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Luca Pacioli e lo sviluppo della matematica “pratica”

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Academic year: 2021

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Economia Aziendale Online Vol. 3, 3-4/2012: 281-284 Principles www.economiaaziendale.it

DOI: 10.4485/ea2038-5498.003.0021

Ubaldo Comite

Dip.to di Scienze Aziendali, Università della Calabria, Rende (Cs) – Università Telematica E-Campus, Novedrate (Co) E-mail: ubaldo.comite@unical.it

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Economia Aziendale Online Vol. 3, 3-4/2012: 281-284 Principles www.economiaaziendale.it

DOI: 10.4485/ea2038-5498.003.0021

Adele Colli Franzone Università degli Studi di Pavia E-mail: adele.collifranzone@unipv.it

Luca Pacioli e lo sviluppo della matematica “pratica”

Adele Colli Franzoni

1 – Le scuole d’abaco

Il termine abaco deriva presumibilmente dall’ebraico AVAQ, polvere, che designava in origi-ne una tavoletta ricoperta di un sottile strato di sab-bia sulla quale venivano tracciati e cancellati con facilità i “segni” per far di conto.

Al tempo di Leonardo Pisano detto Fibonacci l’abaco consisteva in una serie di palline forate che scorrevano su fili paralleli dove in un certo senso la pluralità dei fili faceva le veci della notazione posi-zionale. Fu infatti Fibonacci a definire la nuova ma-niera di calcolo basata sulla posizione delle cifre e sull’uso dello zero mentre fino ad allora la numera-zione romana utilizzata mancava di un rapporto si-stemico tra il valore di una cifra e la sua posizione. Tale metodo, detto indo-arabo, Fibonacci lo apprese nei suoi viaggi nel Mediterraneo meridionale dove conobbe maestri che lo iniziarono alla matematica araba e al loro sistema di numerazione. Fibonacci determinò grazie ai suoi scritti una rinascita degli studi matematici in tutta Europa, sebbene dovettero passare ancora molti anni prima che l’antica nume-razione romana fosse del tutto sostituita e certamente la sua opera, il Liber abaci, rappresentò il fonda-mento dell’aritmetica per tutto il Medioevo.

Dal 1300 al 1500 in Italia fiorì una ricca produ-zione di opere matematiche, i cosiddetti “trattati d’abaco” che presero spunto proprio dalle opere del Pisano. Esse si differenziavano nettamente dalla tra-dizione euclidea e dal metodo assiomatico-deduttivo: qui la trattazione infatti appare solitamen-te disorganica e certamensolitamen-te mancansolitamen-te dell’ordine logico euclideo e pure l’esposizione è induttiva poi-ché, partendo da un singolo caso, si cercava di defi-nire regole che potessero essere utili solo per speci-fiche tipologie di problematiche connesse a un parti-colare caso.

Sono dunque trattati di aritmetica utili a risolve-re problemi di calcolo, ma soprattutto utili alla mar-catura. Si tratta quindi di una matematica che “mo-stra” ma non “dimo“mo-stra” e le soluzioni di problemi che propone sono sovente approssimative anche se

soddisfacevano le esigenze del tempo, vale a dire quelle pratiche del commercio. Alcuni di questi testi sono vere raccolte enciclopediche dove talora si rav-visano gli elementi teorici riferiti alle regole di cal-colo.

Nel 1279 nel comune di San Gimignano venne fondata la più antica “scuola d’abaco” di cui abbia-mo testiabbia-monianza. Ne abbiaabbia-mo notizia nel testo delle Provvisioni in cui si evidenzia il carattere pubblico dell’insegnamento, finanziato dal comune e dalle varie Corporazioni mercantili. Tali scuole si diffuse-ro rapidamente nell’Italia centdiffuse-ro-settentrionale, dal Veneto all’Umbria, proprio per soddisfare le esigen-ze di istruzione dei figli dei mercanti e artigiani, i figli della nascente borghesia, sebbene fossero fre-quentate anche da giovani appartenenti a nobili fa-miglie.

Nella scuola dunque il termine abaco non rap-presentava più solamente lo strumento di calcolo, ma anche la disciplina stessa che vi veniva insegna-ta. Le scuole d’abaco infatti potrebbe essere lonta-namente paragonate agli odierni istituti tecnici pro-fessionali. Oltre a queste scuole pubbliche ne esiste-vano anche di private, in special modo a Firenze do-ve si definivano “botteghe”, appellativo che ben chiarisce come in esse l’insegnamento delle arti a-stratte non fosse affatto disgiunto da quello delle tecniche, in un originale connubio di cultura, tradi-zione e conoscenza pratica.

L’età degli allievi era compresa fra i dieci e i dodici anni e la durata degli studi era di circa due anni, durata che però poteva variare a seconda delle attitudini dell’allievo e delle esigenze della famiglia di provenienza.

Le scuole d’abaco definivano quindi una cultura pratica legata all’attività dei tecnici. I testi erano re-datti in lingua volgare e vergati nella scrittura detta “mercantesca”. A tale tradizione culturale si affianca nel Rinascimento quella dei “dotti”, in lingua latina, trasmessa in ambiti universitari, nelle corti e nei cir-coli umanistici. Va però detto che non vi era affatto incomunicabilità tra le due culture, anzi fra loro eb-bero luogo a più riprese scambi e contaminazioni.

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2 – Luca Pacioli: la vita

L’età di Luca Pacioli è il Rinascimento: epoca di grandi cambiamenti che definirono una nuova con-cezione dell’individuo e del mondo, sviluppando le idee elaborate dall’Umanesimo, sua radice. L’uomo grazie all’Umanesimo, nuova forma di coscienza storica e civile, era divenuto l’attore primario sulla scena di un mondo radicalmente mutato. Si tentò, in quest’ambito, di recuperare la classicità nella sua correttezza filologica e nella sua completezza, nel tentativo di appropriarsi del testo classico così come l’autore l’aveva concepito, senza la necessità, pro-fondamente medievale, di cancellare ogni traccia di riferimento pagano. Così gli intellettuali iniziarono a confrontarsi con il mondo classico senza più avverti-re quel senso di inferiorità e di nostalgia dell’antico che faceva sentire i medievali “nani sulle spalle dei giganti”, secondo la celebre definizione di Bernardo di Chartres.

Una vera rivoluzione culturale mutò dunque i parametri della civiltà. Il passato classico non fu più solo imitato ma rielaborato come esempio e fonte di ispirazione per nuove creazioni, generando un radi-cale rinnovamento del modo d’essere e di pensare. Anche la matematica aveva giocato un ruolo fonda-mentale declinando i propri aspetti teorici in aspetti operativi e quindi pratici, suggerendo in tal modo prospettive fino ad allora inesplorate. Rinascimento è quindi una nuova categoria della mente ed in tale contesto si pone la figura di Luca Pacioli, nato attor-no al 1445 in Borgo San Sepolcro, attor-non lontaattor-no da Arezzo. La sua famiglia, piuttosto modesta, lo aveva probabilmente avviato agli studi presso la locale scuola d’abaco, prima dell’ingresso nell’ordine fran-cescano e degli studi teologici che lo portarono a di-ventare maestro. Nel 1464 si trasferì a Venezia, dove soggiornò in casa della famiglia dei Rompiasi (che troviamo anche citati come Rompiaci), ebrei resi-denti alla Giudecca, come istruttore dei tre figli.

A Venezia frequentò le lezioni di Domenico Bregadino, pubblico lettore di matematica della Re-pubblica alla Scuola di Rialto, e di Paolo della Per-gola. Lì apprese il latino e le discipline liberali, de-dicandosi con particolare attenzione alle arti del quadrivio. Ma determinante per la formazione di Pa-cioli fu la frequentazione della “giuderia”: accompa-gnando Rompiasi nei suoi viaggi d’affari potè entra-re in contatto con l’ambiente “degli uomini pratici” cioè di mercanti, commercianti e lavoratori d’ogni genere. Il francescano acquisì in questo modo cono-scenze matematiche, computistiche e quelle relative alla tenuta dei libri contabili, che saranno determi-nanti per tutta la sua attività scientifica e pratica.

Pacioli visse quindi a Roma, ospite di Leon Bat-tista Alberti, poi fu ad Urbino dove si trovavano an-che Bramante, Francesco di Giorgio Martini e Piero della Francesca. Ritornò infine a Venezia nel 1494

per seguire la stampa a caratteri mobili della sua o-pera in volgare Summa de aritmetica geometria pro-porzioni et proporzionalità, dedicata a Guidobaldo Duca d’Urbino, presso la tipografia di Paganino dè Paganini. Fu Ludovico il Moro a chiamarlo a Milano due anni dopo conferendogli l’incarico dell’insegnamento pubblico della matematica: rico-noscente, Pacioli dedicò al Moro il trattato De divina proportione, terminato nel 1498. Dopo la sconfitta del Duca da parte dei francesi, Pacioli, così come Leonardo, si spostò a Mantova, poi a Venezia ed in-fine a Firenze.

In seguito, la sua vita fu un lungo peregrinare: tenne lezione nelle Università di Bologna, Pisa e Pa-via, solo nel 1508 tornerà a Venezia per curare la stampa del De divina proportione terminata nel 1509 (impreziosita dall’uso di caratteri particolarmente eleganti per sottolinearne il valore) e tenere un corso di lezioni su Euclide. Nominato professore a Perugia nel 1510, quattro anni dopo fu chiamato a Roma da Papa Leone X e ritrovò così l’amico Leonardo da Vinci. Morì nel 1517.

3 – L’opera di Pacioli

L’opera di Pacioli esprime pienamente il suo essere uomo del proprio tempo, uomo del Rinascimento, in grado di definire il nuovo, nelle sue varie possibili espressioni, a partire dall’antico, attraverso un balzo in avanti pur nella continuità, un riordino, una ricon-siderazione del passato in vista del futuro. Scrisse Cantor che la Summa “non fu solo l’opera che i bi-sogni culturali del tempo richiedevano, ma fu anche quella che a tali bisogni seppe soddisfare”.

Pacioli fu prima di tutto un matematico. Proprio la Summa, compilata in volgare toscano “materna e vernacula lengua”, è impreziosita da vocaboli latini e greci, che si trovano accostati ad inflessioni varia-mente dialettali in modo da conciliare la cultura lati-na dei dotti con quella volgare dei tecnici. Si tratta del tentativo di approntare una summa del sapere matematico di carattere scientifico ed enciclopedico. L’esposizione si avvale di un sistema concettuale al contempo teorico e pratico in cui la visione mistico-neoplatonica delle “armonie numeriche” diventa mezzo per comprendere le realtà del mondo e l’agire operativo di ogni giorno. Ovviamente nel testo con-vergono molte branche delle discipline coltivate già nel Medioevo, tuttavia l’autore seppe andare ben ol-tre i trattati d’abaco, ai quali certamente aveva attin-to, rendendoli obsoleti e definendo il primo incontro fra la matematica teorica delle Università e quella pratica delle botteghe d’abaco (sebbene l’incontro non si possa certo definire a metà strada). Pacioli dunque, frate francescano maestro d’abaco ma anche Magister theologiae, tenta di colmare le differenze linguistiche, culturali e sociali tra la bottega e l’Università. Così i suoi scritti divennero

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tamente un riferimento imprescindibile in campo matematico, anche per la precoce diffusione a stam-pa: l’autore seppe infatti ben comprendere le oppor-tunità che la nuova invenzione offriva e seppe sfrut-tarne appieno le potenzialità.

Nella Summa Pacioli propone una drastica revi-sione del sistema delle arti e delle scienze in virtù di quella comune radice che è appunto la matematica. In tal senso egli rappresenta la figura emblematica di un’epoca, quella dell’uomo universale per il quale arte e scienza costituiscono un’indissolubile unità. Le scienze vengono figurate in forma di poliedro che racchiude la perfezione del mondo, quel mondo che riteneva creato da Dio attraverso i numeri, le figure geometriche e le proporzioni, come asserì successi-vamente anche Galileo Galilei.

L’originalità dell’opera, e quindi del pensiero di Pacioli, non consiste tanto nel contenuto quanto nell’ordinamento strutturale: l’autore riassunse infat-ti in una sola opera ciò che prima era sparso in una miriade di manoscritti, riunendo quindi quanto l’occidente aveva prodotto dai tempi di Fibonacci in campo matematico. La Summa rappresentò così il punto di partenza per tutti gli sviluppi futuri delle ricerche matematiche rinascimentali. La natura di riassunto propria delle opere di Pacioli attirò le criti-che, ad esempio, di Giorgio Vasari criti-che, nel 1550, nelle Vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scul-tori, accusò Pacioli di aver trascritto in volgare nel De Divina Proportione, con pochissime modifiche, il Libellus de quinque corporibus regularis di Piero della Francesca, il pittore matematico. La mancata citazione dell’autore da parte del francescano appar-ve a Vasari graappar-ve scorrettezza, al pari della trascri-zione, nella Summa, di una Tariffa di prezzi applica-ti nei vari staapplica-ti, senza accenno alla fonte. Certo l’uso “disinvolto” delle fonti appare oggi piuttosto comu-ne comu-negli autori del tempo, che ignoravano il diritto d’autore: inoltre Pacioli, con stima e ammirazione, riteneva Piero della Francesca suo maestro, quindi sarebbe da escludere una palese volontà di plagio. È probabile invece che, con la traduzione in volgare, il matematico abbia voluto garantire una più ampia diffusione dell’opera dell’amico.

4 – Pacioli e la contabilità

E’ nell’XI Trattato della Summa intitolato Tractatus de computi set scriptures che Pacioli introdusse in forma strutturata il meccanismo della partita doppia, certo conosciuto anche prima della pubblicazione dell’opera. Già nel 1340 infatti a Genova i Massari del Comune tenevano la propria contabilità in partita doppia, seppur con importi ancora espressi in numeri romani.

Già alla fine del XIII, e soprattutto nel XIV e XV secolo, molti erano i libri contabili in scrittura doppia, di cui si trova ancora traccia nelle

bibliote-che delle città italiane. Questi testi sono catalogati come “libro di commercio” o “libri di dare e avere” o anche “libri di debitori e creditori”, spesso appar-tenenti a notissime famiglie di mercanti, banchieri e nobili. Il più antico libro mastro in partita doppia a noi pervenuto è il Quaderno, che in veneziano signi-fica Mastro, della Fraternita Soranzo, del 1406. Nel secolo XV la partita doppia venne applicata ed inse-gnata in base a regole ben note ai ragionieri. Se la corretta tenuta della contabilità permetteva ai mer-canti di ottenere una perfetta uguaglianza tra la summa summorum del Dare e dell’Avere, questa non era ancora la partita doppia, che prevede invece l’uso della doppia registrazione - addebiti uguali ad accrediti - come mezzo di verifica e di correzione degli errori.

Pacioli dedica alla partita doppia venticinque pagine suddivise in trentasei capitoli dove vengono elencati i tre fondamentali requisiti per poter “gestire gli affari”:

1) possedere cavedal (capitale)

2) essere “buon ragioniere e pronto computista”, che significa avere abilità e competenza negli affari e nel tenere i conti

3) disporre “con bello ordine tutte le sue faccen-de”, concetto che ribadisce l’essenzialità dell’ordine nella tenuta delle scritture e che sottintende anche un aspetto etico, come a dire: “da come si tengono le scritture contabili si deduce il carattere e la morale di chi li tiene”. Concetto che varrebbe la pena di ben riconsiderare e rivalutare anche oggi!

Il Tractatus è la prima opera a stampa in cui queste tematiche vengono trattate in maniera ampia e completa, in cui inoltre viene specificato il signifi-cato dei termini Dare, Avere, Bilancio e Inventario. Modo di Vinegia fu denominato il metodo della par-tita doppia da Pacioli poiché era stato accolto con “favore dai mercanti veneziani e con tale nome fu successivamente conosciuto in tutta Italia”. La tenu-ta dei conti in base a tenu-tale metodo comprende due parti principali: l’inventario e la disposizione. Ven-gono qui descritti i tre “libri principali del corpo mercantesco che sono: memoriale, giornale e qua-derno”. Il Memoriale detto anche squartafoglio o vaschetta è un libro nel quale tutte le faccende “son al mercante piccole o grandi che a man li vengono e giorno per giorno e ora per ora iscrive”: non solo il padrone potrà annotarlo, ma anche li “fattori” e i garzoni in sua assenza. Si tratta quindi di un registro di prima memoria dei fatti aziendali dove molti “mettono mani”.

Il Libro giornale del mercante è invece segreto: al suo interno, oltre all’inventario, si trovano le scrit-ture connesse alle operazioni di gestione che debbo-no essere formulate sia in modo abbreviato che con un linguaggio tecnico. Dopo la stesura sul giornale le partite vengono trasferite nel terzo registro, quello

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principale, detto quaderno o quaderno grande o li-bro grande, oggi denominato lili-bro mastro, compila-to in base alle regole fondamentali della partita dop-pia esposte del quattordicesimo capitolo. Tali regole erano state apprese da Pacioli a Venezia nel periodo iniziale della sua attività nella casa della famiglia Rompiasi, grazie alla pratica quotidiana e alla fami-gliarità con il mondo mercantile. Per tale ragione l’autore fece uso di termini tipici del volgare vene-ziano, come cavedal e zornal.

L’opera fu tradotta nelle principali lingue del vecchio continente e si diffuse in tutti gli ambienti mercantili europei. Fu così grazie a Pacioli che la partita doppia venne teorizzata, allontanandosi dall’arte dell’abaco, cioè dal semplice calcolo e dalla scrittura elementare. Si può discutere se egli fu un divulgatore o un innovatore, certo rimane il primo studioso ad aver dedotto la partita doppia dai fatti economici e ad aver definito un metodo divenuto universale come forma matematica applicata ad un contesto caratterizzato dal sistema dei baratti o degli scambi monetari. L’intuizione ragionieristica derivò dunque dai concetti matematici: fu proprio tale for-mazione di Pacioli a permettere il salto di qualità dalla necessità operativa ad una vera base teorica. D’altra parte i tempi erano maturi perchè un uomo con preparazione e conoscenze adeguate (nonché

con l’intuizione propria di Pacioli) potesse inquadra-re l’azione dei soggetti economici in una complessa economia monetaria di scambio a più monete. Mai nessuno in precedenza aveva capito e chiarito i nessi tra contabilità e matematica e nessuno aveva definito il distacco fra l’arte dell’abaco e la rilevazione tabile. In tal senso la partita doppia divenne al con-tempo forma e contenuto: formalmente è infatti un modello matematico generale ed universale utilizza-bile per capire i fenomeni che abbiano il requisito della dualità. La diffusione delle teorie del france-scano non incontrò ostacoli nel mondo occidentale: non a caso nel celebre ritratto di Thomas Cromwell, realizzato da Hans Hoibein nel 1533, questi, figlio di un fabbro riuscito a diventare Ministro del Re d’Inghilterra Enrico VIII, appare seduto con lo sguardo fermo e severo, fisso a scrutare qualcosa o qualcuno che si trova al di là dell’immagine e tiene sul tavolo al suo fianco un elegante volume verde con le pagine dai tagli dorati che contiene proprio la Summa di Pacioli.

Dal XV al XVII secolo la ragioneria ebbe poi un’evoluzione lenta e frammentaria, povera di opere di un qualche rilievo. Dovranno passare secoli prima che le rilevazioni contabili diventino una disciplina sistematica.

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