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I costumi e le scene nell'attualizzazione del melodramma. Percorso critico incentrato su Macbeth, Otello e Falstaff

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UNIVERSITA’ DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTA’ E FORME DEL SAPERE

ANNO ACCADEMICO 2015/2016

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

IN STORIA E FORME DELLE ARTI VISIVE, DELLO SPETTACOLO

E DEI NUOVI MEDIA

I costumi e le scene nell’attualizzazione del melodramma.

Percorso critico incentrato su Macbeth, Otello e Falstaff

IL RELATORE IL CANDIDATO

Prof.ssa Anna Barsotti

Gabriele Isetto

IL CORRELATORE

Dott.ssa Bruna Niccoli

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Ai miei genitori Francesco e Nicoletta

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INDICE

Introduzione p. 3

Premessa p. 7

Capitolo I: Scenografie e costumi verdiani nella trilogia shakespeariana

1.1. Dialogo tra costumi e scenografie: percorso storico-critico p. 12

1.2. Macbeth

1.2.1. Stregoneria, tirannia e sangue in Shakespeare e in Piave p. 20

1.2.2. Verdi e la sua “regia” per Macbeth p. 26

1.3. Otello

1.3.1. Invidia, gelosia e morte nel dramma di Shakespeare e nel libretto di Boito p. 39

1.3.2. Otello approda alla Scala p. 45

1.4. Falstaff

1.4.1. La commedia inglese di Shakespeare e il libretto italiano di Boito p. 64

1.4.2. L’ultima fatica di Verdi p. 70

1.5. Nasce la regia p. 84

1.5.1. Visconti, Strehler, Pizzi. Un rapido sguardo alla loro visione di Macbeth p. 88 1.5.2. Graf, Jancsò, Vick. Un rapido sguardo alla loro visione di Otello p. 103 1.5.3. De Filippo, Strehler, Mazzavillani Muti. Un rapido sguardo alla loro visione di

Falstaff p. 116

Capitolo II: Il Macbeth sanguinario di Dario Argento

2.1. Dario Argento e i suoi collaboratori per il Macbeth p. 129

2.2. Il cinema di Dario Argento: caratteristiche e tecniche sul cinema p. 132 2.3. La “nascita” del Macbeth attraverso gli occhi di Dario Argento p. 135

2.4. Analisi dello spettacolo p. 138

Capitolo III: L’Otello di Franco Zeffirelli a teatro e al cinema

3.1. Franco Zeffirelli: l’uomo e l’artista p. 154

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3.3. Anna Anni e Maurizio Millenotti: costumisti per Otello sul grande schermo p. 163

3.4. Otello e il cinema: analisi del film-opera p. 165

Capitolo IV: Falstaff. L’ultimo spettacolo di Luca Ronconi

4.1. Luca Ronconi: cenni biografici p. 183

4.2. Il melodramma secondo Luca Ronconi p. 184

4.3. I collaboratori di Ronconi nella realizzazione di Falstaff p. 187

4.4. Analisi dello spettacolo p. 189

Conclusioni p. 203

Appendici

Appendice I: Intervista a Giuseppe Altomare p. 206

Appendice II: Intervista a Leila Fteita p. 214

Appendice III: Intervista a Elena Bianchini p. 217

Appendice IV: Intervista a Angelo Linzalata p. 224

Appendice V: Intervista a Dimitra Theodossiu p. 227

Appendice VI: Intervista a Marina Bianchi p. 231

Indice delle immagini p. 235

Bibliografia p. 240

Quotidiani e periodici p. 246

Videografia p. 250

Sitografia p. 254

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INTRODUZIONE

Mia nonna è stata ed è tuttora una grande appassionata di opera lirica, devo a lei la scelta dell’argomento di questa tesi.

Ricordo ancora quando a dodici anni mi portò per la prima volta a teatro a vedere Tosca, al Festival Pucciniano di Torre del Lago, e rimasi senza parole colpito dalla bellezza di quello che stavo vedendo e dalla magia del luogo e, leggendo la biografia di Franco Zeffirelli, mi sono immedesimato in lui quando racconta la sua prima volta all’opera perché anch’io, nel mio piccolo, ho provato le medesime emozioni. Da quel momento ho coltivato questa mia passione e ho cercato di farmi una cultura nel campo, prendendo consapevolezza che ciò che più mi affascinava era l’aspetto visivo di un’opera e al momento di scegliere la facoltà universitaria non ho avuto dubbi, volevo conoscere tutto quello che attiene alla preparazione di uno spettacolo, ciò che avviene dietro le quinte, sperando che tutto questo possa diventare il mio futuro.

Tra i tanti compositori ho scelto di porre la mia attenzione su Giuseppe Verdi, colui che ritengo il Maestro più rappresentativo del melodramma italiano. Naturalmente non su tutta la sua produzione, ma su quelle tre opere in cui decise di legare il suo nome a quello di Shakespeare perché il loro fu uno dei sodalizi più affascinanti nella storia del teatro inteso nella sua totalità, perché le opere in esame coprono praticamente tutto il suo periodo creativo facendone vedere l’evoluzione del pensiero musicale e non, ed infine perché da poco è stato celebrato sia il bicentenario della sua nascita che, proprio quest’anno, i quattrocento anni dalla morte del Bardo inglese.

Il mondo dell’opera lirica è stato oggetto di analisi e studi di grande tradizione storiografica, quindi era difficile analizzare un aspetto che non fosse già stato trattato ampliamente soprattutto in riferimento al compositore da me prescelto. Tuttavia, a ben vedere, pochi sono gli studi fatti focalizzando l’attenzione su scene e costumi e spesso riservati solo all’attenzione degli addetti ai lavori. Tra questi da segnalare quelli della dottoressa Bruna Niccoli, della dottoressa Olga Jesurum e del dottor Christian Silva; comunque basta leggere un qualsiasi quotidiano per accorgersi che nelle recensioni viene analizzata minuziosamente l’esecuzione della musica, la direzione d’orchestra, la performance dei cantanti ma poche parole vengono spese sul regista e ancor meno se non addirittura niente su scene e costumi che sono due codici basilari del teatro e quindi

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per questo motivo proprio su questi due aspetti ho sviluppato la mia tesi dal titolo I

costumi e le scene nell’attualizzazione del melodramma. Percorso critico incentrato su Macbeth, Otello e Falstaff.

Verdi definì Shakespeare “il gran maestro del cuore umano”, ma io ritengo che questa definizione potrebbe essere applicata benissimo anche a lui, che con la sua musica e con le sue pressanti direttive ai librettisti, ha saputo comunicarci le stesse passioni in modo superbo. Una volta stabilito che sete di potere, pazzia, gelosia, amore, odio, vendetta sono sentimenti universali e che si ritrovano in ogni tempo, è opportuno analizzare come essi siano stati raccontati da Verdi nel Macbeth (1847), nell’Otello (1887) e nel

Falstaff (1893), ma soprattutto come le sue opere siano poi state rappresentate nelle

diverse epoche non potendo prescindere dai libretti scritti da Francesco Maria Piave e Arrigo Boito con l’approvazione di Verdi.

Per questo mio elaborato ho consultato numerosi testi, siti, filmati, archivi e grazie ai contatti fornitimi dalla dottoressa Niccoli, ho fatto interviste a cantanti, scenografi, costumisti e registi.

Una sintetica premessa storico-critica esporrà quello che era il clima culturale in cui si svilupparono le composizioni verdiane e l’influenza che il compositore ebbe nella stesura dei libretti, insieme ai rapporti che intercorsero con i librettisti.

Nel primo capitolo, dopo aver presentato un percorso storico critico del costume e delle scenografie a partire dal 1600, anno in cui convenzionalmente si fa risalire la nascita del melodramma, mi soffermerò, opera per opera, sulle differenze di scrittura tra i drammi shakespeariani e i libretti. È noto che la cosa produsse tanti ed accesi scontri tra il compositore bussetano e i due librettisti, perché non si trattava soltanto di sposare alla perfezione musica e parole ma anche di inquadrare mentalmente scena per scena sotto l’aspetto visivo ed in parte recitativo, il famoso “recitar cantando”, tanto che Giuseppe Verdi potrebbe essere considerato “regista” delle sue opere, come si vedrà dall’esame delle tre prime messinscene.

Successivamente analizzerò come le direttive del Maestro siano state onorate o meno prima dai direttori d’orchestra e poi dai primi registi, anche se bisognerà aspettare la metà del ‘900 per avere l’affermazione di questa figura con nomi del calibro di Luchino Visconti.

A questo punto racconterò, attraverso un veloce excursus, tre diverse visioni per ognuna delle opere in esame, cercando di abbracciare un arco temporale che ci porti

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fino ad oggi. Per il Macbeth presenterò le regie di Luchino Visconti, Giorgio Strehler e Pier Luigi Pizzi spaziando dal 1958 al 2007; per l’Otello proporrò gli allestimenti di Herbert Graf, Miklòs Jancsò e Graham Vick a partire dal 1960 fino al 2001; per il Falstaff esporrò le messinscene di Eduardo De Filippo, Giorgio Strehler e Cristina Mazzavillani Muti dal 1970 al 2013, analizzando di ognuna il rapporto tra regia, scene e costumi.

Una volta terminata questa prima parte, in cui darò una panoramica generale, esaminerò approfonditamente una messinscena in particolare per ogni titolo prescelto cercando di rappresentare diversi tipi di regia, spaziando volutamente dal classico al moderno fino al contemporaneo, privilegiando sempre l’aspetto visivo degli spettacoli.

Nel secondo capitolo dedicato al Macbeth, dopo una biografia del regista Dario Argento e dei suoi principali collaboratori come Angelo Linzalata ed Elena Bianchini, illustrerò brevemente le caratteristiche del suo cinema perché la sua influenza è riscontrabile anche in questo allestimento che ho poi analizzerò dettagliatamente partendo dalla nascita dell’idea fino al suo sviluppo e poi alla realizzazione.

Stessa cosa farò nel terzo capitolo, riferito ad Otello, presentando prima la biografia del maestro Zeffirelli e poi analizzando sia la memorabile rappresentazione del 1976 per l’apertura di stagione del Teatro della Scala in cui curò anche scene e costumi, sia il film–opera presentato al Festival di Cannes, esattamente dieci anni dopo in cui si occupò esclusivamente della regia avvalendosi per i costumi della coppia d’eccezione formata da Anna Anni e Maurizio Millenotti.

Quarto ed ultimo capitolo quello dedicato al Falstaff di Luca Ronconi con la collaborazione di Marina Bianchi, Tiziano Santi e Maurizio Millenotti. Anche in questo caso, dopo la loro biografia e dopo aver brevemente esposto l’idea che il regista aveva del melodramma, passerò all’analisi della messinscena.

La scelta di questi tre registi non è stata casuale infatti ho intenzionalmente optato per questi tre grandi nomi del panorama nazionale perché estremamente diversi tra loro e quindi molto diversa anche la loro idea di regia legata al melodramma.

Attraverso questo elaborato cercherò di dimostrare che a mio parere deve esistere un limite nel rendere attuale se non addirittura contemporaneo il melodramma perché anche se è sicuramente vero che appartiene ad un mondo legato al passato, non per questo deve essere stravolto per il solo gusto di farlo senza una solida idea di base. Naturalmente ciò non vuol dire rimanere vincolati alle messinscene ottocentesche, ma

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anzi utilizzare tutti gli accorgimenti tecnici più moderni proprio come fece ad esempio lo stesso Verdi, ma sempre trattando gli autori con il dovuto rispetto.

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PREMESSA

L’Ottocento in Europa fu un secolo di crisi e ribaltamenti politici che portò al crollo di un ordine consolidato da tempo, si andava accrescendo una nuova mentalità, maggiormente basata sull’individuo, sulle sue inquietudini e aspirazioni. Il teatro in genere, ma soprattutto quello lirico con la sua messinscena, divenne il luogo adatto a rappresentare questi stravolgimenti, anche grazie a grandi personalità tra cui sicuramente quella di Giuseppe Verdi.

Prima del ’48 l’Italia era suddivisa in tanti stati, in cui l’alta borghesia aveva un ruolo preminente e la principale forma di distrazione di questo ceto sociale era rappresentata dal teatro in generale e dall’opera lirica in particolare; tali passatempi erano invece preclusi alle classi sociali più povere. Nonostante ciò il popolo conosceva comunque le arie verdiane che divennero patrimonio di tutti. Il compositore, vivendo a cavallo tra ‘800 e ‘900, possiamo dire che interpretò due diversi tipi di cultura: quella del romanticismo rivoluzionario precedente al 1848 e quella posteriore che, come detto, si focalizzava maggiormente sull’individuo e sulla sua personalità interiore e proprio per questo motivo ogni suo lavoro può essere considerato unico ed irripetibile.

Sicuramente Shakespeare prima del 1800 non incontrava in Italia il gusto del pubblico, anzi era quasi considerato un “barbaro” soprattutto perché nel secolo precedente uno dei massimi esponenti dell’Illuminismo, Voltaire, lo aveva giudicato in maniera molto negativa; con l’affermarsi del Romanticismo, al contrario, i suoi drammi cominciarono ad essere conosciuti ed apprezzati. A riprova di ciò basti dire che esperimenti precedenti, come ad esempio la messa in scena dell’Otello di Rossini, non furono accolti favorevolmente dal pubblico soprattutto per le tematiche considerate troppo forti e violente. Bisogna peraltro tener presente che questo melodramma non si basava sul testo originale, ma su di un adattamento considerato più facile da mettere in scena, ma che non aveva certo la stessa profondità del testo shakespeariano.

Il melodramma verdiano, nel suo insieme di parole e musica, coglieva e restituiva invece tutte le sfrenate passioni del teatro di Shakespeare; infatti l’interesse di Verdi per l’autore inglese non era legato al personaggio o alla sua vita, della quale si sapeva e ancora oggi si sà ben poco, ma alla sua poesia ed agli argomenti su cui essa si basava. Il maestro di Busseto sapeva raccontare un mondo riconoscibile ed universale attingendo

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dal patrimonio umano dei sentimenti e delle emozioni, in poche parole sapeva mettere in scena il mondo. Il rapporto di Verdi con il Cigno di Stratford non fu però di subalternità o di semplice imitazione, ma di parità nel rendere appunto manifesto l’universo interiore dei personaggi ed il loro realismo psicologico.

All’inizio della sua carriera Verdi per la creazione delle sue opere si basò su vicende storiche o estratte dalla Bibbia, per poi attingere dai classici della letteratura soprattutto da Friederich Schiller, Victor Hugo e, come detto, da William Shakespeare perché sia la spiritualità che le emozioni rappresentate nelle loro opere erano fulcro della cultura del tempo romantico.

Ideali come la ragion di stato, il senso dell’onore, del dovere, tutti valori etici propri di Schiller sicuramente lo influenzarono ma non tanto quanto i sentimenti e le contraddizioni umane portate in scena dal drammaturgo inglese che divennero centro del melodramma verdiano, che le rese palesi grazie al linguaggio universale della musica.

Probabilmente non è un caso che tra le innumerevoli rappresentazioni shakespeariane proposte nei secoli, quelle dell’artista di Busseto rimangano tra le poche a persistere nel tempo e sempre con immutato successo.

A differenza di Wagner, Verdi non scrisse i libretti delle sue opere, ma si affidò ad altri per la loro stesura. Alla luce di questo fatto, alcuni critici, pochi per la verità, ritengono che più che di drammaturgia verdiana sarebbe meglio parlare di drammaturgia shakespeariana, o di Francesco Maria Piave o ancora di Arrigo Boito, ritagliando per il compositore il solo ruolo di commentatore del testo attraverso la musica. Niente di più errato, anzi:

Re senza regno, il musicista finisce con l’invadere una terra straniera, ma la occupa come se gli fosse sempre appartenuta.1

Verdi deve quindi essere considerato indubbiamente l’unico referente di tutto il lavoro, compreso quello del libretto perché responsabile in toto della sua genesi; il compositore pensa più da drammaturgo che da musicista, fa suo il diritto/dovere di giudicare e dirigere lo spettacolo nella sua totalità, infatti:

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9 Un’opera di Verdi non potrebbe essere giudicata alla semplice lettura né al semplice ascolto, perché esiste appieno solo grazie alla rappresentazione e agli interpreti.2

Riteneva che fosse essenziale produrre uno choc emotivo nello spettatore tant’è che scriveva:

Che il pubblico non s’occupi dei mezzi di che l’artista si serve!...non abbia pregiudizi di scuola…Se è bello, applauda. Se brutto, fischi!...ecco tutto. […] Io vorrei che il pubblico giudicasse altamente, non colle miserabili viste dei giornalisti, Maestri e suonatori di pianoforti, ma delle sue impressioni!...Capite? Impressioni, impressioni e nient’altro.3

Tali affermazioni sono un’ulteriore dimostrazione che Verdi aveva un controllo assoluto sulle proprie produzioni e sui propri affari, grazie anche ad un infaticabile lavoro che gli permise di elevarsi sia socialmente che materialmente; non dobbiamo infatti dimenticare che il musicista pur essendo nato povero morì ricco.

Queste le sue parole a proposito degli incassi:

Va bene tutto! Ovazioni bis non significano nulla se la cassetta non è gonfia.4

Una delle ragioni per cui probabilmente Verdi non scrisse i libretti delle sue opere ma si affidò a persone ritenute più idonee, ma con cui spesso si scontrò anche in maniera pesante, era che essi erano in versi e lui non era capace di “poetare” usando la lingua italiana dotta, lontana dall’uso quotidiano, che però ben si addiceva al melodramma per la sua malleabilità, per il suo suono e per la sua brevità che ben si addiceva all’essenzialità del melodramma:

La poesia può, e deve dire tutto quel che dice la prosa con metà parole…5

2 Ivi, p. 16 3 Ivi, p. 21 4 Ivi, p. 42 5 Ivi, p. 47

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La scrittura in versi era fondamentale perché era quella che maggiormente onorava la regolarità della musica e di conseguenza era quasi obbligo affidarsi ai cosiddetti librettisti di mestiere perché capaci di usare quel linguaggio che sarà poi denominato “parola scenica” verdiana e che fin da subito contribuiva a determinare un personaggio. Per Verdi nella creazione di un’opera il primo punto da prendere in considerazione era la ricerca di un buon soggetto tra i numerosi testi a disposizione e poi, individuato quello che maggiormente suscitava in lui interesse, cominciava un lavoro di meditazione e di comprensione che gli permetteva a grandi linee la creazione di un primo abbozzo di melodia musicale.

In secondo luogo ricercava un buon librettista che, oltre ad essere capace, potesse mettersi al suo servizio con un ruolo subordinato, anche se parte del compito del verseggiatore era non solo quello di “obbedire” ma anche di proporre.

I librettisti solitamente erano scrittori di minor successo, alle dipendenze dei teatri e la loro situazione economica era alquanto altalenante, spesso collegata al successo o all’insuccesso della stagione del teatro, cui erano legati da contratto.

Tra tutti, il più fedele collaboratore di Verdi fu Francesco Maria Piave (1810 – 1876), con cui collaborò dal 1843 al 1867, il loro fu un rapporto sicuramente travagliato e duro, ma anche basato sulla reciproca stima.6

L’altra figura fondamentale per il Compositore fu Arrigo Boito (1842 – 1918), che oltre ad essere un librettista era anche musicista, poeta e critico; tra i due s’instaurò un rapporto quasi paritario, anche se il giovane Boito apparteneva a un mondo culturale diverso. Egli riuscì ad assorbire da Verdi tutta l’energia e la forza per interpretare al meglio ciò che il Maestro gli chiedeva, anzi spesso scriveva più di quanto richiesto proprio perché il musicista potesse individuare nell’abbondanza l’essenziale di cui aveva bisogno, ma non per questo riuscì in alcun modo ad influenzare il pensiero compositivo verdiano.7

In linea di massima nelle opere verdiane si trovano quattro tipologie di personaggi: l’eroe, il tiranno, l’eroina e il giustiziere, figure alle quali viene solitamente associato un determinato atteggiamento e carattere.

6 Ivi, pp. 49 - 55 7 Ibidem

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L’eroe è colui che arriva a mettere in gioco addirittura la propria vita per gli ideali di libertà e giustizia; tra tutte le tipologie, il tiranno è generalmente la più usata all’interno del melodramma, generalmente è un uomo, ma può anche essere incarnato da una donna come nel caso di Lady Macbeth; l’eroina, perno attorno a cui ruota l’azione drammatica, molto spesso subisce passivamente la propria sorte; il giustiziere infine è chi agisce per ripristinare con qualsiasi mezzo l’ingiustizia subita in prima persona o da altri.

Nonostante questa distinzione, spesso un personaggio può accumunare in se due diverse tipologie, l’importante è che comunque tra i due un carattere predomini sull’altro, in modo che possa corrispondere ad una determinata voce che contribuisca anch’essa a determinare il personaggio.

Prendiamo ad esempio la figura del tiranno, nel momento stesso in cui rende partecipe il pubblico delle proprie intenzioni è immediatamente codificato, annunciando già che nello scioglimento finale l’esito per lui sarà tragico.

Elemento fondamentale nel melodramma è il contrasto, l’opposizione tra i personaggi, in modo che ogni azione dell’uno vada a coinvolgere lo spazio dell’altro, creando un “botta e risposta” paritario, spesso eccessivo, proprio perché l’eccesso fa sì che ogni azione comporti una reazione altrettanto estrema infatti, come per le tipologie dei personaggi, anche le situazioni che si ritrovano spesso all’interno delle opere sono codificate in modo che lo spettatore appena individuato il topos sappia cosa aspettarsi in quella determinata situazione.8

Esiste indubbiamente un legame tra personaggio e situazione e perché questo vincolo emerga al meglio, esso deve essere forte sia sul piano della parola che su quello della musica.

Scopo dei compositori era quello di offrire l’immagine della verità, ma bisogna chiederci se essa fosse reale o ideale, per cui sarebbe più opportuno parlare di “verità drammatica” resa dall’insieme di parole, musica e recitazione. Nella costruzione delle sue opere Verdi desiderava rimanere il più fedele possibile all’emozione in lui suscitata dalla lettura del testo d’ispirazione in modo tale che essa potesse essere trasmessa senza filtri agli spettatori. Per far questo il Compositore doveva riuscire a tenere lo spettatore sempre col fiato sospeso, trascinandolo nel mondo illusorio dello spettacolo.

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CAPITOLO I

Scenografie e costumi verdiani nella trilogia shakespeariana

1.1. Dialogo tra costumi e scenografie: percorso storico-critico

Come afferma Molinari in Leggere il teatro, una rappresentazione nella sua complessità è la somma di più codici, nove per la precisione.9 Tra questi, due sono quelli su cui mi soffermerò in particolare: costume e scenografia, entrambi da considerare come biglietto da visita dello spettacolo, perché da subito trasmettono allo spettatore l’impatto visivo di che cosa aspettarsi dallo spettacolo.

In riferimento al teatro, con il termine costume si intende non solo l’abbigliamento ma anche l’acconciatura e l’aspetto fisico dell’attore, raccontandoci ogni sfaccettatura del personaggio. Il costume può essere più o meno legato al periodo storico in cui il dramma si svolge anche se, fino ai primi anni dell’Ottocento e poi nel teatro odierno spesso gli abiti di scena rispecchiano l’epoca a loro contemporanea, facendo eventualmente ricorso ad un solo elemento che possa farne comprendere l’ambientazione. In questo caso si parla di costume metonimico, quando invece esso è fedele nella sua totalità e perfettamente inquadrato storicamente è detto metaforico. Molteplici sono le funzioni del costume, esso può infatti celare o enfatizzare la figura i cui parametri, che spesso creano un collegamento con il ruolo sociale, sono alto/basso, grasso/magro, robusto/esile. Infine, per poter classificare un costume, i quattro parametri fondamentali sono: la forma, il materiale, il colore e la struttura; come dice Floridia Benedettini, Direttore della Fondazione Cerratelli:

Ogni costume di scena vive di una sua “architettura”, si serve di un modello, è il risultato del taglio, eseguito con la massima perizia. È su tutto questo che poggiano i materiali, i tessuti che plasmano la forma, il “verso dritto” del costume, dove si incontra il colore.10

9 Cesare Molinari, Valeria Ottolenghi, Leggere il teatro, Vallecchi, Firenze, 1979, p. 57

10 Bruna Niccoli, La Fondazione Cerratelli: tre anni di attività, in Bruna Niccoli (a cura di), Officina

Cerratelli. Quaderno numero Uno. La Fondazione Cerratelli, costumi per lo spettacolo del Novecento,

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Queste parole trovano conferma anche in quelle del Maestro Gino Carlo Sensani che diceva:

L’essenziale, a mio avviso, è non far sentire il costume, far sì che l’abito sia la buccia di quel personaggio in quell’ambiente.11

Ed anche in quelle di Odette Nicoletti:

Lo sforzo a cui tendo è quello di non vestire gli attori ma inventare loro una seconda pelle con fantasia e intelligenza.12

Vari sono gli stadi della creazione di un costume, innanzi tutto abbiamo il figurino, che deve soddisfare le esigenze dello spettacolo e permettere all’attore libertà di movimenti; una volta che il figurino rispetta questi parametri, si passa alla creazione del modello cioè il trasferimento del disegno, stavolta in misura reale, su carta velina e poi su tela. Una volta terminato il modello, che verrà naturalmente conservato per poter essere riutilizzato, si passa allora alla scelta del tessuto, al taglio ed infine all’unione delle parti. Una volta terminata la costruzione dell’abito, qualora sia richiesto, si passerà al ricamo tenendo conto del fatto che esso sarà visto soprattutto da lontano. Il lavoro del costumista non può però dirsi terminato, egli infatti dovrà essere presente alle prove sul palco per controllare che tessuti e ricami siano adeguatamente valorizzati dalle luci di scena o se, invece, debbano essere apportati dei cambiamenti nel caso in cui stoffe e colori non risaltino adeguatamente.

Tutto ciò dimostra come un costume e la sua creazione siano la somma di molte storie, in primis del personaggio a cui darà vita, ma anche di quelle di tutti coloro che hanno lavorato per far sì che il miracolo si potesse compiere. Fondamentale è la collaborazione tra il costumista, che identifica il personaggio e il sarto che concretizza l’idea.

La cosa importante è che i costumi vengano creati in modo che possano avere una “vita” oltre il singolo spettacolo, che non divengano soltanto reperti destinati

11 Ivi, p. 12

12 Odette Nicoletti, Il trionfo degli ornamenti nella monumentalità delle forme, in Francesca Colombo,

Christian Silva (a cura di), Il costume teatrale tra realismo e finzione. I costumi storici del Teatro alla Scala

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all’esposizione museale, e ciò è possibile solo se la creazione del costume va oltre la semplice riproduzione dell’abbigliamento del passato, grazie alla genialità del figurinista (che dal 1958 sarà sempre riconosciuto)13 e della sartoria che darà vita al disegno creativo infatti una volta terminato l’ultimo spettacolo ogni costume, seppur conservato nel modo migliore, sarà inevitabilmente sottoposto a modifiche e aggiunte, diverrà cioè un costume da repertorio e non più da protagonista, perdendo quella che era la sua prima identità. Fortunatamente non sempre ciò accade e di questo bisogna ringraziare tutte quelle sartorie e fondazioni, come ad esempio la Fondazione Cerratelli, che con amore, cura e competenza conservano i costumi nella loro interezza.

Per convenzione la nascita del melodramma si fa risalire al 1600 con l’opera Euridice di Jacopo Peri ed in quel periodo il cantante tendeva a far colpo sugli spettatori usando costumi attuali ma estremamente sfarzosi ricchi di lustrini, nastri e guarnizioni. Il fine del costume era quello di stupire imitando gli abiti della nobiltà non tenendo quindi assolutamente di conto degli argomenti mitologici che librettisti e compositori mettevano in scena. Se possibile la situazione degenerò ulteriormente a fine ‘600 quando i virtuosi pur di emergere facevano a gara tra loro, facendosi confezionare toilette rispecchianti il proprio gusto, ragion per cui erano considerati persone capricciose ed esigenti oltre ogni limite.

Nel ’700 Francesco Algarotti, da buon illuminista, per la prima volta pose il problema della verosimiglianza del costume di scena nell’opera e tale problematica fu poi ripresa anche da Leonardo Martini, disegnatore di costumi, che nel 1771 dette vita ad un’opera dal titolo Ragionamento introno alla foggia degli abiti teatrali, in cui specificava come ogni teatro dovesse avere un disegnatore fisso per gli abiti e di conseguenza, ogni teatro cominciò ad avere una propria sartoria specializzata.14 Inoltre, soprattutto nelle grandi città come Milano dove stava imponendosi sempre più il Teatro alla Scala o Napoli con il Teatro San Carlo, si andava sempre più affermando la ritrattistica in costume dei grandi cantanti e questo faceva sì che le creazioni circolassero nel mondo dell’arte. A

13 Bruna Niccoli, La sartoria Cerratelli. Costumi per lo spettacolo del Novecento, in Officina Cerratelli.

Quaderno numero Uno. La Fondazione Cerratelli, costumi per lo spettacolo del Novecento, cit., p. 54

14 Bruna Niccoli, Vestire l’opera nell’Ottocento: il costume d’arte italiano nel confronto europeo, in

Valeria De Lucca (a cura di), Fashioning opera and musical theatre: stage costumes from the late

renaissance to 1900, Atti del convegno, Venezia, 29 marzo – 1 aprile 2012, Fondazione Giorgio Cini,

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riprova della collaborazione tra teatri e pittori, basti pensare che nel 1843 nacque una commissione di esperti dell’Accademia di Brera e del Teatro alla Scala per vigilare sulla rigorosità delle messinscene. Esisteva un vero e proprio controllo sul programma della Scala da parte dell’Accademia i cui soci, tra cui Francesco Hayez e Alessandro Sanquirico, esaminavano bozzetti e figurini prima della realizzazione dello spettacolo poi, con l’affermarsi del neoclassicismo, il costume di scena iniziò a rispettare l’ambientazione storica del melodramma, sia per il volere di scenografi e costumisti, sia per volere dei cantanti, facendo sì che esso fosse non una semplice replica del costume antico, ma un fantasioso arricchimento del mondo classico.

Con l’Ottocento si affermò un nuovo concetto di personaggio da caratterizzare non solo fisicamente ma anche da un punto di vista psicologico, con il cosiddetto Verismo si esigeva da parte del cantante non solo una bella voce ma anche una capacità recitativa ed interpretativa, spesso aiutata dal trucco e dal costume che si fecero sempre più accurati. A tale scopo i più importanti cantanti dell’epoca possedevano un proprio guardaroba per calarsi al meglio nel personaggio:

Secondo il Codice del teatro era una regola codificata per gli artisti di canto fornirsi di tutti i costumi e del piccolo vestiario. Quest’ultimo era obbligatorio per ogni artista, mentre la prima regola valeva soprattutto per gli attori principali.15

Come conseguenza però spesso avveniva che all’interno dello spettacolo mancasse una visione unitaria da un punto di vista stilistico perché la vanità degli artisti ed il loro gusto personale influenzavano la realizzazione dei costumi.

In generale il costumista, oltre ad essere un bravo disegnatore, deve anche avere una approfondita conoscenza storica, perché solo se si conoscono bene gli usi e costumi di un determinato periodo si può, con l’ausilio della fantasia, dare un tocco di modernità alla tradizione. Questo era uno dei principi fondamentali a cui si atteneva colui che può essere considerato il fondatore dell’arte del costume moderno in Italia, Gino Carlo Sensani. Infatti egli raccomandava che si facesse estrema attenzione all’evoluzione del costume all’interno di un determinato secolo poiché sarebbe stato errato parlarne in generale, dal momento che nell’arco di cent’anni sicuramente molte e profonde sono le

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differenze nel modo di vestire, errore spesso ripetuto dai costumisti suoi predecessori, legati a falsi stereotipi che riducevano l’attore a un semplice “manichino”. Tutti questi insegnamenti Sensani li tramandò ai propri allievi, tra cui spiccano nomi di altrettanti grandi costumisti, tre su tutti: Anna Anni, Piero Tosi, Danilo Donati.16

Molte altre sono però le lezioni che affidò ai suoi “eredi”: l’autonomia del costumista, la ricerca della semplicità tranne nei casi in cui sia esplicitamente richiesta ricchezza nella confezione del costume, far si che l’attore si affidi totalmente alle sue mani, lo studio approfondito di tutte le discipline umanistiche ed in particolare della storia dell’arte, perché solo dallo studio si può trarre lo spirito dei tempi a cui l’artista deve ispirarsi. Inoltre reputava fondamentale la stretta collaborazione con lo scenografo e l’arredatore, poiché riteneva essenziale la “messa in quadro” cioè l’armonizzazione tra il costume e il personaggio ma anche tra il costume, la scenografia e l’arredamento. Il metodo del Maestro Sensani divenne “linea guida” per tutte le nuove generazioni di costumisti che poterono esprimersi al meglio a partire dalla metà del ‘900, quando si ebbe la forte affermazione della direzione del regista che in Italia, per quanto riguarda, l’opera avvenne grazie a Luchino Visconti e Giorgio Strehler.

L’altro codice che analizzerò in dettaglio è quello della scenografia in quanto “cornice” della messinscena, elemento fondamentale con cui tutti gli altri codici del teatro devono confrontarsi. Con il termine di scenografia si intendono tutti quegli elementi che danno informazioni sull’ambiente in cui l’opera è rappresentata, essa è sicuramente legata all’arte, tant’è che i primi scenografi erano pittori e architetti che avevano anche conoscenze di meccanica e di ingegneria.17

Come per il costume, anche per la scenografia devono essere fatte delle distinzioni sia in base alla sua tipologia ambientale, per cui sarà: concreta, astratta, metaforica, simbolica o metonimica; sia in base alla tipologia di realizzazione: pittorica, costruttiva, mobile e fissa.

Anche in questo caso dobbiamo seguire un percorso storico per vedere come essa sia cambiata nel tempo. Nel Rinascimento, quando ancora le rappresentazioni si facevano

16 Pier Marco De Santi, Creature, non manichini, in Carlo Sisi (a cura di), Monumenta: i costumi di scena

della Fondazione Cerratelli, Pacini Editore, Ospedaletto (PI), 2009, p. 44

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all’interno dei saloni delle corti, le scene non erano legate allo spettacolo che veniva rappresentato, ma riproducevano paesaggi ed architetture precostituite legate ai tempi in corso.

Agli inizi del ‘400, con Leon Battista Alberti, la scena era unica e costituita da un fondale dipinto raffigurante degli edifici in prospettiva mentre invece, alla fine del secolo grazie al genio di Leonardo, già si usavano ingegni che permettevano apparizioni e movimenti delle scene.

Nel 1513, data della rappresentazione a Urbino de La Calandria con scene di Girolamo Genga, si ebbe il primo esempio di scena completa che rappresentava una città con le sue strade e con un buon senso della prospettiva. Di lì a poco, Sebastiano Serlio codificò tre modelli di scena per i tre tipici generi teatrali; la scena comica e tragica erano simili, fisse e solitamente rappresentavano una strada con archi e palazzi fingendo la compresenza di diversi luoghi e in alcuni casi si potevano intuire gli interni grazie ad attori che recitavano affacciati a delle finestre. Nella scena comica, oltre a case private di piccoli personaggi era solitamente riprodotta anche la casa della ruffiana e l’osteria, mentre in quella tragica erano solitamente raffigurate case di grandi personaggi ornate di statue di finto bronzo che in realtà erano di cartone. Infine la scena satirica era invece un trionfo della natura, ricca di alberi, fiori, piante e fontane.

Altro grande artista che si cimentò anche come scenografo alla fine del 1500, fu il Buontalenti che per i suoi spettacoli usava macchinari che permettevano improvvise apparizioni in scena.18

Come precedentemente detto, con l’Euridice di Peri e quindi con la nascita del melodramma, assunse sempre più importanza la coreografia e diviene fondamentale l’ausilio della scenotecnica, arte nella quale fu insuperato maestro il Bernini che probabilmente per primo ebbe una visione totalitaria del teatro attribuendo importanza alla luce sulla scena ed ai trucchi del retroscena. In questo periodo molti altri saranno i nomi fondamentali per il perfezionamento della scenografia come ad esempio Giacomo Torelli, Andrea Pozzo, per non parlare della dinastia dei Bibiena ai quali si deve l’invenzione della “scena per angolo” o “prospettiva per angolo”, che poneva lo

18 Maurizio Fagiolo, La scenografia. Dalle sacre rappresentazioni al futurismo, Sansoni, Firenze, 1973,

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spettatore al centro di una piramide visiva che ampliava illusoriamente lo spazio nel senso della larghezza. 19

Col 1700, poiché i soggetti d’opera riguardavano soprattutto il mondo classico romano o civiltà lontane, gli scenografi nel primo caso dovevano esser fedeli alla storia, mentre nel secondo potevano scatenare tutta la loro fantasia e l’ormai abituale uso del sipario, faceva si che spesso mancasse il cambio di scena a vista e che quindi il pubblico potesse essere piacevolmente ed improvvisamente colpito da ambienti sempre diversi.

In questo periodo lo spazio scenico era praticamente diviso in due zone: una reale ed una apparente; la prima era quella delimitata dalle quinte ed era la parte praticabile, l’altra invece era uno spazio puramente illusorio composto dal fondale e dalle quinte ad esso vicine, a cui gli attori però non dovevano avvicinarvisi troppo perché i soggetti dipinti, a causa della prospettiva, erano più piccoli e quindi il confronto tra gli attori e gli elementi del fondale sarebbe apparso sproporzionato.

Per quanto riguarda le fonti luminose, nel 1700 era impossibile ottenere diverse gradazioni di luminosità o effetti particolari poiché sia per i lampadari che per le luci di quinta si usavano candele che venivano “smoccolate” ad ogni intervallo, in modo che potessero nuovamente ravvivarsi e quindi lo scenografo doveva essere molto abile nel dipingere gli effetti di luce in modo che essi potessero uniformarsi con l’illuminazione del teatro.

In questo secolo nacquero i grandi teatri come il San Carlo di Napoli, la Scala di Milano e La Fenice di Venezia e di conseguenza si ebbe un sempre maggior sviluppo delle scenografie, anche grazie a grandi professionisti. Circa nello stesso periodo a Napoli vide la luce una delle prime scuole di scenografia, la Reale Accademia Borbonica, importante perché finalmente nel 1800:

si richiede un ambiente scenico non legato all’acuto illusionismo d’un grande inventore, ma ideato da un professionista al corrente del passato che rappresenta, e soprattutto degli spettatori a cui si rivolge.20

19 Ivi, pp. 61 - 66 20Ivi, p. 29

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Tra i nomi di spicco del periodo troviamo sicuramente quello di Alessandro Sanquirico, architetto e scenografo in possesso di approfondite nozioni culturali e storiche che gli permettevano di per poter assecondare la fantasia sia dei librettisti che dei compositori, in modo che l’impianto scenico diventasse “cornice” dello spettacolo in cui scene e costumi finalmente rispecchiavano l’epoca del dramma rappresentato.

In questo secolo, l’avvicinarsi a temi reali e verosimili fece si che scomparissero le tipologie scenografiche del ‘700 introducendo in scena arredi, suppellettili ed oggetti della vita quotidiana che prima erano soltanto dipinti. Regola non scritta, era quella di intervallare scene di interni e di esterni, cosa a cui si attenne anche Verdi tranne due soli casi: Attila, tutto in esterni e La Traviata, tutta in interni. Nonostante la presenza del sipario ancora persisteva l’uso del cambiamento a vista delle scene e ciò richiedeva, o che l’atto iniziasse con una scena “corta” per poi lasciava spazio, sollevando il fondale, ad una scena “lunga” o viceversa.

Come detto le scenografie si arricchirono di arredi e quindi per la prima volta i cambi scena ebbero bisogno di operai specializzati che intervenivano in squadra durante ogni intervallo, divenne anche abbastanza frequente l’uso di congegni meccanici come ad esempio il panorama mobile o il diorama.21

Nel 1817 il teatro londinese Lyceum Theatre fu il primo ad essere illuminato dalla luce a gas adottata poi da tutti gli altri principali teatri europei mentre, alla fine del secolo, fu introdotta sempre a Londra l’illuminazione elettrica al Savoy Theatre, precisamente nel 1881. Finalmente ad inizio spettacolo si potevano spengere le luci in sala rendendo più evidente e suggestivo per il pubblico ciò che sarebbe accaduto sul palco, e, grazie all’uso di vetri colorati o stoffe tinte poste a schermare le lampadine, era possibile realizzare diversi effetti ottici.

Notevoli erano le differenze di allestimento tra le prime messinscene sotto il diretto controllo del compositore, che spesso dettava le regole per la disposizione scenica fissando un modello generale da seguire e le successive repliche che erano invece realizzate dai responsabili dei vari teatri; quindi maggiore era l’importanza del teatro, migliore era la riuscita. Ciò però non significava che i cosiddetti “pittori di teatro”, meno famosi, lavorassero in maniera ripetitiva limitandosi a copiare i modelli stabiliti

21 Paolo Bosisio, Teatro dell’Occidente. Elementi di storia della drammaturgia e dello spettacolo teatrale,

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dalle case editrici, che in occasione delle repliche noleggiavano le riproduzioni dei bozzetti delle scenografie e dei figurini. Infatti essi, rispettando le linee guida di massima, operavano liberamente e spesso con originalità.

La situazione rimase immutata fino agli inizi del ‘900, momento in cui si affermò sia la figura del direttore d’orchestra, uno su tutti Arturo Toscanini alla Scala, sia la figura del direttore dell’allestimento scenico, il cui compito era quello di coordinare i vari aspetti della rappresentazione.

1.2. Macbeth

1.2.1. Stregoneria, tirannia e sangue in Shakespeare e in Piave

La tragedia shakespeariana, ambientata intorno all’anno Mille, inizia con l’incontro tra due generali, Banquo e Macbeth di ritorno dalla guerra contro i ribelli del re di Scozia Duncan, con tre streghe che salutano il primo come padre di re ed il secondo come barone di Glamis, di Cawdor e futuro re. In breve tempo le prime due predizioni sul futuro di Macbeth si rivelano esatte, ma ciò scatena la sua sfrenata ambizione così che, approfittando di una sosta di re Duncan e del suo seguito presso il suo castello, lo uccide non prima di aver pianificato il tutto con la consorte Lady Macbeth, preavvisata del loro arrivo da una lettera del marito. I figli di Duncan, Malcom e Donalbain ingiustamente accusati del delitto riescono a fuggire e Macbeth nominato re, sempre più vittima di un’incontrollata sete di potere ordina a dei sicari di uccidere anche Banquo, considerato come una minaccia perché salutato dalle streghe come futuro padre di re non solo, ne stermina anche la famiglia. Il regno, proprio ciò che più avevano desiderato, diventa per Macbeth e Lady un incubo oscuro ed angoscioso; mentre il primo è perseguitato dal fantasma di Banquo, la seconda impazzisce e muore. Macbeth, incontrate nuovamente le streghe, si sente invincibile poiché esse gli predicono che fino a quando la foresta di Birnan non camminerà o giungerà un uomo non partorito da donna, non sarà sconfitto. Malcom assieme al barone Macduff, marcia contro Macbeth ed ordina al suo esercito di nascondersi dietro i rami della foresta di Birnan. La profezia delle streghe sta per avverarsi, il bosco cammina e

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Macduff nato da parto cesareo, ucciderà Macbeth ponendo fine al suo folle regno e riportando la pace in Scozia.

Questa tragedia che Shakespeare scrisse nel 1606 è quasi un chronicle play, cioè una serie di avvenimenti storici liberamente ispirati alla figura di Macbeth che realmente regnò in Scozia dal 1040 al 1057. Il Bardo trasse questi fatti storici dall’opera

The chronicle of England, Scotland and Ireland di Holinshed del 1577, opera da lui già

consultata per la stesura di altri drammi storici. Come spesso accade l’autore modifica la vicenda perché comprime in poche settimane un arco storico di diciassette anni, cambiando la funzione di alcuni personaggi come ad esempio Banquo che in realtà era un complice di Macbeth o inventando praticamente dal niente altre figure come quella della Lady, appena nominata nell’opera di Holinshed. Tutto ciò in un manoscritto decisamente breve, in gran parte in versi e ricco di un gran numero di personaggi. Non siamo certamente di fronte a un dramma amoroso, la passione che tutto muove è di ben altra natura, è oscura, è la sete di potere. In tutta questa tragedia domina il contrasto: il bello e il brutto, il bene e il male, il naturale e il soprannaturale, la luce e la tenebra, la verità e l’inganno; il confine tra questi opposti è talmente sottile che porta all’ambizione sfrenata, alla follia, alla morte.

Nonostante il gran numero di personaggi il fulcro della vicenda ruota attorno alle figure di Macbeth, della Lady e delle tre streghe intese come unicum. Sono loro gli interpreti del conflitto tra conscio ed inconscio, tanto che le streghe sembrano non avere un pensiero proprio ma profetizzano quello che Macbeth vorrebbe sentirsi dire, sono il mezzo attraverso il quale Shakespeare può dare inizio alla tragedia, dalla loro premonizione nascerà tutto. Proprio le loro battute sono probabilmente alla base della maledizione che ha sempre accompagnato e tutt’oggi accompagna quest’opera, infatti la leggenda vuole che Shakespeare avesse copiato reali formule magiche in voga all’epoca, scatenando l’ira di quelle che erano considerate vere streghe e che maledissero il dramma.

Il personaggio di Macbeth, in cui si sviluppa sempre più non solo la sete di potere ma anche la violenza, è strutturato però in modo tale da suscitare a tratti anche la compassione del lettore/spettatore e trova nella Lady una perfetta compagna di crimini fredda e spietata, apparentemente molto più forte del marito da un punto di vista psicologico. Inizialmente, l’uomo trae forza dalla donna e quasi si ciba della sua energia e della sua indifferenza di fronte alla morte, nel finale è invece Macbeth a diventare

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impermeabile agli eventi che sempre più lo circondano mentre la Lady sprofonderà negli abissi della sua anima; il rimorso di Macbeth si rivelerà più superficiale rispetto a quello della moglie.

La forza di tutti questi elementi affascinò Giuseppe Verdi che nel 1847 musicò quest’opera per la stagione di carnevale e quaresima del Teatro della Pergola di Firenze. La scelta tra tre soggetti: L’Avola di Grillparzer, I masnadieri di Schiller e appunto il

Macbeth di Shakespeare ricadde su quest’ultimo titolo proprio per la passione che il

musicista aveva per il drammaturgo inglese tanto che definisce quest’opera:

una delle più grandi creazioni umane! [...] Se noi non possiamo fare una gran cosa cerchiamo di fare una cosa almeno fuori del comune.22

Il Macbeth verdiano si distaccava dalle prime composizioni del musicista tanto che egli sosteneva di poter dar vita a nuove strade nella musica operistica infatti, in questo melodramma troviamo la ricerca di una nuova drammaturgia anticonvenzionale.

Verdi era attratto sia dall’aspetto fantastico della vicenda che dalle nuove opportunità che si offrivano ai cantanti, chiamati non solo a cantare in maniera diversa, ma anche a farsi interpreti del dramma che stavano rappresentando, per questo si parlò di “parola scenica”, cioè capace di sottolineare e motivare l’azione.

La trama rimane ambientata nella stessa epoca, ma nel libretto viene ridotta rispetto al testo di Shakespeare, gli atti da cinque diventano quattro ma non per questo la vicenda perde di efficacia mantenendo tutti i suoi punti fondamentali. La figura del re Duncano è appena accennata sulla scena, è un personaggio eclissato, di poca importanza che Verdi preferisce rendere muto piuttosto che fargli pronunciare poche battute come in Shakespeare. La sua breve apparizione, come dice De Van, non riesce a portare luce nella notte che domina la scena.

La mancanza di alcuni passi, come ad esempio le prime due scene del primo atto, porta come conseguenza alla riduzione di un notevole numero di personaggi che passa da trenta a undici, mancano infatti tutti i baroni scozzesi e un figlio di Duncan. Ai personaggi rimasti si aggiungono i vari cori compreso quello delle streghe, tutto ciò per

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rispetto del criterio di brevità che Verdi aveva messo come condizione fondamentale e che esplicita nel carteggio con Piave:

[...] lo schizzo è netto: senza convenzione, senza stento e breve. Ti raccomando i versi che essi pure siano brevi: quanto più saranno brevi e tanto più troverai effetto. [...].23

Verdi incontrò non poche difficoltà nel rendere al meglio la figura delle streghe e proprio su di loro ebbe numerosi scontri con Piave, che non riusciva, secondo il compositore, a centrare la loro fondamentale importanza nel dramma. Le streghe non sono più tre, ma diventano tre cori ognuno dei quali possibilmente composto da sei elementi. Esse rappresentano il male, sono un unico personaggio, ciò da cui tutto ha inizio, non sono una semplice raffigurazione del fantastico; nel primo atto sono “sguaiate e pettegole”, nel terzo hanno una funzione profetica e di conseguenza una nuova dimensione. Esse non fanno altro che svelare ciò che Macbeth aveva in animo senza esserne consapevole e nel terzo atto più che di profezia si potrebbe parlare di annuncio di azioni che fatalmente devono accadere perché frutto di ciò che è accaduto in precedenza.

Solitamente il terzetto basilare di un melodramma ottocentesco era rappresentato da tenore, soprano e baritono, perfetti per rappresentare il dramma amoroso, ma nel

Macbeth c’è una grande novità: l’amore non è presente e di conseguenza anche

l’impianto vocale viene scompaginato, scompare la figura del tenore come protagonista, in modo che baritono (Macbeth) e soprano (Lady) possano diventare quasi un’unica anima, mentre il tenore (Macduff) non ha rilevanza se non nel finale dell’opera. Questo trova conferma nelle parole di Verdi:

[...] la parte di Macduff per quanto facciate non la ridurrete mai a grande interesse. Anzi più lo si metterà in vista più dimostrerà la sua nullità. Egli non diventa un Eroe che quando finisce l’opera [...].24

23 Ibidem 24 Ivi, p. 297

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Il personaggio che maggiormente incarna tutte le novità richieste dall’autore è sicuramente quello di Lady, la vera protagonista che nel bene e nel male è spesso sola con se stessa, raggiungendo l’apice del patos nella scena del sonnambulismo che precede la sua morte dimostrando di avere una coscienza più profonda di quella del marito, personaggio che compie invece un cammino inverso rispetto a lei. Nell’opera Lady si spoglia completamente della propria femminilità riproponendola quando ciò va a vantaggio della sua sfrenata ambizione per arrivare al suo scopo, le sue parole dopo la lettura della lettera hanno una forte attrattiva sessuale e sono ricche di ambiguità nel rivolgersi a Macbeth:

LADY MACBETH

Vieni! T’affretta! Accendere Ti vo’ quel freddo core! L’audace impresa a compiere Io ti darò valore;

Di Scozia a te promettono Le profetesse il trono … Che tardi? accetta il dono, Ascendivi a regnar. (Atto I, scena V)

Tutta questa cavatina è un’esortazione perché l’uomo sia forte e virile e quindi la carica di seduzione della donna non è finalizzata alla soddisfazione della sessualità ma alla soddisfazione di quella voglia di potere che la porterà alla distruzione. L’aria «la luce langue» (Atto II, scena II) lega la prima cavatina con l’aria del sonnambulismo e trasporta il personaggio verso l’oscurità finale.

Inizialmente Macbeth si fa condurre nell’azione dalla malvagità della moglie, dopo invece è sconvolto dalla sua crudeltà e terrorizzato dal fantasma dell’uomo che ha fatto uccidere, Banco; nel finale diviene insensibile ed incurante della rovina che progressivamente lo circonda e della morte della moglie, come si evince dalle parole che pronuncia quando ne viene a conoscenza:

MACBETH (con indifferenza e sprezzo) La vita...che importa?...

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25 È il racconto d’un povero idiota;

Vento e suono che nulla dinota! (Atto III, scena VI)

Nell’opera il tenore e il basso, cioè Macduff e Banco, sono semplici comprimari e questo proprio per focalizzare l’attenzione sulla solitudine dei due protagonisti principali unici artefici del loro dramma ed entrambi incarnano appieno la figura del tiranno e lo schema che De Van traccia per questa figura:

1. LA MINACCIA. […] Il futuro tiranno ci fa partecipi delle sue cupe intenzioni (Macbeth e sua moglie) […]

2. IL PRIMO MISFATTO. Il tiranno muove il primo passo compiendo un misfatto che denuncia l’uso abusivo della propria forza […] commette un regicidio come Macbeth […]

3. IL SECONDO MISFATTO. […] il tiranno è responsabile di una seconda azione che provoca la sua caduta o la sua punizione: come Macbeth fa assassinare il suo fedele compagno e poco dopo sprofonda nella follia […]

4. LO SCIOGLIMENTO. Spesso l’esito si risolve logicamente con la fatale punizione del tiranno […].25

Poiché i protagonisti sono soli con loro stessi, entrambi diventano estranei al tutto “vedendo quello che gli altri non vedono e non vedendo quello che gli altri vedono”. Due esempi sono: la scena del sonnambulismo di Lady Macbeth che pur avendo con se una lampada non vede ciò che la circonda e Macbeth che durante il banchetto vede lo spettro di Banco che gli altri non vedono.

Dato il particolare periodo storico che l’Italia stava attraversando, cioè il pieno Risorgimento, non poteva mancare l’importanza del messaggio di voglia di libertà che Verdi affida al coro come già accaduto nel caso del Nabucco con il famoso «Va, pensiero» nel quale il popolo ebraico è sottomesso al potere dei Babilonesi.

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Lo spunto per il coro è tratto dall’atto IV, scena IV di Shakespeare in cui Malcom e Macduff discutono sulla grandezza della patria e sulle virtù che si addicono ad un re; nel melodramma, Verdi nell’atto IV, scena I emette il suo grido di liberazione tramite il celebre coro «Patria oppressa!» e torna sull’argomento anche nell’ultima scena dove finalmente si assiste alla liberazione dalla tirannia dell’oppressore, chiaro riferimento al dominio austriaco sull’Italia.

Giuseppe Verdi come vedremo in seguito, non fu semplicemente il compositore di questo melodramma ma fu anche l’ispiratore dei costumi, della scenografia, della recitazione, insomma quasi un “regista”, un vero uomo di teatro.

Ai critici che lo rimproveravano di non conoscere Shakespeare l’autore rispondeva così:

Oh in questo hanno un gran torto! Può darsi che io non abbia reso bene il Macbeth, ma che io non conosca, che io non capisca e non senta Shakespeare no, per Dio, no. È un poeta di mia predilezione che ho avuto fra le mani dalla mia prima gioventù, e che leggo e rileggo continuamente.26

1.2.2. Verdi e la sua “regia” per Macbeth

Verso la fine dei cosiddetti “anni di galera”, cioè del periodo dal 1843 al 1850, Verdi compose il Macbeth il cui libretto, come detto, fu curato da Francesco Maria Piave e ampliamente rivisto da Andrea Maffei; quest’ultimo stimolò il compositore a distaccarsi dalla routine compositiva della quale egli stesso si diceva schiavo.

Il testo prescelto, anche se già conosciuto dai letterati italiani, sicuramente era particolare soprattutto perché ricco di quell’elemento che veniva definito il “meraviglioso”, che però Verdi attualizzò trasformando la semplice magia, in proiezione e metafora dell’interiorità del personaggio, anche se la categoria del “fantastico” era estranea al gusto del pubblico italiano. Non a caso il poeta Giuseppe

26 Fabio Vittorini, La soglia dell’invisibile. Percorsi del Macbeth: Shakespeare, Verdi, Welles, Carocci,

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Giusti, dopo aver assistito alla prima a Firenze scrisse a Verdi invitandolo a tralasciare il “fantastico” a favore del “vero che prova l’ingegno e l’animo”.27

Per stendere la “selva” dell’opera, il compositore si basò sulla traduzione curata da Camillo Rusconi e sulle indicazioni di August Wilhelm Schlegel, facendo sì che le scene chiave del melodramma fossero le stesse che il critico individuava nel dramma shakespeariano e cioè l’uccisione del re Duncano, la visione di Macbeth del pugnale, l’apparizione del fantasma di Banco e la scena del sonnambulismo di Lady Macbeth.; conferma di ciò si trova nel libretto autografo del Macbeth che contiene tutte le correzioni apportate da Maffei e da cui si evince sia tutto il processo di creazione del libretto stesso, sia come Verdi andò spesso contro i suggerimenti del Maffei.

La gestazione del libretto non fu certo facile, molte furono le cause di conflitto con colui che viene giustamente ritenuto l’autore del libretto cioè Piave; sin dal 1846 e precisamente dalla lettera del 25 ottobre, si vede quanti problemi creò la stesura della prima scena del secondo atto, tant’è che il carteggio tra i due proseguì fino a dicembre e il Maestro, non ancora pienamente soddisfatto, informò Piave dell’intervento di Maffei solo a cose fatte. Non contento comunque di alcune modifiche ebbe lui l’ultima parola a testimonianza del rapporto attivo e fattivo che sempre ebbe con i suoi collaboratori. Verdi aveva talmente ridotto all’essenzialità il dramma di Shakespeare durante la prima stesura dell’opera, che poi durante la composizione fu costretto ad ampliarne largamente la struttura.

Il Macbeth fu messo in scena il 14 marzo 1847 al Teatro della Pergola di Firenze e ciò può sembrare strano visto la lunga collaborazione che il compositore aveva da tempo con il Teatro milanese alla Scala, ma questo avvenne perché i rapporti di Verdi con l’allora amministratore del teatro scaligero Merelli, non erano certamente buoni tant’è che solo dopo tre giorni dalla messinscena dell’Attila, precisamente il 29 dicembre 1846, Verdi scrisse a Giulio Ricordi confermandogli la sua volontà di non rappresentare più sue opere nel suddetto teatro a causa del modo pessimo in cui erano state messe in scena.28 Era intenzione dell’autore mettere questa clausola anche per le

27 Marcello Conati, Aspetti della messinscena del «Macbeth» di Verdi, in «Nuova Rivista Musicale

Italiana» XV, Rai Eri, Roma, 1981, p. 75

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opere successive tant’è che sarebbero passati diversi anni prima che egli tornasse nel capoluogo lombardo.

Altro fatto che probabilmente spinse Verdi a trasferirsi temporaneamente a Firenze, fu che egli non riteneva più adeguati gli allestimenti de la Scala da quando Alessandro Sanquirico, scenografo titolare, aveva abbandonato il suo ruolo. Nella città toscana però il compositore non si affidò alle maestranze locali, bensì contattò proprio il fidato Sanquirico del quale si fidava totalmente.

Per Verdi tutte le componenti dello spettacolo erano importantissime, quando pensava ad un’opera egli “vedeva” con gli occhi della mente quegli che sarebbero stati i movimenti dei personaggi e l’ambiente che gli avrebbe circondati, questo grazie anche alle nozioni apprese durante i soggiorni parigini a contatto con il mondo teatrale francese e in particolare con l’Opéra, di cui avrebbe adottato l’uso dei livres de régie, in Italia disposizioni sceniche.29 Per il compositore le scene non solo dovevano essere figurativamente belle ma dovevano diventare esse stesse narrazione diretta non all’orecchio, ma all’occhio dello spettatore, affidando alla vista un messaggio significativo e simbolico.

Verdi accettò l’offerta dell’impresario fiorentino Alessandro Lanari di rappresentare una nuova opera, anche perché a causa di problemi di salute, non poté tener fede a impegni che avrebbero dovuto vederlo impegnato in uno stancante tour prima a Napoli, poi a Parigi ed infine a Londra.

Il compositore dedicò Macbeth al suocero e mecenate Antonio Barezzi:

Da molto tempo era ne’ miei pensieri di intitolare un’opera a Lei che m’è stato e padre e benefattore ed amico […]. Ora, ecco questo Macbeth che io amo a preferenza delle altre mie opere e che quindi stimo più degno d’essere presentato a Lei. […].30

Questo melodramma, che «richiedeva una gran Messa in scena e un doppio Numero di Cori»31 come annunciato sulla “Gazzetta di Firenze” e in cui i coristi furono infatti

29 Pierluigi Petrobelli, L’esperienza teatrale verdiana e la sua proiezione sulla scena, in Pierluigi

Petrobelli, Fabrizio Della Seta (a cura di), La realizzazione scenica dello spettacolo verdiano, Atti del convegno, Parma 28 – 30 settembre, Istituto nazionale di studi verdiani, Parma, 1996, p. 21

30 Budden, Le opere di Verdi: vol. I, cit., p. 294

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quarantotto di ambo i sessi, fu accolta entusiasticamente da pubblico e critica anche se, le parti legate all’aspetto “fantastico” come vedremo in seguito, destarono un deciso scetticismo. I primi due atti ebbero molti applausi, il terzo ed in parte il quarto, non riscossero grande approvazione. Firenze aveva una grande aspettativa su questo spettacolo e nessuna notizia, vuoi per tutelarsi da disturbi, vuoi per proteggersi dal plagio, era filtrata. Molti spettatori, spinti anche dal diffondersi delle voci che Verdi avrebbe affrontato il genere “fantastico”, presenziarono alla prima e non tutti riuscirono ad entrare in teatro. Il risultato generale fu trionfale ed il Maestro, come riportato dalle cronache del tempo, fu chiamato sul palco per ben ventidue volte.

I cantanti prescelti furono: la soprano Marianna Barbieri Nini, già legata al Teatro della Pergola per Lady Macbeth ed il baritono Felice Varesi, che il 24 settembre del 1846 fu ingaggiato per la cifra di 3600 lire, per il ruolo di Macbeth. Al momento l’attore era considerato il migliore interprete italiano che avrebbe potuto recitare nella nuova opera, sia per il modo di cantare, sia per la sua presenza scenica, basso di statura e non avvenente. Verdi inizialmente avrebbe voluto nel ruolo della Lady, Johanna Sophie Loewe ma la cantante, in seguito ad un’interruzione di gravidanza, si ritirò dalle scene. La corrispondenza fra Verdi e gli interpreti fu assidua e spesso raccomandava loro estrema attenzione non al canto, come ci si potrebbe aspettare, ma all’uso delle parole e alla posizione da tenere in scena, dal momento che riteneva questo un dramma completamente diverso da tutti i precedenti e proprio per questo motivo chiedeva a tutti un impegno alla ricerca di originalità. Una testimonianza della Barbieri Nini ci propone infatti un Verdi tirannico che mai contento sottoponeva gli artisti a durissime prove, addirittura anche pochi momenti prima di andare in scena, suscitando le ire del Varesi.32 Il Maestro teneva molto alla realizzazione di questa nuova opera ed aveva a cuore il suo allestimento come dimostrato dalla lettera che il 25 ottobre 1846 inviò a Piave:

Mettiti subito in relazione con Lanari per la messa in scena del Macbeth. Scrivi subito una lettera e descrivi le ordinazioni, attrezzi, figurini, scenari, vestiario, comparseria etc. etc… Non dimenticare nulla e fà tutto quello che abbisogna. Pensaci bene, e fà le ordinazioni giuste: niente di più né di meno di quanto abbisogna.33

32 Francesco Degrada, Lettura del “Macbeth” di Verdi, in «Studi Musicali» VI, Olschki editore, Firenze,

1977, pp. 235 - 236

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Del melodramma non esiste alcuna disposizione scenica, per cui le notizie devo essere tratte sia da articoli dell’epoca che dall’epistolario verdiano. Uno dei critici che molto scrisse e non certo in maniera entusiasta, anche per antichi dissidi con Lanari, fu Enrico Montazio che in un articolo pubblicato il sabato 27 marzo del 1847 su La rivista di

Firenze descrisse, seppur parzialmente, scenografia e costumi.

Dalla sua critica apprendiamo che il primo atto si apriva con uno scenario dipinto dallo scenografo Giovanni Gianni che rappresentava un bosco nel quale comparivano tre gruppi di streghe con buon risultato, mentre invece criticava il vestiarista Odoardo Ciabatti circa i costumi dei messaggeri del Re Duncano perché privi di cappello.

Non ci è dato sapere come avvenisse la trasformazione della scena dal bosco al castello di Macbeth dove poi si svolge l’azione, perché l’autore dell’articolo preferì soffermarsi più sulla trama che non sull’allestimento.

Le prime due scene del secondo atto sono ambientate ancora nel castello, mentre la terza scena fu così rappresentata:

[...] ci troviamo trasportati in un bosco ove una quarantina di soldati stan raccolti […] Qui vi prego di ammirare il genio inventivo dell’attrezzista Stocchi. Siccome il vestiarista si trovava molto imbrogliato per vestire i sicari alla moda di quei tempi, egli tenne consulto con l’attrezzista incaricato della fabbricazione della parte più solida e materiale del vestiario, cioè spade di legno, elmi di carta-pesta, scudi di cartone ec. e fu concluso che per simboli degli istinti macellari degli sgherri in questione, in luogo di visiera, ai loro elmi sarebbero apposti tanti rampini, il che fu fatto: dimodoché la parte anteriore del coperchio di codeste quaranta teste vi fa l’effetto di una guarnizione d’uncini da scannatoi, quando non vi faccia quello, se siete di umore meno bellicoso, d’una serie di attaccapanni.34

Stando sempre alle cronache del tempo, la quinta scena si svolgeva in una sala barocca, ricca di arredi dipinti, ma con «mense tanto povere di vivande come sono ricche di lumi».35

34 Enrico Montazio, Macbeth profanazione in quattro atti di F.M. Piave, in «La Rivista di Firenze», sabato

27 marzo 1847, p. 50

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