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Aporie dell'etica della comunicazione

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Academic year: 2021

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(1)

ASCOLTO

dell’

THEO BLECKMANN

TIZIANA PROIETTI

GIOVANNI SCARAFILE

GIANPAOLO CHIRIACò

ALBERTO A. VINUDO

JULIANA DE ALBUqUERqUE KATZ

PATRIZIO MISSERE

ADRIANO FABRIS

MARINA ALEMANNO

RICCARDO SCORZA

ALBERTA GIANI

PAOLA COPPI

VIRGINIO PAVARANA

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1

3

Editoriale

Giovanni Scarafile

8

Una carezza lieve.Note per un’etica dell’ascolto Alberta Giani

14

L’ascolto: vera pratica comunicativa Patrizio Missere

20

«Shema‘ Jisrael… Ascolta, Israele…» Gianpaolo Chiriacò

24

Homeless.L’ascolto non innocente

29

5SW con Theo Bleckmann

Paola Coppi

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Un invito all’ascolto.Dialogo con Virginio Pavarana Riccardo Scorza

34

La musica e l’ascolto oltre il suono

Adriano Fabris

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Aporie dell’etica della comunicazione

Marina Alemanno

50

In ascolto della verità (nella finzione). Un’idea stanislavskijana della recitazione

Tiziana Proietti

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Concinnitas

Paola Coppi

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Évora. Una città da ascoltare. In silenzio Juliana de Albuquerque Katz

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The Silent Dwelling of the Event of Love

Alberto A. Vinudo

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Deserto

YOD Magazine è una iniziativa editoriale, diretta da Giovanni Scarafile, dedicata ai temi della comunicazione in una prospettiva interdisciplinare. Il sito di YOD Magazine è: www.yodmagazine.it

Per citare gli articoli di questo numero: Nome e Cognome dell’Autore, Titolo dell’articolo in G. Scarafile (a cura), YOD Magazine. Dell’Ascolto, Lulu Enterprises Inc, Raleigh N.C. 2012, pp.

Progetto grafico e impaginazione Roberta Pizzi | www.robertapizzi.com Contatti:

Direzione Scientifica YOD Magazine Via De Virgilis, 56

72022 Latiano (BR) Giovanni Scarafile direttore@yodmagazine.it YOD Magazine n. 2, Anno 2012 ISBN della versione in bianco e nero 978-1-291-25351-1

prezzo della versione in bianco e nero: € 12,00 prezzo della versione a colori: € 18,00

L’immagine di copertina è:

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editoriale

(4)

3

N

el corso degli anni, ogni scelta del tema di YM (dalle forme di espressione ibride alla bellezza, dal tema del confine alla festa) ha dato luogo ad ap-profondimenti per molti versi inediti. È un risul-tato non sconrisul-tato, del quale sono particolarmente orgoglioso. Di esso va dato atto ai numerosi Autori che ci hanno accompagnato in questa esperienza di ricerca, difficile, ma anche esaltante. Effet-tivamente, YM è un’esperienza del pensare, nata da un desiderio incontenibile.

Pensiamo incontenibilmente che non si possa rassegnarsi all’indifferenza o allo scetticismo, che pure vediamo diffondersi; crediamo incontenibilmente sia nostro dovere, di cittadini, di stu-diosi, di sollecitare un confronto pacato su temi che il senso co-mune considera poco consueti; speriamo incontenibilmente che altri possano essere toccati da sentimenti simili per dare luogo, sempre più, ad occasioni per pensare.

Oggi questo percorso di ricerca registra una nuova tappa, il numero dedicato al tema dell’ascolto che avete fra le mani.

Perché dedicare un numero di YM al tema dell’ascolto? Che cosa ha da dirci un tema del genere? Quando lessi la frase di Gada-mer posta al centro delle riflessioni di questo nuGada-mero, rimasi am-mirato dalle possibilità di studio che si intravvedevano. Sembra-vano sconfinate. Di questo ebbi conferma in una fredda giornata di maggio, mentre in compagnia di Marcelo Dascal, camminavo lungo la riva del lago di Costanza, in Germania.

Le parole di Dascal, il più grande pensatore che io abbia mai conosciuto, noto ai nostri lettori per essere stato ospitato proprio sulle pagine di questa rivista, mi confermarono in quella mia ini-ziale sensazione, aggiungendo ulteriori motivi di interesse.

Prima di ogni cosa, va detto che ci sono diversi tipi di ascolto. Si tratta di una polivalenza che nelle principali lingue europee è resa infatti con termini doppi. Anche in italiano, in fondo, noi parliamo di “sentire” e di “ascoltare” (un po’ come distinguiamo “guardare” e “vedere”).

Sentire ed ascoltare sono tra loro collegati, ma non sono – ovviamente – la stessa cosa.

Con il primo termine, sentire, ci riferiamo agli stimoli sen-soriali che riusciamo a captare in modo del tutto involontario. Essi si traducono in un flusso di informazioni, dentro il quale noi costantemente siamo installati. Non uso a caso l’espressione “essere installati”, dato che non si tratta soltanto di isolare il livello dei diversi possibili tipi dei canali sensoriali, ma anche di rendersi conto che inestricabilmente connessi ad essi c’è una parte di noi. Proprio per questo motivo, nelle pagine di Verità e Metodo Gada-mer ci dice che l’«hearing (il sentire) è la via che conduce al tutto». Se, allora, già il sentire ha una sua importanza perché mostra la relazione tra me stesso e le informazioni che mi giungono dal mondo in cui sono inserito, quale ulteriore significato potrà avere l’ascolto di secondo livello, il listening?

Il listening indica la disposizione a prestare attenzione ad un elemento in particolare, presente nel flusso di stimoli fornitoci dall’hearing. Un elemento particolare, tuttavia, ma misterioso che non si lascia trovare facilmente. Che natura ha un tale elemento? Come fa a richiamare la nostra attenzione se non è stato ancora identificato? In che modo esso agisce su di noi? Le domande, a questo livello, sono numerose.

Tuttavia, ciò che emerge, già a questo basilare livello di inda-gine, è una semplice constatazione. La nostra attenzione si attiva non malgrado l’inconoscibilità dell’elemento che si presenta di fronte a noi, ma proprio in ragione di essa. L’inconoscibilità dell’e-lemento misterioso rappresenta, dunque, una qualificazione es-senziale ed essa va preservata se si vuole indagare compiutamente il fenomeno dell’ascolto.

Parlare di ascolto significa allora verificare le condizioni me-diante cui questo elemento enigmatico viene ad abitare dentro di noi. Noi siamo colpiti da questo elemento misterioso, da questo

enigma, come lo definisce Lévinas, e ci accorgiamo che esso eserci-ta una resistenza nei confronti di ogni nostro teneserci-tativo di poreserci-tarlo completamente alla luce del sole. Il nostro io trova così di fronte a sé una densità non solubile. Se, per ipotesi, si riuscisse a sve-lare l’enigma, allora esso perderebbe la sua capacità di esercitare una qualche influenza sul soggetto. La vittoria della conoscenza, in questo caso, equivarrebbe alla sconfitta del pensare. Sembra strano o paradossale, ma l’enigma svelato non desterebbe più at-tenzione.

L’ascolto ha a che vedere con questa dinamica in cui la no-stra coscienza si trova coinvolta. Esso indica la disposizione, quella specifica virtù costante e non episodica, mediante cui mi prendo cura della permanenza dell’enigma. Detto in altri termini, l’ascol-to è la cura di quella alterità che mi si presenta, come altro da me, all’interno del flusso dei vissuti, non lasciandosi afferrare da alcun tentativo di prensione da parte mia.

La foto di Federica Ambrosini, scelta come copertina di que-sto numero di YM, riesce molto bene ad alludere alla dinamica cui ho fatto cenno. In un riflesso, noi scorgiamo un essere che, a tutta prima, sembrerebbe facile identificare. E, tuttavia, una tale opera di identificazione, proprio nel momento di concludersi e di consegnarci così la certezza di ciò che è visto, si rivela non del tutto efficace. L’identificazione non identifica sufficientemente, rinvia a ciò che vediamo, esigendo nuove visioni. L’immagine esercita su di noi un’influenza inaspettata, ed anche un po’ indisponente, perché pone in discussione la pacifica certezza di saperci orientare in tutte le cose.

Vedo, vedo ciò che vedo, ma questo stranamente non basta. Inavvertitamente attivo dentro di me un potenziamento dell’at-tenzione per vedere di più e meglio, ma ogni tentativo in questo senso non riesce a far diminuire l’incisività del dubbio che ogni volta scaturisce, inevitabile. Il mistero di questo altro rappresenta-to permane, sorgono sempre nuove possibili interpretazioni. Con le spalle al muro, siamo nella condizione per cui, non riuscendo a svelare ciò che è sotto i nostri occhi, siamo comunque indotti a ricominciare - incessantemente - l’opera di riconoscimento.

Ecco, l’ascolto – detto in due parole - è esattamente questo: l’avere a cuore, il sentirsi implicati, l’approssimarsi all’enigma dell’altro. Un’operazione tanto più etica, cioè rispettosa dell’altro, quanto più avvertita risulta la rinuncia ad ogni presunzione di possesso.

I contributi di questo numero di YM investigano alcuni fra gli aspetti dell’ascolto qui descritti e ad essi si aggiungono interventi di pregio, come quello donatoci da Adriano Fabris, unanimemen-te riconosciuto dalla comunità scientifica quale vera e propria pie-tra miliare nell’ambito degli studi sull’etica della comunicazione.

Nel salutarci, abbiamo due buone notizie da condividere. La prima notizia è che Silvio Grasselli, già coordinatore edi-toriale di YM, non solo si è recentemente addottorato in cinema nell’Università di Tor Vergata, ma è stato scelto quale seleziona-tore ufficiale del Festival dei Popoli di Firenze. Si tratta di due avvenimenti che ci rendono profondamente felici e che premiano la qualità e l’impegno di una persona generosa dalle doti non co-muni.

La seconda notizia è che YM ha dato la sua disponibilità ad organizzare un workshop sull’ascolto nell’ambito del Congresso Mondiale di Filosofia (23rd World Congress of Philosophy - WCP 2013) che si svolgerà nel mese di Agosto 2013 ad Atene. Troverete ulteriori notizie sul nostro sito: www.yodmagazine.it

E allora, che ne dite, ci vediamo in Grecia?

(5)

4

indice

contributors

&

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8

14

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Patrizio Missere, nato in Svizzera nel 1970, dal 1995 è sacerdote della diocesi di Oria (BR), dove svolge il mi-nistero di parroco, nel comune di Manduria (TA), di diret-tore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose e di docente di Sacra Scrittura. Ha studia-to filosofia e teologia presso la Pontificia Università Grego-riana di Roma; ha conseguito il titolo specialistico in scienze bibliche, presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma, e il dottorato, presso la facoltà te-ologica dell’Italia meridionale di Napoli, con uno studio ese-getico sul libro dell’Apocalisse.

«Shema‘ JiSrael…

aScolta, iSraele…»

Nell’ebraismo, l’ascolto trova la sua casa. Shema‘ Jisrael costi-tuisce il credo per eccellenza del giudaismo, fulcro di tutta la sua tradizione spirituale. Se la fede è un evento, un bagliore nell’oscu-rità in cui l’anima umana entra in comunione con la gloria di Dio, condizione perchè questo accada è l’ascolto.

PatriZio miSSere

Dopo una lunga esperienza di insegnamento e di forma-zione nelle scuole secondarie, è diventa ricercatrice confer-mata di psicologia dello svi-luppo e dell’educazione presso il Dipartimento di Scienze Pedagogiche, Psicologiche e Didattiche dell’Università del Salento. Gli ambiti di studio ed approfondimento riguar-dano fondamentalmente i contesti scolastici, il processo di apprendimento, con par-ticolare attenzione all’ambito emotivo/affettivo, la costru-zione di rapporti di fiducia nell’ambito della mediazione insegnante/alunno e nell’or-ganizzazione scolastica, i pro-cessi di comprensione dei testi. Nel 2010 ha pubblicato, a sua cura, una raccolta di saggi dal titolo “Quale fiducia? Ri-flessioni su un costrutto com-plesso”, edito da Armando.

l’aScolto:

vera Pratica

comunicativa

Qual è il ruolo dell’ascolto nella costruzione di se stessi e delle re-lazioni sociali? Come l’ascoltare esercita il suo ruolo nei confronti di chi parla nei contesti quoti-diani?

alBerta Giani

Giovanni ScaRAFile

Giovanni Scarafile è docente di Etica e deontologia della comu-nicazione e di Cinema, fotogra-fia, televisione nell’Università del Salento.

È membro della SCSMI, So-ciety for Cognitive Studies of Moving Images, dell’Associa-tion Internadell’Associa-tionale pour l’Etu-de l’Etu-des Rapports entre Texte et Image e dell’IASC, Internatio-nal Association for the Study of Controversies. Autore di diverse monografie, ha recentemen-te pubblicato alcuni saggi su Kairos. Journal of Philosophy & Science, edito dal Centro de Filosofia das Ciências dell’U-niversità di Lisbona e su RIA. Revista Iberoamericana de Ar-gumentación edita dal Depar-tamento de Lógica, Historia y Filosofía de la Ciencia dell’U-NED di Madrid.

A crua palavra, un suo libro-intervista al filosofo israelo-brasiliano Marcelo Dascal, pubblicato nel Settembre 2010 in inglese, è stato tradotto in otto lingue.

una careZZa lieve.

note Per un’etica

Dell’aScolto

Ascoltare significa prestare atten-zione ad un’alterità che viene ad abitare all’interno della coscien-za. Ci chiediamo se esista una modalità appropriata di riferi-mento ad una tale alterità e quale ruolo svolga all’interno di questo processo il gesto della carezza.

GianPaolo chiriacò

Gianpaolo Chiriacò lavora come Marie Curie Fellow Researcher presso il Center for Black Music Research (Columbia College, Chicago). Tra le sue ultime pub-blicazioni: Re: Sounds. Musica, parole, dischi e social network (2011, Unisalento Press) e il saggio L’incerto cammino del ritorno. Il canto di Syd dalle irriverenze al silenzio (2012, Stampa Alternativa). Nel 2011 è stato visiting researcher presso il BMRC-University of Chicago con una ricerca dal titolo “Whe-re the Echoes Shine. L’e“Whe-redità dei field hollers nella black music contemporanea”.

homeleSS.

l’aScolto non innocente

Gianpaolo Chiriacò prende in considerazione le barriere e i filtri culturali che intervengono nell’ascolto della voce umana, e in particolare della voce cantata, muovendo da un caso di cronaca legato al celebre disco di Paul Simon, Graceland.

In confronto con i filosofi Derrida, Barthes e con il performer Stratos, si suggerisce la tesi che pur non esistendo un ascolto non innocente, l’ascolto di una voce cantata può evolversi storicamente, e può arricchirsi proprio in virtù del riconoscimento delle sottili direttrici affrontate e descritte nel testo.

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aDriano FaBriS

Adriano Fabris è professore ordinario di Filosofia morale nell’Università di Pisa, dove insegna anche Etica della comunicazione. Nella stessa Università è direttore del Ma-ster in Comunicazione Pub-blica e Politica e del Centro interdisciplinare di ricerche e di servizi sulla comunica-zione. Collabora inoltre con l’Istituto di Filosofia applicata di Lugano, dove ha promosso l’Istituto “Religioni e teologia” (ReTe).

aPorie Dell’etica

Della comunicaZione

Nel suo saggio, Adriano Fabris discute alcuni decisivi nodi pro-blematici dell’etica della comu-nicazione: perchè un’etica della comunicazione? Quali etiche di fronte alla comunicazione? Che cos’è l’etica della comunicazio-ne?

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Riccardo Scorza, ha conse-guito il diploma di maturità classico-sperimentale ed at-tualmente frequenta la Facol-tà di Giurisprudenza nell’U-niversità del Salento. Ha sviluppato le sue conoscenze musicali alla Scuola Harmo-nium di Lecce, avvalendosi dell’insegnamento dei mae-stri Venturoso, Damiani e dei Lazzaretti. Ha approfondito lo studio della storia del rock, delle band, delle tecniche mu-sicali e dei testi. Collabora come batterista con i grup-pi Monoessenza e Klotzac. I primi, che esprimono un rock melodico, partecipano alla se-mifinale del Tour Music Festi-val. I secondi, gruppo grunge/ heavy metal, hanno appena prodotto il loro primo EP (Numeri).

la muSica e l’aScolto

oltre il Suono

Ci sono generi musicali “ina-scoltabili”? Se lo chiede Riccar-do Scorza, prendenRiccar-do in esame diversi generi musicali, ma so-prattutto lo spirito della musica.

riccarDo ScorZa

virGinio PavaRAna

Theo Bleckmann è uno dei vo-calist più apprezzati nel mon-do della musica colta contem-poranea. Nato in Germania, è cresciuto professionalmente a New York, dove vive tuttora. La sua carriera, sviluppatasi principalmente come partner artistico di Meredith Monk, lo ha portato a elaborare una concezione totalmente origi-nale del fare musica e dell’uso della voce in cui la componen-te giocosa si unisce in manie-ra indissolubile a una ricerca sulla purezza del suono e sulla quintessenza dell’emissione vocale. Nei suoi dischi e nel-le sue performance dal vivo, Bleckmann ha sempre mo-strato una totale apertura, in-terpretando i diversi repertori (dai brani medievali alle cre-azioni più recenti) e le diversi possibilità di ensemble (dal solo all’orchestra sinfonica) con uno stile e una presenza sempre molto riconoscibili. In questa intervista spiega quan-to il canquan-to non possa essere separato dalle sue componenti psicologiche e dalla storia che il performer vuole raccontare. E mette in luce quanto tali componenti siano fondamen-tali nel determinare le nostre attitudini d’ascolto.

theo BlecKmann

Virginio Pavarana inizia i suoi studi a Verona, città natale. Diplomatosi molto giovane al Conservatorio di Milano, entra subito nella Scuola di Arturo Benedetti Michelangeli ad Arezzo e Siena. Studia per 4 anni con il Maestro che intanto lo presenta subito ai Festivals di Arezzo e Rimini a Lui dedicati e più tardi al Festival di Brescia e Bergamo (Il pianoforte di Beethoven) vicino ai grandi nomi del concertismo. La critica gli rivolge subito una grande attenzione. Nello stesso anno, giovanissimo, diventa titolare di cattedra al Conservatorio di Trento, ma sarà il Concorso Internazionale Pianistico di Ginevra ad aprirgli il futuro nel mondo concertistico.

Trasferisce la sua attività didattica al Conservatorio di Verona mentre quella concertistica lo vede impegnato in Europa, Australia e Stati Uniti dove viene invitato per concerti, registrazioni e master class. Negli ultimi tempi si è dedicato alla musica contemporanea. Attualmente è direttore artistico degli Amici della Musica.

un invito all’aScolto

In questo dialogo, si affrontano temi di grande rilevanza: che cosa significa ascolto in ambito musicale? La musica ha una di-mensione politica?

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6

Tiziana Proietti (Roma, 1983) svolge attività didatti-ca e di ricerdidatti-ca in qualità di dottoranda del Dipartimento di Architettura DIAP, “Sa-pienza” Università di Roma. È autore del testo

Concinni-tas. Principi estetici nell’o-pera di Leon Battista Alber-ti (Nuova Cultura, 2010),

all’interno del quale ha espo-sto i risultati della sua ricerca sul concetto di concinnitas albertiano, evidenziandone l’estrema attualità a supporto del progetto contemporaneo di architettura. In continuità con le sue precedenti ricerche sulle teorizzazioni architetto-niche rinascimentali, attual-mente è impegnata in studi riguardanti la teoria propor-zionale nell’architettura mo-derna e contemporanea, argo-mento sul quale ha realizzato numerose pubblicazioni.

concinnitaS

Nelle pagine di Verità e

meto-do, Gadamer individua in Leon

Battista Alberti il fautore dell’av-vento di una nuova cultura del visuale. Della multiforme atti-vità dell’artista rinascimentale parliamo con Tiziana Proietti, autrice del libro Concinnitas.

Principi estetici nell’opera di Leon Battista Alberti.

tiZiana ProieTTi

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Juliana De

alBuquerque KatZ

Marina Alemanno ha con-seguito la laurea di primo livello in scienze e tecniche psicologiche presso l’ateneo di Lecce ed è attualmente iscrit-ta al primo anno magistrale del corso “psicologia del la-voro e delle organizzazioni” a Roma, presso la Sapienza. Inoltre, ha studiato recitazio-ne presso l’accademia talenti nascenti di Lecce e recitato in diversi teatri salentini, come membro della compagnia te-atrale “Salenzia”. E’ attual-mente iscritta al primo anno dell’accademia nazionale del teatro e dello spettacolo “la maschera in soffitta” di Roma.

in aScolto

Della verità (nella

FinZione). un’iDea

StaniSlavSKiJana

Della recitaZione

Si ricostruisce il contributo di Stanislavskij all’opera dell’atto-re, con particolare attenzione al concetto di memoria emotiva.

marina alemanno

Juliana de Albuquerque Katz nel luglio 2009 si è laureata in Legge nell’Università Cat-tolica di Pernambuco, presen-tando la monografia “Etica, riconoscimento e ambiguità: un dialogo tra Hegel e Simone de Beauvoir”.

Ha inoltre pubblicato il sag-gio “Tous les hommes sont mortels: un essai au sujet de la dialectique de Maîtrise et Servitude”, nel volume Si-mone de Beauvoir cent ans après sa naissance: contribu-itions interdisciplinaires de cinq continents (TÜBIGEN, Gunther Narr Verlag, 2008). I suoi interessi di ricerca spa-ziano da Hegel all’idealismo tedesco, dall’esistenzialismo francese alla fenomenologia.

the Silent DwellinG oF

the event oF love

Passeggiando nel Vigeland Park di Oslo, l’autrice si interroga, facendosi ispirare da Heidegger, sull’amore come evento (testo in inglese).

Paola coPPi

Paola Coppi (Bari, 1972) si è laureata in Filosofia con Ro-berto Finelli presso l’Univer-sità di Bari.

Ha conseguito la specializ-zazione in Scienze della Cultura, presso la Scuola Internazionale di Alti Stu-di, Fondazione Collegio San Carlo di Modena. Si è diplo-mata e ha conseguito il Magi-stero in Scienze Religiose, ri-spettivamente presso l’ISSR di Bari e di Verona. Attualmen-te insegna religione cattolica in alcuni istituti superiori di Verona.

Évora . una città Da

aScoltare. in SilenZio

Ci sono luoghi che vanno non solo visti, ma ascoltati. Paola Coppi ci rende partecipi dell’e-sperienza vissuta ad Evora, in Portogallo, dove secondo Sara-mago, «c’è un’atmosfera che non si ritrova in nessun altro luogo».

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Nato a Busan (Corea del Sud) da genitori sudamericani, ve-neto d’adozione, lavora come grafico presso una rivista che si occupa di cinema e lette-ratura. Non risponde mai al telefono.

DeSerto

In che modo l’ascolto è presente/ assente nelle relazioni interper-sonali? Nel suo racconto breve, Alberto A. Vinudo squarcia il velo di ogni relazione securiz-zante.

alBerto a. vinuDo

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Sguardi sul presente che hanno valore di tagli e ferite, dove il fatto

sentimentale si snoda come un pericolo attorcigliato sulle reciproche

e irriducibili alterità degli amanti e dove la costruzione dei

rapporti affettivi passa per materiali irrazionali - premonizioni,

percezioni, immedesimazioni istantanee, déja vu - che solo i versi

poetici hanno una speranza di poter trattare.

Stefano Cristante investe nel dialogo a distanza con i classici

della poesia italiana le proprie chances di scrittura. Verso libero

ed endecasillabo rappresentano la sostanza formale dei versi di

Cristante che, nella parte finale, trasmigrano nella prosa poetica

(agganciata alla creazione di una personale cosmogonia), prima di

congedarsi con un inno alla solitudine che chiarisce il suo tragitto

narrativo e il suo obiettivo esistenziale.

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car ess | c. bueno | CC BY 2.0 | www .flickr .com

COPERTINA

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Note per un’etica dell’ascolto

Giovanni Scarafile

UNA CAREZZA LIEVE

“D

evi vestirti a

cipolla”.

L’espres-sione incerta ed interrogativa rivelò subito al mio interlocutore che non mi era chiaro che tipo di abbigliamento mi stesse suggerendo.

Quel modo di dire, insieme me-taforico e spensieratamente vegetale, per alludere ad una stratificazione ne-cessaria mi torna in mente adesso per riferirmi al tema dell’ascolto che, in effetti, è un concetto formato da più livelli, tra loro connessi.

Una sola parola, dunque, ascol-to, per indicare due direzioni diverse, seppure connesse. Pensandoci, come per altre lingue, anche in italiano di-stinguiamo un sentire da un ascoltare.

Qual è la differenza cui alludono i due termini?

Il sentire (in inglese, hearing) si riferisce alla soglia percettiva attra-verso cui percepiamo i suoni. È una caratteristica in primo luogo riferibile all’apparato uditivo mediante il quale ci si appropria dei dati di sensazione. Da questo punto di vista, il sentire è come il guardare contrapposto al ve-dere. C’è, però, una differenza, segna-lata da Gadamer. Infatti, se possiamo distogliere lo sguardo da qualcosa pur di non vederlo, molto più difficil-mente possiamo distogliere l’ascolto. Il sentire dà l’idea di una immersione nelle cose molto più profonda e

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revo-10

cabile a costo di grandi sacrifici. Da tale prospettiva, il sentire è una specie di antidoto nei confronti di quelle teorie dell’ascolto che pre-tendessero di giungere direttamente al mondo delle idee (chiamiamolo pure “eidetica”) senza passare dalle strade della storia, cioè senza riferirsi alla dimensione concreta del nostro vivere (la fatticità). Ecco, il sentire ci fa capire che queste due dimensioni devono andare insieme se vogliamo veramente cogliere l’ascolto in tut-ta la sua potenzialità. Era stut-tatut-ta pro-prio questa l’intuizione di Gadamer (2004: 458) quando spiegava che «il sentire è una strada che conduce al tutto».

Dopo il primo strato, costituito dal sentire, arriva l’ascolto vero e pro-prio.

Rimanendo nella metafora vege-tale da cui siamo partiti, mi verreb-be da dire che qui viene da piangere, ma solo nel senso che abbiamo per le mani una parte essenziale della nostra filosofica cipolla.

L’ascolto è la disposizione a pre-stare ascolto a qualcosa, presente nel sentire, che non riusciamo ancora a decifrare. Parlare di disposizione in-dica prima di tutto che l’opera del prestare ascolto non è qualcosa di ec-cezionale, ma è diventato una prassi consueta, acquisita a costo di sforzi e sacrifici. Nel nostro caso, riferito all’ascolto, significa che abbiamo ac-quisito una certa confidenza con quel tendere non solo l’orecchio ma l’ani-mo tutto intero nei confronti di un elemento misterioso che si presenta a noi e che, a dispetto di ogni evidenza, reclama la nostra attenzione.

Pur mettendo in conto tutta la buona volontà possibile ed immagi-nabile, è difficile negare il fatto che quando ostinatamente qualcuno esige la nostra attenzione, viene facile rea-gire nel modo opposto a quello che il nostro interlocutore si aspetterebbe. Se possibile, qui l’indisposizione nei

confronti dell’interlocutore è addirit-tura accresciuta dal fatto che si tratta di uno sconosciuto.

Fermatevi un attimo, mentre leg-gete e pensateci: come reagireste se un essere sconosciuto vi inducesse ad interrompere ciò che state facendo? Come vi comportereste se, pur volen-do ignorare questa presenza molesta, vi rendeste conto che essa invece vi attrae?

Proprio pensando al trovarsi di fronte ad una presenza

fastidiosamen-te appassionanfastidiosamen-te, Lévinas (1982: 103)

osserva: «e io, chiunque sia, ma in quanto prima persona, sono colui che ha delle risorse per rispondere all’ap-pello». Si tratta di un’affermazione che una giovane studiosa della Deni-son University negli USA, Lizbeth Li-pari (2012: 229) preciserà spiegando che «l’ascolto […] è essenziale all’in-contro etico – è una invocazione che può dare vita al discorso».

Di solito, di fronte a qualcosa di sconosciuto poniamo in essere delle strategie per depotenziare il mistero di ciò che abbiamo di fronte. In que-sto senso, conoscere è ricondurre alla nostra misura. Quando questa ope-razione è compiuta, allora il gioco è fatto: il mistero è svelato.

In ciò di cui stiamo parlando in-vece il nostro interesse scaturiva pro-prio dal fatto di trovarsi di fronte un enigma.

Concretamente, questo signifi-ca che se anche riuscissimo a svelare l’enigma non avremmo ancora capito il perché della sua strana influenza su di noi. A pensarci bene, tale influenza si esercitava non nonostante l’enig-ma, ma proprio in virtù di esso. La dimensione enigmatica della presen-za di fronte a noi faceva scaturire il nostro interesse, seppur – diciamolo – un po’ a malincuore.

Gli studiosi hanno descritto que-sta influenza dell’enigma su di noi, parlando di una «immediatezza pri-mordiale che precede la coscienza»

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11

(Lewin 2005: 377).

Parlando di ascolto, allora, il pro-blema riguarda esattamente lo statuto dell’enigma. Solo se saremo in grado di preservarlo come tale, senza ridurlo alle nostre categorie, potremo cogliere in tutta la sua portata l’ascolto.

Già da questi primi avvertimenti, ci rendiamo conto che l’ascolto è mol-to più dell’ascolmol-to. Nella sua struttu-ra a ststruttu-rati, esso nasconde un proble-ma che sembra insolubile. Esiste un modo per capire qualcosa dell’altro senza ridurlo alle nostre categorie? Si può rispettarlo in ciò che ha di più proprio senza smembrarlo?

Ecco, parlare di ascolto signifi-ca provare a rispondere a queste do-mande, esercitando una tutela nei confronti di quell’invisibile mistero dell’altro, che si presenta a noi già al livello del sentire.

Possiamo, allora, guardare un po’ più da vicino al modo in cui l’atten-zione funziona?

E qui, ricominciamo.

Sì, perché l’attenzione è come la cipolla di cui sopra. La strutturazione a livelli dell’ascolto è stata segnalata sia dalla psicologia sperimentale sia dal fondatore della fenomenologia, Husserl.

In uno scritto del 1890, il filosofo William James (1890: 403) scriveva che «Ognuno sa che cosa è l’atten-zione», specificandone poi due di-mensioni costituitive: focalizzazione e concentrazione.

Oggi in pochi sarebbero pronti a sottoscrivere quelle dichiarazioni. Re-centemente Sebastian Watzl (2011: 848), uno studioso dell’Università di Harvard, ha scritto che la «scien-za cognitiva mostra che ci sono vari processi dell’attenzione. Essi condivi-dono alcune somiglianze, ma manca qualsiasi unità di fondo». È per que-sto che esique-stono numerosissimi mo-delli di attenzione.

Vediamone alcuni:

1) attenzione focale vs. atten-zione globale (Treisman 2006). La prima si pensa sia diretta verso un particolare oggetto o evento, mentre la seconda si distribuisce su un ambi-to più vasambi-to;

2) Attenzione ad interrutto-re (la cosiddetta on-off attention) vs. attenzione graduale (si veda, Depraz 2004: 14). La differenza tra i due ap-procci si fonda sulla eventuale possi-bilità che l’attenzione possa o meno attivarsi secondo una gradualità.

3) Attenzione volontaria vs. attenzione involontaria, dove la pri-ma è controllata dalle intenzioni del soggetto, mentre la seconda è ininten-zionale, attivata dalla rilevanza di un qualche stimolo sensoriale;

4) Attenzione esogena vs. at-tenzione endogena, dove la prima è controllata dallo stimolo, mentre la seconda è controllata internamen-te (si veda, Smallwood and Shooler 2009);

5) Attenzione percettiva vs. attenzione esecutiva, dove la prima consiste nell’attribuzione di priorità a certi stimoli, mentre la seconda è una centrale capacità di processare gli sti-moli (vedi, Pashler 1998);

6) Prestare attenzione a qualco-sa vs. l’evento di spostare l’attenzio-ne da una cosa ad un’altra (see Watzl 2010; Wu 2011).

Questi approcci hanno aggior-nato posizioni più datate cui tuttavia non possiamo rinunciare a guardare, sperando di trovare già in esse un modello che possa adattarsi alle no-stre esigenze. Broadbent (Broadbent 1958) aveva equiparato l’attenzione ad un filtro in grado di fungere da meccanismo selettivo. La selezione avverrebbe non in base all’analisi del significato, ma valutando altre infor-mazioni, tra cui l’intensità.

In tutti i modelli considerati esi-stono dei motivi di interesse ai fini

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red onion |

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.com

della nostra analisi perché in un modo o nell’altro individuano l’esistenza di un livello dell’attenzione (che – ricor-diamolo – è una parte dell’ascolto) at-tivo già prima che l’attenzione abbagli con la sua luce l’oggetto considerato.

Per questo, provando a fare una sintesi tra i molteplici approcci al tema dell’attenzione, lo studioso fran-cese Pierre Vermersch, già nel 2004 selezionò tre dimensioni irrinunciabi-li dell’attenzione.

1) Vigilanza. La vigilanza, uno stato di allerta nei confronti del mon-do, è basata sull’attivazione di un struttura nervosa chiamata “il retico-lo”;

2) Orientazione. È basata su una struttura e su un distinto per-corso nervoso i cui tempi di risposta sono nell’arco di 20-40 millisecondi. Si tratta di una caratteristica di identi-ficazione che consente all’organismo di rispondere in modo rapidissimo;

3) Attenzione volontaria o co-scienza. Questa dimensione ha tempi di risposta nell’arco di 400

millise-condi, che «è il tempo corrispondente all’identificazione semantica» (Ver-mersch 2004: 53)

Ricapitolando, dunque: l’at-tenzione ha diverse fasi. Una di esse consiste esattamente in un accorgersi della presenza di qualcosa senza che questo riconoscimento equivalga ad un assorbimento di una tale alterità alle nostre categorie.

Questa informazione è già in grado di dirci che si può cercare un approccio all’alterità in grado di preservarla per ciò che è. E tuttavia, i riscontri emersi sul versante delle scienze sperimentali non ci basta-no. Vogliamo togliere l’ultimo strato alla cipolla dell’attenzione: che cosa avrebbe da dire Husserl in merito?

Husserl ha parlato di attenzione nei suoi scritti, ma sempre in relazio-ne alla intenzionalità che, a suo avvi-so, era la caratteristica fondamentale della coscienza. La coscienza è sempre in relazione a qualcosa, non sussiste da sola. L’abbinamento tra

intenzio-nalità ed attenzione è ribadito nel §92 del primo libro di Idee. Qui Husserl scrive che l’attenzione è come una sorgente di luce. È una metafora in-teressante, se ci pensate, non solo per-ché è chiara, ma anche perper-ché spiega che al centro di questo cono di luce ci sono zone più chiare, mentre ai mar-gini ci sono zone più scure. Fuor di metafora, Husserl ci vuole far capire che l’attenzione non è un fenomeno statico, ma al contrario esso possiede un dinamismo.

Del resto, ne La teoria del

signifi-cato Husserl aveva distinto tre livelli

di attenzione:

1) notare primario. Si presta at-tenzione in modo privilegiato ad un oggetto piuttosto che ad altri percepi-ti contestualmente;

2) notare secondario. Un og-getto o gruppi di oggetti si costitui-scono come sfondo dell’osservazione principale e dunque sono presenti alla coscienza, ma in modo subordinato;

3) intendere tematico. È un modo specifico di fare attenzione,

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13

equivalente a vivere nel tema corri-spondente (con le sue parole: « Sie-zum-Thema-Machen»).

L’importanza della distinzione di Husserl è spiegata da Depraz (2004: 14, corsivo mio): «Mentre l’inten-zionalità è un modello formale della struttura della coscienza, la cui aper-tura poggia sull’essere diretti linear-mente verso l’oggetto, l’attenzionali-tà come modulazione attribuisce ad ogni atto della nostra coscienza una

densità materiale fluttuante dovuta

alle sue variazioni interne ed alla sua concreta modificabilità».

È esattamente il riferimento alla possibilità di una variazione della densità di ciò che si presenta trami-te l’attrami-tenzione a costituire motivo di enorme interesse ai fini della nostra analisi. Parlare di gradualità signifi-ca infatti, almeno a livello teorico, ipotizzare una densità non solubile, caratteristica riferibile all’altro.

Facciamo un ultimo sforzo: In Esperienza e Giudizio, Husserl parla dell’atto della prensione, una forma di contatto con le cose, uno stadio particolare nel flusso della co-scienza. Il modello di Husserl con-siste di tre stadi: uno stadio finale di prensione attenzionale, definito anche l’esser desto dell’io; uno sta-dio iniziale, privo di prensione, che Husserl descrive come pre-datità. Tra questi due livelli, vi è una soglia in cui la coscienza si sofferma su un og-getto, con un contatto lieve come una

carezza, un tocco leggero che inizia

nel momento stesso in cui finisce. Eccoci qua. Siamo forse giunti nel punto cruciale del nostro percor-so.

Ci interrogavamo sull’eventuale esistenza di un modo appropriato per avvicinare l’altro che si dà nella coscienza. Questo approccio, lieve come una carezza, sembra avere i requisiti cercati e diventa così segno

concreto di un ascolto effettivo. La carezza, lo ricorda Mariella Combi (Combi 1998, 196), è «calore che passa attraverso la porosità della pel-le per raggiungere il dentro di un altro. Essa nasce dall’interno, dalla profondità abissale del dentro, passa per il fuori della propria pelle verso il fuori della pelle dell’altro per rag-giungere il suo dentro. Dentro fuori fuori dentro, in uno scambio conti-nuo, fluido, ininterrotto che tende innanzitutto a creare unione e rassi-curazione».

In conclusione, tutti i riscontri fin qui accennati, sebbene apparte-nenti ad approcci disciplinari diffe-renti, offrono una cornice di plau-sibilità al concetto di ascolto come luogo effettivo ed autentico in cui l’altro può essere colto nella sua al-terità radicale, indipendentemente da qualsiasi riduzione al sé. Ancora più esplicitamente, essi ci dicono che la possibilità di un ascolto effettivo dell’altro è stata riscontrata sia a li-vello cognitivo sia a lili-vello fenome-nologico.

Ovviamente, che queste possibi-lità esista non significa che essa si at-tivi automaticamente. È anzi neces-sario quella disposizione cui facevo cenno in precedenza.

L’ascolto è la disposizione a ren-dicontare un enigma che ci riguarda. Esso, come scrive Lizbeth Lipari (Li-pari 2012: 237) «pone in essere un surplus infinito di benvenuto, invito e ricezione, non importa cosa sia det-to o ascoltadet-to. L’ascoldet-to, in contrasdet-to con il sentito, è un potenziamento di responsabilità resa manifesta at-traverso una postura di ricettività, una passività del ricevere l’altro in se stessi senza assimilazione o appro-priazione. L’ascolto è un processo di contrazione, consiste nello stare un passo indietro e creare un vuoto nel quale l’altro può entrare».

Riferimenti bibliografici

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Communication. London: Pergamon Press.

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Watzl, S. 2010. The Significance of

At-tention. PhD Thesis, Columbia University.

Wu, W. 2011. What is Conscious At-tention? Philosophy and Phenomenological

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L’ascolto:

vera pratica

comunicativa

alberta Giani

“Avete fatto qualcosa che noi

tutti dovremmo fare molto più

spesso: mi avete permesso le mie

storie. Il mondo avrebbe un

aspetto migliore se permettessimo

al nostro amico, alla nostra

amica, a nostra moglie, a nostro

marito, ai nostri figli, ed anche

al nostro amico ammalato, le

loro storie”

Peter Bichsel

PSICOLOGIA

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The master of wood

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.flickr

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16

A

scoltare è per mol-ti di noi una delle prime modalità at-traverso cui si entra in contatto con gli altri e, poi, in seguito allo sviluppo ed all’acquisizione del linguaggio (capacità propriocettiva1, dialogo

interno) con se stessi. Da sempre ci accompagna. È una di quelle abili-tà - esclusi coloro che hanno gravi compromissioni uditive - alla quale siamo esposti da subito, fin nel ven-tre materno. Essendo così familiare, compagna abituale della nostra

esi-stenza, corre un serio rischio: quello di “sparire”, di non diventare oggetto da analizzare, da scomporre nei suoi elementi costitutivi. In una parola, l’ascolto lo diamo per scontato, non merita certo l’attenzione che attri-buiamo alla “udibilità” del parlato, di cui , peraltro, rappresenta lungo un’asse immaginaria, il polo simme-trico (ascolto/parlato).

Se poi guardiamo alle altre due abilità linguistiche più “concrete e visibili”, la lettura e la scrittura, per le quali esiste una vasta e ricca let-teratura di ricerca, l’ascolto sembra

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17

essere una sorta di “Cenerentola” impalpabile e sfuggente. Io vorrei mostrare, invece, quanto l’ascolto sia fondamentale, pregnante, strut-turante per la costruzione di se stessi e delle interazioni sociali. Ci si può porre in una situazione di ascolto in molti modi ed ognuno di essi rac-conta qualcosa di importante, sia ri-guardo la personalità dell’ascoltatore, che dell’altro, inteso come interlocu-tore, che del contesto che qualifica, determina, significa, dà valore alla comunicazione. Questi tre elementi possono essere esaminati in maniera

discreta, separati l’uno dall’altro, ma agiscono influenzandosi reciproca-mente e il senso della comunicazione è dato dal vederli come elementi co-stitutivi di un sistema il cui prodotto è più della somma delle singole parti. Si pensi, ad esempio, ai con-testi nei quali l’ascolto è parte fon-damentale del lavoro: l’interazione medico/paziente, psicoterapeuta/ cliente, insegnante/alunno. In tali casi, il parlato dovrebbe essere og-getto di formazione e di riflessione specifica, in quanto è parte fondante del ruolo professionale (nel contesto

rifletti, pensa, fai silenzio,impara ad ascoltar

e.

| federicabiasi | CC BY

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18

scolastico, ad esempio, l’insegnante deve non solo scegliere un lessico ap-propriato al contenuto disciplinare ed alle caratteristiche di chi ascolta, ma deve anche attivare una serie di modalità comunicative al fine di rag-giungere il suo scopo, che è l’appren-dimento di quel contenuto da parte degli allievi).

Ma il mio intento, piuttosto, è cercare di analizzare come l’ascoltato-re esercita il suo ruolo nei confronti di chi parla nei contesti quotidiani. Cerco, cioè, di capire cosa accade, ad esempio, quando una madre ascolta il suo bambino (anche se ancora non utilizza parole) durante l’allattamen-to, o quando una moglie ascolta il resoconto di una giornata di lavoro del marito o compagno, oppure la narrazione di una mattinata scolasti-ca del figlio, o, ancora, le confidenze tra amiche. In sostanza tutte quelle situazioni comunicative che riempio-no la riempio-nostra quotidianità.

Abbiamo già detto che parlare e ascoltare sono coordinati a livello semantico e cognitivo. Ciò che qui mi preme sottolineare è che sono, soprattutto, alla base delle relazioni

interpersonali. Mentre per il senso

comune l’ascoltatore è un ricettore passivo rispetto al parlante, come se bastasse la sola presenza fisica a ren-dere possibile l’interazione, secondo una visione collaborativa il processo comunicativo implica una continua e reciproca determinazione e ridefi-nizione del comportamento dei par-tecipanti (Tomasello, 2008).

In questa prospettiva l’ascolto non solo richiede specifiche modalità collaborative con i partecipanti, ma è

propedeutica alla capacità di

rappor-tarsi agli altri.

Concepire l’ascolto come una attività di per sé attiva, significa ne-gare l’esistenza di un ascolto passivo. È vero che tante volte accade di ri-mandare a chi parla tutti quei segnali verbali e non verbali che rassicurano

il parlante sull’ascolto dell’interlocu-tore, ma che in realtà sono il frutto di un disinteresse educatamente camuf-fato, ma è vero anche che non può esistere un ascolto del tutto passivo, sarebbe come scrivere senza usare dei simboli, o leggere non decodificando le parole.

Ma quali sono gli elementi, le caratteristiche, gli atteggiamenti che definiscono l’ascolto attivo nella quotidianità dei rapporti interper-sonali? In altre parole, cosa significa sincronia?

In linea generale, innanzitutto è necessario prestare attenzione, è im-parare i tempi di attesa, rispettare il turno degli altri evitando le sovrap-posizioni e la egocentrica presa del turno, come se l’altro o gli altri fosse-ro unicamente strumentali a far mu-tare il ruolo da ascoltatore in “parlan-ti” dei propri bisogni. Questo signifi-ca ascoltare se stesso, non l’altro.

Inoltre ascoltare significa certa-mente ricevere le parole, quindi fare i conti con i contenuti, ma anche prestare attenzione alla relazione, al modo in cui le cose vengono dette. Significa, quindi, ricevere le parole, ma anche i silenzi, gli sguardi, i gesti.

Ascoltare, quindi è, come si af-ferma nella cultura orientale, acco-starsi all’altro, anche chi presumiamo di conoscere meglio, come una can-na vuota, senza pre-giudizio. Signi-fica mettersi in empatia e, quando è necessario, dare segnali di ricezione verbale e non verbale: “Capisco”, “Non capisco”, “Spiegati meglio”. È manifestare condivisione e compren-sione.

Anche nella quotidianità, l’a-scolto, quello che coinvolge geni-tori e figli, le confidenze amicali, le conversazioni tra coniugi, per una autenticità di rapporto, deve essere attivo, e, in quanto tale, diventa

con-dizione di una comprensione attiva.

Ciò implica di non essere intrusivi nei confronti dell’altro creando una

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sorta di dipendenza psicologica, ma rispettosi della sua autonomia cogni-tiva, emotiva e decisionale.

Il rispetto, la non intrusività ri-guardo agli stili ed ai modi interazio-nali così come la non invasione dello “spazio” dell’interlocutore, vanno di pari passo con l’autonomia dell’altro, con l’attenzione e il riguardo per i suoi vissuti personali.

Abbiamo detto che concepire l’ascolto senza essere intrusivi, si-gnifica rispettare i tempi, cioè non interrompere l’altro nel flusso del suo discorso, ma incoraggiarlo lì dove è necessario, con uno sguardo, un gesto, brevi sollecitazioni verba-li. Fondamentale è non contendere all’interlocutore il ruolo di parlante dando sfogo ai propri problemi e bi-sogni.

Va anche detto che rispettare le storie e i vissuti dell’altro non vuol dire necessariamente condividerli: tuttavia li si deve accogliere senza criticarli o sminuirli, dando al par-lante la possibilità di esprimersi sul piano ad essi congruente, cioè il pia-no emotivo (e pia-non quello pratico de-cisionale).

Spesso, infatti, il dare consigli, se non esplicitamente richiesti, provoca reazioni aggressive o l’assunzione di atteggiamenti di passività da parte di colui che racconta la sua storia. L’a-scoltatore, in sostanza può dichiarare il suo punto di vista, ma con la con-sapevolezza che non sia né l’unico né il migliore possibile.

Vorrei, a questo punto introdur-re un altro elemento su cui rifletteintrodur-re:

il silenzio.

Quando si ascolta, lo si può fare solo in silenzio. Ed abbiamo visto che può esserci un silenzio distratto, disattento sia nei confronti delle pa-role dette che dell’altro come perso-na con la sua identità, e un silenzio sostanzialmente vuoto da preconcetti e schematismi e, quindi, maggior-mente pronto ad accogliere l’altro,

con le sue storie, i suoi bisogni, le sue emozioni. Ritengo ci sia, oltre l’ascolto in silenzio, anche l’ascolto

del silenzio.

Il non detto, così, diventa ogget-to da ascoltare, che influenza il senso dell’interazione, a volte in maniera intensa e determinante. Esiste un silenzio aggressivo, un silenzio im-barazzato, o annoiato. Sta di fatto che forse, più ancora delle parole, il silenzio può essere significato dalla

partecipazione autentica alla relazione

costruita via via nel contesto comu-nicativo.

Come ascoltare il silenzio? Come denotarlo e connotarlo? Perché è im-portante ascoltare questa assenza di parole, a volte anche assenza di gesti e di sguardi? Ritengo che per ascolta-re la profondità del non detto, al di là delle emozioni espresse esplicita-mente anche attraverso il linguaggio non verbale, è indispensabile aver

sperimentato, in qualche modo co-nosciuto in sé, attraverso l’Altro

(per-sone, esperienze, immagini, oggetti, libri, odori, sapori, musiche, gesti, azioni) una variegata, molteplice quantità di emozioni.

Mi viene in mente, sperando di non essere troppo stucchevole, la tavolozza dei colori: noi ne co-nosciamo pochi, più o meno quelli fondamentali. Uno studioso, invece, sa che esiste una notevole gamma di sfumature, senza soluzione di conti-nuità, tra i due non colori, ossia il bianco e il nero. Le nostre emozioni, forse, sono simili a quella tavolozza e la capacità di riconoscerle, prima in noi e poi negli altri, è un

allenamen-to (proprio come andare in palestra,

solo che in questo caso si tratta della mente) frutto di una ricerca continua di sé, di una continua autoanalisi. E, nell’ascolto, sentire, percepire, vivere il silenzio ri-sincronizza l’interazione all’interno del processo comunicati-vo.

Quest’ultima riflessione va

lega-ta ad un altro aspetto, un altro ele-mento che entra in gioco: il potere. Nella interazione a volte gli attori partecipanti sono in una posizione di parità, come avviene tra amici, a volte invece uno si trova in una posi-zione di dominanza rispetto all’altro, come nelle interazioni tra medico e paziente, o alunno ed insegnante. Penso sia un punto di vista forse un po’ in ombra e spesso trascurato, at-traverso il quale osservare ed analiz-zare una vasta, molteplice quantità di contesti comunicativi formali ed informali.

In conclusione, chi ascolta

sce-glie se e come essere presente per

l’al-tro adottando una prospettiva più o meno decentrata, ossia mettendosi nei panni dell’interlocutore. Ed è da questo più o meno che deriva la qua-lità dell’interazione.

Come in una “danza” i movi-menti della interazione sono conti-nuamente negoziati, rinegoziati, ri-adattati al momento, in attesa delle reciproche variazioni. È un continuo processo regolativo l’interazione, un funambolesco equilibrio tra le parti.

N

ote

1 Particolare sensibilità grazie alla quale un organismo ha la percezione di sé in rapporto al mondo esterno. In-sieme a vista, udito e tatto informa come si posiziona il corpo dal punto di vista muscoloscheletrico nella realtà.

Riferimenti bibliografici

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no-stro tempo. Milano: Feltrinelli.

Mizzau, M. 2002. E tu allora? Il

conflitto nella comunicazione quotidiana.

Bologna: Il Mulino.

Tomasello, M. 2008. Origins of

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«Shema‘ Jisrael…

Ascolta, Israele…»

Patrizio missere

EBRAISMO

W ailing W all | Dainis Matisons | CC BY 2.0 | www .flickr .com

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E

lemento basilare del-la liturgia ebraica è lo Shema‘ Jisrael, il credo per eccellenza del giudaismo, fulcro di tutta la sua tradizione spirituale. Si recita due volte al giorno, mattina e sera; e poiché numerosi martiri l’han-no proclamato nel momento estremo della loro testimonianza, è diventato la preghiera dei morenti. È la professione di fede che accompagna l’ebreo dalla più tenera età sino alla tomba.

La Mishnah1 ne indica tre parti

ar-monicamente strutturate: benedizioni iniziali, nucleo biblico, benedizioni fi-nali. Attestato sin dall’epoca del

Secon-do Tempio2, lo Shema‘ era in vigore ai

tempi di Gesù e delle prima comunità cristiane. Il più importante tra tutti gli elementi è il primo versetto di

Deutero-nomio3 6,4-9, Ascolta, Israele, il Signore è

il nostro Dio, unico è il Signor , il nucleo

più antico e vitale di tutto l’insieme, e

quindi il più commentato nel Talmud4.

In esso è fondamentale l’affer-mazione dell’unicità di Dio, intesa in

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22

sovente associato al timore. Il timore denota, in ambito religioso e cultuale (diversamente da quello psicologico), la posizione che la creatura deve assu-mere di fronte al Trascendente; è un comportamento che prende sul serio Dio; è disponibilità a obbedire a tut-ti i suoi comandi. L’abbinamento tut- ti-more/amore compare già nell’Antico Testamento, dove amare e servire Dio significa osservare la Torah con il mas-simo impegno, con cuore riconoscente e disinteressato, senza mirare a qualche ricompensa. Questo è il significato dominante nelle Scritture e nel giu-daismo, anche se non sempre appare così, come si osserva in Siracide 2,7-9, un testo, però, non accolto nel canone ebraico.

In tale prospettiva, si colloca il con-cetto di fede, nella quale consiste, in un certo senso, l’approdo dell’ascolto. La fede biblica è eminentemente volitiva e si traduce in fiducia nel Signore che opera nella storia. In ebraico “credere” si dice he’emin l, col significato di “farsi forte su Dio”, che interviene per dona-re salvezza all’uomo. Costui accoglie la sua manifestazione, fidandosi della sua parola-promessa, più in concreto, della

kòsmos, e traendo Israele

dall’oppressio-ne alla libertà della terra promessa, Dio realizza la sua signoria assoluta. La sua regalità è il potere dell’amore che dona l’essere e la vita.

In tal senso, amare Dio è la pie-nezza della religiosità, la motivazione e l’obiettivo sommo del servizio divino, com’è espresso appunto nello Shema‘. Il Deuteronomio presenta l’amore a Dio come comando rivolto a tutto il popo-lo, quale risposta fedele e obbediente al suo amore, manifestato con gli in-terventi salvifici; questa deve tradursi nella fedeltà al patto dell’alleanza, e quindi nell’obbedienza al volere di Dio contenuto nella Torah. Il rabbinismo6

sviluppa tale dottrina anche sotto l’a-spetto sentimentale, specialmente nei circoli mistici (nella cabala7, per

esem-pio), dove assume particolare rilievo la deveqùt, come «adesione/unione» a Dio, come stato di comunione con lui. Per Maimonide (1138-1204) l’amore a Dio è il sommo grado della «dedicazio-ne» alla divinità. In tal senso l’ascolto assume la dimensione più ampia della risposta umana nel riconoscere l’unici-tà di Dio.

Nella tradizione biblica, l’amore è forma funzionale più che ontologica,

in linea con la sensibilità ebraica: Dio è l’unico ad aver creato il mondo e a dargli un senso; è l’unico che ha scelto Israele, stabilendo con lui un’alleanza; perciò è l’unico per il quale Israele deve vivere: «Affermando mattina e sera che Dio è l’Unico, il devoto israelita confes-sava e ribadiva che, in ogni circostanza, soltanto l’adesione al volere divino po-teva garantire la sua libertà e la sua pie-na realizzazione»5. Proclamare l’unicità

di Dio significa abbandonarsi alla sua volontà provvidenziale e sovrana e, in questo, consiste l’ascolta primario.

L’ebreo sintetizza tutte le conse-guenze del suo recitare lo Shema‘ nel concetto accogliere il giogo del regno

di Dio, illustrato nel versetto

bibli-co: Amerai il Signore tu Dio con tutto

il cuore, con tutta l’anima, con tutta la forza (Deuteronomio 6,5). Ci sono

af-fermazioni basilari: da una parte, Dio è re dell’universo, creatore e promoto-re di vita e di libertà; dall’altra, la promoto- re-galità divina non è esercitata in forma automatica, ma esige la risposta libera dell’uomo. Segni della regalità di Dio sono la creazione del mondo e l’usci-ta dall’Egitto: trasformando il caos in

Gerusalemme: panorama |

Gaspa | CC BY 2.0 | www

.flickr

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parola scambiata in un patto di allean-za. I rabbini ereditano questo concetto biblico, per cui la fede è sostanzialmen-te atto di fiducia, in una situazione precisa. Alleanza e fede diventano sino-nimi, nella misura in cui si ripone fi-ducia in colui che nell’alleanza ha dato la Torah, e di conseguenza si accetta e si mette in pratica la legge. Chiunque accoglie e osserva un precetto dell’al-leanza esercita la fiducia. Questa fede si manifesta, ovviamente, nel timore e nell’amore appena descritti.

L’aspetto concettuale nella fede è secondario nel rabbinismo, come del resto nella bibbia, dove l’esistenza e di Dio e la sua provvidenza sono presup-posti. Sarà impegno del giudaismo elle-nistico sviluppare la dimensione intel-lettiva del concetto di fede. Il termine

pìstis della traduzione greca dei Settanta

(LXX, del III sec. a.C.) significa fiducia nelle promesse di Dio, ma sottolinea anche l’aspetto razionale, cioè l’esisten-za di un solo Dio.

Nell’epoca attuale, in cui si dibatte sull’esistenza di Dio, anche l’ebraismo riserva notevole importanza a que-sta dimensione. Secondo Abraham J. Heschel8, l’uomo può «trovare» Dio,

perché Dio per primo «trova» l’uomo. Dio continua a dire le parole rivolte ad Adamo che si era nascosto: Dove sei? (Genesi 3,9). In questo consiste il pa-radosso della fede biblica, riassumibile in quest’unica espressione. Dio è alla ricerca dell’uomo. La nostra ricerca di Dio non può considerarsi esclusiva-mente un problema umano: anche Dio ne è coinvolto, il suo stesso desiderio è implicato nei nostri rimpianti.

La fede è un evento spirituale non fisico, e tuttavia reale, come un lampo nell’oscurità. L’atto di fede va oltre le ragioni. È difficile per l’anima volgere in un discorso razionale le sue certez-ze profonde; l’atto di fede non si lascia identificare con la sua forma espressiva. Questa è asserzione di verità, un giudi-zio, una convinzione; la fede è, invece, un evento, qualcosa che accade, un mo-mento in cui l’anima umana entra in comunione con la gloria di Dio. Detto con le parole di Maimonide: la fede è

un bagliore nell’oscurità. Ma perché

tutto questo diventi realtà nell’uomo la porta d’accesso è l’ascolto, per cui Israele – e chiunque voglia ascoltare veramente – si sente sempre ripetere:

Shema‘, Jisrael…

N

ote

1 Le tradizioni orali, risalenti all’epoca biblica e trasmesse, in seguito, dai rabbini, dopo la distruzione del se-condo tempio (70 d. C.), sono state rac-colte nella Mishna (“ciò che è insegnato a voce”), nel II sec. d.C., e nel Talmud (“studio, insegnamento, dottrina”), nel V sec. d.C.

2 Inizia dopo il ritorno dall’esi-lio in Babilonia, con la ricostruzione del tempio intorno al 515 a.C.

3 Il Deuteronomio è l’ultimo li-bro della Torah o Pentateuco e si presenta come una sorta di testamento spirituale di Mosè, prima di morire nelle steppe di Moab, contenente esortazioni varie e co-dici di leggi.

4 Cfr. nota n. 1.

5 C. DI SANTE, La preghiera di

Israele, Marietti, Genova 1991, p. 56.

6 Per rabbinismo s’intende quella fase della tradizione giudaica che va dalla distruzione del Tempio, nel 70 d.C., per opera dei romani, al tutto il II sec.

7 Il termine deriva da un verbo ebraico con il significato di “ricevere” e, a partire dal XIV sec. è stato usato per designare il movimento mistico/esoterico ebraico, che aveva assunto forma definiti-va nel medioevo (XII sec., circa).

8 Cfr. A.J. HESCHEL, L’uomo

(25)

HOMELESS

Gianpaolo chiriacò

L’ascolto non innocente

Theo Bleckmann

| John Labbé per gentile concessione dell’autor

e

(26)

25

U

n documentario

da poco arrivato nei cinema ame-ricani, Under the

African Skies,

rac-conta la vicenda controversa di uno dei più famosi dischi degli ultimi trent’anni:

Graceland di Paul Simon. Il lavoro del

cantautore statunitense è passato alla storia non solo per la qualità – come sempre altissima – dei suoi testi e del suo canto, ma per il contesto in cui quel di-sco è nato. Simon veniva dal flop com-merciale di Hearts and Bones; alla ricerca di nuove direzioni artistiche, si era così imbattuto nella ricchissima produzione musicale sudafricana e aveva deciso di incorporare il sound di alcuni di quei dischi nel suo nuovo album. Da questo punto di vista, Graceland è senza dubbio un capolavoro: ha il pregio di restituire la profondità dell’incontro musicale tra un raffinato songwriter e un panorama sonoro tra i più vasti al mondo.

Tuttavia, quei brani erano stati re-gistrati in Sudafrica, con musicisti neri, nel pieno del boicottaggio culturale contro l’apartheid, sancito dall’ONU, che circa dieci anni prima aveva anche proclamato l’embargo militare (mai re-almente messo in atto). In prossimità dell’uscita del disco e dei relativi concer-ti, Paul Simon fu accusato da più parti di aver contravvenuto alle disposizioni dell’ONU. In particolare, suo acerrimo oppositore durante l’intero svolgimento del tour internazionale fu l’African Na-tional Congress, organo politico della maggioranza nera sudafricana. Il docu-mentario concentra gran parte della sua attenzione proprio sulla dialettica fra il musicista e l’organizzazione politica. Ma la questione, oltre alla sua natura politi-ca, sollevava problematiche di tipo etico ed estetico, che potremmo sintetizzare così: era più sensato il silenzio dettato dall’ONU o aveva più valore la possi-bilità che quei musicisti fossero ascolta-ti da una platea mondiale? In fondo, i Ladysmith Black Mambazo e altri artisti presenti sul disco erano vittime del

si-stema segregazionista tanto quanto del silenzio imposto dalle organizzazioni mondiali.

Proviamo a sviluppare la questione. Paul Simon, in quegli anni, abborracciò una flebile difesa affermando che il suo interesse primario, dirigendosi verso il Sudafrica, era quello di fare musica: un progetto artistico, quindi, senza alcuna intenzione di compiere un gesto poli-tico. Un argomento alquanto debole, e in effetti è difficile pensare a una star del calibro di Paul Simon che si reca in Sudafrica senza che qualcuno del suo entourage lo avvisi del pericolo in atto. Eddie Prévost, batterista jazz e leader di una corrente musicale inglese promotri-ce di una musica radicalmente improv-visata e densamente concettuale, anni fa pubblicò un libro dal titolo No Sound Is

Innocent (Prévost 1995)1. Parafrasando

quel titolo, è facile sostenere che il disco di Simon non poteva essere innocente. Ma ci si potrebbe spingere ancora più avanti, fino ad affermare – in via forse un po’ provocatoria – che nessun ascolto è innocente. Non è mia intenzione ap-profondire il risvolto politico di questa affermazione (per quanto sia evidente: l’ascolto richiede sempre un coinvolgi-mento), ma di certo ascoltare è un atto interpretativo. E la questione della sua “non innocenza” è interessante anche in termini storici e culturali.

L’etnomusicologia è una disciplina che conosce bene il problema. Trattan-dosi, nella maggior parte dei casi, dello studio della musica all’interno di una cultura diversa da quella dello studioso (o come si preferisce dire in tempi recen-ti: dello studio della musica in quanto cultura diversa da quella dello studio-so2), l’etnomusicologo è chiamato a

ri-conoscere e descrivere i delicati intrecci che legano il patrimonio musicale al contesto (sociale e culturale) d’apparte-nenza. Ma allo stesso tempo l’interpre-tazione che il ricercatore darà di quel particolare repertorio (e territorio) su

cui ha deciso di concentrare la sua ana-lisi – dedicandoci spesso diversi decenni – sarà ineluttabilmente legata alla pro-pria concezione di musica, alle proprie attitudini di ascolto; in altri termini: alla propria cultura di appartenenza. La sua interpretazione, quindi, non sarà mai innocente.

È un problema con cui, nella mia ricerca, mi scontro quotidianamente. Grazie a una borsa di studio Marie Curie (International Outgoing Fellowship3),

finanziata dall’Unione Europea, mi occupo di ricostruire l’estetica voca-le afroamericana dalla sua formazione ai giorni nostri. Si tratta di una ricerca appassionante e articolata, che punta a ricostruire il modo in cui attitudini ca-nore, tecniche vocali e repertori di canto sono arrivati dall’Africa nel continente americano, evolvendosi nel contesto della schiavitù per poi radicarsi in ge-neri di successo (il blues, il gospel, la soul music, etc.). Quegli stessi elementi vocali – per quanto antichi – costitui-scono forze culturali vive ancora oggi, e continuano a definire i contorni di re-lazioni umane e sociali all’interno delle comunità nere americane. Per il mio lavoro svolgo interviste con performer contemporanei, ma allo stesso tempo studio le fonti storiche: descrizioni dei canti che si sono accumulate e conserva-te nell’arco di quattro secoli. In un certo senso, il mio ascolto (già di per sé non innocente) deve costantemente mettersi in relazione con i resoconti di testimoni e narratori (a loro volta non innocenti).

I documenti storici su cui lavoro sono, in particolare, commenti scritti da quei viaggiatori (bianchi) che si sono ritrovati investiti dal raggio sonoro di espressioni vocali afroamericane, come i canti di lavoro degli schiavi, e che rac-contano (in diari, articoli, libri, etc.) la straordinarietà di quella esperienza.

Di certo l’impatto sonoro con il canto di un gruppo di schiavi intento a raccogliere cereali o cotone, o in cammi-no di ritorcammi-no dai campi, o in marcia in un corteo funebre, non poteva non

ge-etnomusicologia

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