di Annamaria Poggi
Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico
Università degli Studi di Torino
Il regionalismo italiano ancora alla
ricerca del “modello plurale” delineato
in Costituzione
Il regionalismo italiano ancora alla ricerca del
“modello plurale” delineato in Costituzione
*
di Annamaria Poggi
Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico
Università degli Studi di Torino
Sommario: 1. Regioni “differenziate”: un tertium genus tra ordinarie e speciali? Un’occasione per dibattere sulle sorti del regionalismo italiano. 2. Un dibattito che ritorna, segno di un mancato assestamento del modello costituzionale. 3. Le problematiche connesse alla specialità “storica”. 4. Il nesso inscindibile tra potestà legislativa regionale e norme di attuazione come proiezione del principio di specialità. 5. Il regionalismo differenziato e l’ulteriore crisi della specialità
1. Regioni “differenziate”: un tertium genus tra ordinarie e speciali? Un’occasione per dibattere sulle sorti del regionalismo italiano
Nella voce Regione (diritto costituzionale) del Digesto delle Discipline pubblicistiche del 2008 Antonio Ruggeri iniziava la sua trattazione con una frase che ancora oggi si potrebbe porre all’inizio di analoghe riflessioni: «Pur tra varie vicissitudini che l’hanno segnata dalle sue origini e fino ai giorni nostri, la Regione
non cessa di essere una sorta di oggetto misterioso, secondo modello come pure secondo esperienza»1.
Sarà anche in forza di tale consapevolezza che le riforme, o i tentativi di riforma, di quell’”oggetto misterioso” sono sempre stati salutati positivamente dagli addetti ai lavori, nella speranza di una maggior definizione. E tali occasioni, a dir la verità, non sono mancate, da quando Enzo Cheli noto che poco dopo la loro effettiva istituzione le Regioni erano già entrate in un «cono d’ombra».
Anche nell’attuale Legislatura il dibattito si è riacceso sotto la peculiare prospettiva dell’attuazione del c.d. regionalismo differenziato di cui all’art. 116, comma 3 Cost.
Per la verità non è la prima volta che si cerca di dare attuazione a tale norma costituzionale. La prima iniziativa, del 2003, probabilmente quella più articolata, si deve alla Regione Toscana, in materia di beni culturali.
Dopo qualche anno altre tre Regioni presero l’iniziativa.
Il Consiglio regionale del Piemonte deliberò in data 25 settembre 2007 l’avvio del procedimento di individuazione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. Nella bozza di “Documento per l’avvio del procedimento di individuazione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” diffusa dalla stessa
* Paper non sottoposto a referaggio. In corso di pubblicazione negli Scritti in onore di Antonio Ruggeri 1 Anche in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, XII, Studi dell’anno 2008, Torino, 2009.
Regione erano contenute proposte di negoziazione assai generiche su tre ambiti: beni paesaggistici e culturali; infrastrutture e autonomia universitaria e ricerca scientifica. Il 28 gennaio 2008 la Giunta regionale deliberò nuovamente l’intendimento di avviare il percorso di differenziazione e di affidare al suo Presidente il mandato a negoziare con il Governo. Nel novembre 2008 il Presidente della Giunta annunciò l’apertura ufficiale di trattativa con il Governo.
Nel luglio del 2007 la Giunta regionale del Veneto (portando a compimento un percorso avviato con una sua delibera del 24 ottobre 2006), trasmise al Consiglio regionale una propria delibera di attuazione del 116 con la richiesta di iscrizione della stessa all’ordine del giorno del Consiglio regionale. Il 18 dicembre 2007 il Consiglio regionale, a larghissima maggioranza (53 voti a favore su 55 presenti) approvò un documento che conferiva mandato al Presidente a negoziare con il Governo forme e condizioni particolari di autonomia. Le materie interessate a tale negoziazione erano: istruzione, tutela della salute, tutela e valorizzazione dei beni culturali, ricerca scientifica e tecnologica, potere estero, giustizia di pace, tutela dell’ambiente, comunicazioni, previdenza complementare ed integrativa, protezione civile, infrastrutture casse di risparmi e casse rurali a carattere regionale, lavori pubblici.
Con una risoluzione approvata il 3 aprile 2007 il Consiglio regionale della Lombardia aveva impegnato il Presidente della Regione ad avviare il confronto con il Governo per definire e sottoscrivere un’intesa. Nell’ottobre del 2007 fu aperto ufficialmente il negoziato. In particolare la Regione aveva concordato con lo Stato di iniziare le trattative sulle tre materie ritenute prioritarie: organizzazione della giustizia di pace, tutela dell’ambiente e tutela dei beni culturali.
A causa di tali iniziative regionali, il 30 ottobre 2007 il Governo presentò un disegno di legge di attuazione dell’art. 116, terzo comma allo scopo di implementare la norma costituzionale, attraverso l’indicazione di un percorso più definito. Le iniziative non ebbero corso, come neppure il disegno di legge governativo, a causa della situazione politica che condusse alle dimissioni del Governo il 6 maggio 2008.
Nell’ultimo scorcio della XVII Legislatura le stesse Regioni già protagoniste delle vicende appena rammentate (più l’Emilia-Romagna) hanno nuovamente deciso di avviare il percorso previsto dall’art. 116 ult. comma Cost. A queste richieste (peraltro contraddistinte, rispetto alla stagione precedente, da un numero quantitativamente assai elevato di richieste: Lombardia e Veneto chiedono in differenziazione sostanzialmente tutte le materie di legislazione concorrente, mentre l’Emilia-Romagna propone richieste più contenute) ha dato riscontro il Governo, con la stipula di “Accordi preliminari”, materialmente sottoscritti dal Sottosegretario per gli Affari regionali e le autonomie (Gianclaudio Bressa) evidentemente con il placet della Presidenza del Consiglio dei ministri, cui questo ministero è sottoposto, trattandosi di un Ministero senza portafoglio.
Gli Accordi preliminari sono stati stipulati rispettivamente il 28 febbraio 2018 con la Regione Emilia Romagna (a firma di Stefano Bonaccini); il 28 febbraio 2018 con la Regione Lombardi (a firma di Roberto Maroni) e sempre il 28 febbraio con la Regione Veneto (a firma di Luca Zaia). La Regione Piemonte che pure aveva adottato un ordine del giorno in tal senso, non ha ritenuto, tuttavia, di siglare detto Accordo, forse ritenendo che l’operazione fosse stata promossa in articulo mortis, data l’ormai imminente conclusione della Legislatura.
La storia dei tentativi di attuazione dell’art. 116, dunque, è risalente, Per rimanere alle vicende più recenti, quello che sembrava un tema dell’agenda politica del precedente Governo è, invece, entrato con una certa enfasi, almeno iniziale, anche nel c.d. Contratto di Governo dell’attuale compagine governativa che all’art. 19 sancisce l’impegno «di porre come questione prioritaria (…) l’attribuzione, per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, portando anche a rapida conclusione le trattative tra Governo e Regioni attualmente aperte». Forse principalmente a questo aspetto (portare a rapida conclusione le trattative già aperte) mirava la compagine leghista del Governo, per far fede ad un impegno potremmo dire quasi “originario” con il proprio elettorato. Non potendo, però, escludere tutte le altre Regioni ordinarie dalla possibilità aperta con la revisione costituzionale del 2001 lo stesso Contratto prevede che: «questo percorso di rinnovamento dell’assetto istituzionale dovrà dare sempre più forza al regionalismo applicando, Regione per Regione, la logica della geometria variabile che tenga conto sia delle peculiarità e specificità delle diverse realtà territoriali sia della solidarietà nazionale, dando spazio alle energie positive ed alle spinte propulsive espresse dalle collettività locali».
Occasione prontamente colta. Così, almeno altre sei Regioni (Toscana, Marche, Umbria, Liguria, Basilicata e Campania) hanno manifestato l’intenzione di muoversi in tale direzione. Non tutti i percorsi sono ugualmente strutturati e già pervenuti ad un livello di dettaglio delle materie sufficientemente maturo. Ma in alcuni il lavoro svolto mostra un ventaglio di richieste davvero notevole.
Il 17 maggio 2018 il Presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi ha comunicato di aver illustrato in Giunta una proposta per un regionalismo differenziato “ben temperato” da presentare per la discussione in Consiglio regionale. Nella proposta figura già un elenco di materie da richiedere: dal governo del territorio all’ambiente, ai beni culturali (in particolare la tutela dei beni librari e la promozione e valorizzazione del sistema museale), al lavoro, all’istruzione tecnica e professionale e alla formazione, ai porti (comprese le concessioni demaniali), all’accoglienza e all’assistenza ai rifugiati, la sanità, al coordinamento della finanza pubblica e alla legislazione sulle autonomie locali.
Il 29 maggio 2018 il Consiglio regionale delle Marche (in seguito ad accordi assunti con la Regione Umbria) ha approvato le linee di indirizzo elaborate dalla Giunta circa la richiesta al Governo di maggiore
autonomia nelle seguenti materie: internazionalizzazione e commercio con l’estero; ricerca scientifica e tecnologica; sostegno all’innovazione per i sistemi produttivi; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione tecnica e professionale; istruzione e formazione professionale; istruzione universitaria; territorio; rigenerazione urbana, ambiente e infrastruttura; protezione civile; coordinamento della finanza pubblica e sistema tributario; governance istituzionale; partecipazione alla formazione e all’attuazione del diritto all’Unione europea.
Il 19 giugno il Consiglio regionale dell’Umbria (anche sulla scorta delle richieste già avanzate dalle altre Regioni) ha approvato all’unanimità una risoluzione che chiede alla Giunta di attivarsi presso il Governo per attivare la procedura del 116, comma 3 con riguardo alle materie: beni culturali e paesaggio, ambiente e governo del territorio, turismo, diritto allo studio, formazione ed istruzione, università, sviluppo economico, sanità e welfare. La delibera specifica che possibilmente il percorso dovrebbe attivarsi in accordo con Toscana, Marche e Lazio, allo scopo di creare possibili sinergie nell’esercizio di talune funzioni.
Altre tre regioni hanno assunto iniziative preliminari (consistenti nell'approvazione di atti di indirizzo), ma senza tuttavia giungere ad una formale approvazione di un mandato (Basilicata, Calabria, Puglia), mentre soltanto due Regioni, Abruzzo e Molise, non risultano ad oggi aver intrapreso iniziative formali per l'avvio della procedura ex art. 116, terzo comma, della Costituzione.
Insomma, la seconda proposizione contenuta nel Contratto di governo, circa una geometria variabile estesa a tutte le Regioni, almeno potenzialmente, è entrata in campo. Ma proprio perciò, indipendentemente dalle reali intenzioni dei suoi proponenti, pone, nell’ipotesi di una sua eventuale attuazione, un tema di fondo al regionalismo italiano: è possibile che tutte le Regioni ordinarie diventino “differenziate”?
L’art. 116, comma 3 non si pronuncia sul punto ma è evidente che tale circostanza porrebbe seriamente in discussione l’attuale impianto costituzionale nella sua distinzione di fondo tra Regioni speciali e Regioni ordinarie e, soprattutto, nel paradigma di una “ordinarietà” governata dal Titolo V rispetto al quale le cinque Regioni speciali sono considerate (parziali) deroghe.
Non solo. L’attuazione del regionalismo differenziato, infatti, potrebbe comportare, conseguenze non da poco sullo stesso regime di specialità2: se, il principio pattizio (che sta alla base della specialità, soprattutto
in forza delle norme di attuazione degli Statuti speciali) diventasse anche il cardine del regime di
2 Sul tema v. tra gli altri, G. ARMAO, L’autonomia speciale, la variegata attuazione del regionalismo differenziato e gli spazi per
un rilancio, in www.astrid online, luglio 2018; ID., Il regionalismo differenziato e la Regione Sicilia, in www.astrid online, maggio
2019; S. MANGIAMELI, I problemi della differenziazione e della omogeneità nello Stato regionale, in www.issirfa.cnr.it.,febbraio 2019; D. TRABUCCO, Referndum consultivi e regionalismo differenziato: verso un regime di semispecialità? in
differenziazione delle Regioni ordinarie (come farebbe presupporre l’applicazione a queste dell’istituto della commissione paritetica per le decisioni fondamentali del regime di differenziazione stesso) non sarebbe più giustificabile un regime di specialità limitato come quello attuale, poiché la specialità diventerebbe la vera “cifra” costituzionale del regionalismo italiano.
Inoltre, come è stato giustamente osservato sebbene l’art. 116 non dica nulla in ordine alla durata delle Intese, «tuttavia, la lettura complessiva dell’articolo sembra suggerire l’idea che queste non possano attribuire alle regioni ordinarie una differenziazione di status sine die perché se così fosse le regioni di cui parliamo si troverebbero in una condizione sostanzialmente più favorevole rispetto alle Regioni speciali,
violando in tal modo la clausola di maggior favore di cui all’art. 10, l. cost. n. 3 del 2001»3.
Altri hanno osservato che la generalizzazione del meccanismo del regionalismo differenziato a tutte le Regioni comporterebbe, anche se su scala minore, un regime di finanziamento simile a quello vigente per le Regioni speciali, che non sarebbe sostenibile per la finanza pubblica, tenendo conto dell’elevato debito
pubblico e delle esigenze di consolidamento4.
2. Un dibattito che ritorna, segno di un mancato assestamento del modello costituzionale Il riaccendersi del dibattito sul regionalismo differenziato ha, dunque rinfocolato un dibattito risalente tra i fautori e i detrattori della specialità regionale, tra quanti ritengono insuperate le sue ragioni, connesse alla salvaguardia dei pluralismi (di lingua, di cultura, di identità) e dei diritti da questi scaturenti5 e, quanti,
invece ne ritengono oltrepassati i presupposti6.
Antonio Ruggeri ha dedicato buona parte delle sue riflessioni al tema del regionalismo7 e altresì a quello
della specialità, ritenuta «culturalmente immatura»8, in quanto, al pari dell’autonomia regionale tout court
afflitta da un male originario, quello di concepirsi quale «autonomia “negativa” che, al pari delle libertà liberali reclamava unicamente di essere lasciata con se stessa per ricercare le vie della propria affermazione e tutela, senza avvedersi che solo un’autonomia anche positivamente ricostruita avrebbe potuto (e potrebbe) esser, per un verso, compiutamente realizzata e dimostrarsi, per altro verso, adeguata all’esigenze di una
3 A. SAITTA, Riflessioni in tema di regionalismo differenziato, in www.astrid online, 2019.
4 A. ZANARDI, Le criticità del finanziamento dell’autonomia differenziata, in www.astrid-online, 23 luglio 2019
5 Così nella letteratura recente G. DEMURO, Quale futuro per l’autonomia speciale?, in F. BASSANINI, F. CERNIGLIA, A.
QUADRIO CURZIO,L.VANDELLI (a cura di), Territori e autonomie. Un’analisi economico-giuridica, Il Mulino, Bologna, 2016, pp. 143 ss.
6 In questo senso G.DE MARTIN, A voler prendere sul serio i principi costituzionali sulle autonomie territoriali, in Rivista AIC,
n. 3/2019.
7 Basti rammentare le numerose edizioni de Lineamenti di diritto regionale, dal 1984 al 2012 in collaborazione col
Maestro, Temistocle Martines, oltrechè a partire dal 2002 anche con altri colleghi. Negli “Itinerari” di una ricerca sul
sistema delle fonti sono raccolti anno per anno i numerosi scritti in tema di regionalismo e regioni speciali.
8 Prospettive di una “specialità” diffusa delle autonomie regionali, in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, V, Studi
società complessa»9. Dunque, per Ruggeri, la denuncia di un’autonomia speciale fine a se stessa, chiusa
in una ottusa rivendicazione del proprio privilegio, non andrebbe negata, ma coraggiosamente dovrebbe costituire il punto di ri-partenza per una riscoperta delle autentiche ragioni della specialità stessa, che, soprattutto dopo la revisione costituzionale del 2001 rischierebbe di perdere completamente il suo proprium.
Dopo tale revisione costituzionale, secondo Ruggeri, «il rischio è, dunque, quello che l’autonomia ordinaria continui nel suo pur incerto e sofferto cammino verso l’acquisizione di spazi crescenti di autodeterminazione, mentre l’autonomia differenziata rimanga nell’attesa, permanentemente insoddisfatta, dell’inveramento di una specialità invecchiata, col risultato però di assecondare il consolidamento di quella specialità rovesciata che ha ormai preso piede e sempre di più tende ad affermarsi, anche – è qui il punctum dolens – in conseguenza di una strategia istituzionale senza costrutto perseguita dalle stesse Regioni»10.
Vi sarebbe, in questa prospettiva, un duplice vizio alla base dell’impalcatura repubblicana.
Il primo attinente la conformazione delle Regioni “geografiche” che non sorprendentemente riguarda altresì quelle speciali: «chi oggi si interroghi sulle prospettive della “specialità” siciliana dovrebbe, preliminarmente, chiedersi se ha più un senso (sempre che ne abbia pienamente avuto in passato…) separare artificialmente le sorti della Calabria da quella della Sicilia, specie con riguardo a quell’area
geografica (c.d. dello “Stretto”) idonea ad esprimere esigenze sostanzialmente non dissimili»11.
Non si può non convenire su questo primo punto. In effetti, le Regioni italiane costituiscono l’esito di un ragionamento giuridico, più che il prodotto di una aggregazione culturale, sociale ed economica. Basti rammentare come, dopo l’avvio dello Stato italiano unitario (in cui prevalse la linea di continuità con il Regno di Sardegna e fu completamente sconfitto il progetto di regionalizzazione di Minghetti e Farini) nella stagione costituente repubblicana esse furono identificate in maniera “artificiale”, recuperando la suddivisione a fini statistici del territorio nazionale operata dal Maestri nel 1864.
Inoltre, forse proprio come conseguenza di ciò, il modello costituzionale di Regione che ci viene consegnato dalla Costituzione del 1948 non esprime una sensibile differenza rispetto al modello statale, di ente a fini generali. I Costituenti non discussero dell”adeguatezza” del nuovo ente rispetto alle esigenze del Paese, quanto dell’”opportunità” di avere un altro ente legislativo oltre lo Stato. Non discussero, cioè, delle Regioni quali ipotetici modelli di organizzazione amministrativa e politica differenziata rispetto allo
9 Ibidem, p. 4. 10 Ibidem, pp. 6-7.
11 Ibidem, p. 8. Su tale impostazione sia consentito rinviare ad A. POGGI, I rapporti con il territorio, Relazione al
Seminario Le città metropolitane tra riforma mancata e prospettive di razionalizzazione in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2018, pp. 1 ss.
Stato, in considerazione delle diversità geografiche del Paese, bensi’, appunto, della razionalità di una scelta che sostanzialmente aggiungeva ai precedenti enti un ente molto simile allo Stato.
Nella Costituzione del 1948, perciò, il modello di Regione non si differenzia qualitativamente dallo Stato: ente a fini generali, dotato degli stessi poteri statali di legislazione e amministrazione, seppure di consistenza quantitativamente minore. Questo modello soffriva fin dall’inizio di limiti evidenti, e cioè della sottovalutazione di quelle diversità della Penisola mai completamente venute meno dall’Unificazione ad oggi (conformazione geografica ed orografica, sviluppo industriale, identità territoriali…) che condussero un’attenta dottrina a sostenere che le Regioni erano entrate “in un cono d’ombra” già a partire dalla loro prima legislatura.
Il secondo vizio di origine, afferma Ruggeri, consegue in qualche misura a questo primo e consiste nella scelta di introdurre il modello “duale” Regioni ordinarie-Regioni speciali, sospinta dal riconoscimento di specialità alla Sicilia che consigliò di non mantenere isolata quella scelta. Sebbene infatti, non mancarono in Assemblea Costituente voci favorevoli all’introduzione di un paradigma diverso, quale quello spagnolo di regionalismo differenziato (la cui cifra peculiare è costituita dalla flessibilità), motivazioni di ordine politico spinsero, invece, verso la rigidità del modello duale. Rigidità che ha prodotto una sorta di
«specialità rovesciata»12, a vantaggio delle Regioni ordinarie. Queste, infatti, grazie ai decreti di
trasferimento delle funzioni amministrative hanno visto progredire la loro condizione di autonomia, a fronte di un’autonomia speciale «invece complessivamente afflitta da gravi ritardi e carenze rispetto al modello statutario per ciascuna Regione stabilito, ancora oggi solo in parte riparati gli uni e colmate le altre dalla normativa di attuazione degli statuti stessi»13.
Che la tendenza sia stata in questo verso è confermato, secondo Ruggeri, dal fatto che mentre ci si indirizzava verso maggiori e nuove acquisizioni di funzioni per le Regioni ordinarie, non si è operato nella stessa direzione con riguardo a quelle speciali ed, anzi, si è imboccata la strada della «piatta estensione ad esse dei riconoscimenti di potere astrattamente fatti agli enti di autonomia ordinaria. E’ questa, a me pare, la più probante conferma di quanto poco radicata fosse stata (e fosse) – al di là di verbali, vigorose dichiarazioni di segno opposto fatte in ambienti politici e in circoli culturali ristretti – la “specialità” nel tessuto sociale, in quello politico, in quello istituzionale»14.
Quella che secondo alcuni, dunque, costituirebbe difesa di un privilegio (non essere assoggettate alla stessa normativa operante per le Regioni ordinarie, mantenendo intatto il proprio peculiare status di specialità), sarebbe, invece, secondo Ruggeri la riprova del contrario: di una sostanziale indifferenza dei
12 Prospettive di una “specialità” diffusa delle autonomie regionali, cit., p. 12 13 Ibidem p. 13
Governi e dei Parlamenti che si sono avvicendati dall’inizio dell’esperienza repubblicana, al modello della specialità, lasciata sopravvivere in quanto “tollerata”, ma non curata e accudita come l’autonomia ordinaria, con la scontata complicità delle Regioni speciali stesse, gelose custodi delle proprie prerogative. Conferma di ciò, tra le altre, sarebbe il disinteresse al tema che ha contraddistinto il dibattito parlamentare sull’approvazione della legge costituzionale n. 3 del 2001; nonostante le molte proposte di ridefinizione del modello duale esaminate dalla I Commissione permanente della Camera dei deputati e nonostante fossero state formulate diverse proposte finalizzate a chiarire il destino delle Regioni speciali15. In
particolare merita ricordare sia la proposta di distinguere la sorte delle due Isole (conferendo loro la possibilità di adeguare mediante una legge regionale i rispettivi Statuti alle nuove norme costituzionali) dalle altre Regioni speciali (per cui, invece, sarebbe rimasto fermo il procedimento di cui all’art. 138 Cost.); sia quella finalizzata al superamento del binomio ordinarietà/specialità, in favore di un sistema in cui tutte le Regioni potessero acquisire lo statuto della specialità, all’interno di una Repubblica federale.
Proprio tale indifferenza induce Ruggeri ad interpretare la clausola di maggior favore (l’art. 10 della legge costituzionale n. 3/2001) in modo da non deprimere ulteriormente l’autonomia speciale e, pertanto, «tutti i disposti della legge di riforma che testimoniano l’intento di valorizzare l’autonomia, in ogni direzione in cui essa è idonea ad esprimersi e quale che sia il soggetto che più direttamente ne trae beneficio, sono da
ritenere applicabili alle (…) Regioni a regime differenziato»16.
Insomma, sia il legislatore costituzionale, sia il Parlamento con la legge La Loggia (che all’art. 11 dichiara di voler far salvi gli Statuti speciali e, allo stesso tempo, l’art. 10 della legge costituzionale n. 3/2001) non avrebbero avuto la consapevolezza «della gravità e complessità dei problemi legati alla riscrittura del quadro costituzionale, sotto lo specifico aspetto della loro “ricaduta” sull’autonomia delle Regioni a
regime differenziato»17, rinviando all’adeguamento degli Statuti e, nel transitorio agli interpreti, prima fra
tutti la Corte costituzionale «l’onere gravosissimo (e, forse, obiettivamente non sopportabile) della ridefinizione della specialità nella stagione in corso, prevedibilmente lunga, di transizione dal vecchio al
nuovo contesto»18.
Perciò, conclude Ruggeri, proprio alla luce del combinato disposto della riforma costituzionale e della legge La Loggia occorrerebbe domandarsi se «la specialità abbia ancora un senso e, soprattutto, se possa averlo, rinnovato se non autenticamente nuovo, in futuro. Una ricerca, questa, che si rende tanto più faticosa
15 A.RUGGERI,C.SALAZAR, La specialità regionale dopo la riforma del Titolo V. Ovvero: dal “lungo addio” al regionalismo del
passato verso il “grande sonno” del regionalismo “asimmetrico”, in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, VII, Studi dell’anno 2003, Torino, 2004, pp. 39 ss.
16 Ibidem, p. 99
17 A. RUGGERI, La legge La Loggia e le Regioni ad autonomia differenziata, tra “riserva di specialità” e clausola di maggior favore,
in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, VII, 2, Studi dell’anno 2003, Torino, 2004, p. 360
e problematica, quanto più avanza (perlomeno sulla carta…) l’autonomia di diritto comune e che, tuttavia, se, per un verso, trova davanti a se spazi oggettivamente ristretti in relazione a passate esperienze (e per i campi in cui queste usualmente si sono manifestate), per un altro, invece, si apre ad interessanti sviluppi, proprio con riferimento ai campi ad oggi meno coltivati o niente affatto esplorati, perlomeno facendo
utilizzo dei nuovi strumenti apprestati dalla riforma»19.
La domanda non è inutile se solo si pensi, come rammenta lo stesso Ruggeri, che buona parte della responsabilità di questo stato di cose è delle Regioni stesse, per il fatto che l’adeguamento dello Statuto è nelle loro mani, quanto ad iniziativa, , pur dovendo sottostare al procedimento di cui all’art. 138 Cost. 3. Le problematiche connesse alla specialità “storica”
Ed in effetti, i caratteri che la specialità ha assunto nel nostro ordinamento hanno sempre di più spinto verso una caratterizzazione duale del regionalismo che impone al sistema una rigidità notevole, sia procedurale, sia sostanziale.
Dal punto di vista sostanziale, la specialità è stata storicamente garantita da uno statuto (frutto di una iniziativa regionale) approvato con legge costituzionale in cui veniva riconosciuta una potestà legislativa
piena o esclusiva su materie individuate negli statuti stessi20.
La legislazione come fulcro della specialità, come noto, è comprovata dal fatto che il primo statuto speciale elaborato ed approvato, cioè quello siciliano, all’art. 14 introduceva il concetto di legislazione
piena ed esclusiva quale corollario, appunto della specialità21. E’ altrettanto nota la vicenda che condusse
ad un graduale ridimensionamento di tale potestà legislativa esclusiva, e la sua omologazione (nei limiti) a quella prevista negli altri Statuti speciali. Prevalse cioè l’idea secondo cui l’unica fonte a competenza generale era la legge statale, ritenendosi non conforme all’ordinamento costituzionale che ad una Regione potesse attribuirsi una competenza davvero esclusiva.
Tale essenza della specialità si evince in maniera piu chiara se la confrontiamo con l’istituto del regionalismo differenziato di cui all’art. 116, comma 3. Il confronto è importante a maggior ragione se si imponesse un’interpretazione che consente anche alle Regioni speciali di avvalersene: a parte le motivazioni inerenti la “pulizia” concettuale necessaria negli studi di diritto costituzionale, vi è in più una
19 Ibidem, pp. 429-430.
20 S.LABRIOLA, Il principio di specialità nel regionalismo italiano in S.ORTINO, P.PENTHALER (a cura di), Il punto di vista
delle autonomie speciali. La riforma costituzionale in senso federale, Bolzano-Trento, 1997, pp. 61 ss.
21 Sulle vicende di tale potestà legislativa v. l’approfondita analisi di L.CASSETTI, La potestà legislativa regionale tra
autonomie speciali in trasformazione, competenze esclusive e nuove forme di specialità in A.FERRARA e G.M.SALERNO (a cura di), Le nuove specialità nella riforma dell’ordinamento regionale, Milano, 2003, pp. 78 ss.
ragione che attiene alla ratio stessa della specialità. Se, infatti, cade la differenza tra i due istituti previsti entrambi all’art. 116 Cost., non vi è più ragione di esistere per le Regioni speciali.
Proprio allo scopo di operare un’interpretazione conforme, si potrebbe argomentare che il regionalismo differenziato attiene unicamente alla rivendicazione di una dimensione “quantitativa” di potere legislativo slegata da quel “fatto” differenziante che, invece, è all’origine del sigillo della specialità e, di conseguenza, del potere legislativo esclusivo a questo connesso. Non a caso connesso in maniera e con contenuti diversi a ciascuna specialità, almeno come contenuto “prevalente”: il bilinguismo per il Trentino-Alto Adige e per la Valle d’Aosta, il complesso degli interessi e delle materie connessi allo sviluppo della continuità territoriale per le Isole ….
Proprio l’esistenza di tale “fatto” differenziante (testimoniato dalla genesi storica della specialità
fortemente partecipata in sede locale)22 non consente di aderire alla tesi secondo cui con l’introduzione
dell’istituto del regionalismo differenziato di cui all’art. 116, comma terzo la specialità sarebbe scomparsa per lasciare il posto ad un nuovo binomio: diritto comune (cui dovrebbero sottostare tutte le Regioni) e diritti differenziali (cui di nuovo dovrebbero sottostare tutte le Regioni e rispetto ai quali quelle speciali
avrebbero peculiarità maggiori)23.
L’istituto del regionalismo differenziato di cui al terzo comma del 116, infatti, non è principio contrapponibile alla specialità: il Titolo V è pieno di applicazioni di differenziazioni possibili per le Regioni ordinarie. In altri termini l’istituto di cui al terzo comma dell’art. 116 non è un genus ma è una species (insieme alle altre…) del più generale principio di differenziazione introdotto per le Regioni ordinarie. 24
La differenza basata sulla specialità, inoltre, non è revocata in dubbio dalla modifica del procedimento di revisione degli statuti introdotta dalla legge costituzionale n. 2 del 2001. Come è stato giustamente
osservato25 anche prima della riforma era impensabile un’iniziativa statale di revisione senza il
coinvolgimento della Regione interessata; inoltre l’impossibilità di ricorrere a referendum indipendentemente dalla maggioranza parlamentare con cui sono state approvate le delibere di revisione, comporta che non venga meno il principio “pattizio” sul contenuto delle revisioni.
22 Sulla partecipazione delle forze politiche e sociali locali nella stesura degli statuti speciali v. G.MOR, Le regioni a
statuto speciale nel processo di riforma costituzionale, in Le Regioni, 1999, pp. 199 ss.; R.BIFULCO, Le Regioni, Bologna, 2004, 10; A.POGGI, Revisione della “forma di stato” e funzione giurisdizionale: una diversa ripartizione di competenze tra Stato e Regioni?, in Le Regioni, 1996, pp. 51 ss.
23 Così M.CECCHETTI, Attualità e prospettive della specialità regionale alla luce del regionalismo differenziato come principio di
sistema, in www.federalismi.it, n. 23/2008, pp. 2 ss.
24 Sul punto sia consentito rinviare a A.POGGI, Esiste nel Titolo V un “principio di differenziazione” oltre la “clausola di
differenziazione” del 116, comma 3? in A.MASTROMARINO e J.M. CASTELLÀ ANDREU, Esperienze di regionalismo
differenziato. Il caso italiano e quello spagnolo a confronto, Milano, 2009, pp. 27 ss.
La Costituzione, dunque, pone il principio della specialità (principio di “regime” secondo l’espressione coniata da Labriola) e il principio della differenziazione (per le Regioni ordinarie).
Il principio di differenziazione, dunque, è cosa diversa dalle ragioni della specialità poiché questa, fintanto continuerà ad avere il fondamento costituzionale (ma prima ancora storico, culturale e linguistico) che ha
nel nostro ordinamento, deve fondarsi su “fatti differenziali”26. Perciò la differenziazione è una clausola
generale, di cui possono valersi tutte le Regioni (e in questa prospettiva in effetti si potrebbe discutere se non consentire anche a quelle speciali di avvalersene), diversamente, la specialità, fondandosi su di una fattore culturale, linguistico, geografico, non può che essere attribuita caso per caso.
Il principio di differenziazione che pervade tutto il Titolo V (e di cui l’art. 116, comma 3 non è che la punta estrema) consente di distinguere piani di azioni e di possibilità assai diverse. Vi è, infatti, una dimensione del principio che riguarda l’allocazione di funzioni, e che discende «dall’implementazione dei poteri regionali che può permettere politiche settoriali distinte da Regione a Regione funzionali a calibrare gli interventi in relazione alle specificità delle situazioni locali»27. L’esemplificazione più rilevante è
costituita dall’esercizio della competenza legislativa concorrente che, pur dovendo rispettare gli ambiti materiali e i principi fondamentali (nonché gli altri limiti derivanti dall’art. 117, comma 1), è finalizzata a produrre, in relazione ai diversi interessi e ambiti materiali, discipline più adeguate alle varie situazioni territoriali.
Per non parlar, poi, della differenziazione che dopo la revisione del Titolo V sarebbe potuta scaturire dall’esercizio della potestà legislativa esclusiva, e che diversi fattori (l’interpretazione restrittiva della Corte costituzionale, il battagliero atteggiamento governativo contro qualunque creatività delle Regioni…le stesse Regioni che per la maggior parte non hanno saputo cogliere la carica innovativa dell’attribuzione loro conferita dal legislatore costituzionale) hanno, invece, completamente depotenziato.
L’altra dimensione del principio riguarda, invece, l’allocazione dei poteri poiché implica la possibilità, formalizzata (dalla Costituzione) di integrare e/o derogare l’assetto delle competenze così come delineato nella Costituzione per tutte le Regioni di diritto comune: dalla forma di Governo, a tutta la gamma di possibilità offerte dalle scelte in materia di organizzazione interna, alla facoltà di stipulare intese con altre
26 L.ANTONINI, Il regionalismo differenziato. La politica delle differenze. Welfare Society e le prospettive del regionalismo italiano
anche nel confronto con la riforma del regime speciale del T.A.A., Milano, 2000, p. 195.
27 L.ANTONINI, Il regionalismo differenziato. La politica delle differenze. Welfare Society e le prospettive del regionalismo italiano
anche nel confronto con la riforma del regime speciale del T.A.A., cit. p. 47; a tale concetto di differenziazione si riferisce
anche G.ROLLA, Differenziazioni regionali e i nuovi criteri di riparto delle competenze: considerazioni riassuntive in S.GAMBINO (a cura di), Stati nazionali e poteri locali Rimini, 1999, p. 548, secondo cui vi sarebbe un potenziale conflitto tra pluralismo territoriale e pluralismo sociale poiché il primo tendenzialmente privilegia il particolarismo territoriale ancorando le differenze a determinati ambiti territoriali.
Regioni per l’esercizio in comune di determinate funzione, cui è possibile far conseguire una modificazione dell’assetto degli organi di Governo delle Regioni stesse.
Senza giungere alla fusione o incorporazione, infatti, (la cui procedura è delineata dalle norme costituzionali e richiede un procedimento legislativo aggravato) le Regioni possono dar vita a forme di aggregazione “funzionale” Gli ultimi due commi dell’art. 117 Cost., in particolare il penultimo, offrono infatti notevoli potenzialità.
L’art. 117, comma 8 Cost. prevede che la legge regionale possa ratificare le intese con altre Regioni per il miglior esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di propri organi comuni. Si tratta di un comma finora del tutto inattuato, e visto sempre come una pura “potenzialità” per le Regioni, la cui attuazione è rimessa unicamente alla loro volontà. Questo comma costituisce già oggi la via maestra per forme di cooperazione, coordinamento, raccordo, tra Regioni che, operando dal basso, possono facilmente prefigurare la futura formazione di Regioni più ampie per territorio ma anche per qualità e peso della loro azione comune. Di tutto questo, del resto, è testimonianza chiara l’ultima parte del comma: proprio la possibilità di avere organi comuni, ai quali attribuire in tutto o in parte le funzioni proprie delle regioni che stipulano le intese, prefigura con immediatezza la formazione di macro Regioni, nate non per scelta dall’”alto” ma per formazione spontanea dal “basso”, sulla base di scelte condivise dalle Regioni attuali e, soprattutto, in ossequio ai principi cardine di autonomia e sussidiarietà. Non può sfuggire, infatti, che al di là delle rispetto delle forme e procedure previste dalla Costituzione, in questo caso le aggregazioni “funzionali” nascerebbero non sulla base di un progetto istituzionale, per quanto condiviso, ma di una esperienza concreta, sviluppatasi negli anni e consolidatasi affrontando in modo comune e coordinato problemi concreti di governo e di esercizio delle funzioni.
Ben si comprende a questo punto quale profonda incidenza avrebbe sul regime di specialità una completa attuazione del principio di differenziazione delle Regioni ordinarie, posto che il contenuto della specialità rimane comunque, a Costituzione invariata, l’attribuzione legislativa delle particolari materie previste negli Statuti di autonomia.
E’ infatti il corredo competenziale che continua a caratterizzare la specialità: lo sviluppo economico (e il riconoscimento di competenze maggiori di quelle previste dall’art. 117 precedente la riforma costituzionale quali: industria, commercio, cooperazione, casse di risparmio e rurali, interventi di politica attiva per il lavoro); la competenza esclusiva in materia di enti locali, in ragione di una specialità che ovviamente si diffonde nel sistema regionale nel suo complesso. Vi sono poi settori materiali peculiari a seconda della specialità regionale, ma merita ricordare come la materia dell’istruzione, in modi diversi (e sempre prima della revisione costituzionale del 2001) costituisca un fattore differenziante di un certo significato.
4. Il nesso inscindibile tra potestà legislativa regionale e norme di attuazione come proiezione del principio di specialità
La specialità legislativa, inoltre, richiede di essere concretizzata attraverso le norme di attuazione. Queste, infatti, a differenza delle leggi atipiche prodotte dall’attuazione del regionalismo differenziato, non definiscono ambiti di competenze o livelli di autonomia (già previsti negli statuti) mentre “dovrebbero costituire la prosecuzione degli statuti speciali e (….) realizzare una disciplina comune tra
Stato e Regione speciale”28. In sostanza con la norma di attuazione la specialità viene introdotta
nell’ordinamento generale, attraverso un determinato assetto organizzativo e strumentale.
Le norme di attuazione, come noto, aldilà delle differenti formulazioni contenuti negli statuti, possono considerarsi coagulate intorno a due compiti: l’attuazione degli statuti e il passaggio degli uffici dallo Stato alla Regione.
Perciò, il nesso tra le previsioni statutarie che contemplano le potestà legislative e le norme di attuazione non pare avere alternative, almeno nel nostro sistema “costituzionale” regionale per almeno due motivi. Il primo è che neppure per le Regioni speciali l’autonomia tributaria riesce a divenire principio di sistema. Solo in presenza di autonomia tributaria, infatti, le Regioni (tutte) potrebbero decidere l’ammontare delle risorse necessario all’assolvimento delle proprie funzioni e conseguentemente sarebbero in grado di auto-attivare in autonomia le proprie competenze, sia legislative che amministrative. Ciò implicherebbe per le Regioni speciali il non dover passare attraverso le norme di attuazione. Invece al momento ciò non è possibile, ma l’esito di tale percorso, come ora vedremo in estrema sintesi, non solo è tortuoso ma si sta rivelando assai opaco.
Il secondo motivo è che il nostro sistema regionale ha alle spalle un sistema burocratico di apparati strumentali statali. L’autonomia pertanto richiede trasferimenti di apparati e di personale: per questo banale ma fondamentale motivo i trasferimenti delle funzioni amministrative hanno assunto una sorta di priorità “logica” sull’attribuzione delle funzioni legislative.
Cosi come per le Regioni ordinarie i trasferimenti di funzioni amministrative sono indispensabili per l’esercizio del potere legislativo previsto dalla Costituzione, allo stesso modo buona parte delle norme statutarie speciali richiedono norme di attuazione, non essendo direttamente attivabili dalle Regioni speciali.
Per questo motivo i trasferimenti di funzioni amministrative alle Regioni ordinarie delineati nella legge n. 59/1997 ed attuati con il d.lgs.vo n. 112/1998 hanno aggravato la crisi della specialità: poiché hanno effettivamente trasferito funzioni amministrative, a fronte di processi di attuazione degli Statuti speciali
in forte ritaro. In tal modo, peraltro, acuendo la forbice tra funzioni da esercitare e risorse disponibili a svantaggio delle stesse Regioni speciali.
La rigidità del sistema, però, non consente di spostare risorse centralmente, poiché per farlo occorre modificare gli statuti speciali ovvero adottare norme di attuazione che rapportino il regime tributario alle funzioni effettivamente svolte.
Insomma statuti speciali e norme di attuazione irrigidiscono la dualità del sistema poiché il procedimento per la loro attivazione è così lungo e complesso da scoraggiare a volte gli interlocutori dal porlo in essere. Le norme di attuazione discendono dal principio di specialità legislativa ma non solo: anche qualora abbiano natura organizzativa, infatti, esse non si dovrebbero risolvere unicamente in un trasferimento di attività, poiché, invece, dovrebbero assumere la natura di strumento “necessario per calibrare e definire
l’autonomia e la specialità regionale nell’ambito dell’unità e del decentramento”29.
Il carattere “permanente” dell’attuazione è sostenuto da autorevole dottrina e motivato sulla base di una
delega contenuta in ciascuna disposizione statutaria30. Esso è stato altresì ribadito dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 22 del 1961 con riguardo all’annosa vicenda della Commissione paritetica sarda e, soprattutto, in relazione alla tesi sostenuta dalla Regione nel ricorso circa la transitorietà dell’organo stesso dopo la prima attuazione dello statuto. La Corte nella sentenza in oggetto precisò che la commissione paritetica deve avere il carattere della rappresentatività, poiché ciò risulta indispensabile alla funzione di attuazione dello statuto.
5. Il regionalismo differenziato e l’ulteriore crisi della specialità
In questo contesto si comprende il motivo per cui l’introduzione del regionalismo differenziato, nella misura in cui troverà attuazione nel nostro ordinamento, è fattore in grado di incidere pesantemente sulla conformazione della specialità e sulla sua stessa sopravvivenza.
Se infatti, la possibile differenziazione consentita alle Regioni ordinarie viene interpretata allo scopo di svaporare la specialità delle cinque Regioni nominate dalla stessa norma, meglio sarebbe andare sino in fondo e abolire il regime duale. Se, invece si intende, attraverso la differenziazione riconfigurare i contorni della specialità per il tramite dell’adeguamento degli Statuti (peraltro richiesto dall’art. 10 della legge
costituzionale n. 3/2001) allora occorrerebbe indirizzarsi decisamente in tal senso31.
29 M.SIAS, Le norme di attuazione degli statuti speciali cit., p. 121.
30 C.MORTATI, Atti con forza di legge e sindacato di costituzionalità, Milano, 1964, p. 18
31 A. RUGGERI, Forma e sostanza dell’”adeguamento” degli statuti speciali alla riforma costituzionale del Titolo V (Notazioni
Proprio perciò il tema dei temi rimane quello della ricostruzione del “modello” che emerge dal 116, terzo comma, senza la delineazione del quale, qualunque risposta ai molteplici interrogativi (quante materie? ruolo degli enti locali? ruolo del Parlamento? procedura?...) risulta perlomeno eccentrica o comunque “appesa”.
Peraltro solo chiarendosi sul modello è possibile valutare correttamente e razionalmente le richieste avanzate dalle Regioni, ovvero le bozze di intesa siglate tra Governo e singole Regioni. Il tema del modello è, e non potrebbe essere diversamente, connesso al suo rapporto con gli altri due modelli, già presenti e ben delineati o nella Costituzione (Regioni ordinarie) o nei singoli Statuti (Regioni speciali).
Se ciò è condivisibile una prima conseguenza (per nulla scontata) è che il regionalismo differenziato non può sconfinare in quello speciale: sarebbe, infatti, una surrettizia e quanto mai pericolosa strisciante forma di violazione della Costituzione.
Lo sconfinamento, sia chiaro, non è una prospettiva così immaginifica: la richiesta di molte, anzi di tutte le materie consentite (v. Veneto e Lombardia), produrrebbe all’interno delle leggi atipiche previste dall’art. 116, un elenco di competenze attribuite alla singola Regione simile agli elenchi di materie contenute negli Statuti speciali per le singole Regioni. Le leggi previste dall’art. 116 comma 3, dunque, diverrebbero una sorta di Statuto speciale della singola Regione che ha attivato e concluso con il Governo la procedura. Con evidenti scostamenti formali e sostanziali dall’impianto costituzionale e, partitamente e in primo luogo, dallo stesso articolo 116, terzo comma.
I limiti materiali (insieme a quelli procedurali) sostanziano il modello e questo non può essere né il modello dei poteri e competenze delle Regioni ordinarie (pena l’inutilità di tutta la procedura), né il modello di competenze e poteri delle Regioni speciali (pena l’incostituzionalità della legge di cui al 116, comma terzo eventualmente approvata secondo tale logica).
Una seconda riflessione, sempre attinente il “modello”, riguarda il numero di richieste e il numero di Intese che il Governo è disposto a concludere.
La formula contenuta nel contratto di Governo (secondo cui tutte le Regioni avrebbero diritto ad una Intesa per valorizzare le proprie specificità) non è coerente con la Costituzione: se così fosse si muterebbe neanche tanto velatamente la forma di Stato: poiché avremmo solo più Regioni speciali e Regioni differenziate, con il risultato concreto di una “disattivazione” del Titolo V della Costituzione, che non sarebbe più applicabile a nessuna Regione. Il che è, appunto, a dir poco incostituzionale.
Se, dunque, è evidente che non è possibile far transitare tutte le Regioni ordinarie verso il modello della differenziazione, la prospettiva di una pur quantitativamente ridotta geometria variabile pone in ogni caso molti problemi. In altri termini, il problema di “quante” Regioni ordinarie vogliano diventare
differenziate, e per quanto tempo, non può essere affrontato a pezzi o a spizzichi e bocconi, ma deve essere affrontato in maniera organica.
Se, come pare, parecchie Regioni vogliono rivendicare una qualche forma di Intesa, non si può permanere all’interno dello scenario 116, comma terzo poiché occorre entrare in quello della trasformazione della forma di Stato, attraverso la ri-discussione dei modelli di Regione (compreso il modello della specialità che se diffuso, anche solo surrettiziamente, non avrebbe più molto senso rispetto all’attuale impianto costituzionale) e di rapporti “complessivi” Stato-Regioni. Nel senso che bisognerebbe rivedere l’intero Titolo V, pena avere un’intera parte della Costituzione quasi completamente disattivata.
Insomma se l’art. 116 comma 3 verrà attuato e “preso sul serio” le sue implicazioni sul sistema saranno davvero notevoli, al punto da richiedere una nuova revisione costituzionale, dopo la fase, inevitabile, del suo assestamento che dovrebbe, almeno coincidere con la durata delle prime Intese. E’ pacifico, infatti, che Intese senza una durata non sono costituzionalmente percorribili per almeno due buoni motivi che si intersecano inevitabilmente con le riflessioni appena svolte.
Il primo è che una differenziazione senza durata equivale ad una “sospensione permanente” del Titolo V rispetto alla Regione interessata. Se sommiamo questo dato all’ipotesi che il regionalismo differenziato sia richiesto dal maggior numero possibile di Regioni ordinarie avremo una disattivazione pressochè totale del Titolo V. Si potrebbe obiettare, per la verità, che non facendo menzione esplicita l’art. 116 di una durata della specializzazione se ne può dedurre, interpretativamente, anche l’assenza della durata stessa, in quanto non espressamente vietata. Si tratta tuttavia di un argomento che cozza con il dato elementare della necessità di un’interpretazione sistematica delle stesse norme costituzionali che, in questo caso, indicano decisamente l’esistenza di una durata, appunto per rendere credibile la distinzione tra Regioni ordinarie e Regioni ordinarie specializzate.
Il secondo motivo è che una specializzazione senza durata, anche in ragione dei contenuti di cui potrebbe riempirsi, potrebbe divenire una surrettizia specialità, anche qui in palese violazione del numerus clausus delle Regioni speciali.
Insomma, dare un’attuazione “costituzionale” all’art. 116 non è semplice, anche e soprattutto a causa del fatto che esso non viene scritto su di una lavagna bianca, ma si innesta, invece, su un modello rigido e assai definito, anche in ragione di una consolidata giurisprudenza costituzionale. E non vi è dubbio che le maggiori difficoltà di attuazione di una differenziazione marcata, almeno, dal punto di vista teorico, sono dovute alla sua facile assimilazione al modello della specialità, se non altro perché la Regione che la richiede intende distaccarsi dal prototipo della ordinarietà.
Si potrebbe obiettare che in realtà l’art. 116 ult. comma potrebbe essere utilizzato per richieste “minime” in forma di trasferimento di funzioni amministrative che sdrammatizzerebbero la sua carica di istituto
cuneo del sistema. Si tratta di un’obiezione poco convincente il 116 è immaginato innanzitutto per trasferire ulteriori competenze legislative (o pezzi di competenza legislativa), poiché per trasferire sole funzioni amministrative non occorre attivare attivare il 116 comma terzo; basta il 118 e una legge ordinaria.
Quando si attiva il 116, invece, entrano in gioco le competenze legislative, quindi deroga (per quella Regione) al 117 in relazione alle materie richieste, con la conseguenza che occorre una base normativa che legittimi l’esercizio del potere legislativo sulle materie chiese, quindi la legge del Parlamento atipica prevista dallo stesso art. 116. Ma proprio tale constatazione rende particolarmente delicata la questione dei confini tra specialità e differenziazione.
In questo scenario pare muoversi Antonio Ruggeri quando, preso atto della crisi irreversibile della specialità, specie dopo i trasferimenti di funzioni amministrative del c.d. terzo decentramento e dopo, altresì, la revisione costituzionale del 2001, indica la strada della “specialità diffusa” nel senso di tornare
«all’originaria intuizione emersa alla Costituente, per quanto poi non coltivata e raccolta»32 di un
«regionalismo asimmetrico e progressivo, idoneo a portare alla realizzazione di un modello di “specialità” “plurale” o diffusa, fondata sull’integrazione delle competenze (e degli atti che ne sono espressione) e sulla sussidiarietà. Allo Stato, pertanto dovrebbe essere riservato un pugno di materie, le sole cui facciano capo interessi autenticamente, esclusivamente nazionali (o sovranazionali) o meglio, quelli (…) considerati tali, in ogni tempo potendosi comunque avere un ulteriore riassetto dell’impianto costituzionale (se del caso, anche con la previsione di moduli parzialmente “affievoliti” e più agevolmente praticabili rispetto alla procedura descritta nell’art. 138 e, ad ogni buon conto, come si è sopra rilevato, col necessario concorso
delle Regioni alla ridefinizione della competenze)»33.
Per il resto il modello appena configurato dovrebbe prevedere l’attribuzione alle Regione di tutte quelle
materie idonee ad esprimere «interessi suscettibili di frazionamento territoriale»34, rimanendo salva, su
queste ultime (ma forse anche sulle prime) l’ipotesi di una concorrenza Tra Stato e Regioni (ecco l’integrazione). Dunque, la sussidiarietà statale legislativa non dovrebbe, come ora, scattare solo in caso di inadempimento, mentre dovrebbe divenire la regola di “flessibilità” del nuovo modello.
In conclusione, dunque, il modello di specialità diffusa proposto da Ruggeri vedrebbe «ogni funzione non rientrante nella sfera statale collocata in un “paniere” costituzionalmente disegnato, dalle enormi capacità di contenimento, cui le Regioni possono in ogni momento attingere man mano che se ne presenti
32 Prospettive di una “specialità” diffusa delle autonomie regionali cit., p. 26. 33 Ibidem, p. 27.
la necessità, esse stesse, dunque, costruendo, giorno dopo giorno, la loro autonomia e determinandone il mobile assetto»35.
La trasformazione di tutte le Regioni ordinarie in speciali, pertanto, dovrebbe essere graduale e, soprattutto, non imposta e formalizzata dall’alto, ma invece, dovrebbe «risultare unicamente ex post, alla luce dei concreti sviluppi che le singole vicende ed esperienze regionali presentano e che ne danno la complessiva caratterizzazione, quale frutto ad ogni modo esclusivo della libera determinazione della singola Regione, che avvalendosi degli strumenti positivi di cui dispone, si attiva per rendere concreta
un’opportunità una volta per tutte riconosciutale dalla Costituzione»36.
Lo scenario appena delineato appare assai convincente, dal punto di vista della prospettiva cui dovrebbe tendere il modello di regionalismo e, cioè, verso la possibilità di adeguare la forma (la Regione) alle esigenze diverse e sempre mutevoli dei territori e delle popolazioni.
Da questo punto di vista, la revisione del Titolo V, è un’occasione mancata. Come ho già cercato di
dimostrare in altra sede37, infatti, tutto il Titolo V è pervaso dall’idea della differenziazione: l’art. art. 117
consente una differenziazione come diversa competenza legislativa dal punto di vista delle tipologie; l’art. 118 può essere interpretato come differenziazione estrema sotto il profilo dell’attribuzione delle funzioni amministrative non più collegate al principio del parallelismo; l’art. 119 consente una differenziazione sotto il profilo dell’assegnazione dell’autonomia finanziaria e tributari; l’art. 123 potrebbe produrre una differenziazione quanto a forma di governo e nell’organizzazione amministrativa regionale; gli ultimi due commi dell’art. 117 prevedono possibilità di aggregazioni funzionali in grado di ridisegnare
sostanzialmente i confini geografici delle Regioni stesse (…)38.
Insomma senza giungere alla revisione costituzionale, quella specialità “diffusa” di cui discorre Antonio Ruggeri poteva avere inizio attraverso le molteplici possibilità di differenziazione già consentite alle Regioni e forse in tal modo si sarebbe potuti giungere ad una “sdrammatizzazione” del modello duale.
35 Ibidem, pp. 29-30. 36 Ibidem p. 31.
37 Esiste nel Titolo V un “principio di differenziazione” oltre la “clausola di differenziazione” del 116, comma 3?cit.
38 Per una lettura conforme a Costituzione dell’art. 116 comma 3 v. D. MONE, Autonomia differenziata come mezzo di