentati, finiscono per sa-botarsi vicendevolmente, così che il pensiero, condotto oltre ogni tollerabile limite di inten-sità, si trasforma in delirio, e il camminare in una pulsione grottesca, nell’inseguimento disperato di un senso che sfug-ge e probabilmente non è mai esistito. Terminano così, come

se andassero a cozzare contro muri invalicabili, tutte le pas-seggiate che, da Rousseau a Walser, avevano garantito al soggetto una capacità di resi-stenza e un’estrema saggezza.

Quanto al pensiero, Ber-nhard è un analista troppo spie-tato del fallimento umano per non individuare nella sua stessa inflazione una catastrofe comi-ca e tragicomi-ca nello stesso tempo.

La puzza della mente

Se «il mondo è pieno di puzza», infatti, è perché «tutti svuotano le loro menti ovunque, come secchi di rifiuti». Ma nemmeno questa definitiva analogia dei prodotti dell’intelletto e della spazzatura è farina del sacco del narratore.Ilsuoruolo,chericor-da una punizione narratore.Ilsuoruolo,chericor-dantesca, è quello di non evadere mai dalla gabbia dell’ascolto, di rendersi l’incudine sulla quale batte il martellodellaripetizione.Erac-contare equivale a soccombere senza più rimedio al canto di si- renadell’umano,allasuamorta-le melodia di mancanza, dolore, smarrimento.

Orhan Pamuk,

museo dell’innocenza

al Bagatti Valsecchi

RAFFAELE MANICA Un ritratto di Thomas Bernhard nel 1988, l’anno prima della morte

9

MAURIZIO GIUFRÈ

Una stupefacente

macchina narrativa

di César Aira

3

Italiano, veneto,

latino: tutte le poesie

5

L’ottimo principe

1900 anni dopo:

Traiano in mostra

«HOW WE LEARN WHERE WE LIVE»

Fatima Naqvi indaga

le architetture spaziali

e testuali di Bernhard

Quattropassi

nell’insensato

Affidandosi alla retorica della ripetizione, Thomas Bernhard

compone una sorta di allegoria a più voci, il cui scopo è resistere

alla pressione intollerabile del mondo: «Camminare», Adelphi

ANDREA CORTELLESSA

11

SOS per l’architettura

dei brutalisti

A FRANCOFORTE

FRANCESCA LAZZARATO

Nove storie uniche

per un romanzo:

parla David Szalay

VALENTINA PARISI

4

7

GIUSEPPE PUCCI

«OSCAR» BANDINI

di ANNA RUCHAT

L

a lotta all’ornamento di Adolf Lo-ose la bauhausiana CasaWittgen-stein, progettata dal filosofo nella secondametàdeglianniVentiper lasorella Margarethe, sonogli im-prescindibili punti di riferimento delThomasBernhardmessoafuo-co nel saggio di Fatima Naqvi,

How We Learn Where We Live. Thomas

Ber-nhard, Architecture, and Bildung (Northwe-stern University Press Evanston, Illinois), chepropone diripensareil lavorodello scrit-tore e drammaturgo austriaco andando ol-tre il piano puramente stilistico per aprire lo sguardo sul suo pensiero architettonico-pe- dagogicoesulsuodialogosilenziosoconl’ar-chitettura austriaca a lui contemporanea. Non mancano, nel libro, i riferimenti ai mo-delli filosofici intorno ai quali si organizza l’idea bernhardiana di spazio, alcuni sconta- ti,chevengonodaErnstBlocheLudwigWitt-genstein,altrimeno:quellichesiriferiscono a Ernst Cassirer o a Michel Foucault.

L’autrice, che ha studiato a fondo la biblio- tecadiBernhard,siconcentradunquesulrap- portocheilgrandemoralistaaustriacoinstau-ra con lo spazio attportocheilgrandemoralistaaustriacoinstau-raverso la scrittuportocheilgrandemoralistaaustriacoinstau-ra. Nel li-bro, ben strutturato, si alternano le analisi di alcuni testi – Amras, Perturbamento, Correzioni, Antichi Maestri – o di figure importanti dell’ar-chitettura viennese degli anni Sessanta e Set- tanta,alle«stazioni»teorichechesiconcentra-nosull’eco, nell’opera diBernhard, delle que-stionicentrali,in quegli anniinAustria, peril concetto di spazio: l’idea di «architettura ele-mentare» di Raimund Abraham, ad esempio, o il concetto allora tornato in auge di Wunde-rkammer, o ancora l’idea di architettura come cervello, concepita dall’architetto e scultore austriaco Walter Pichler e ripresa da Thomas Bernhard nel tema ricorrente del Denkgebäu-de, edificio del pensiero.

La torre di Innsbruck nel racconto Amras, laCasa Wittgenstein di Vienna inCorrezioni e il Kunsthistorisches Museum nel romanzo Anti-chi maestri sono alcune delle ambientazioni di Bernhard sulle quali si concentra l’autri-ce, sostenendo che grazie al confronto assi-duo con il pensiero architettonico contem-poraneo, lo spazio diventa per Bernhard un principio strutturante, un elemento in gra-do di plasmare le figure dei romanzi e la loro mente. Il tipico sviluppo verticale dell’anda-mento sintattico che contraddistingue lo scrittore viennese,con i suoimovimenti ver-so l’alto e verver-so il basver-so, richiama – ver-sostiene Naqvi – i disegni delle architetture utopiche ideate da Hans Hollein. Partendo dallo spa-zio claustrofobico della torre di Amras, l’au-trice stabilisce dunque legami di interdipen-denzadirettatralosviluppodeipersonaggie lo spazio in cui si muovono: «Le nostre facol- tàdiapprendimento»,scriveNaqvi,«sonoin-timamente connesse alla qualità dei luoghi incuiviviamoetraiqualicimuoviamo...Leg- gereBernhardcidàlasensazionemoltochia-ra che la materialità e la storicità di tali luo-ghi sia importante, che muri, scale e finestre modellino le persone». Opera ambiziosa, che sembra a volte voler richiamare Gödel, Escher, Bach di Hofstadter, How We Learn Whe-reWeLive, nonsi muovesu quella ampiezzae ariosità,mainalcunicapitoli–inparticolare quellidedicatiallesingoleoperedelloscritto-re – ha il pquellidedicatiallesingoleoperedelloscritto-regio di farci spiaquellidedicatiallesingoleoperedelloscritto-re dentro la Wun-derkammer del genio bernhardiano, e baste-rebbequestoarenderlounlibroimportante.

Inserto settimanale

de "il manifesto"

18 marzo 2018

anno VIII - N° 11

(2)

di FRANCESCA LAZZARATO

«L

a brevità non è stata

una scelta. È venuta da sé. C’è una certa densità in quello che cerco di fare: non si può prolungare per 200pagine,nonlereg-gerebbe». Così, César Aira ha risposto a una delle tre domande che sempre gli vengono poste: quella sulla brevità dei suoi libri, che – con rare eccezioni – vanno dalle trenta alle cento pagine; l’altra riguarda la prolificità: quasi un centinaio di titoli in po-co più di trent’anni, se alla narrativa si aggiun-gono una decina di saggi spesso notevoli; e la terza – il cui tono va dal perplesso all’estatico – è sulla irriducibile bizzarria (o meglio, l’unici-tà) del suo progetto letterario.

Incipit ingannatori

Natonel1949 aCoronel Pringles,CésarAira ri-siede da un cinquantennio a Buenos Aires, do-ve scrido-ve ogni giorno seduto al tavolino dello stesso caffè. Un progetto-puzzle, il suo, che ri-manda al surrealismo e all’avanguardia e non siaffidaallasoliditàdellatramaoallaperfezio-nedellaprosa,maal«procedimento»,allafuga inavanti,all’usosfrenatodell’assurdo,dell’iro-nia e dell’immaginazione.

Aperte da incipit ingannatori, le storie muta-no proditoriamente argomento e punto di vi-sta e sono abbandonate «quando smettono di cominciare»,ossiaquandolanovitàeildiverti-mento di chi scrive vengono meno. Sono espe- rimenti,giochiintellettuali,macchineperpro-durrestupore,paradossi calatiinunascrittura trasparenteeinformesemprenuove:perchéè l’azzardo della forma a fare di Aira uno scritto-re nuovo a ogni libro. Nonostante sia oggi un autore di fama internazionale, cui la Pen-guin-Random House dedica un’apposita «Bi-blioteca» (contraddizione non da poco,

diven-tare protagonista di un mercato editoriale al qualela suascritturahasemprevoltato lespal-le), Aira è, tuttavia, poco tradotto in Italia: do- poEma,laprigioniera,editonel’91daBollatiBo-ringhieri, sono apparsi presso Feltrinelli e Sur solo sei titoli, avidamente accolti da un nume-ro di lettori ristretto, ma entusiasta. Tanto più interessante risulta, allora, l’apparizione diIl pittore fulminato (Fazi, pp. 93, e 16,00 nella

traduzionedavveroeccellentediRaulSchenar-di), che possiede in sommo grado la densità proverbiale dell’autore: ricchissimo e com-plesso, suscettibile di infinite interpretazioni, il testo offre – nella sua apparente levità – im- maginimagnifiche,riflessionisullanaturadel- larappresentazioneedelprocedimentoartisti-co, o su questioni epistemologiche relative al-la pittura e, per analogia, alal-la scrittura.

Per raccontare l’avventura argentina di JohannMoritzRugendas,pittoretedescovissu-to nella prima metà del XIX secolo e influenza- todalleteoriediVonHumboldtsulla«fisiogno-mica della natura», Aira sceglie un incipit in contrastoconlapropriaripulsaperilromanzo storico, elargendoci un riassunto della storia familiare del protagonista, erede di una dina-stia di artisti e «pittore viaggiante», che inten-decogliereilcaratteredellanaturadicontrade remote (dopo quattro anni in Brasile e Messi-co, ne trascorse altri sedici in vari paesi dell'America Latina).

Il lettore viene così indotto ad aspettarsi uno dei tanti resoconti di viaggio ottocente-schi, dovuti a quei naturalisti ed esploratori europei che contribuirono a fondare nuove scienze, alimentarono il sogno coloniale e, per quanto riguarda l’Argentina, fornirono sostegno alla «Conquista del Deserto», la co-lonizzazione interna che è tra i miti fondati-vi della nazione e della sua letteratura. Ma, di fatto, Aira usa il suo incipit «di genere» so-lo come provocazione, perché subito si dedi-ca – come in Ema, la prigioniera e in La liebre, i suoiprincipalitestipampeani–ademolireepa-rodiare il processo di costruzione dell’identi- tànazionale,insiemeallaproduzionecultura-le che lo accompagna.

Se nella prima parte del viaggio che li porta oltre le Ande, nella pampa, lo sguardo di Ru-gendas e del suo giovane amico Krause riorga- nizzanoilpaesaggiodaunaprospettivaesplici- tamentecoloniale,apocoapocoilpittore(pro-prio come chi narra) è catturato dalla ricerca del «procedimento» capace di portarlo verso un’arte diversa, aliena ai precetti di Humbol-dt. E, mentre cavalca nella pampa devastata dalle cavallette, uno spaventoso incidente gli apre infine le frontiere del nuovo stile: un ful-mine distrugge il volto di colui che si è specia-lizzato nel ritrarre la fisionomia della natura.

Nel caos del malón

Rugendas è ora un mostro, costretto a nutrirsi di morfina per placare i dolori e le convulsioni (pur sapendo che in realtà l’incidente non fu così disastroso, Aira insiste su immaginarie conferme fornite dall’epistolario del pittore, a ulteriore parodia del tradizionale racconto di viaggio). È allora che tutto cambia, portando Rugendas a un automatismo ossessivo e la sua matita a muoversi velocissima sulla carta per catturareognidettaglio.Lasofferenza,levisio-ni indotte dalla morfina, il velo nero con cui si copre il viso per filtrare la luce, trasformano la sua percezione e la mettono alla prova duran-te il malón (la scorreria in cui gli indios si impa- dronivanodibestiameedonne)cheglipermet-te di incontrarsi con l’Altro per antonomasia, l'irriducibile «selvaggio» che il nascente Sta-to-nazione aveva eletto a proprio nemico.

Tuttalasecondapartedelromanzoèdedica-ta al malón, a tratti violenTuttalasecondapartedelromanzoèdedica-ta danza rituale, a tratti esibizione quasi buffonesca: un caos si-mile a quello dei lineamenti del pittore, che all’inizio ritrae da lontano, ma poi si avvicina, «entra» nel quadro e finisce per farne parte, se- dendosiattornoalfuocotragliindiosstupefat-tieritraendoliconrapiditàinstancabile,come un fotografo che scatti delle istantanee. Non è più l’europeo in terre lontane, ma appartiene a un mondo che ammette ogni diversità e si regge su un ordine di altro tipo. La distanza è annullata, l’opera nasce da un nuovo sguardo. L’artista, dunque, può anche scomparire e la sua storia venire abbandonata.

AIRA

FALCO

di MARIA CRISTINA SECCI

L’

aspetto più interessante

del genere-racconto sta nei suoi bordi sfumati, nell’esperienza dell’impre-vedibile e nell’opportunità di trasformarsi in qual-cos’altro. Uno dei possibili problemi,invece,èdianchi-losarsinelmodelloclassico,dovetuttoè per-fetto. A me piace – ha detto Federico Falco – pensare a un racconto come abitato. In Ame-rica Latina, il quarantenne scrittore argenti-no è considerato una penna originale e già solida,capacedimantenerelapromessadel- larivista«Granta»,chefindal2010loselezio-nò tra i migliori narratoriin lingua spagnola sotto i trentacinque anni. È rappresentante eccellente della «Nueva Narrativa Argenti-na», una prolifica generazione di autori (da Patricio Pron a Pedro Mairal fino a Andrés Neuman,dicuiSurhagiàpubblicatodiverse traduzioni) nati negli anni Settanta, che esprimono, tra vulnerabilità e resistenza, il vincolo della letteratura con la politica, par-tendo dalla comune esperienza degli anni Novanta, tra prospettive neoliberiste impo-ste dal menemismo e crisi economica.

Non di sola scrittura

Grazie a un saldo senso di appartenenza, questi scrittori non si perdono in annose po-lemiche letterarie e confluiscono piuttosto inspazi letteraricollettivi, checontribuisco-no alla diffusione delle loro opere: lo stesso Federico Falco dirige la rivista digitale «Fe de Rata» assieme ad altri due esponenti della sua generazione, Luciano Lamberti e Inés Rial, e come altri coetanei latinoamericani non si limita a scrivere: fa videoarte. La sua è una generazione che si fa sentire fuori dalla capitale infrangendo lo status anagrafico per eccellenza del narratore argentino: Fal-co non è nato a Buenos Aires bensì a General Cabrera, nella provincia di Córdoba, centro di un boom narrativo a ragione messo a fuo-co dalla critica. I paesaggi della provincia re-troalimentano, del resto, la narrativa dello scrittore argentino nei cui racconti prende risalto la contrapposizione tra la natura e la vita spesso grigia e monotona dei personag-gi. Lo si vede, per esempio, nella sua prima raccolta appena tradotta da Maria Nicola, con bella e percettibile intensità (Sur, pp. 170,e 16.50),Silvi ela

notteoscura,cheriu- niscecinqueracconticompostiattornoalte-ma del vivere «nella bruniscecinqueracconticompostiattornoalte-ma della distanza»: via dal paese, dalla religione, dalla morte.

I luoghi sono paesaggi pacifici, gonfi di provincia, con cieli senza astri e «una notte senza luna», con il sole che si nasconde «die-tro ai monti» e una luce «lattiginosa e densa,

grigiastra».Èdaquestacalmapiattadipianu- re,puebloseterrereligiosechesigenerailsen-so di oppressione, evapora l’inquietudine e cova la necessità di fuga. Così accade nel rac-conto che apre la raccolta, «Il re delle lepri»: il protagonista, che sceglie l’isolamento, vi-veincimaa una montagna,riservando alpa- esesolounafettadiorizzonte,conpiccolelu-ci in lontananza. Dorme su un letto di cre-scione, è funzionale alla natura e al paesag-gio,integratoinunbranco dilepri («si alline-arono a semicerchio») per un mutuo biso-gno: di difesa da predatori da un lato, di ali-mentazione dall’altro. La sua quotidianità si svolge in una grotta e in un bosco di pini. «Qui sto bene», nessuna nostalgia di casa.

Come in una sorta di ossessione, i pini – citatialmenocinquanta volte–popolanoun po’tuttiiracconti:gemono,sistirano,gioca-no con il vento. In «La vita dei boschi», il vec-chio Wutrich cerca un marito per sua figlia: Mabel deve sposarsi alla stessa velocità («An- diamoosifaràtardi»)concuiildisboscamen- toavanzanellapinetadovesitrovalaloroca-sa. Sarà un forestiero a preoccuparsi che la amata Mabel non si annoi, che il freezer le pentole la stufa elettrica siano di suo gradi-mento.L’amoreèsempliceedisarmante:«Io

voglio che lei stia bene. Che stiamo bene. Tranquilli tutte e due».

Tutti i personaggi della raccolta sono ri-tratti con ampio respiro, così che il lettore ha il tempo di conoscerli a fondo: agiscono con pietà e risolutezza, parlano di sé attra-verso i loro bisogni primari. Stanno bene, hanno fame o sete, fanno sesso.

Ideali sia l’opera che il luogo

«Uncimiteroperfetto»èlastoria–trailsurre- aleel’inquietante–dell’ingegnereVíctorBa- giardellichearrivanelpaesesperdutoinfon-do a una vallata per progettare un capolavo- ro,un’operaperfettainunpostoideale.«Ver-ràbellissimo»,diceestasiatalasegretariadel sindaco che ha commissionato il cimitero, così che finalmente i defunti non dovranno più essere «ceduti» al paese vicino. Ma la sto-ria riguarda anche l’uomo anziano che è pa-dre del sindaco e non intende dare la soddi-sfazione di morire: diversamente da quanto pretenderebbe suo figlio, il tempo non è an-cora arrivato – dice.

Calmo e stabile, il ritmo dei racconti si av-vale di una prosa libera da retorica, franca, senza saturazioni: sta qui la destrezza

narra-tiva dell’ autore. Più volte Falco ha dichiara-to di sentirsi a proprio agio nella scrittura deiraccontiperlalorocapacitàdisemplifica-re il mondo trasmettendo la sensazione che nel frattempo stiano accadendo un sacco di cose; ma il racconto libera dall’obbligo di spiegarle tutte.

«Silvi e la notte oscura», che merita di da-re il titolo alla raccolta ruota intorno a una sedicenne costretta ad accompagnare la madre devota a somministrare l’estrema unzione, un giorno che il prete anziano non può andare. Silvi si ribella e pedala fu-riosalontana dallafededifamiglia. Poisiin-vaghisce di un giovane prete mormone: il sesso per lei è brusco, scomodo, sorpren-dentemente regalato a un personaggio di passaggio nella storia e nella sua vita («Il suo corpo non pesava più niente»).

Anche le comparse hanno un ruolo fon-damentale in questi racconti devoti alla cu-ra del dettaglio: ciò che conta – ha detto Fal-co nel Fal-corso di una intervista – è accendere la vivacità come l’inquietudine del lettore non dandogli un finale perfetto, lasciando-lo invece aperto, con la certezza che porte-rà da un’altra parte.

«DA LONTANO SEMBRANO MOSCHE», FELTRINELLI

«LA PANTERA E ALTRI RACCONTI», DA GRAN VIA

KikeFerrari,oltreiconfinidelnoir:

indagine su un cadavere a Buenos Aires

Mondinati

dall’azzardo

sullaforma

I testi di Aira sono macchine

per produrre stupore,

giochi intellettuali, indagini

epistemologiche sulla pittura

e, per analogia, sulla scrittura

Per raccontare l’avventura argentina dell’artista

tedesco Johann Moritz Rugendas, influenzato

dalle teorie fisiognomiche di Von Humboldt,

César Aira scrive un testo suscettibile di infinite

interpretazioni: «Il pittore fulminato», da Sur

Vittorio d'Onofrio, daFrom the street corner, Oaxaca Messico; in basso:

Johann Moritz Rugendas (protagonista del libro di César Aira)

Teotihuacán, 1832

di STEFANO TEDESCHI

A

ccade a volte che un corpus anche ridotto ditestifacciaemerge-re un universo narra-tivo con una inaspet-tata varietà di temi, personaggie situazio- ni:èilcasodeiraccon-ti di Sergio Pitol, come si può ve-rificare dall’eccellente selezio-ne proposta inLa pantera e al-triracconti(GranVia,pp.230,€

16,00),chearrivadopo lapubbli-cazione di tre dei suoi romanzi. Granparte dell’operadello scrit-tore messicano è dunque ora di-sponibile,ciòcherendeancheal lettore italiano possibile notare i riscontri dei racconti nei ro-manzi, come se i testi brevi – scritti tra il 1959 e il 1981 – fun-zionassero da lungo apprendi-statoper l’elaborazione di quelli più lunghi, tutti pubblicati suc-cessivamente.

Anche la diversità degli spazi in cui sono ambientati i racconti è una conferma: da un infuocato villaggio di Veracruz a una sala da concerti di un’Europa impre-cisata, dauna Cina forse sognata aunboscopolaccochericordala vegetazione messicana, o a una piantagione di canna da zucche-ro evocata dalla distanza di un bar, in una Roma anni Sessanta. Sono luoghi che rimandano a un’infanzia di provincia vissuta in ambienti chiusi e opprimen-ti, oppure a situazioni cosmopo-lite, stravaganti ed eccentriche: a volte questi mondi si intreccia- noinunostessotesto,comeacca-de nella bellissima nouvelle «Il ci-mitero dei tordi», o nel racconto «Notturno a Bukhara».

Nessun desiderio di esoti-smo, piuttosto la concezione della scrittura come luogo in cui si realizzano spostamenti, viaggi, fughe, e dove si cerca un altrove che si rivela impossibile da trovare: un altrove spesso spazio del sogno – componente decisiva dei racconti di Pitol – in cui si rivive l’infanzia, ma da do-ve si possono anche ado-vere stra-ne visioni del futuro, poi rievo-catea posteriori,in uncontinuo rincorrersi e sovrapporsi delle diverse dimensioni temporali. Non sarà allora un caso se i rac-conti dello scrittore messicano assumono l’aspetto di un labi-rinto, con incipit e conclusioni memorabili,ilcuicentroè tutta-via altrettanto fondamentale in quanto cuore segreto in cui suc-cede sempre qualcosa di strano, di innominabile e di fatale (e

per questo spesso rimosso), che può intrappolare il protagoni-sta oppure mostrargli una via d’uscita, ma che in ogni caso lo segnerà per sempre.

Ciò che avviene al centro del labirinto a volte resta nell’om-bra, o è solo accennato in una frase, quasi di sfuggita, lasciato a quel territorio del non detto che rappresenta il nucleo oscu-ro della narrativa dello scritto-re messicano: una sorta di stel-la esplosa, come ricorda Enri-que Vila-Matas nell’imprescin-dibile introduzione, intorno al-la quale orbitano corpi che con-servano resti della loro lumino-sità scomparsa.

Anche la scelta di scrittori o artisti come personaggi princi-pali,e di strategie narrativevici-ne a quelle del meta-racconto non sono casuali, né legate sol-tanto a mode letterarie degli an-ni Settanta, e proprio «Il cimite-ro dei tordi» ne è una esemplifi- cazionecompiuta.Inquestorac-conto, uno scrittore ricorda i suoi esordi, il suo primo testo scritto in un bar «piuttosto sor-dido» di una Roma anni Sessan-ta, in cui ricostruiva un episo-diodella propriainfanzia,vissu-ta in una pianpropriainfanzia,vissu-tagione di zucche-ro a Veracruz.

Il ricordo di quell’esperienza giovanile sembra fargli ritrova-re l’ispirazione perduta, e il rac-conto che leggiamo si propone dunque come una doppia opera- zionedellamemoria,unacrono-logia che si misura sui piani dell’infanzia,poidegliesordilet-terari,poidella maturitàincuisi realizza il racconto. I transiiti da unpianoall’altroavvengonogra-zie a brevi frasi, passaggi sottilis- simi,sufficientiacollegareeven-ti anche assai lontani: un mecca-nismo che annulla la linearità del tempo, e in fondo la stessa idea di una realtà affidabile.

Qui e altrove, tuttavia, non è solo in gioco una mera ingegne-ria narrativa: nel finale il prota-gonista afferma che «scrivere quella storia lo aveva liberato dall’infanzia, dal passato, dall’angosciadinontrovarsiaJa-lapa durante il funerale del pa- dre.»Lascritturapuòtrasformar-si dunque in liberazione e fardre.»Lascritturapuòtrasformar-si consolatrice; ma solo per quel tantochepermettedi accederea una dimensione della conoscen-za in cui la realtà non ha più le fondamenta solide che credeva-mo, in cui tutto sfuma, svanisce, si perde senza lasciare altre trac-ce se non quelle di una scrittura lieve eppure indimenticabile.

NellestoriediSergioPitol,

labirintichecircondano

l’oscuritàdelnondetto

Adriana Lestido, dalla serie Mujeres Presas, 1991-92

Cinque racconti ambientati nella calma piatta

delle pianure da cui evaporano inquietudini

e un senso di oppressione, popolate da personaggi

che agiscono con pietà e risolutezza:

«Silvi e la notte oscura» di Federico Falco, da Sur

narratori

argentini

dall’argentina

al messico

Sognidifugadallaprovinciaargentina

di ANDREA COLOMBO

C’

è un cadavere al

centro del folgo-rante romanzo dell’argentino Kike Ferrari Da lontanosembra-no mosche (tra-duzione di Pino Cacucci, Feltrinelli, pp. 183, e 15.00):quelloche«ilsignorMa-chi», destinato a essere chiama-to così per tutchiama-to il romanzo, sen-za mai accorciare le distanze conil nome proprioo anche con

il semplice cognome, si ritrova nel bagagliaio della sua Bmw di lussodopounanottedicoca,Via-gra e l’ennesima «scema bionda che ti succhia l’uccello».

Il morto è irriconoscibile, ha il volto ridotto in poltiglia. Ma- chineppuresidomandachipos-sa essere. Per un tipo come lui, concentratosolo suipropriinte-ressi e piaceri, il particolare è ir-rilevante. Però capisce al volo di essere lui il bersaglio, la vittima predestinata della trappola, e di doversi quindi sbarazzare al più presto dell’ingombrante salma.

Mentre traversa Buenos Aires cercando di sbrigare la faccenda si interroga su chi possa aver or-dito la macchinazione. Entrano così in scena, uno dopo l’altro, i tantifiguriche potrebberoaver-cela con lui fino al punto di usa-re un metodo così estusa-remo: dall’ex poliziotto torturatore ri-ciclatosi come guardaspalle all’allenatore di boxe truffato con tragiche conseguenze, dai dipendenti che sfrutta, alla stes-sa moglie, erede di un’antica fa-miglia di proprietari terrieri, umiliata e tradita. Sono in molti

a vantare ottime ragioni per in- guaiareilsignorMachi,evengo-no da tutti gli strati sociali. Per-chél’ambiguo ricconeè unclas-sico abitante del «mondo di mezzo»: ha a che fare con crimi-nali veri e si porta dietro una Glock, ma senza il coraggio di usarla. È disonesto fino al mi-dollo ma si sente un uomo d’af-farietaleèuniversalmente con-siderato. È un rapace arricchi-to, ma sposato con una pargola dell’aristocrazia terriera, alla quale si sente superiore perché «fattosi da sé».

Il romanzo di Ferrari, che di giorno scrive e di notte pulisce la metro per sbarcare il lunario, con alle spalle anni di immigra-zione clandestina negli States, finiti con l’espulsione, era già stato pubblicato, in diversa tra-duzione, da una piccola casa

editrice di Lecce specializzata in letteratura latino-america-na, La Prensa. Passa per noir, ma definirlo tale è un po’ come far passare George Grosz per un pittore di ritratti.

Ferrariportaalleestremecon-seguenze la tendenza alla criti- casocialedelnoir,sinoafaredel- latramaunaesilescusae,soprat- tutto,unacatenadisimboligrot-teschi e situazioni surreali che mirano con pieno successo alla dissezione spietata non solo dell’Argentina post-fascista ma dell’intera struttura, melmosa, superficiale e feroce, del XXI se-colo: la sua volgarità estrema, i rapporti di potere messi a nudo nellalorodimensioneneoschia-vista, l’idolatria per soldi e suc-cesso, la scomparsa della patina elegante che abbelliva ancora nel Novecento la supremazia

delle classi dominanti.

Ferrari non prova nemmeno a nascondere le ambizioni del suolibro: le esplicita sin dall’ini-zio: «Se qualcuno vuol leggere questo libro come un semplice romanzo sono fatti suoi». Al tempo stesso ammicca a Bor-ges e a Foucault come a Taranti-no, dimostrando maestria nell’imbrigliare ogni sugge-stione, incluse le più colte, che mette al servizio di una narra-zione trascinante, di cui non perde una battuta. Sino al fina-le, concepito per tradire quei lettori che dal noir si aspetta-no, se non proprio la scoperta del colpevole, almeno una riso-luzione; ma che avrebbe strap-pato al beffardo Luis Buñuel dell’Angelo sterminatore il sorri-so sorri-soddisfatto del maestro che s’imbatte in un allievo dotato.

(3)

di FRANCESCA LAZZARATO

«L

a brevità non è stata

una scelta. È venuta da sé. C’è una certa densità in quello che cerco di fare: non si può prolungare per 200pagine,nonlereg-gerebbe». Così, César Aira ha risposto a una delle tre domande che sempre gli vengono poste: quella sulla brevità dei suoi libri, che – con rare eccezioni – vanno dalle trenta alle cento pagine; l’altra riguarda la prolificità: quasi un centinaio di titoli in po-co più di trent’anni, se alla narrativa si aggiun-gono una decina di saggi spesso notevoli; e la terza – il cui tono va dal perplesso all’estatico – è sulla irriducibile bizzarria (o meglio, l’unici-tà) del suo progetto letterario.

Incipit ingannatori

Natonel1949 aCoronel Pringles,CésarAira ri-siede da un cinquantennio a Buenos Aires, do-ve scrido-ve ogni giorno seduto al tavolino dello stesso caffè. Un progetto-puzzle, il suo, che ri-manda al surrealismo e all’avanguardia e non siaffidaallasoliditàdellatramaoallaperfezio-nedellaprosa,maal«procedimento»,allafuga inavanti,all’usosfrenatodell’assurdo,dell’iro-nia e dell’immaginazione.

Aperte da incipit ingannatori, le storie muta-no proditoriamente argomento e punto di vi-sta e sono abbandonate «quando smettono di cominciare»,ossiaquandolanovitàeildiverti-mento di chi scrive vengono meno. Sono espe- rimenti,giochiintellettuali,macchineperpro-durrestupore,paradossi calatiinunascrittura trasparenteeinformesemprenuove:perchéè l’azzardo della forma a fare di Aira uno scritto-re nuovo a ogni libro. Nonostante sia oggi un autore di fama internazionale, cui la Pen-guin-Random House dedica un’apposita «Bi-blioteca» (contraddizione non da poco,

diven-tare protagonista di un mercato editoriale al qualela suascritturahasemprevoltato lespal-le), Aira è, tuttavia, poco tradotto in Italia: do- poEma,laprigioniera,editonel’91daBollatiBo-ringhieri, sono apparsi presso Feltrinelli e Sur solo sei titoli, avidamente accolti da un nume-ro di lettori ristretto, ma entusiasta. Tanto più interessante risulta, allora, l’apparizione diIl pittore fulminato (Fazi, pp. 93, e 16,00 nella

traduzionedavveroeccellentediRaulSchenar-di), che possiede in sommo grado la densità proverbiale dell’autore: ricchissimo e com-plesso, suscettibile di infinite interpretazioni, il testo offre – nella sua apparente levità – im- maginimagnifiche,riflessionisullanaturadel- larappresentazioneedelprocedimentoartisti-co, o su questioni epistemologiche relative al-la pittura e, per analogia, alal-la scrittura.

Per raccontare l’avventura argentina di JohannMoritzRugendas,pittoretedescovissu-to nella prima metà del XIX secolo e influenza- todalleteoriediVonHumboldtsulla«fisiogno-mica della natura», Aira sceglie un incipit in contrastoconlapropriaripulsaperilromanzo storico, elargendoci un riassunto della storia familiare del protagonista, erede di una dina-stia di artisti e «pittore viaggiante», che inten-decogliereilcaratteredellanaturadicontrade remote (dopo quattro anni in Brasile e Messi-co, ne trascorse altri sedici in vari paesi dell'America Latina).

Il lettore viene così indotto ad aspettarsi uno dei tanti resoconti di viaggio ottocente-schi, dovuti a quei naturalisti ed esploratori europei che contribuirono a fondare nuove scienze, alimentarono il sogno coloniale e, per quanto riguarda l’Argentina, fornirono sostegno alla «Conquista del Deserto», la co-lonizzazione interna che è tra i miti fondati-vi della nazione e della sua letteratura. Ma, di fatto, Aira usa il suo incipit «di genere» so-lo come provocazione, perché subito si dedi-ca – come in Ema, la prigioniera e in La liebre, i suoiprincipalitestipampeani–ademolireepa-rodiare il processo di costruzione dell’identi- tànazionale,insiemeallaproduzionecultura-le che lo accompagna.

Se nella prima parte del viaggio che li porta oltre le Ande, nella pampa, lo sguardo di Ru-gendas e del suo giovane amico Krause riorga- nizzanoilpaesaggiodaunaprospettivaesplici- tamentecoloniale,apocoapocoilpittore(pro-prio come chi narra) è catturato dalla ricerca del «procedimento» capace di portarlo verso un’arte diversa, aliena ai precetti di Humbol-dt. E, mentre cavalca nella pampa devastata dalle cavallette, uno spaventoso incidente gli apre infine le frontiere del nuovo stile: un ful-mine distrugge il volto di colui che si è specia-lizzato nel ritrarre la fisionomia della natura.

Nel caos del malón

Rugendas è ora un mostro, costretto a nutrirsi di morfina per placare i dolori e le convulsioni (pur sapendo che in realtà l’incidente non fu così disastroso, Aira insiste su immaginarie conferme fornite dall’epistolario del pittore, a ulteriore parodia del tradizionale racconto di viaggio). È allora che tutto cambia, portando Rugendas a un automatismo ossessivo e la sua matita a muoversi velocissima sulla carta per catturareognidettaglio.Lasofferenza,levisio-ni indotte dalla morfina, il velo nero con cui si copre il viso per filtrare la luce, trasformano la sua percezione e la mettono alla prova duran-te il malón (la scorreria in cui gli indios si impa- dronivanodibestiameedonne)cheglipermet-te di incontrarsi con l’Altro per antonomasia, l'irriducibile «selvaggio» che il nascente Sta-to-nazione aveva eletto a proprio nemico.

Tuttalasecondapartedelromanzoèdedica-ta al malón, a tratti violenTuttalasecondapartedelromanzoèdedica-ta danza rituale, a tratti esibizione quasi buffonesca: un caos si-mile a quello dei lineamenti del pittore, che all’inizio ritrae da lontano, ma poi si avvicina, «entra» nel quadro e finisce per farne parte, se- dendosiattornoalfuocotragliindiosstupefat-tieritraendoliconrapiditàinstancabile,come un fotografo che scatti delle istantanee. Non è più l’europeo in terre lontane, ma appartiene a un mondo che ammette ogni diversità e si regge su un ordine di altro tipo. La distanza è annullata, l’opera nasce da un nuovo sguardo. L’artista, dunque, può anche scomparire e la sua storia venire abbandonata.

AIRA

FALCO

di MARIA CRISTINA SECCI

L’

aspetto più interessante

del genere-racconto sta nei suoi bordi sfumati, nell’esperienza dell’impre-vedibile e nell’opportunità di trasformarsi in qual-cos’altro. Uno dei possibili problemi,invece,èdianchi-losarsinelmodelloclassico,dovetuttoè per-fetto. A me piace – ha detto Federico Falco – pensare a un racconto come abitato. In Ame-rica Latina, il quarantenne scrittore argenti-no è considerato una penna originale e già solida,capacedimantenerelapromessadel- larivista«Granta»,chefindal2010loselezio-nò tra i migliori narratoriin lingua spagnola sotto i trentacinque anni. È rappresentante eccellente della «Nueva Narrativa Argenti-na», una prolifica generazione di autori (da Patricio Pron a Pedro Mairal fino a Andrés Neuman,dicuiSurhagiàpubblicatodiverse traduzioni) nati negli anni Settanta, che esprimono, tra vulnerabilità e resistenza, il vincolo della letteratura con la politica, par-tendo dalla comune esperienza degli anni Novanta, tra prospettive neoliberiste impo-ste dal menemismo e crisi economica.

Non di sola scrittura

Grazie a un saldo senso di appartenenza, questi scrittori non si perdono in annose po-lemiche letterarie e confluiscono piuttosto inspazi letteraricollettivi, checontribuisco-no alla diffusione delle loro opere: lo stesso Federico Falco dirige la rivista digitale «Fe de Rata» assieme ad altri due esponenti della sua generazione, Luciano Lamberti e Inés Rial, e come altri coetanei latinoamericani non si limita a scrivere: fa videoarte. La sua è una generazione che si fa sentire fuori dalla capitale infrangendo lo status anagrafico per eccellenza del narratore argentino: Fal-co non è nato a Buenos Aires bensì a General Cabrera, nella provincia di Córdoba, centro di un boom narrativo a ragione messo a fuo-co dalla critica. I paesaggi della provincia re-troalimentano, del resto, la narrativa dello scrittore argentino nei cui racconti prende risalto la contrapposizione tra la natura e la vita spesso grigia e monotona dei personag-gi. Lo si vede, per esempio, nella sua prima raccolta appena tradotta da Maria Nicola, con bella e percettibile intensità (Sur, pp. 170,e 16.50),Silvi ela

notteoscura,cheriu- niscecinqueracconticompostiattornoalte-ma del vivere «nella bruniscecinqueracconticompostiattornoalte-ma della distanza»: via dal paese, dalla religione, dalla morte.

I luoghi sono paesaggi pacifici, gonfi di provincia, con cieli senza astri e «una notte senza luna», con il sole che si nasconde «die-tro ai monti» e una luce «lattiginosa e densa,

grigiastra».Èdaquestacalmapiattadipianu- re,puebloseterrereligiosechesigenerailsen-so di oppressione, evapora l’inquietudine e cova la necessità di fuga. Così accade nel rac-conto che apre la raccolta, «Il re delle lepri»: il protagonista, che sceglie l’isolamento, vi-veincimaa una montagna,riservando alpa- esesolounafettadiorizzonte,conpiccolelu-ci in lontananza. Dorme su un letto di cre-scione, è funzionale alla natura e al paesag-gio,integratoinunbranco dilepri («si alline-arono a semicerchio») per un mutuo biso-gno: di difesa da predatori da un lato, di ali-mentazione dall’altro. La sua quotidianità si svolge in una grotta e in un bosco di pini. «Qui sto bene», nessuna nostalgia di casa.

Come in una sorta di ossessione, i pini – citatialmenocinquanta volte–popolanoun po’tuttiiracconti:gemono,sistirano,gioca-no con il vento. In «La vita dei boschi», il vec-chio Wutrich cerca un marito per sua figlia: Mabel deve sposarsi alla stessa velocità («An- diamoosifaràtardi»)concuiildisboscamen- toavanzanellapinetadovesitrovalaloroca-sa. Sarà un forestiero a preoccuparsi che la amata Mabel non si annoi, che il freezer le pentole la stufa elettrica siano di suo gradi-mento.L’amoreèsempliceedisarmante:«Io

voglio che lei stia bene. Che stiamo bene. Tranquilli tutte e due».

Tutti i personaggi della raccolta sono ri-tratti con ampio respiro, così che il lettore ha il tempo di conoscerli a fondo: agiscono con pietà e risolutezza, parlano di sé attra-verso i loro bisogni primari. Stanno bene, hanno fame o sete, fanno sesso.

Ideali sia l’opera che il luogo

«Uncimiteroperfetto»èlastoria–trailsurre- aleel’inquietante–dell’ingegnereVíctorBa- giardellichearrivanelpaesesperdutoinfon-do a una vallata per progettare un capolavo- ro,un’operaperfettainunpostoideale.«Ver-ràbellissimo»,diceestasiatalasegretariadel sindaco che ha commissionato il cimitero, così che finalmente i defunti non dovranno più essere «ceduti» al paese vicino. Ma la sto-ria riguarda anche l’uomo anziano che è pa-dre del sindaco e non intende dare la soddi-sfazione di morire: diversamente da quanto pretenderebbe suo figlio, il tempo non è an-cora arrivato – dice.

Calmo e stabile, il ritmo dei racconti si av-vale di una prosa libera da retorica, franca, senza saturazioni: sta qui la destrezza

narra-tiva dell’ autore. Più volte Falco ha dichiara-to di sentirsi a proprio agio nella scrittura deiraccontiperlalorocapacitàdisemplifica-re il mondo trasmettendo la sensazione che nel frattempo stiano accadendo un sacco di cose; ma il racconto libera dall’obbligo di spiegarle tutte.

«Silvi e la notte oscura», che merita di da-re il titolo alla raccolta ruota intorno a una sedicenne costretta ad accompagnare la madre devota a somministrare l’estrema unzione, un giorno che il prete anziano non può andare. Silvi si ribella e pedala fu-riosalontana dallafededifamiglia. Poisiin-vaghisce di un giovane prete mormone: il sesso per lei è brusco, scomodo, sorpren-dentemente regalato a un personaggio di passaggio nella storia e nella sua vita («Il suo corpo non pesava più niente»).

Anche le comparse hanno un ruolo fon-damentale in questi racconti devoti alla cu-ra del dettaglio: ciò che conta – ha detto Fal-co nel Fal-corso di una intervista – è accendere la vivacità come l’inquietudine del lettore non dandogli un finale perfetto, lasciando-lo invece aperto, con la certezza che porte-rà da un’altra parte.

«DA LONTANO SEMBRANO MOSCHE», FELTRINELLI

«LA PANTERA E ALTRI RACCONTI», DA GRAN VIA

KikeFerrari,oltreiconfinidelnoir:

indagine su un cadavere a Buenos Aires

Mondinati

dall’azzardo

sullaforma

I testi di Aira sono macchine

per produrre stupore,

giochi intellettuali, indagini

epistemologiche sulla pittura

e, per analogia, sulla scrittura

Per raccontare l’avventura argentina dell’artista

tedesco Johann Moritz Rugendas, influenzato

dalle teorie fisiognomiche di Von Humboldt,

César Aira scrive un testo suscettibile di infinite

interpretazioni: «Il pittore fulminato», da Sur

Vittorio d'Onofrio, daFrom the street corner, Oaxaca Messico; in basso:

Johann Moritz Rugendas (protagonista del libro di César Aira)

Teotihuacán, 1832

di STEFANO TEDESCHI

A

ccade a volte che un corpus anche ridotto ditestifacciaemerge-re un universo narra-tivo con una inaspet-tata varietà di temi, personaggie situazio- ni:èilcasodeiraccon-ti di Sergio Pitol, come si può ve-rificare dall’eccellente selezio-ne proposta inLa pantera e al-triracconti(GranVia,pp.230,€

16,00),chearrivadopo lapubbli-cazione di tre dei suoi romanzi. Granparte dell’operadello scrit-tore messicano è dunque ora di-sponibile,ciòcherendeancheal lettore italiano possibile notare i riscontri dei racconti nei ro-manzi, come se i testi brevi – scritti tra il 1959 e il 1981 – fun-zionassero da lungo apprendi-statoper l’elaborazione di quelli più lunghi, tutti pubblicati suc-cessivamente.

Anche la diversità degli spazi in cui sono ambientati i racconti è una conferma: da un infuocato villaggio di Veracruz a una sala da concerti di un’Europa impre-cisata, dauna Cina forse sognata aunboscopolaccochericordala vegetazione messicana, o a una piantagione di canna da zucche-ro evocata dalla distanza di un bar, in una Roma anni Sessanta. Sono luoghi che rimandano a un’infanzia di provincia vissuta in ambienti chiusi e opprimen-ti, oppure a situazioni cosmopo-lite, stravaganti ed eccentriche: a volte questi mondi si intreccia- noinunostessotesto,comeacca-de nella bellissima nouvelle «Il ci-mitero dei tordi», o nel racconto «Notturno a Bukhara».

Nessun desiderio di esoti-smo, piuttosto la concezione della scrittura come luogo in cui si realizzano spostamenti, viaggi, fughe, e dove si cerca un altrove che si rivela impossibile da trovare: un altrove spesso spazio del sogno – componente decisiva dei racconti di Pitol – in cui si rivive l’infanzia, ma da do-ve si possono anche ado-vere stra-ne visioni del futuro, poi rievo-catea posteriori,in uncontinuo rincorrersi e sovrapporsi delle diverse dimensioni temporali. Non sarà allora un caso se i rac-conti dello scrittore messicano assumono l’aspetto di un labi-rinto, con incipit e conclusioni memorabili,ilcuicentroè tutta-via altrettanto fondamentale in quanto cuore segreto in cui suc-cede sempre qualcosa di strano, di innominabile e di fatale (e

per questo spesso rimosso), che può intrappolare il protagoni-sta oppure mostrargli una via d’uscita, ma che in ogni caso lo segnerà per sempre.

Ciò che avviene al centro del labirinto a volte resta nell’om-bra, o è solo accennato in una frase, quasi di sfuggita, lasciato a quel territorio del non detto che rappresenta il nucleo oscu-ro della narrativa dello scritto-re messicano: una sorta di stel-la esplosa, come ricorda Enri-que Vila-Matas nell’imprescin-dibile introduzione, intorno al-la quale orbitano corpi che con-servano resti della loro lumino-sità scomparsa.

Anche la scelta di scrittori o artisti come personaggi princi-pali,e di strategie narrativevici-ne a quelle del meta-racconto non sono casuali, né legate sol-tanto a mode letterarie degli an-ni Settanta, e proprio «Il cimite-ro dei tordi» ne è una esemplifi- cazionecompiuta.Inquestorac-conto, uno scrittore ricorda i suoi esordi, il suo primo testo scritto in un bar «piuttosto sor-dido» di una Roma anni Sessan-ta, in cui ricostruiva un episo-diodella propriainfanzia,vissu-ta in una pianpropriainfanzia,vissu-tagione di zucche-ro a Veracruz.

Il ricordo di quell’esperienza giovanile sembra fargli ritrova-re l’ispirazione perduta, e il rac-conto che leggiamo si propone dunque come una doppia opera- zionedellamemoria,unacrono-logia che si misura sui piani dell’infanzia,poidegliesordilet-terari,poidella maturitàincuisi realizza il racconto. I transiiti da unpianoall’altroavvengonogra-zie a brevi frasi, passaggi sottilis- simi,sufficientiacollegareeven-ti anche assai lontani: un mecca-nismo che annulla la linearità del tempo, e in fondo la stessa idea di una realtà affidabile.

Qui e altrove, tuttavia, non è solo in gioco una mera ingegne-ria narrativa: nel finale il prota-gonista afferma che «scrivere quella storia lo aveva liberato dall’infanzia, dal passato, dall’angosciadinontrovarsiaJa-lapa durante il funerale del pa- dre.»Lascritturapuòtrasformar-si dunque in liberazione e fardre.»Lascritturapuòtrasformar-si consolatrice; ma solo per quel tantochepermettedi accederea una dimensione della conoscen-za in cui la realtà non ha più le fondamenta solide che credeva-mo, in cui tutto sfuma, svanisce, si perde senza lasciare altre trac-ce se non quelle di una scrittura lieve eppure indimenticabile.

NellestoriediSergioPitol,

labirintichecircondano

l’oscuritàdelnondetto

Adriana Lestido, dalla serie Mujeres Presas, 1991-92

Cinque racconti ambientati nella calma piatta

delle pianure da cui evaporano inquietudini

e un senso di oppressione, popolate da personaggi

che agiscono con pietà e risolutezza:

«Silvi e la notte oscura» di Federico Falco, da Sur

narratori

argentini

dall’argentina

al messico

Sognidifugadallaprovinciaargentina

di ANDREA COLOMBO

C’

è un cadavere al

centro del folgo-rante romanzo dell’argentino Kike Ferrari Da lontanosembra-no mosche (tra-duzione di Pino Cacucci, Feltrinelli, pp. 183, e 15.00):quelloche«ilsignorMa-chi», destinato a essere chiama-to così per tutchiama-to il romanzo, sen-za mai accorciare le distanze conil nome proprioo anche con

il semplice cognome, si ritrova nel bagagliaio della sua Bmw di lussodopounanottedicoca,Via-gra e l’ennesima «scema bionda che ti succhia l’uccello».

Il morto è irriconoscibile, ha il volto ridotto in poltiglia. Ma- chineppuresidomandachipos-sa essere. Per un tipo come lui, concentratosolo suipropriinte-ressi e piaceri, il particolare è ir-rilevante. Però capisce al volo di essere lui il bersaglio, la vittima predestinata della trappola, e di doversi quindi sbarazzare al più presto dell’ingombrante salma.

Mentre traversa Buenos Aires cercando di sbrigare la faccenda si interroga su chi possa aver or-dito la macchinazione. Entrano così in scena, uno dopo l’altro, i tantifiguriche potrebberoaver-cela con lui fino al punto di usa-re un metodo così estusa-remo: dall’ex poliziotto torturatore ri-ciclatosi come guardaspalle all’allenatore di boxe truffato con tragiche conseguenze, dai dipendenti che sfrutta, alla stes-sa moglie, erede di un’antica fa-miglia di proprietari terrieri, umiliata e tradita. Sono in molti

a vantare ottime ragioni per in- guaiareilsignorMachi,evengo-no da tutti gli strati sociali. Per-chél’ambiguo ricconeè unclas-sico abitante del «mondo di mezzo»: ha a che fare con crimi-nali veri e si porta dietro una Glock, ma senza il coraggio di usarla. È disonesto fino al mi-dollo ma si sente un uomo d’af-farietaleèuniversalmente con-siderato. È un rapace arricchi-to, ma sposato con una pargola dell’aristocrazia terriera, alla quale si sente superiore perché «fattosi da sé».

Il romanzo di Ferrari, che di giorno scrive e di notte pulisce la metro per sbarcare il lunario, con alle spalle anni di immigra-zione clandestina negli States, finiti con l’espulsione, era già stato pubblicato, in diversa tra-duzione, da una piccola casa

editrice di Lecce specializzata in letteratura latino-america-na, La Prensa. Passa per noir, ma definirlo tale è un po’ come far passare George Grosz per un pittore di ritratti.

Ferrariportaalleestremecon-seguenze la tendenza alla criti- casocialedelnoir,sinoafaredel- latramaunaesilescusae,soprat- tutto,unacatenadisimboligrot-teschi e situazioni surreali che mirano con pieno successo alla dissezione spietata non solo dell’Argentina post-fascista ma dell’intera struttura, melmosa, superficiale e feroce, del XXI se-colo: la sua volgarità estrema, i rapporti di potere messi a nudo nellalorodimensioneneoschia-vista, l’idolatria per soldi e suc-cesso, la scomparsa della patina elegante che abbelliva ancora nel Novecento la supremazia

delle classi dominanti.

Ferrari non prova nemmeno a nascondere le ambizioni del suolibro: le esplicita sin dall’ini-zio: «Se qualcuno vuol leggere questo libro come un semplice romanzo sono fatti suoi». Al tempo stesso ammicca a Bor-ges e a Foucault come a Taranti-no, dimostrando maestria nell’imbrigliare ogni sugge-stione, incluse le più colte, che mette al servizio di una narra-zione trascinante, di cui non perde una battuta. Sino al fina-le, concepito per tradire quei lettori che dal noir si aspetta-no, se non proprio la scoperta del colpevole, almeno una riso-luzione; ma che avrebbe strap-pato al beffardo Luis Buñuel dell’Angelo sterminatore il sorri-so sorri-soddisfatto del maestro che s’imbatte in un allievo dotato.

(4)

di VALENTINA PARISI

N

ove personaggi maschili

schierati cronologicamen-te dai diciassetcronologicamen-te ai settanta-tré anni, dispersi ai quattro angoli d’Europa, sorpresi impietosamente nell’atto di elaborare o commettere piccole nefandezze, spa-smodicamente protesi alla ricerca di una conferma sempre più improba-bile – ma non per questo meno dispe-rata – del proprio ego: inTutto quel-lo che è un uomo (traduzione di

An-na Rusconi pp. 402, e22,00) lo scritto-re canadese di origini unghescritto-resi Da-vid Szalay tratteggia con brillantezza e autoironia un’immagine certo non lusinghiera del maschio occidentale, scegliendone un campionario di stu-pefacente omogeneità.

Bianco, europeo ed eterosessuale (con l’unica eccezione, forse, di Tony, il settantenne depresso al centro dell’ultimo frammento), l’uomo de-scritto da Szalay ha molte facce ma in fondo è sempre uguale. Coinvolti in inaspettati ménage à trois o rifugian-dosi nella solitudine apparentemen-te conforapparentemen-tevole delle loro seconde ca-se, questi individui scialbi e insicuri non riescono comunque a depistare gli interrogativi che li assillano, e ai quali, ovviamente, non sanno fornire una risposta. Sottile, lucido, spesso caustico, questo romanzo atipico, co-struito su una fitta trama di rimandi interni, «smonta» il mito dell’unicità individuale e, insieme, il cultonarcisi-stico della propria personalità. Ne parliamo con l’autore, che ieri era a Roma, a «Libri Come».

Da un punto di vista strutturale, «Tutto quello che è un uomo» si basa su proce- dimenticomelaripetizioneolavariazio-nediunmedesimo tema,che, ingenere, vengonoutilizzatipiùdifrequenteinpo-esia o nella composizione musicale. Com’è arrivato all’elaborazione di una forma così particolare?

In effetti, ciò che accade all’interno del libro è descrivibile come una sor-ta di «variazione nella ripetizione». Ma questo non esclude la progressio-ne liprogressio-neare – il protagonista di ogni singolo segmento è più anziano di quello che lo precede. Ed è proprio questo movimento in avanti, nel tempo e nell’età, che rende il mio te-sto, se non proprio un romanzo, quantomeno un organismo unico, e non, come potrebbe sembrare a pri-ma vista, una raccolta di storie brevi, più o meno legate tra loro. L’intrec-cio è centrato sul processo dell’invec-chiamento e sulla scoperta della pro-pria natura transeunte e mortale. La sua forma è emersa da sé, quando do-po aver terminato il primo frammen-to (che, in realtà, nella successione fi-nale è il terzo), mi sono reso conto di volerne scrivere altri della stessa lun-ghezza, nella speranza che, una vol-ta collegati, potessero dar vivol-ta a qual-cosa di più complesso della semplice somma delle parti.

I suoi protagonisti sono descritti in mo-do alquanto minimalista. Lei non si ad-dentra nel loro passato, e tantomeno nella loro psicologia; anche la posizio-ne che assumono posizio-nei confronti della vi-ta emerge esclusivamente attraverso il monologo interiore o i dialoghi con altri personaggi. Questa restituzione di una serieditranche-de-viehal’effettodien-fatizzare l’universalità dei loro caratte- ri,permettendocosìallettorediidentifi-carsi con ognuno di loro…

Sono d’accordo, intendevo esatta-mente evitare di attribuire ai miei per-sonaggi storie specifiche, in modo da focalizzare l’attenzione su ciò che so- noinqueldatosegmentonarrativosen-za spiegare perché sono diventati quel determinato soggetto. In altre parole, volevo concentrarmi sul loro carattere

esemplare più che sulla loro individua-lità.Sepenso aimieinove protagonisti, tendo per lo più a vederli come un solo personaggio, eterogeneo e composito. Ingenerale,volevosmettere,sepossibi-le, di considerare l’individualità come un feticcio, suggerendo che, per quan-to diversi, i miei protagonisti stanno tuttavia sperimentando una sola vita comune. In fondo è ciò che obietta il personaggio di Murray alla cartoman-te croata quando «indovina» quel che si nasconde dietro di lui: «Chi è che non ha un passato del genere? Pensiamo di essere speciali, e invece siamo tutti uguali».

Sullo sfondo di questa intercambiabili-tà,leidàunparticolarerilievo alla figura diSimon,ilprotagonistadellaprimasto-ria che diSimon,ilprotagonistadellaprimasto-riappare inaspettatamente nell’ultima.Graziea questoespediente, illettorescopredicolpocheisuoiperso-naggi non vivono isolati nel loro fram- mentodimondo,cometantemonadilei-bniziane; almeno potenzialmente, in-fatti, potrebbero essere legati tra loro. A chepuntodellascritturahadecisodi«ri-chiamare» Simon nella trama?

Piuttosto tardi, mi pare, cioè quando ho cominciato a pensare seriamente alla storia conclusiva. Rimandando il lettore al primo tassello del libro, ho cercato di aprirgli davanti una

pro-spettiva, spingendolo a riconsiderare ciò che aveva letto fin lì come l’imma-gine complessa di un unico processo. Ovviamente, volevo anche chiudere il cerchio, evocare l’idea di un ciclo che è connaturato all’esistenza uma-na e che si traduce in un intreccio le cui storie sono ambientate consecuti-vamente nell’arco di nove mesi, da aprile a dicembre. Ma, di nuovo, que-sta ciclicità investe più l’aspetto co-munitario dell’esperienza umana – in società o in famiglia – e quindi si ri-connnette a quel distacco da una pro-spettiva esclusivamente individuali-stica cui accennavo prima.

A unire i suoi protagonisti interviene anche un altro elemento: l’essere ri-tratti in un paese diverso dal loro, lon-tano da casa e dai «gioghi» dei loro le-gami affettivi con le donne e l’eventua-le prol’eventua-le. Perché questa enfasi sul moti-vo del viaggio?

Benché gli spostamenti aerei siano al-la portata di tutti da decenni, al tem-po stesso il viaggio continua a essere una esperienza complessa: l’allonta-namento da ciò che è familiare e la conseguente decontestualizzazione offrono, se non una accresciuta con-sapevolezza di sé, quantomeno la possibilità di «rinfrescare» la perce-zione di quel che si è. Mi sembrava bizzarro che, a quanto ne so, la nar-rativa contemporanea non se ne fos-se ancora occupata, al punto che all’inizio, quando il titolo di lavoro del libro era ancora Europa, pensavo di fare di questa mobilità frenetica il filo conduttore tra le nove storie. L’ac-cento si è spostato sulla ciclicità biolo-gica dell’esistenza umana soltanto in un secondo momento.

di RAFFAELE MANICA

S

emprebenemeritiivo-lumi di «Tutte le poe-sie», e utili specie nel casodipoetiimportan-ti nonostante la per-manenza in una qual-che marginalità, ri-spetto anche alla con-sueta marginalità della poesia di secondo Novecento (a scan-so di equivoci: non è un bene e nonè unmale: èla constatazio-ne di un fatto), se convocano con giusto appello, e raduna-no, poesie uscite in sedi sparse, poco raggiungibili perfino per il lettore tempestivo. Anche per questo è esemplare l’Oscar «Baobab»

TuttelepoesiediFer-nando Bandini (Mondadori, pp. LIV-719, € 28,00), curato con scienza e passione da Ro-dolfo Zucco, introdotto da Gian Luigi Beccaria e dallo stes- soZucco,conunaVitadiFernan-do Bandini di Lorenzo Renzi e con una bibliografia seleziona-ta da Stefano Tonon. Si tratseleziona-ta perfino di qualcosa di più di quanto annunciato dal titolo, perché nel volume si trova an-chel’operaditraduzione, cheè poesia sua, di Bandini.

Haragione infattiilcuratore a ritenere un po’ oziosa la que-stione delle tre lingue del poe-ta, rivendicando «l’unità di in-tenti che sta alla base della sua esperienza poetica». Bandini ha scritto, oltre che in italiano, invenetoeinlatino(l’ideadidi-re in latino gli nacque verso la metà degli anni cinquanta, co-me testimonia Scrivere poesia in latino oggi), ma da lingue che noncisonopiùhaanchetradot-to, come nel caso di Arnaut Da-niel. Su questo sia consentita quella che solo apparentemen-te potrà parere una divagazio-ne. Chi ha conosciuto la figura el’operadiPietroTripodo,ilpo-eta romano che avrebbe quest’anno settanta anni ma che invece se ne andò a cin-quantuno, sa come intendere le diverse lingue in un’unica poesia.OltrechelottareconAr-naut, Tripodo tradusse in lati-no (Sepulchra maris) Valéry, Le ci-métiere marin, e si arrovellava su Ausonio. Bandini, oltre che lottare con Arnaut, tradusse in latino,peresempio(Nimbus,An-guilla) Montale (La bufera, L’an-guilla) e dal latino Ausonio (ma anche Virgilio e Orazio). In casi simili non si tratta di poeti che traducono, ma di poeti che tra-sportano se stessi in altre lin- gueelìsiincontrano,inunpro-cesso che contempla insieme lababeledellelingueel’univer-sale della poesia.

Si condivide la confessione diMassimoRaffaeli(edevetrat-tarsi forse di una questione ge-nerazionale) quando, 2010, ac-compagnando con una nota la pubblicazione di una plaquet-te di Bandini, Quattordici poesie,

scriveva: «Ho scoperto tardi la poesia di Fernando Bandini ed altrettantotardiho dovuto am-mettere che il mio personale diagramma del secondo Nove- centoitalianodifettava,clamo-rosamente, di una presenza non solo importante ma, alla lettera,necessaria». Imotivi so-no molteplici e c’è, come sem-pre, anche qualcosa di casuale. Nato nel 1931, scomparso nel 2013,Bandini,perstareaquan-to testimonia2013,Bandini,perstareaquan-to da Raffaeli, si collocain un punto difficile del diagramma del secondo Nove-cento al di là dei diagrammi personali, arrivato alla maturi-tà di poeta proprio negli anni di maggior conflitto poetico in

Italia, al punto che i suoi tratti di stile maggiormente avanza- tinonpersologiocootticopote-ronoparere – diciamocosì, con mille precauzioni – guardare adaltroche allelancespianate. Però il poeta si era fatto presen-te, per esempio, dal suo com-mento ai Canti leopardiani, di una acuminatezza coperta dal-la misura: un sapere solo dissi-mulato, come si evidenziava dalla lucidità della messa in pa- gina.LapoesiadiBandinisomi-glia a quel suo commento, tan-to pacatan-to da sottrarsi voluta-mente a se stesso: stare alla ne-cessità, comunicare a un pub-blico – per quanto esiguo possa essere – per sopravvivere,

co-me osserva Beccaria, che ram- mentaanchecomeilpoeta«ab-bia indicato in Zanzotto l’au-tentica avanguardia del secon-do Novecento».

Atalproposito,tralenonpo-che novità del volume, sta la prima pubblicazione dell’Epi-stula ad Andream Zanzotto poe- tam,unaveraepropriaarspoeti-ca, secondo Giovanni Pellizza-ri, che l’ha ritrovata fra le carte del fondo Bandini dell’accade-mia Olimpica di Vicenza: «E co- memivediperdermidietrofio-ri perduti / così un istinto di morte ti parrà il mio latino. / Ma io, in queste ombre fitte di secoli,conche voluttà mi ciim-mergo / in traccia di parole,

co-me baluginio di lucciole erran-ti nel buio: / o stelle, sperse nel tempo, per gli abissi del cielo». Memoriadel futuro (1969), che raccoglieva anche versi prece-denti, e poi La mantide e la città (’79), Santi di Dicembre (’94) Meri-diano di Greenwich (’98), Dietro i cancelliealtrove(2007),lesuerac-colte principali, mostrano – nellacostante della perizia me-trica,chein veritàdovetteesse-re per Bandini qualcosa di mol-to prossimo alla passione, e non solo per un dire esatto, ma quale vera e propria esigenza di rigore e di moralità – un per-corso la cui avventurosità è vo-lutamentetenuta sottotono,di modo che l’energia possa spri-gionarsi senza troppa appari-scenza, partendo da un mini-mo di decenza quotidiana, co-me esemplarco-mente in Fanta-sma,una breve poesiadi Santidi Dicembre: «Le dissi come allora: “Potresti essere mia figlia”. / E lei: “No, non andartene, aspet-ta! Solo un momento! / Prova a toccarmi il cuore”… Ma non un cuore / sentii dentro il suo petto: / solo il rombo d’un

ven- to/notturno,ilcigoliodellalan-terna / appesa al parapetto / del ponte che il treno in quell’an-no remoto / rallentando sfiora-va. // Ti dico addio, fantasma dellamianottecava,/quidaibi-nari morti tra Noventa ed Osti-glia». Dove si potrà cogliere for-se il motivo (quel vento e non solo) per cui Sereni volle Memo-ria del futuro nello «Specchio», e il modo in cui un «fanciullino» pareva a Zanzotto annidarsi in Bandini. O nella stessa raccol-ta, molto dice il confronto tra Negozidi uccelli(«Quandomi tro-vo in città sconosciute / cerco negozid’uccelli:/l’hofattoaGi-nevra a Londra / a New York ad Hong-Kong sempre la stessa alataconfraternita/diognipar-tedel mondo/ in gabbie madein Japan») e «Invidio chi possiede grandi patrie / (Chlebnikov e la Moore) / e il verso-deltaplano che si libra / su mille miglia di foresta»,inunasortadidialetti-catra Heimat edislocazione,tra strenua precisione e spaesa-mento (Zanzotto dalla Heimat al mondo era il titolo sintomati-co e simpatetisintomati-co dell’introdu-zione al Meridiano del poeta di La beltà): comesinteticamen-teinL’ultimoaereo:«Lanostra vi-ta nonè più nelle trame / tessu-te intorno a casa o poche vie piùin là:/ unventaglio dianed-doti che l’aria / schiudeva tra le dita, depositava adagio / ne-gli orti rosseggianti di escallò-nia/ dove un giorno attecchiva una piccola storia. // Una nube strappata al cielo dal vento / lambiscecoisuoiorlisfilacciati/ vecchie periferie dove sboccia-no fragole / di cui sosboccia-no golosi so-lo i rospi. / Sappiamo quelso-lo che accade–eaccade/soltantoaltro- ve.//L’ultimoaereochehasorvo-lato le case / èstato il Macchi del-lanostra infanzia, / ma ne abbia-mo sentito lo schianto / dietro le colline molti anni fa» (qui si co- glieildialogodiBandiniconidet-tagli gnomici di Giudici).

Rimanere strenuamente at- taccatiallecose,perquantoilo-ro nomi fuggano: si ricordino Lapidi per gli uccelli, XIII («Ponen-do lapidi / («Ponen-dove una volta erano voliegridi»)eAmnesiainLaman-tide: «Giorno per giorno qual-che nome si eclissa / dalla mia lingua e dalla mia memoria, / usuali parole come sedia botti-glia. / Oh, trafelate corse per ri-prenderne / possesso! Anna-spo naufrago / in un mondo che sempre più smarrisce / i suoi eoni, balbetto / come Mo-sè presso il roveto ardente Co-me mi muoverò, poeta senza / gli amati nomi succo delle co-se,/ traibuchid’un saccheggia-to universo?» (chissà se può non illegittimamente affac-ciarsi qui «In the great serena-deofthings / amIthe most can-celed passage?» il Gregory Cor-so antologizzato nel 1964 da Fernanda Pivano per la Poesia degli ultimi americani).

Canadese di origini ungheresi, lo scrittore

David Szalay parla del suo atipico romanzo,

«Tutto quello che è un uomo» (Adelphi)

in cui «smonta» il mito dell’unicità individuale

e, insieme, il culto narcisistico di sé

SZALAY

BANDINI

Ciò che accade all’interno

del libro è una «variazione

nella ripetizione»: questo lo rende

un organismo unico e non

una raccolta di storie brevi

poesia

contemporanea

Intendevo evocare l’idea

di un ciclo connaturato

all’esistenza umana,

il cui intreccio si distende

lungo l’arco di nove mesi

Lanostranaturatranseuntecoltaalvolo

L’energiametrica

delgestoquotidiano

L’avventurosità esistenziale (tenuta sotto tono)

di Fernando Bandini, tra strenua precisione

e spaesamento: tutti i suoi versi negli «Oscar»

Jeff Wall,A Sudden Gust

of Wind (after Hokusai), 1993; in basso, David Szalay, foto Nadav Kander

incontri

letterari

Vicenza, Teatro Olimpico, cortile a giardino, autore non identificato, sec. XVI, foto di Paolo Monti, 1966; in piccolo, Fernando Bandini

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