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La rappresentazione della figura della donna straniera nel cinema italiano contemporaneo

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Academic year: 2021

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Io sono Li

L’interno di una casa rischiarato da alcune luci rossastre, due donne cinesi celebrano la “festa del poeta” facendo galleggiare alcune lanterne in una vasca da bagno finché un uomo entra nella stanza per utilizzare il gabinetto, interrompendo e deridendo il rituale.

Fin dalla prima scena, Io sono Li di Andrea Segre immerge lo spettatore nel cuore della comunità cinese residente in Italia, tanto che i primi personaggi autoctoni vengono mostrati solo molto più avanti: infatti, la vita di Shun Li (Zhao Tao) si svolge esclusivamente tra gli spazi propri della propria comunità di appartenenza, ossia la fabbrica in cui lavora come sarta e l’appartamento che divide con altri connazionali. Inoltre, le leggi e le dinamiche che regolano la vita dei cittadini cinesi in Italia vengono immediatamente espresse e così lo spettatore si trova a percorrere quello che si potrebbe definire un’esperienza conoscitiva molto intensa: infatti, si scopre che Shun Li sta lavorando per estinguere il debito contratto con l’organizzazione che le ha procurato il permesso di soggiorno e le ha pagato il viaggio aereo e attraverso un monologo interiore sotto forma di lettera (o forse di diario, infatti la donna scrive su un piccolo quaderno e non su fogli di carta liberi), che spera che suo figlio possa raggiungerla al più presto.

Il punto di svolta della narrazione occorre in occasione del trasferimento, per mano dell’organizzazione, di Shun Li a Chioggia per lavorare in un modesto bar; il trasferimento viene accompagnato da un altro monologo interiore-lettera, che ha luogo nel corso del viaggio in autobus verso la nuova destinazione: di nuovo, la migrante di genere femminile è rappresentata dal cineasta italiano nell’atto di spostarsi, di arrivare nel luogo proprio dell’azione, quasi a contestualizzare visivamente la natura in movimento dei migranti.

L’inserimento nella realtà chioggiana avviene perlopiù senza traumi, ma la scarsa padronanza della lingua italiana della protagonista pone l’accento sull’idea di comunità chiusa espressa nella prima parte del film e molto vicina allo stereotipo sociale creato intorno ai migranti cinesi dai media italiani. È però a quel punto della narrazione che il film assume caratteristiche assolutamente peculiari e innovative nel suo genere: fino a quel momento, tutti i dialoghi sono in cinese e i sottotitoli permettono allo spettatore di comprendere ciò che i personaggi dicono (già questo è un elemento di rottura con gran parte del cinema italiano, spesso troppo preoccupato di garantire al suo spettatore una fruizione poco impegnativa e quindi più intrattenitiva che cognitiva: uno degli esempi più recenti è Venuto al mondo di Sergio Castellitto, un film che perde parte del suo fascino e della sua forza proprio a causa del doppiaggio delle voci di tutti i personaggi – la narrazione si svolge quasi completamente a Sarajevo, in Bosnia, durante la guerra con la Serbia – e della

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conseguente artificialità che stride e depotenzia le immagini estreme, quasi da reportage documentario), ma l’inserimento nella diegesi di personaggi italiani sotto forma di avventori del bar in cui va a lavorare la donna non può non causare uno straniamento nello spettatore, perché essi parlano in dialetto veneto molto stretto e i loro dialoghi sono anch’essi accompagnati da sottotitoli. Lo spettatore viene quindi immerso in un mondo altro, composto da una parte dai vecchi pescatori della laguna e dall’altra da Shun Li, la sua compagna di stanza e i due uomini cinesi che gestiscono le attività commerciali e il mercato dei visti e dei permessi di soggiorno: tutti questi personaggi gli sono estranei nella misura in cui non condivide nessuno dei due idiomi; la stessa Shun Li, aiutata dai divertiti ma rispettosi clienti del bar, si approccia alla lingua italiana attraverso il dialetto del luogo: quando invitata a partecipare ai festeggiamenti per il pensionamento di uno dei pescatori, reagisce all’invito a brindare chiedendo “mi?”, utilizzando quindi una parola dialettale al posto di una propriamente italiana.

La divisione pacifica degli spazi tra la comunità autoctona, che perviene al fruitore solo attraverso le figure dei pescatori, di un paio di perdigiorno e della famiglia di uno di questi, si incrina quando i confini di questi spazi – che nel caso specifico di Shun Li sono rappresentati dal bancone del bar che raramente oltrepassa – vengono oltrepassati dalla donna e da uno dei pescatori, Bepi “il poeta” (Rade Šerbedžija), che in realtà è anche lui un immigrato assorbito nel tessuto sociale chioggiano in quanto slavo (si suppone proveniente dalla regione dell’Istria o della Dalmazia) la cui esperienza di straniero è talmente minimizzata da dover essere riaffermata da lui stesso e non dagli italiani “nativi” che lo circondano, per i quali l’adesione dell’uomo ai canoni e alle regole sociali (a partire dal dialetto) è talmente totale da essere diventata assoluta e aver quindi cancellato la provenienza dell’uomo.

Le reazioni di entrambe le comunità, italiana e cinese, all’amicizia tra i due personaggi sono le medesime: da una parte, i connazionali di Shun Li le intimano di interrompere qualsiasi rapporto con Bepi per non danneggiare gli affari, dall’altra parte i pescatori e gli altri avventori del bar si trincerano dietro i pregiudizi tipici relativi alla straniera di sesso femminile, mettendo in guardia “il poeta” sulle intenzioni della donna che, secondo loro, vuole approfittare dell’affetto dell’uomo. La risposta di questi personaggi al rapporto tra i due protagonisti riguarda, secondo il regista, un tentativo di resistenza verso l’inevitabile:

«Chi pensava che qualcuno potesse fermare qualcun altro ha perso. Quell’idea che si poteva bloccare l’ondata di nuove genti era perdente. Continueranno a negarlo in molti, in realtà è una leva

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fin troppo facile da usare, ma nella quotidianità delle persone si è creato un rapporto diverso con queste situazioni1».

In apparenza lo sguardo di Bepi su Shun Li è orizzontale, cioè non risente della concezione dell’alterità come relazione tra individui collocati su piani differenti come invece accade con lo sguardo verticale che

«Comporta automaticamente distanza e separazione, che derivano dalla convinzione di una superiorità sociale2»,

ma l’origine jugoslava dell’uomo fa sì che la relazione sia più complessa, poiché egli, seppur inserito nel contesto sociale in cui vive, si considera comunque uno straniero: di conseguenza, lo sguardo che rivolge alla donna non è quello di un autoctono sull’altro, perché Bepi è legato alle proprie origini e, sebbene parli correntemente il dialetto veneto e venga trattato da pari dagli abitanti di Chioggia, possiede un’esperienza che fa sì che sia lui l’unico ad approcciarsi a Shun Li attraverso lo sguardo orizzontale e a volerla conoscere in quanto persona e non in quanto straniera.

In quest’ottica, sembra che il messaggio riguardi la necessità di un’empatia che non necessariamente deve riguardare persone con un comune destino di migrazione, ma che soprattutto in un Paese in cui i flussi migratori interni e verso l’estero sono stati forti lungo tutto il Novecento dovrebbe sorgere spontanea: oltretutto il Veneto è stato soggetto di una forte migrazione in seguito alla tragica alluvione nel Polesine del 1951, a seguito della quale molti abitanti abbandonarono la regione per confluire nelle città industriali del nord Italia, o per emigrare verso le Americhe.

L’avvicinamento tra i due protagonisti rappresenta quindi l’utopia di un’integrazione priva di pregiudizi e di barriere, infatti l’uomo, scoperto che il padre della donna era un pescatore come lui, le chiede di raccontargli della pesca in Cina e la porta nella baracca di legno che utilizza come base per la sua attività: queste scene sottolineano la possibilità di un avvicinamento non traumatico tra culture diverse, anche nel caso in cui a livello sociale l’integrazione presenti dei problemi come avviene con la comunità cinese, che certo non è rappresentata nella sua interezza nel film, ma che in qualche modo viene rivelata allo sguardo dello spettatore italiano, permettendo un’identificazione con la protagonista che non solo trascende la questione dell’alterità, ma che addirittura va oltre la 1 D.Lazzari, Intervista ad Andrea Segre, www.italiansoflondon.com, 10/09/2013

2 O.Paggi, Ti guardo dunque esisti. I differenti approcci cinematografici verso lo straniero, in M.Molinari (a cura di), Terremobili. Scenari di cinema migrante, Segno Cinema 179, p.21

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barriera linguistica perché, come si è già visto, i dialoghi dei personaggi cinesi sono tutti in mandarino.

Un elemento molto importante nell’economia visiva del film è l’ambiente in cui è ambientata la storia, perché sembra riflettere le vicende che vi sono ambientate e perché presenta delle contraddizioni solo apparenti, che invece rispecchiano il messaggio della narrazione: l’acqua è indubbiamente preponderante nelle inquadrature, sia come elemento fisico che evocato (i colori sono spesso virati al blu), e Chioggia sembra essere circondata e sommersa dalle acque della laguna, del mare e delle piogge, con i suoi abitanti intenti a lavorare con l’acqua attraverso la pesca; le scene in cui viene mostrata un’esondazione sembrano riflettere la pervasività degli aspetti ancestrali su cui è fondata la comunità che abita la città, quelli che in parte determineranno la sconfitta di Bepi e Shun Li e l’allontanamento della donna.

In questo contesto liquido e pervasivo si inserisce il fuoco di Shun Li, quello delle lanterne per la festa del poeta che diventano un addio doloroso a Bepi quando la donna affida alle acque del fiume uno dei fuochi, appena prima di abbandonare Chioggia: ma la rottura, seppur minima, dell’equilibrio umido che avvolge la città diviene dirompente con il rogo della baracca di pesca dopo la morte di Bepi, un gesto richiesto dall’uomo a Shun Li che è insieme distruzione e memoria. La vicenda di Li ha un lieto fine, perché l’organizzazione per cui lavora consente al figlio di raggiungerla in Italia, ma l’inizio di una vita familiare serena è contrapposta all’irreversibile allontanamento da Bepi; a mio parere, la scelta di mostrare uno dei pescatori che avevano deriso l’amicizia tra i due protagonisti nell’atto di accompagnare la donna alla baracca per fargliela bruciare può essere interpretata come un’apertura, un buon auspicio per la costruzione di una società multietnica basata sull’integrazione e sull’accettazione dell’altro come proprio simile; dall’altra parte però, è vero che questo gesto generoso avviene solo quando il rapporto tra Li e Bepi non è più un pericolo per l’equilibrio della comunità, ovvero quando uno dei due è deceduto, e l’altra vive ormai lontano.

Tuttavia, nel film è presente un’altra straniera le cui vicissitudini sono marginali rispetto a quelle della protagonista, ed è la compagna di stanza di Shun Li a Chioggia: sebbene il narratore per immagini non racconti granché della donna, diverse scene sono intramezzate da sequenze in cui ella pratica il tai-chi su una spiaggia, attività che può svolgere solo nei pochi giorni liberi concessi dai capi dell’organizzazione per cui lavora. La presenza di tali sequenze fanno da contraltare alle vicende della protagonista, perché al timido tentativo di integrazione di quest’ultima si contrappone il legame profondo e inscindibile dell’amica con le tradizioni cinesi, unito forse al bisogno di

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ricreare uno spazio conosciuto e consolatorio in una realtà dura e regolata da norme rigide, siano quelle degli italiani o quelle dei cinesi.

Le vicende della giovane hanno un epilogo incerto, infatti dopo l’arrivo del figlio Shun Li torna a Chioggia, convinta di dovere il riscatto del proprio debito alla ragazza, ma scopre che ella è fuggita; il film mostra dunque anche un’altra faccia dell’immigrazione, quella dell’estrema difficoltà di normalizzare la propria esperienza di migrante all’interno di un contesto ostico e ostile all’effettiva integrazione dello straniero.

Lo spettatore è tenuto all’oscuro del destino della ragazza, può immaginare che sia tornata in Cina o che abbia cercato fortuna altrove, ma la sua scomparsa apre ulteriori porte sulla percezione dell’altro e sulla necessità di guardare per conoscere.

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