• Non ci sono risultati.

L’eretico che salvo la Chiesa. Il Cardiale Giovanni Morone. Su un recente libro di Massimo Firpo e Germano Maifreda

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "L’eretico che salvo la Chiesa. Il Cardiale Giovanni Morone. Su un recente libro di Massimo Firpo e Germano Maifreda"

Copied!
26
0
0

Testo completo

(1)

RASSEGNE E DISCUSSIONI

L’ERETICO CHE SALVÒ LA CHIESA. IL CARDINAL GIOVANNI MORONE

Su un recente libro di Massimo Firpo

e Germano Maifreda*

«Un librone ottocentesco» (p. xxix), scrivono gli autori nell’Introduzione di questo volume di più di mille pagine, pubblicato invece nel XXI secolo. Si tratta, in qualche misura, di una definizione perfetta, almeno all’orecchio di genera-zioni che ancora frequentano i volumi ottocenteschi: una narrazione fluente e ininterrotta, piena di particolari che da un lato ricostruiscono un’epoca, dall’altro danno ragione di una vicenda umana tragica e contradittoria. Una narrazione a volte forse anche un po’ lenta, come si addice a un volume dell’Ottocento, ma di cui si vuole sempre sapere come andrà a finire.

La biografia di questo «cardinale “eretico” e papa mancato, nella cui vita si condensa come in uno specchio la storia della Chiesa in uno dei suoi momenti più drammatici, i cui esiti ne avrebbero segnato fino a oggi la realtà istituziona-le, l’autocoscienza storica e la prassi pastorale» (p. xxix) si trasforma dunque nel grande affresco di un mondo ecclesiastico e di una Chiesa, la più politicamente importante Chiesa dell’Occidente, di fronte a una svolta cruciale. Il racconto non solo compone uno straordinario dipinto, ma anche si sofferma e narra mi-nuziosamente trame nascoste, carteggi privati, intrighi che dovevano restare ri-servati, come ad esempio, ogni più minuto segreto dei Conclavi di metà Cinque-cento.

* Massimo F

IRPO, Germano MAIFREDA, L’eretico che salvò la Chiesa. Il cardinale Giovanni

(2)

144

La narrazione si sostanzia di fonti che vengono abilmente fatte parlare per descrivere una miriade di personaggi, centralissimi e protagonisti, oppure secon-dari, ma altrettanto vivi e affascinanti: come il sanguigno cardinale Girolamo Aleandro – legato papale incapace di comprendere la diplomazia del Morone –, il quale nel 1539 teme che l’imperatore la dia vinta ai luterani e fa «subito fuo-co e fiamme», tuonando ed esprimendo il proprio esterrefatto furore fuo-contro quel-la «ribaldaria franckfordiana» [quel-la dieta di Francoforte] e quel-la «pessima et inopi-nata » decisione di volersi incontrare per «disputar et accordar le cose della reli-gion christiana (o Iesu!)» (p. 55). Oppure come la torreggiante figura di papa Carafa, un Paolo IV che oscilla tra l’ossessiva volontà di tessere trame contro gli odiati nemici e una furia che rasenta la pazzia: «La complessione di questo pon-tefice – scriverà il Navagero – è collerica e adusta». «Sembra essere privo del sen-so comune» osserverà perplessen-so un altro (p. 477).

Si è parlato di affresco, ma forse sarebbe più adatto paragonare questa nar-razione a un grande puzzle che si è andato componendo su uno scrittoio, quello di Massimo Firpo, costantemente alimentato nei decenni dagli studi sul processo a Giovanni Morone e la sua interminabile edizione, da quelli su Juan de Val-dés, da quelli altrettanto fondamentali sull’Inquisizione romana e «la sua presa di potere»; un puzzle completato infine da Germano Maifreda con i mancanti tasselli delle origini ambrosiane del cardinale, delle sue relazioni familiari, delle sue numerose attività “cardinalizie”. La storia del cardinale Giovanni Morone cerca quindi di descrivere, di un’epoca centrale per la Chiesa di Roma, le molte ambiguità e contraddizioni, che per secoli la storiografia aveva sottovalutato, dimenticato o nascosto. Un volume di questo tipo attribuisce giustamente una dimensione imponente a un personaggio che ancora negli anni Sessanta, quando lo incontrai nei miei primi studi come vescovo di Modena, era semisconosciuto.

Il filo rosso che accompagna tutta la vicenda è, alla fine, anche il tentativo di capire l’insondabile mistero di una personalità che rappresentò con la propria vita tutte le inconciliabilità di un tempo storico, nel quale si sviluppò una “Ri-forma italiana”, che entrò all’interno delle stesse gerarchie ecclesiastiche nello sforzo di formulare una proposta “cattolica” della Riforma d’oltralpe, e una Controriforma che fu soprattutto, secondo gli autori, una reazione, da parte di una Chiesa rappresentata dall’Inquisizione, al pericolo tremendo che questa pro-posta potesse prevalere.

(3)

145 I tre interventi che seguono leggono questo grande volume attraverso diffe-renti prospettive, per quello che ciascuno di questi storici ha voluto cogliere ed evidenziare in quelle migliaia di pagine. Una storia tutta politica, scrive Lucia Felici, e che descrive – cosa che colpisce – un personaggio in fondo insensibile alle profonde problematiche religiose che lacerarono molti dei suoi contemporanei. Politica come prudenza e dissimulazione, osserva Miguel Gotor, di un protago-nista come Giovanni Morone che con grande intelligenza comprese, dopo il pro-cesso per “eresia” e la liberazione, che una fase storica si era ormai chiusa e che non vi era più alcuna speranza per le illusioni di valdesiani e spirituali. L’uso politico della giustizia inquisitoriale ai fini della lotta per il potere aveva con-quistato il soglio pontificio e Morone, che salvò la Chiesa con il compromesso tri-dentino, sancì in modo contradditorio, ma con grande capacità politica e diplo-matica, la fine della riforma della Chiesa che egli stesso aveva sperato e coltivato negli anni giovanili con i propri sodali. Fu approvata una conclusione del Tri-dentino profondamente conservativa; il Concilio dunque fu un’occasione perdu-ta. Pierroberto Scaramella, infine, ritorna a quegli anni giovanili, all’adesione di Giovanni Morone alle idee valdesiane; ai suoi tentativi irenici di mediazione e ai suoi fallimenti. Tutti questi interventi riconoscono che questo libro costitui-sce una svolta storiografica imprescindibile, che affossa definitivamente la cate-goria infruttuosa di “Riforma cattolica” per rivitalizzare, ma con ben altre va-lenze e significati, quella di Controriforma.

Resta il personaggio Morone a tormentare il lettore, «pozzo di san Patri-zio» ancora e sempre indecifrabile. Il «paradosso» Morone, protagonista irrinun-ciabile della politica romana e al contempo «inquisito a causa di fede» agli occhi di molti, viene spiegato dagli autori guardando oggettivamente alle sue doti: egli solo con il suo fine intuito poteva tenere la Chiesa, sovrastata dall’Inquisizione, all’interno del gioco politico europeo. Certamente sarebbe stato un buon papa, dal quale la Chiesa avrebbe tratto vantaggio, risparmiandole la lunga egemonia inquisitoriale.

Permane tuttavia nel lettore l’impressione di un personaggio, apparente-mente e lucidaapparente-mente padrone di se stesso, che patì profondaapparente-mente del proprio ruolo. Difficile dire se Morone aderì con sincera convinzione all’utopia valde-siana, ma molti sono gli indizi, purtroppo tutti provenienti dai suoi nemici, che egli condividesse quell’audace progetto di riforma della Chiesa. Sembra che nel

(4)

146

1543 a Trento Morone esponesse un programma di riforma, quello di Pole, che faceva probabilmente tremare gran parte della curia romana: «levare via in gran parte la Cancellaria, la Penitentiaria in grandissima parte; et vorria che si facessino vescovi che sapessino predicare, et che le parochie non si dessero a corte-giani, et si lasciasse tutta la sua giurisdictione libera alli vescovi, et che fussero huomini degni di stare al vescovato, secondo che si faceva nella Chiesa primiti-va» (p. 151). Di questo «progetto» faceva certamente parte la speranza, all’inizio degli anni Quaranta, di influenzare il recentemente convocato Conci-lio attraverso la presenza attiva e il proselitismo da parte dei prelati “spirituali” che vi parteciparono e che, tutti, aderivano alla giustificazione per fede. Più tar-di, poiché non si era riusciti a governare il Concilio, fu coltivata la speranza di conquistare il papato. Anche questo progetto fallì. Alla fine, fu fatta una serie di tentativi di riformare la vita religiosa non “in capite” ma “in membris”, non con la conquista dei vertici della gerarchia, ma neppure con chiese riformate e clandestine. Piuttosto con la cauta riforma di alcune diocesi, in uno sforzo di mutamento che si fondava assai più su carismi individuali e capacità di dissi-mulazione che su un disegno politico. La presa del potere da parte dell’Inquisizione nella seconda metà del Cinquecento fermò ogni tentativo anche in questo senso.

Sebbene sia indiscusso che la bussola insostituibile di ogni comportamento del cardinal Morone fosse «la Chiesa di Dio», intesa come gerarchia e come isti-tuzione che aveva al timone l’autorità del papa – un papa dunque lontanissimo da quell’immagine dell’Anticristo che molti contemporanei anche a lui vicini coltivarono –, tuttavia Morone “tradì” effettivamente le speranze e i tentativi degli spirituali, tanto che antichi amici come Giulia Gonzaga e Pietro Carnesec-chi, che invano sperò in un suo aiuto, non si fidarono più di lui: lo considerava-no «timidissimo», troppo cauto oramai per esporsi in alcun modo. Non è credi-bile infatti che un uomo così acuto e intelligente, certo politicamente espertissimo ma che aveva frequentato Contarini e Pole, imbevuti di teologia, fosse così gros-solano dal punto di vista teologico da indicare “per ignoranza” come suo sostitu-to nella diocesi di Modena un Pier Martire Vermigli, poco tempo prima della sua fuga oltralpe; da non saper valutare i numerosi predicatori eterodossi che mi-se sui pulpiti di Modena; dal partecipare a discussioni importantissime come quella di Ratisbona sulla giustificazione per fede e non saperne considerare

(5)

147 l’importanza per una Chiesa rinnovata e una nuova pastorale. Se effettivamente Morone condivise quelle visioni e quelle speranze, seppur per breve tempo, per comprendere questa timidezza, o doppiezza, o forse anche oscurità morale, biso-gna guardare, a mio parere, a quello che resta il centro di questo volume, il pro-cesso che gli intentò l’Inquisizione, per il quale fu clamorosamente arrestato nel 1557. L’esperienza del carcere, l’accumularsi di prove che certamente lo fecero disperare, nonostante la morte di Paolo IV, la liberazione e riabilitazione succes-siva, videro un Morone che usciva dal carcere con i capelli diventati tutti bian-chi. Quel processo fece crollare forse ogni speranza e ogni ambizione di ricoprire un ruolo importante in una Chiesa rinnovata, costrinse un uomo tanto intelli-gente e moderato a scegliere una via assai tortuosa e che pare quasi riflettersi in quello sconcertante ritratto fattogli in vecchiaia, nel 1573, da Scipione Pulzone (immagine 9) in cui il notevole strabismo, l’espressione assieme astuta e smarrita, sembra quasi commentare una vita tanto difficile e contradittoria.

SUSANNA PEYRONEL RAMBALDI

susanna.peyronel@unimi.it

Il volume dedicato al cardinale Giovanni Morone da Germano Mai-freda e Massimo Firpo è un’opera magistrale. I due autori fanno un uso molto sapiente della ricostruzione biografica, che costituisce un formidabile strumento di ricerca storica perché permette di seguire il percorso esistenzia-le di una persona, i suoi pensieri, esistenzia-le sue azioni, nei suoi intrecci con la storia generale, finendo col restituire la vivezza dell’uno e rendere la complessità e la valenza storica dell’altra. Il loro libro disegna infatti uno straordinario af-fresco della Chiesa nel Cinquecento attraverso la specola di un personaggio emblematico dell’evoluzione della Chiesa di Roma dalla crisi da cui scaturì la Riforma sino alla sua ridefinizione con la Controriforma.

Nel volume l’intreccio tra i due piani, biografico e generale, è fondato su una ricchissima documentazione, ulteriormente ampliata rispetto a quella già molto cospicua presente nei volumi sui processi a Giovanni Morone e a

(6)

148

Pietro Carnesecchi e in altri saggi editi da Firpo1, ed esaminata con una

pro-spettiva in parte diversa da Maifreda, sulla base delle sue competenze eco-nomiche. Questo libro rappresenta un esempio rilevante di quanto la colla-borazione tra studiosi possa essere fertile. Sì, perché l’effetto creato dalla scelta di Firpo e di Maifreda è di un’immagine a tutto tondo, non solo di un personaggio che emerge come un gigante sulla scena italiana e internaziona-le, nella sua rappresentatività, ma anche del ruolo essenziale della Santa Sede nell’orientare un secolo fondamentale per la storia moderna, così come per quella a noi coeva.

In merito, possiamo dire con gli autori che «il paradosso della vita del Morone si riassume nella constatazione che i suoi clamorosi processi per ere-sia e i suoi straordinari successi politici e diplomatici, primo fra tutti la con-clusione del Tridentino, furono facce della stessa medaglia. I due volti di una ierocrazia che, tanto più in Italia si spostava verso il cuore della Contro-riforma, tanto meno – in un’ottica strategica complessiva – poteva illudersi di segnare una presenza politica europea accendendo roghi inquisitoriali» (p. 783). Partendo da questa riflessione si possono sottolineare due elementi: il primo è che la storia illustrata da Firpo e Maifreda è una storia tutta politica, è una storia di potere tutta interna a una istituzione per la conservazione, il rafforzamento o il miglioramento di essa. Sia il Morone sia i papi, gli inqui-sitori, i nunzi e i tanti protagonisti della gerarchia ecclesiastica si muovono in questa arena. Certo con finalità e modalità affatto diverse: il Morone in tutto il suo agire è animato da un genuino spirito di riforma della Chiesa, di recupero della sua unità, della sua identità ecumenica, di miglioramento del livello religioso e morale dei suoi membri, da un convinto e costante ireni-smo. E per raggiungere questo fine percorre tutte le strade, sia quella diplo-matica – sua via maestra, in cui eccelse – sia in ambito religioso, con il so-stegno costante ai gesuiti, l’applicazione dei principi di riforma del vescovo Gian Matteo Giberti, la protezione degli ordini religiosi, la sintonia col car-dinale Carlo Borromeo nella valorizzazione del ruolo pastorale del vescovo, le misure prese nelle varie sedi dove fu legato o vescovo o nunzio per rad-drizzare la situazione drammatica della Chiesa. Anche l’adesione allo spiri-tualismo valdesiano fu, secondo l’interpretazione di Firpo, da leggere in

que-1 F

(7)

149

sta ottica, come via possibile alla riforma interna della Chiesa senza fratture istituzionali, per lui come per l’amico Reginald Pole.

Quello che però colpisce è che, stante la sincerità di questo desiderio di riforma, per cui Morone pagò un prezzo altissimo e che dimostrò financo nella sua sobrietà di vita – con i suoi 40 familiares contro gli 800 dei papi e i 400 di altri cardinali –, non si coglie in lui una vera sensibilità, un vero affla-to religioso, una riflessione teologica, o anche solo un interesse, paragonabili a quelli non soltanto dei riformatori d’oltralpe, ma neppure italiani. Questi ultimi, come ad esempio gli eterodossi modenesi, pur con strumenti cultura-li diversi indagavano la Scrittura fino quasi a “lacerarla”, la rielaboravano in modo personale, ne discutevano appassionatamente per dare nuove risposte alle loro inquietudini spirituali, interiori. Malgrado la profonda conoscenza che ebbe della realtà religiosa d’oltralpe e di quella italiana – basti dire che Modena, di cui fu vescovo due volte, era un focolaio di eresia che «scaldava tutta l’Italia» come scrisse l’esule Francesco Negri, come pure Bologna, dove fu legato –, malgrado le sue alte idealità ireniche e riformistiche, ebbene Morone fu e restò un uomo delle istituzioni, un uomo politico al servizio della Chiesa. Finissimo, abile, appassionato, coerente, determinato, ma so-stanzialmente indifferente alla sostanza viva della fede. Delio Cantimori dis-se di avere scoperto la potenza della fede che fu all’origine della Riforma quando si recò in Germania per i suoi primi studi sugli eretici italiani: e di essere rimasto folgorato da quella rivelazione tanto da distanziarsi dall’ottica politica e filosofica con cui aveva guardato allora a quel movimento2. Stando

alla documentazione qui riportata, Morone invece non sembrò interessarsi alle dottrine teologiche, alle loro ragioni spirituali e complessità intellettuale né agli esiti che ebbero nella sfera sia religiosa, sia sociale, sia culturale, nel mondo europeo e italiano che pure ebbe modo di conoscere de visu nel cor-so delle sue nunziature in Germania. In queste rifulse come uomo di fiducia di Carlo V, abilissimo diplomatico, nunzio animato da acuta intelligenza delle «cose di Germania», dalla ferma volontà irenica. Tale fama non fu mai appannata, per tutta la vita, con papi diversi, malgrado le sue drammatiche vicende processuali.

2 C

(8)

150

Mi soffermerò su questa parte della vita di Morone, che apre una pro-spettiva del tutto diversa sullo sconvolgimento religioso del XVI secolo. Il

re-cente libro di Volker Reinhard Lutero l’eretico. La Riforma protestante vista

da Roma, rivela chiaramente la sostanziale indifferenza e incomprensione

della Santa sede verso il teologo sassone e le ragioni del suo moto di rifor-ma3. Il volume di Firpo e Maifreda lo conferma appieno, su uno scenario

grandioso e di lungo periodo.

L’esperienza di nunzio del Morone è affrontata subito nel secondo ca-pitolo, che si intitola significativamente “Una honesta concordia”. Morone ebbe la nunziatura nel 1536, quindi a 27 anni, «con vastissimi poteri»: una nomina sorprendente motivata tanto dalla fedeltà imperiale del padre e dal ruolo da lui giocato «per la ruina di Roma» nel sacco del 1527, quanto dalla sua personale capacità politica, dal pragmatismo, dalla visione della «realtà effettuale», tutte qualità prontamente colte da Paolo III, che lo ritenne «il miglior diplomatico della curia». Tali doti gli furono necessarie per rappre-sentare Roma nel difficilissimo frangente coevo, per inserirsi nelle vicende tedesche, boeme e ungheresi, promuovere il Concilio, partecipare a diete e colloqui di religione. Bisogna ricordare che, mentre la Riforma si diffondeva a macchia d’olio in Germania conquistando seguaci e principi – questi ulti-mi anche in vista dell’emancipazione politica dall’imperatore e dell’incame-ramento dei beni ecclesiastici – e mentre questo sconvolgimento religioso si manifestava nelle sue forme più radicali – con la guerra dei contadini e la “Gerusalemme” anabattista a Munster –, Carlo V era impegnato nella lotta contro Solimano il Magnifico e nel decennale conflitto con Francesco I. E vedeva cadere nel vuoto le sue ripetute richieste a Roma di un Concilio per sanare la frattura protestante e realizzare, se non più il suo disegno universa-listico, un fronte comune contro i suoi avversari esterni.

In questa situazione, Morone subito mise in pratica la sua abilità di-plomatica, a differenza del nunzio che lo affiancava, Girolamo Aleandro, fermo nella sua assoluta chiusura verso i luterani, da dover obbligare, a suo avviso, soltanto “con virga ferrea” a ritornare nell’ovile. Batté così la strada delle necessarie riforme, del recupero della credibilità magisteriale e pastora-le, per convincere e non combattere armata manu contro gli evangelici.

3 R

(9)

151

Molto significativa fu la sua Agenda della Germania, in cui scrisse un deca-logo di comportamento verso gli eretici (p. 48), ispirato alla mitezza, alla comprensione, al dialogo. Il suo fine fu comunque quello di restituire auto-rità e dignità alla Chiesa, un fine che, come appare dalla convincente analisi di Firpo e Maifreda, non abbandonò mai. Morone viaggiò da Vienna a Pra-ga (per partecipare alla Dieta boema) a Worms, a Passau, a NorimberPra-ga, a Hagenau per raggiungere Ratisbona, sede della Dieta imperiale. Lo spettaco-lo che gli si parò innanzi in Germania fu sconvolgente per la diffusione or-mai raggiunta dal movimento riformatore e la crisi delle istituzioni e della religione cattolica. I suoi resoconti ne danno un quadro vivissimo e molto interessante per comprendere la situazione tedesca del tempo. Altra cosa di cui essere grati a questo libro. Tuttavia la sua indefessa ricerca – molto defa-tigante e solitaria come appare dalle drammatiche lettere inviate a Roma per chiedere istruzioni, denari, requie – di soluzioni praticabili ma decisive (in

primis la tanto auspicata indizione del Concilio) si scontrò contro la sordità

del papa, occupato in ben altre faccende personali e non disposto alle rifor-me, se non a parole. Morone si trovò impedito da oggettive difficoltà, dovu-te anche alla crescendovu-te consapevolezza dei prodovu-testanti della loro identità con-fessionale; di cui però il cardinale sembrò non avere contezza, se non in ter-mini politici. La situazione era ancora fluida, ma lo smacco di Ratisbona, in cui massimo era stato lo sforzo di Melantone di avvicinarsi ai cattolici sulla questione nodale della giustificazione, era ancora e sempre più vivo. Co-munque, la politica dei colloqui voluta da Carlo V non fu abbandonata.

Non posso qui soffermarmi sul lavorio interno al mondo germanico, che rafforzò progressivamente la fiducia di Carlo V nel nunzio e la fedeltà a lui del Morone, ma è opportuno ricordare con gli autori «che il duplice lea-lismo di ascendenza ambrosiana alla Chiesa e allo Stato, ai pontefici e a casa d’Austria, sarebbe stato un nodo fondamentale della sua vita» (p. 64). Dopo il colloquio di Worms, Morone fu pertanto presente alla fondamentale Die-ta di Ratisbona nel 1541. Qui si toccò l’apice del tenDie-tativo di accordo con i protestanti per la salda unione d’intenti e per le posizioni mediatrici sul pia-no dottrinale del riformatore Martin Butzer, del futuro cardinale Johannes Gropper e, come ha mostrato Gigliola Fragnito4, del cardinale Gasparo

4 F

(10)

152

Contarini. Ma il pessimismo realistico di Morone ebbe ragione e insuperato rimase il divario tra le posizioni di Roma e Wittenberg, tanto da portare al fallimento dell’iniziativa.

Come questo libro dimostra ampiamente con una attentissima analisi della documentazione e con una lettura che spazza via molte interpretazioni confessionali e ideologiche, l’atteso Concilio non avrebbe portato i frutti sperati né per la cristianità né per Morone. Anzi. In seguito, nelle sue ultime nunziature, ottenute dopo le vicissitudini dei processi inquisitoriali e dopo che la storia della Chiesa del Cinquecento aveva ormai preso un corso del tutto diverso rispetto a quello auspicato, il cardinale si adeguò ancora una volta per realismo, alla scelta di salvare il salvabile. La “macchia” che infangò il suo nome, impedendogli tra l’altro l’accesso al soglio, non fu tale da intac-care la sua reputazione di diplomatico, neppure a Roma. Nel 1574 venne descritto come «uno tra i principalissimi nel consigliare le cose di Stato» e per questo, benché ormai vecchio e stanco, fu inviato da papa Gregorio XIII alla Dieta di Ratisbona, con un vastissimo e ambizioso progetto, che interes-sava gli equilibri di tutta l’Europa, dalla Spagna a Mosca. I suoi obiettivi fu-rono molteplici: sostenere le aspirazioni asburgiche al tfu-rono del regno polac-co-lituano (il cui carattere elettivo apriva possibilità di controllo); stringere un’alleanza tra i due rami di casa d’Austria divisi dopo l’abdicazione di Carlo V nel 1556, e la Santa Sede in funzione antiottomana, per continuare una battaglia che la vittoria di Lepanto non aveva esaurito; fare applicare i decre-ti tridendecre-tini in vista di un’ampia offensiva di ricattolicizzazione che, avviata dalla Roma della Controriforma, mirava a investire l’Impero e l’Europa orientale, vero e proprio vivaio delle dottrine religiose più radicali, spesso le-gittimate dai sovrani, fino all’Inghilterra di Elisabetta. Sempre abilissimo nel destreggiarsi, oggetto di una stima invariata da parte del sovrano asburgico Massimiliano II, indefessamente impegnato nella riforma della chiesa in Germania (con misure di formazione del clero, di moralizzazione, di vigilan-za ecclesiastica ispirate dall’assise conciliare), nei suoi resoconti e lettere Mo-rone non riferì però mai in merito alle posizioni religiose che dividevano un’Europa ormai pluriconfessionale. Neppure di quelle del sovrano, impe-gnato in un grande progetto universalistico di riconciliazione di tutte le fedi in una chiesa sotto la sua egida, il cosiddetto Kompromisskatholizismus, che è

(11)

153

stato riconosciuto come una piccola tappa nel lungo processo di secolarizza-zione europea5. Morone colse invece con grande acume il dato oggettivo,

che «questa confessione Augustana è una coperta o mantello di tutte le here-sie, che sono in Germania, ancora che siano in se discordantissime» (p. 844) e che tutti se ne facevano scudo, pur mantenendo le loro dottrine. Ai nume-rosi e gravi problemi affrontati nella Dieta di Ratisbona del 1576 – da cui scaturirono nuove proposte di mediazione, come l’accettazione della propo-sta imperiale di consacrare i preti utraquisti in Boemia – si aggiunsero quelli aperti, per anni, dalla successione polacca. Conteso tra Massimiliano e Ste-fano Báthory, dopo la parentesi del sovrano francese, il trono era nevralgico nello scenario dell’Europa orientale e internazionale, e le relazioni con Mo-sca importanti sia in rapporto alla Polonia sia per la riunificazione con la Chiesa ortodossa vagheggiata dal papa. Con la sua «longa isperentia delle co-se del mondo» Morone ottenne allora dei frutti, più o meno vistosi, ma or-mai una nuova realtà si era imposta, che segnava la fine di un’epoca.

Anche questa parabola è descritta con pagine illuminanti dagli autori, che contribuiscono in questo modo a stimolare la riflessione su quel secolo cruciale, ma anche, come detto nell’introduzione, sulle vicende della nostra storia.

BIBLIOGRAFIA

CANTIMORI D. 1992, Eretici italiani del Cinquecento, in ID., Eretici italiani e altri scritti, a cura di A. Prosperi, Torino, Einaudi.

FIRPO M. 2005, Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Giovanni Morone (1509-1580) e il suo processo di eresia, Brescia,

Mor-celliana.

FIRPO M., MARCATTO D. 1998, I processi inquisitoriali di Pietro Carnesec-chi, 1557-1567, Città del Vaticano, Archivio segreto vaticano, 2 voll.

FIRPO M., MARCATTO M. 2011-2015, Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, nuova edizione critica, con la collaborazione di L.

Addante e G. Mongini, Roma, Libreria editrice vaticana, 3 voll.

5 L

(12)

154

FRAGNITO G. 1998, Gasparo Contarini. Un magistrato veneziano al servizio

della cristianità, Firenze, Olschki.

LOUTHAN H. 1997, The Quest of Compromise. Peacemakers in Counter-Reformation Vienna, New York, Cambridge University Press.

REINHARD V. 2017, Lutero l’eretico. La Riforma protestante vista da Roma,

Venezia, Marsilio.

LUCIA FELICI

lucia.felici@unifi.it

Il principale merito di questo ponderoso volume è di avere approfondi-to e riaggiornaapprofondi-to la categoria sapprofondi-torica di Controriforma, assicurandole una nuova vitalità sul piano storiografico. Non più e non soltanto rispetto alle vecchie dispute confessionali che la opponevano in modo monolitico al con-cetto di riforma cattolica, ma a condizione che di quel periodo si fornisca un’immagine mossa e conflittuale, carica di contraddizioni, di lacerazioni e persino di sfide, vinte e mancate, che proprio la straordinaria avventura umana del cardinale Giovanni Morone ha consentito di mettere a fuoco in modo esemplare.

Com’è noto, soltanto la morte di Paolo IV Carafa, nel 1559, liberò il cardinale Morone dalla sua prigionia inquisitoriale. Ciò significava che egli avrebbe potuto partecipare al conclave per eleggere il nuovo vicario di Cristo e questo fu il primo problema affrontato dal Sacro collegio, ossia se a Moro-ne dovesse essere restituito il diritto all’elettorato attivo e passivo. La missione preposta alla decisione votò a favore della restituzione della com-pleta pienezza dei poteri al cardinale con una strettissima maggioranza (tre-dici contro do(tre-dici), ma irrevocabile e immediatamente esecutiva, un risulta-to che mostra quanrisulta-to ancora fosse aperta e delicata la questione. Grazie a questo voto Morone rientrò a pieno titolo nel gioco politico-ecclesiastico, ma in questo passaggio si misurò tutta la sua intelligenza: egli, a differenza di molti dei suoi compagni di strada spirituali e valdesiani del ventennio prece-dente, ebbe piena consapevolezza che una fase storica si era chiusa per

(13)

sem-155

pre e che sarebbe stato un errore esiziale coltivare l’illusione di una sua pos-sibile restaurazione.

Morone per primo si rese conto che l’elezione di Pio IV Medici non avrebbe potuto rappresentare una svolta, bensì l’apertura di un periodo tran-sitorio, una sorta di parentesi che avrebbe consentito l’affermazione di una nuova sensibilità anti-inquisitoriale che però andava difesa con le armi della politica, ossia la prudenza e la dissimulazione. Indice di questo clima rinno-vato è che tra i capitoli sottoscritti dal Sacro Collegio figurava anche l’impe-gno a non processarne alcun membro, salvo in caso di lesa maestà, scisma ed eresia, da sottoporre a un’apposita commissione cardinalizia che, dunque, emarginava il potere decisionale e il ruolo del Sant’Uffizio in un ambito tan-to delicatan-to. Ciò nonostante Morone visse il restan-to della sua vita sottan-to la mi-naccia incombente di una nuova azione dell’Inquisizione romana contro di lui, un dato che condizionò la sua strategia politica e la sua concreta azione. Anzitutto lo indusse a trovare protezione nel nuovo papa Pio IV Medici, di cui divenne, volente o nolente, uomo di fiducia e consigliere, una scelta ob-bligata per reggere l’eventuale onda d’urto di una nuova inchiesta giudiziaria nei suoi riguardi. Del resto, Pio IV Medici, a tutela del suo protetto, sottras-se la causa che lo riguardava ai cardinali dell’Inquisizione, i quali, nonostan-te ciò, non smisero mai di continuare a raccogliere prove contro di lui. Da quel momento in poi tra il Sant’Uffizio e il papa, spalleggiato da Morone, iniziò una lunga guerra di posizione che indusse Pio IV Medici a riprendere l’iniziativa conciliare con l’obiettivo di contenere i poteri del Sacro Tribuna-le. Sullo sfondo di tali tensioni trovarono spazio tre cocenti umiliazioni che il nuovo papa volle infliggere al capo della fazione inquisitoriale, il cardinale domenicano Michele Ghislieri. Anzitutto scelse proprio lui per firmare l’assoluzione del suo acerrimo avversario Morone, costringendolo a fare buon viso a cattivo gioco; poi lo nominò vescovo di Mondovì, con la vana speranza di riuscire ad allontanarlo, almeno per un po’, dai maneggi curiali. Infine, confermò Morone come protettore dei domenicani e lo nominò ese-cutore testamentario del cardinale Reginald Pole, ossia possessore e ammini-stratore delle sue delicate carte.

Il libro di Massimo Firpo e Germano Maifreda ha l’indubbia qualità di prendere di petto un nodo assai delicato, ossia quello dell’uso politico della

(14)

156

giustizia inquisitoriale a fini di lotta per il potere. Sotto questo profilo è un volume pedagogico perché, in tempi di anti-politica imperante come questi che stiamo vivendo da ormai troppi anni, è tutto dedicato alla forza, ma si dica pure all’energia e al dinamismo che la politica può contenere dentro di sé. Altro merito del libro, certo non secondario perché appare come indica-zione di metodo, è quello di inserire la figura di Morone in un quadro geo-politico di respiro europeo, dove l’azione sul terreno religioso ed ecclesiasti-co dovrebbe sempre venire ecclesiasti-collocata per essere ecclesiasti-compresa nelle sue multifor-mi indicazioni e valenze.

Dentro questo contesto, la divisione dei domini asburgici in spagnoli e imperiali indusse il nuovo papa ad allentare i rapporti con il re di Spagna Fi-lippo II per valorizzare quelli con l’imperatore. Morone fu il principale in-terprete di questo nuovo corso della politica pontificia, dopo i durissimi scontri tra Paolo IV Carafa e gli Asburgo, che nel medio periodo avrebbe ac-compagnato la sconfitta del «Partito imperiale» in Italia a causa del progres-sivo ma inarrestabile passaggio da un’egemonia imperiale a una spagnola sul-la Penisosul-la, come recentemente mostrato da Elena Bonora. Un processo che implicò un’intesa politica sempre più solida tra Filippo II e la fazione inqui-sitoriale della Curia romana. La stipula del trattato di Cateau Cambrésis nel 1559 innescò di nuovo la miccia del Concilio, per consolidare la pace rag-giunta tra i principi cristiani anche sul terreno religioso ed ecclesiastico, oltre che su quello politico-diplomatico. La lotta per la riforma della Chiesa, per-tanto, va collocata dentro un disegno di respiro europeo che alternava la guerra alla pace. Sul piano politico, infatti, erano venute meno le ragioni che avevano indotto l’imperatore Carlo V ad appoggiare gli spirituali e i valde-siani, dal momento che egli aveva l’esigenza di governare le lacerazioni con-fessionali del mondo tedesco, convinto come era che la certificazione della divisione tra protestanti e cattolici – non a caso egli impiegò esattamente trent’anni prima di portare guerra aperta agli eretici in Germania – avrebbe portato alla fine dell’universalismo imperiale e alla divisione dei suoi domi-ni, come inevitabilmente avvenne. D’altra parte l’intransigentismo dottrina-rio si impadronì di Filippo II, a quel punto impegnato a rafforzare la dimen-sione regalista e nazionale del cattolicesimo iberico come instrumentum

(15)

157

L’idea che serpeggiava tra gli abiti talari delle gerarchie ecclesiastiche romane era che il Concilio fosse un’arma utilizzata dai principi laici per ri-durre il potere pontificio nei propri Stati. Morone, interprete ma anche promotore del nuovo corso della politica papale, combatté questo luogo comune e si impegnò affinché l’assemblea tridentina si concludesse in ac-cordo con l’imperatore e non contro di lui, anche pagando il prezzo di un allentamento sempre più polemico con il re di Spagna, il quale, nel frattem-po, rafforzò i suoi rapporti con la fazione inquisitoriale di Roma. Il nuovo clima politico sorto in Europa condizionò le direttrici generali del Concilio: anzitutto si verificò il pressoché completo ridimensionamento dei problemi e delle dispute teologiche, dal momento che la frattura con i protestanti era nel frattempo divenuta definitiva con il tramonto di ogni speranza di ricon-ciliazione. Di conseguenza, presero piede i dibattiti a favore della riforma della Chiesa e quelli di natura ecclesiologica e pastorale, concernenti que-stioni di tipo disciplinare, ad esempio consentire il matrimonio ai preti, o di tipo liturgico, come la concessione del calice ai laici. In secondo luogo, si as-sistette a un inedito protagonismo dell’episcopato francese guidato dal car-dinale Carlo di Lorena che aumentò la propria funzione di interdizione con il papa grazie alla progressiva rarefazione dei rapporti tra i cardinali spagnoli e quelli imperiali.

Altro merito del libro – il cui titolo L’eretico che salvò la Chiesa. Il

car-dinale Giovanni Morone e le origini della Controriforma, sia detto en passant,

pare un titolo infelice che tradisce il nucleo storiografico dell’opera – è di avere sciolto l’ideologia della riforma cattolica nell’analisi di una pluralità di prospettive riformatrici, che Morone riuscì a governare come se ne fosse l’occulto regista. L’annosa questione della riforma della Chiesa riguardava due aspetti che gli autori affrontano sempre in modo coordinato: da un lato, di teologia politica, rispetto alla difesa e al sostegno della sovranità del papa, ma anche dell’autorità pontificale dell’ordinario diocesano. Un secondo pia-no, però, concerneva l’economia, la fiscalità e gli interessi materiali, ossia i criteri di assegnazione e la pluralità dei benefici, le pensioni, le tassazione cu-riale, la definizione delle esenzioni, vale a dire il cuore dell’effettivo potere papale.

(16)

158

La prima tendenza riformatrice riguardò, non a caso, lo «ius divinum» della residenza dei vescovi nelle diocesi. Morone si scontrò con l’antico so-dale Ludovico Beccadelli nella difesa di una prospettiva curialista proposta anche dai gesuiti, in particolare Diego Laínez, per il quale la giurisdizione dei vescovi non derivava dal loro ufficio, ma era una concessione del papato. Per i riformatori, invece, quella sarebbe stata, con ragione, la principale e più radicale riforma della Chiesa da realizzare perché, se la residenza dei vescovi presso le diocesi fosse stata affidata esclusivamente al diritto divino, l’auto-nomia dell’episcopato, sottratta al centralismo curiale, sarebbe stata incardi-nata anche sul piano dottrinario. In questa partita, Morone si trovò schiera-to contro gli amici spirituali di un tempo, interprete della novità di un pro-cesso storico che faceva coincidere la riforma della Chiesa con la definitiva sconfitta del conciliarismo e una riduzione dell’autonomia dei vescovi, a so-stegno di un rafforzamento del centralismo dell’autorità papale. Morone si comportò in questo modo per una serie di ragioni finemente esaminate dagli autori: da un lato, per non lasciare agli inquisitori il monopolio della difesa del centralismo romano e, dall’altro, per non ridurre il Concilio soltanto a un’assemblea che fosse un megafono delle proteste dell’episcopato. Ma an-che, e forse soprattutto, per rimanere l’uomo di fiducia del papa, condizione necessaria per servirsene come uno scudo rispetto all’azione della fazione in-quisitoriale, costretta a masticare amaro davanti al suo crescente protagoni-smo romano. Anche Morone riteneva che la curia andasse riformata, ma ciò non poteva implicare che il papa dovesse subire l’imposizione del Concilio, per cui era necessario evitare la formula «in capite et in membris» che, inve-ce, avrebbe resa manifesta questa intenzione degli episcopalisti.

In seno al Concilio agì una seconda tendenza riformatrice, quella galli-cana, portata avanti dai vescovi francesi, che Morone riuscì a svuotare dall’interno grazie al prestigioso ruolo di legato assunto per otto mesi dal marzo 1563 in poi. Il cardinal di Lorena, il più autorevole rappresentante dell’anti-curialismo transalpino, provò a costruire un’alleanza anti-romana con l’impero e la Spagna e perciò si recò prontamente a Innsbruck per in-contrare l’imperatore, ma dovette ben presto ridurre le proprie ambizioni. Il principale merito politico e diplomatico di Morone fu di insinuarsi tra le contraddizioni dei diversi fronti per impedire che si coalizzassero contro il

(17)

159

pontefice. In questo modo Morone divenne per davvero il salvatore del Concilio, grazie a un insieme di qualità umane e politiche, un impasto di realismo, flessibilità, rapporti personali, lucidità, astuzia e prontezza nell’indivi-duare gli spazi percorribili tra due alternative sempre possibili, os-sia non astratte, di principio o ideologiche. Il cammino era stretto perché bi-sognava realizzare per davvero delle riforme in campo liturgico e disciplina-re, senza però intaccare l’autorità papale, che per Morone rimase il faro della guida della sua iniziativa politica e diplomatica, un faro che con la sua luce lo avrebbe protetto dall’incombente e ricattatrice minaccia della fazione in-quisitoriale.

Certo, come mettono bene in luce Firpo e Maifreda, egli fu aiutato an-che dall’evoluzione del campo politico europeo. In primo luogo, si affrettò a recarsi a Innsbruck per incontrare anche lui Massimiliano d’Asburgo così da portarlo dalla parte del papa, offrendo in cambio la conferma della sua ele-zione, sebbene in passato fosse stato sospettato di eresia. Morone era perfet-tamente consapevole che ciò avrebbe rinsaldato l’asse tra la Spagna e il Sant’Uffizio intorno all’ideologia inquisitoriale, ma egli preferì cogliere quel punto strategico nella convinzione che quella fosse l’ultima carta da giocare prima di evitare la dissoluzione dell’assemblea conciliare. Una volta sistemati i rapporti con l’imperatore, Morone poté dedicarsi anima e corpo al cardinal di Lorena, con cui stipulò un accordo tattico favorito anche da circostanze casuali che però seppe sfruttare al meglio. In primo luogo, nel febbraio 1563, gli ugonotti uccisero Francesco di Guisa, il fratello del porporato francese. Il nuovo capofamiglia, lontano dalla Francia e sottoposto a questo rovescio della fortuna, dovette decidere se allearsi con Filippo II o con il pa-pa e scelse quest’ultimo e, dunque, il suo legato Morone, nei riguardi del quale mutò atteggiamento.

Da capo dell’opposizione conciliare, il cardinale Lorena divenne il fau-tore di un accordo con Roma per giungere a una rapida conclusione dell’assise tridentina. Di conseguenza, cominciò a muoversi in autonomia rispetto alla reggente Caterina de’ Medici che mirava a un accordo, se non almeno a una tregua, con gli ugonotti. Il legato Morone seppe inserirsi abilmente nelle debolezze e nelle divisioni del fronte francese, approfittando della duplicità della politica conciliare transalpina. Tra le due personalità si

(18)

160

instaurò un clima di fiducia favorito dalla convergenza di interessi anche personali: il cardinale italiano ventilò l’ipotesi che Lorena potesse divenire legato in Francia e così capo della Chiesa transalpina, ma riuscì anche a per-suaderlo della necessità di trovare un punto di incontro tra la sensibilità gal-licana e lo spirito tridentino, superando un’opposizione di principio che, impantanando il Concilio, avrebbe favorito la Spagna e, quindi, il partito inquisitoriale a Roma.

Il capolavoro diplomatico di Morone, il cosiddetto «compromesso tri-dentino» scaturì dal seguire l’aureo principio del festina lente. Dentro quest’accordo, che avrebbe informato di sé il cattolicesimo dell’Antico regi-me, non trovarono posto la radicale riforma del clero richiesta dalla Francia, dall’imperatore e dalla Spagna, la liceità del matrimonio dei preti e del calice ai laici in terra tedesca, così come evaporarono le rivendicazioni conciliariste dell’episcopato gallicano. Ma, soprattutto, il sistema curiale formatosi nel tardo Medioevo rimase pressoché intatto e, anzi, si rafforzò grazie al defini-tivo innesto dell’autorità inquisitoriale sul tronco della sovranità pontificia. Morone riuscì nell’impresa di persuadere i principi secolari che il papa avrebbe fatto le riforme, ma si limitò a impegni verbali o a titolo personale che in seguito la curia romana avrebbe onorato solo parzialmente o disatte-so. Ottenne, però, che la validità dei decreti tridentini fosse subordinata all’approvazione pontificia, il che «era materia controversa», secondo Moro-ne, suggellando così nel modo migliore la sua azione politico-diplomatica.

Nel complesso, e questo è il giudizio dei due autori, il Concilio rappre-sentò un’occasione riformatrice perduta rispetto alle effettive possibilità che, all’inizio degli anni Sessanta del Cinquecento, avrebbero potuto essere effet-tivamente percorse, giacché prevalse la tutela dell’ortodossia dei fedeli rispet-to alle esigenza di riforma della Chiesa. L’azione di Morone e il «compro-messo tridentino» che ne scaturì furono pesantemente condizionati dalla presenza del partito inquisitoriale che continuò ad agire come corpo separa-to con margini di ausepara-tonomia e di segretezza rispetsepara-to al papa, tenendo sotsepara-to sorveglianza il cardinale milanese anche quando questi era al culmine del suo prestigio.

Dopo la morte nel 1565 del suo principale protettore Pio IV Medici, Morone si vide sfuggire la tiara per soli cinque voti, ma la vittoria del suo

(19)

161

acerrimo nemico Ghislieri, il quale assunse il nome di Pio V, costituì l’evento più drammatico di questo decisivo tornante. Il nuovo pontefice domenicano restaurò, non soltanto sul piano burocratico e organizzativo, ma anche su quello canonistico e dottrinario, l’autorità inquisitoriale. Tra il 1569 e il 1570 il progetto di Pio V Ghislieri di rimprigionare Morone sem-brò a un passo dal realizzarsi ma, nonostante le prove accumulate nel corso di vent’anni e l’intima certezza dell’eterodossia del cardinale milanese, anche il papa-inquisitore dovette fermarsi. Non dunque arrestare Morone, ma ar-restarsi davanti a lui, perché procedere in tal senso avrebbe implicato smen-tire la sua firma all’assoluzione di sei anni prima, ammettere che i pontefici degli ultimi venticinque anni erano stati eletti con la partecipazione di un cardinale eretico, sancire che il Concilio di Trento fosse stato chiuso da un eterodosso.

Ancora una volta, secondo gli autori del libro, le ragioni della storia si incaricarono di smentire quelle della teologia. Un nuovo arresto di Morone avrebbe significato rendere esplicite le contraddizioni e i conflitti che aveva-no lacerato i vertici della Chiesa e farlo sarebbe stato un atto di irresponsabi-lità davanti al tribunale della storia, cui Massimo Firpo ha dedicato la sua feconda vita di studioso. Questa conclusione del volume, all’insegna del ri-conoscimento del valore della laicità della politica, è forse il più importante insegnamento di un maestro degli studi storici come lui che ci sentiamo di ringraziare anche per questa ragione.

MIGUEL GOTOR

miguel.gotor@unito.it

Nell’introduzione di questo corposo volume, i due autori lo definino un saggio dal sapore vagamente ottocentesco «torrenziale, onnivoro, sco-raggiante». I primi due aggettivi mi trovano pienamente d’accordo; dissento dal terzo: questo libro non ha nulla di scoraggiante, anche se la mole

(20)

162

vamente potrebbe spaventare. Ma tornerò nel finale di questo mio breve contributo su questa definizione.

Per il momento prendiamo in considerazione la questione cardine e

leitmotiv un po’ di tutto il volume, e cioè il rapporto tra Giovanni Morone,

vescovo, poi cardinale di Santa Madre Chiesa, legato pontificio, diplomatico di altissimo livello e presidente del Concilio di Trento, e l’eresia, accusa per la quale venne imprigionato in Castel Sant’Angelo e processato dalla Con-gregazione della Santa Romana Inquisizione tra il 1557 e il 1559. Assolto dalle accuse e liberato soltanto alla morte di papa Paolo IV, fu poi inviato dal successore a dirigere le ultime sessioni del Concilio di Trento.

Lo sfondo di questa storia vede il cardinale impegnato, per tutta la vita, sul duplice fronte del suo sentirsi principe della Chiesa, suo rappresentante nelle legazioni e nelle nunziature, nonché raffinato prelato a capo di impor-tantissime diocesi italiane. Per contro, Morone, come cardinale filo imperia-le e per la sua nascita milanese, fu anche un suddito devoto dell’imperatore Carlo V, mantenendo sempre questa visione bifronte della sua azione di-plomatica, pastorale, e politica. Paolo III già nel 1536 scriveva al Morone di porre attenzione alle conventicole nobiliari dove si professavano «multae haereses ab Ecclesia damnatae». D’altra parte sarà con ogni probabilità lo stesso Paolo III a spingere la carriera del Morone per compensare l’irresisti-bile ascesa del Sant’Officio romano. Ma Morone, all’interno della gerarchia ecclesiastica, sarà tenacemente, e sino all’avvento di Filippo II, il punto di riferimento di quel gruppo che si indirizzava verso più coraggiosi orizzonti che cercarono di coniugare le istanze di riforma della Chiesa, con i tentativi e la volontà di conciliazione con i protestanti, e di fatto ingrossavano le fila del partito imperiale e asburgico.

La prima esperienza di un giovane Morone in terra germanica gli servi-rà proprio per affinare queste sue capacità e caratteristiche caratteriali, che possiamo definire diplomatiche, che non derivavano certo da fantomatiche simpatie luterane, ma piuttosto da un pragmatismo politico che, come di-cono gli autori, gli faceva considerare che a nulla serviva: «sbraitare contro i protestanti, minacciando eserciti che non c’erano. Meglio era smussare gli animi […] dimostrarsi comprensivi, disposti a perdonare». Soprattutto, prima di condannare, cercare di comprendere. Scriveva il Morone nel 1536:

(21)

163

«Occorre agire con mitezza nei confronti degli eretici, che debbono essere invitati benevolmente a riprendere le consuetudini del passato. Occorre evi-tare i litigi e le ingiunzioni che esasperano gli animi». Questo suo approccio politico-diplomatico aveva dunque una componente irenica che si sviluppe-rà in maniera evidente nelle scelte di fede degli anni successivi. Un irenismo politico che gli consentiva già a Modena di percepire che nessuna unità di intenti era possibile nella Chiesa senza un qualche accordo dottrinale sui fondamenti della fede cristiana. Nel caso di Modena il confronto necessario era con l’«Accademia de’ Luterani»: agire con «desterità e mansuetudine» cercando di risolvere i problemi senza conflitti laceranti, senza arresti né condanne, con le armi della persuasione e del dialogo.

È bene sottolineare che queste vicende sono seguite nel volume con un’attenzione microscopica, quasi giornaliera, restituendo alla vicenda tutta la complessità del momento, attraverso l’analisi minuziosa delle strategie po-litiche che sottendevano alle scelte dottrinali. Ai filologi, agli studiosi che erano passati dall’analisi dei testi dell’antichità a quella della Bibbia, e che infoltivano le fila dell’Accademia, si propose di sottoscrivere un testo, una sorta di formulario di fede limitato ai punti essenziali della dottrina cattoli-ca. Il botta e risposta che ne seguirà con gli Accademici, che in risposta gli presentarono infine il catechismo del Valdés, è vicenda complessa, variegata e dà il senso profondo della fase storica in atto. In questo contesto il Morone è preso come tra due fuochi: da un lato egli era consapevole della pochezza e della fragilità delle sue posizioni riguardo un gruppo che esigeva proposte teologiche alte e di spessore; d’altra parte verificava con mano la radicalizza-zione di certe posizioni dei vertici della Chiesa. E in quel contesto, nel 1542, si ebbe infatti l’istituzione della Congregazione della Santa Romana Inquisi-zione, contemporanea alla Bolla di convocazione del Concilio, mentre, pro-prio in quell’anno, Paolo III creò Morone cardinale.

Sarà il momento decisivo delle scelte di fede del Morone che, incline alle soluzioni di sintesi, maturò un indirizzo intellettuale più armonicamente vicino al cardinale Reginald Pole, a Marcantonio Flaminio, agli spirituali italiani e infine al gruppo viterbese di ascendenza valdesiana e sempre più attiguo al partito filo imperiale. Ma già nel 1546 Giampietro Carafa aveva accusato Morone di «darsi in servitù» di Carlo V, quel sangue misto di ebrei

(22)

164

battezzati da otto giorni, rinnegato, marrano, figlio del diavolo e dell’ini-quità, traditore, barbaro, «dicendo che [il Morone] si doveva ricordare dell’habito che haveva indosso».

Certo, in quel frangente, bisogna mettere in rilievo due aspetti dell’at-teggiamento religioso nei differenti ambiti. Tutti invocavano, e certo non da quel periodo, ma da tempo, la riforma della Chiesa: la invoca la compagine plurima e spesso piuttosto bellicosa e polemica anche al proprio interno de-gli spirituali o valdesiani, e la invocano le gerarchie ecclesiastiche più vicine o incarnanti l’Inquisizione romana. Ma se per i primi, pur con le dovute dif-ferenze, si auspicava un reale rinnovamento alla luce del Vangelo, della dot-trina e dell’istituzione Chiesa, per i secondi la riforma della Chiesa corri-sponde, coincide quasi, con la lotta all’eresia. La messa a fuoco della vittoria del partito inquisitoriale, la “presa di potere” dell’Inquisizione romana, il suo dispiegarsi tentacolare sulla Penisola e gli Stati italiani, sono tra gli ele-menti che permettono agli autori di abbandonare definitivamente una cate-goria storiografica come quella della Riforma cattolica, da contrapporre con-cettualmente a quella protestante. La categoria storiografia della Controforma resiste invece all’analisi serrata degli autori, anche se con riletture, ri-pensamenti, reinterpretazioni. Questo mi sembra il punto nodale, il salto storiografico di questo volume che non vuole essere una sintesi, ma una summa di un lavoro di ricerca di quasi mezzo secolo.

Il secondo elemento che appare evidente, nel novero degli atteggiamen-ti naatteggiamen-ti in quei complessi e drammaatteggiamen-tici avvenimenatteggiamen-ti della metà del secolo, è l’attitudine nicodemita di quella compagine religiosa, alla quale ormai Mo-rone apparteneva. Anche in questo caso gli autori distinguono l’atteggia-mento, piuttosto tardo, degli eterodossi che, soprattutto dopo aver sofferto di una personale, violenta repressione, o abbandonano l’impegno attivo, op-pure sostengono che conoscono la verità di fede, ma la nascondono. Nel ca-so di spirituali e valdesiani, lungi dal connotarsi come pratica opportunistica o prudenziale, essa scaturisce dalle radici stesse dell’“alumbradismo” del Valdés, e dalla sua distinzione tra opinioni e obbedienza, tra fede e pratica religiosa, tra dottrina cristiana e istituzione ecclesiastica. E questo fa com-prendere ancor più i diversi approdi della galassia spiritual-valdesiana: chi rientra nel grembo di Santa Madre Chiesa, chi (come Ochino o Caracciolo)

(23)

165

fugge e ripara a Ginevra, chi si isola, come il Galeota, chi viene processato, come il Morone e il Pole, e chi viene arrestato, più volte condannato e infine ucciso, come l’Alois o il Carnesecchi. Certo, ci saranno sempre coloro che condanneranno questo atteggiamento (prendendo la via dell’esilio Bernardi-no OchiBernardi-no scriveva a Vittoria Colonna : «Che farei più in Italia? Predicar sospetti e predicar Cristo mascarato in gergo?»), ma è proprio questo atteg-giamento, assieme alla originale e personale caratteristica irenica del suo pensiero, che fa avvicinare Morone al variegato gruppo, al partito, alla galas-sia che dir si voglia degli spirituali italiani.

Napoli, Roma, Viterbo, Trento: da queste capitali dello spiritualismo italiano, Morone vive l’esperienza della “conversione” che non si arresta, come sottolineano gli autori, alla «confabulazione spirituale». Ed è qui che può esser toccata con mano quella che nel libro viene definita la «tortuosa complessità», o se si vuole l’“ambiguità” della fede degli spirituali. Se Moro-ne era assolutamente cosciente dell’importanza e delle conseguenze dell’aver accettato il principio della giustificazione per fede, d’altra parte lui stesso, come scriveva in una lettera al Cervini, era preoccupato per l’espansione del movimento riformato nella Penisola, tanto da prevedere che «l’Italia fra po-co tempo seguirà la Germania». Morone ha chiari i po-confini tra luteranesimo e valdesianesimo, ma si ha la sensazione che egli non abbia altrettanto chiara la distanza tra la sua persona, i suoi sodali e il contemporaneo magistero ro-mano.

Non è qui il caso di definire in che cosa sia consistita la sua, la loro ere-sia. Gli studi di Firpo, e in particolare Tra alumbrados e «spirituali». Studi su

Juan de Valdés e il valdesianesimo nella crisi religiosa del ‘500 italiano

(Firen-ze, Olschki, 1990), hanno chiarito che si tratta di un contenuto ereticale, in

primis la giustificazione per fede, racchiuso all’interno di una cornice

orto-dossa: la non volontà di abbandonare la Chiesa di Roma. Uno spartiacque in queste vicende fu il conclave del ’49 e gli addebiti mossi dal cardinal Ca-rafa al candidato al soglio pontificio Reginald Pole sospetto di eresia, «tra-sformando in accuse formali, dei pettegolezzi». Quel momento, da un punto di vista storiografico, sarà sempre una spina nel fianco della storiografia ab-barbicata al concetto di Riforma cattolica. Hubert Jedin dichiarò «oppri-mente» il pensiero che un cardinale della statura del Pole fosse stato accusato

(24)

166

di eresia. In realtà lo storico tedesco, come fanno notare gli autori, aveva il sentore che tali avvenimenti potevano svuotare il concetto stesso di Riforma cattolica «rivelandone le macroscopiche aporie e contraddizioni».

Nell’articolato panorama storico offerto da questo libro appare eviden-te e ormai conclamato quello che saranno poi l’ideologia, gli ineviden-tenti più pro-fondi, e la conseguente azione politica, che caratterizzarono il papato di Pao-lo IV. L’emergere e l’affermarsi ormai di una nuova concezione del papato e della Chiesa, fondata sul primato dell’ortodossia, sui comportamenti morali che avrebbero dovuto scaturire dalla religione così orientata, e da una nuova idea e una nuova consapevolezza della dignità ecclesiastica e papale. Quella identità religiosa si coagulava attorno alla riforma della Chiesa intesa come primato, nella difesa a oltranza dell’ortodossia e nella sua missione apostoli-ca. In questa visione il Pole e il Morone, una sola persona per il papa, erano accomunati dagli strali del pontefice, che nel maggio del 1557 arrestò, come detto, e fece chiudere in Castel Sant’Angelo il Morone. In quel frangente politica e religione si fusero completamente, anche se «era la seconda a det-tare le sue leggi alla prima».

Naturalmente in questa sede non è possibile accennare sia pur sinteti-camente a tutte le fasi processuali, ma è interessante notare che, alla morte del papa Paolo IV, una volta definita e pubblicata la sentenza assolutoria, per via di giustizia e non di grazia, agli inizi del 1560, Morone mantenne tuttavia un profilo basso, e non si accomunò con coloro che, morto il papa simbolo dell’Inquisizione, si rallegravano e credevano in un nuovo corso de-gli avvenimenti, una svolta che impartisse un non plus ultra al potere inquisi-toriale. Così il Carnesecchi non comprese, come tanti altri, la freddezza con la quale il Morone riprendeva i rapporti con il gruppo degli spirituali. E lo stesso Galeazzo Florimonte, all’indomani della scarcerazione del Morone, si lamentava di non aver ricevuto notizie del «nostro commun padrone» in una lettera a Ludovico Beccadelli.

Ma Morone aveva invece compreso benissimo che quella del papato del Carafa non era stata una parentesi storica. L’Inquisizione dirigeva la Chiesa nonostante i tentativi di Pio IV di attenuarne il potere. Si aggiungeva in più la questione del partito filoasburgico, filoimperiale, che si andava sgretolando, con le successive prese di posizione antiereticali sempre più

(25)

167

veementi dello stesso Filippo II. Certo, più di un’autorità statale europea era intervenuta a favore della scarcerazione del Morone, ma questi, una volta li-bero, si rese conto che la fase transitoria era proprio quella di Pio IV, che la battaglia contro il partito inquisitoriale era persa, e che le illusioni degli spi-rituali, già sconfitti negli anni Quaranta non sarebbero risorte.

In effetti, se si analizzano gli atti processuali prodotti dai tribunali di fede italiani di quegli anni, un dato salta agli occhi. È proprio a partire dagli anni Sessanta del Cinquecento che il meccanismo inquisitoriale è applicato su tutta la Penisola e su quelle aree geografiche soggette all’Inquisizione ro-mana senza ritardi o tentennamenti. Comprensibile dunque la ritrosia del Morone nel rispondere alle aspettative del mondo degli spirituali ormai in declino. E l’ideologia di fondo che viene a concretizzarsi in quel decennio sarà ben espressa da quel Paolo IV redivivo, dal sommo inquisitore Michele Ghislieri, per il quale semel haereticus semper haereticus, in difesa dell’operato del Santo Uffizio, «che mi è a cuore come il proprio cuore». L’Inquisizione s’impose, in quegli anni, come il più importante ed efficace strumento del centralismo romano, ribadendo lo strapotere della monarchia cattolica in tutta la Penisola.

Le prove sull’eresia del Morone non cessarono di essere accumulate per tutto quel periodo, prove per certi versi schiaccianti, testimonianze di gravi deviazioni dottrinali, che però alla fine non furono sufficienti a Pio V per la riapertura del processo. La risposta che gli autori forniscono è quella di non rimarcare e sottolineare le differenze tra i comportamenti dei papi che ave-vano preceduto il Ghislieri, e preferire di presentare un’immagine del papato quale indefettibile guida della Chiesa di Roma e supremo tutore delle verità di fede. Le ragioni della storia, cito, smentivano quelle della teologia. Prove e testimonianze sull’eresia del gruppo degli spirituali-valdesiani vennero tut-tavia raccolte anche dopo la morte di Pio V e furono oggetto di attenzioni per «molti gravi indicii, heresia, heretici perditissimi».

Morone era impegnato nel 1563 a presiedere le ultime fasi del Conci-lio, ma il vero volto della Controriforma non può essere affidato in sintesi a quella assise conciliare. Per gli autori il Concilio di Trento fu storiografica-mente mitizzato e nel volume sono fortestoriografica-mente criticate le posizioni del grande storico Hubert Jedin in merito. Il vero volto della Controriforma fu

(26)

168

l’Inquisizione romana, per la quale la riforma della Chiesa doveva combacia-re con la lotta all’ecombacia-resia. Sotto questo aspetto il simbolo di quell’epoca non fu la cerimonia di chiusura del Concilio, ma la scena che vede gli alti digni-tari ecclesiastici in fila per incontrare de visu il cadavere bruciacchiato e de-capitato del protonotario fiorentino Pietro Carnesecchi, sentenziato nel 1567.

Come si può notare, con questo volume ci si trova di fronte a una vera e propria rivoluzione interpretativa, e a un evidente salto qualitativo storio-grafico sul senso e sul significato dell’età della Controriforma. Il volume che gli autori denotano con gli aggettivi di «torrenziale, onnivoro, scoraggiante», ne merita almeno altri tre: bello, problematico, e necessario, soprattutto ne-cessario6.

PIERROBERTO SCARAMELLA

pierroberto.scaramella@uniba.it

6 Una prima versione di questo testo è stata pubblicata su L’Indice dei libri del mese, n. 1, gennaio 2020, pp. 34-35.

Riferimenti

Documenti correlati

Moreover, to assess if the antitubercular activity was indeed related to iron uptake inhibition, the effects of the compound on siderophore production were evaluated by means of

In this paper, we perform a preliminary exploration to quantitatively capture maintenance dy- namics in geographic crowd-sourced datasets, in terms of: the ex- tent to which

The key observa- tions of our shear wave velocity model are: (1) Velocities in the uppermost mantle are everywhere slower than the global average for continents using ak135,

Anche per quanto riguarda le maggiori entrate per le band emergenti la risposta è stata omogenea. Sia in Italia, in Europa, negli Stati Uniti/Canada e in Australia,

Presiede Susanna Peyronel Rambaldi Pietro Adamo, Valdesianesimo e scetticismo: l'apologia della controversia in Ochino e Aconcio Miguel Gotor, La morte di Bernardino Ochino,

In the subsequent four months of the trial, the sunshine bass in HSB-1 and HSB-2 reached similar and satisfacto- ry final mean weight (Table 3) whereas morphometric

Si ritiene che la giustizia sia la virtù più eccellente, e non sono ammirate tanto quanto lei la stella della sera o la stella del mat- tino (καὶ διὰ τοῦτο

shown in Fig 6A-B, terc-sRNA transfected HeLaS3 cells displayed higher telomerase activity as compared to ctl-siRNA transfected cells, mimicking the effect of