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Nuove poverta' nel periodo di emergenza sanitaria: il caso degli utenti della Caritas di Pisa

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

Corso di Laurea in Sociologia e Management dei Servizi Sociali

TESI DI LAUREA

Nuove povertà nel periodo di emergenza sanitaria:

il caso degli utenti della Caritas di Pisa

RELATORE

CANDIDATA

Prof. Gabriele Tomei

Alessia Scerra

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Indice

INDICE ... 2

INTRODUZIONE ... 4

CAPITOLO 1 POVERTÀ ED ESCLUSIONE SOCIALE IN ITALIA ... 6

1.1DEFINIZIONE DI POVERTÀ ... 6

1.2MISURARE LA POVERTÀ: TRA ASSOLUTA E RELATIVA ... 10

1.3GLI STUDI NEL CONTESTO NAZIONALE E LOCALE ... 12

CAPITOLO 2 POLITICHE E DIVERSE FORME DI POVERTA’ ... 14

2.1L’EVOLUZIONE DEI RISCHI SOCIALI E DEGLI STRUMENTI DI POLICY ... 14

2.2LE MISURE DI PREVENZIONE E CONTRASTO ALLA POVERTÀ ... 21

2.2.1 L’indennità di disoccupazione ... 21

2.2.2 Il Reddito di Cittadinanza ... 24

2.2.3 Il Reddito di Emergenza ... 27

CAPITOLO 3 LA RICERCA SUL CAMPO ... 29

3.1IL CONTESTO DELLA RICERCA: LA CITTÀ DI PISA ... 29

3.2IL DISEGNO DELLA RICERCA ... 31

3.3IL CASO DI STUDIO: IL CENTRO DI ASCOLTO ... 32

3.4GLI STRUMENTI DELLA RICERCA ... 32

3.4.1 Il questionario ... 33

3.4.2 Il collettivo... 35

CAPITOLO 4 NUOVI PROCESSI DI IMPOVERIMENTO: GLI EFFETTI DELL’EMERGENZA SANITARIA NELLA VITA DEGLI INTERVISTATI ... 39

4.1DUE REALTÀ A CONFRONTO ... 39

4.2CARATTERISTICHE DEMOGRAFICHE DEGLI INTERVISTATI ... 43

4.3DIMENSIONI DI DEPRIVAZIONE MATERIALE ... 48

4.3.1 La condizione abitativa ... 48

4.3.2 La condizione economica ... 54

4.3.3 La condizione lavorativa ... 66

4.4RETI FORMALI E INFORMALI DI SOSTEGNO ... 72

4.5CONSIDERAZIONI FINALI ... 85

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5.1CRITICITÀ E NUOVE PROPOSTE ... 89

5.2NUOVE PROSPETTIVE PER I SERVIZI SOCIO-ASSISTENZIALI ... 93

5.2.1 L’integrazione socio-sanitaria ... 93

5.2.2 La coprogrammazione e la coprogettazione ... 94

5.2.3 L’integrazione socio-lavorativa ... 96

5.2.4 Il lavoro in équipe ... 96

5.2.5 Il focus sulla povertà educativa... 97

CONCLUSIONI ... 99

APPENDICE ... 105

BIBLIOGRAFIA ... 114

SITOGRAFIA ... 116

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INTRODUZIONE

La povertà è un fenomeno complesso che si presenta sotto diverse forme. Si tratta di un concetto multidimensionale che dipende da numerosi fattori i quali fanno riferimento non solo alla deprivazione materiale, ma anche alla mancanza di opportunità di tipo relazionale, culturale e di istruzione.

Nel corso del tempo la povertà è stata studiata sotto diversi aspetti, ma ciò che è necessario sottolineare è che essa è strettamente legata alle disparità e alle disuguaglianze sociali.

Al giorno d’oggi ci troviamo di fronte alla nascita di nuovi bisogni e di nuove forme di povertà scaturiti dall’attuale momento di crisi a seguito della pandemia.

Questo lavoro mira ad individuare i nuovi processi di impoverimento e le eventuali modifiche da attuare nelle misure di contrasto alla povertà atte a contrastare le disuguaglianze e l’esclusione sociale. A tal proposito risulta di fondamentale importanza indagare le criticità e i nuovi bisogni emersi durante il periodo di emergenza sanitaria. Si ritiene dunque necessario analizzare l’evoluzione del fenomeno della povertà ponendo attenzione alle sue cause e i suoi effetti nel contesto sociale.

Nel primo capitolo risulta doveroso introdurre l’oggetto di studio di tale trattazione; vengono quindi considerate le varie definizioni del concetto di povertà e il suo carattere multidimensionale esponendo gli ultimi dati registrati dall’ISTAT, da Caritas Italiana e Pisana e dall’Osservatorio Sociale della Regione Toscana nel contesto nazionale e locale di riferimento durante il periodo di emergenza.

Il secondo capitolo si concentra su un excursus storico circa l’evoluzione dei processi di impoverimento e gli strumenti di policy utilizzati nel corso del tempo con particolare riferimento alle misure di contrasto alla povertà messe in atto al giorno d’oggi.

All’interno del terzo capitolo viene presentato il disegno di ricerca; si illustra il contesto locale entro cui è stata condotta l’indagine, la città di Pisa, e vengono esposti la metodologia e gli strumenti utilizzati facendo particolare riferimento al sistema MIROD (Messa In Rete Osservatori Diocesani) mediante il quale è stato possibile analizzare i relativi dati sulla povertà registrati dalla Caritas pisana.

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Il caso di studio preso in considerazione è quindi quello della Caritas di Pisa presso cui sono state somministrate delle interviste semi-strutturate agli utenti che hanno avuto accesso ai servizi da esso offerti.

Attraverso l’analisi dei questionari, nel terzo capitolo vengono esposti i risultati della ricerca condotta. Innanzitutto, è stato necessario analizzare un confronto fra le povertà emerse nell’anno 2019 e quelle nate a ridosso della pandemia con lo scopo di farne emergere affinità e differenze; successivamente la ricerca si concentra sull’analisi delle diverse aree tematiche trattate durante le interviste.

Infine, viene fatta luce sulle criticità riscontrate in merito alle diverse politiche di contrasto alla povertà messe in atto durante il periodo di emergenza socio-sanitaria facendo riferimento alla programmazione regionale, agli sviluppi futuri e alle possibili modifiche da attuare nelle policy a livello regionale e nazionale.

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Capitolo 1

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POVERTÀ ED ESCLUSIONE SOCIALE IN ITALIA

Il presente capitolo presenta l’oggetto di studio di tale trattazione, ossia il fenomeno della povertà, analizzando innanzitutto le varie definizioni e aspetti che la contraddistinguono e concentrando maggiore attenzione al suo carattere multidimensionale.

Successivamente vengono esposti gli ultimi dati registrati nel contesto nazionale e locale di riferimento dall’ISTAT, dalla Caritas Italiana e Pisana e dall’Osservatorio Sociale della Regione Toscana durante il periodo di emergenza socio-sanitaria.

1.1 Definizione di povertà

La povertà è un fenomeno soggettivo e dinamico in quanto può persistere nel tempo ma può anche essere caratterizzato da una temporaneità. Si tratta di un evento che può capitare, durare e terminare in base a numerose variabili soggettive e strutturali [Tomei, 2011].

Il concetto di povertà fa riferimento ad una condizione di mancanza, privazione o carenza che dipende da diversi fattori. Da ciò deriva la necessità di adottare un approccio di tipo multidimensionale che tuttavia non permette di elaborare una definizione univoca di tale fenomeno.

Nell’analisi delle dimensioni che facilitano i processi di impoverimento un primo elemento da prendere in considerazione è quello relativo alle condizioni soggettive degli individui quali le caratteristiche socio-anagrafiche della popolazione target (struttura per età, struttura di genere, presenza straniera, tipologia e distribuzione delle diverse strutture familiari), l’accessibilità ai beni e servizi materiali necessari (abitazione, reddito, disponibilità di beni necessari ed accessori) e l’incidenza delle abilità/inabilità sociali elementari (condizione di salute, distribuzione della non autosufficienza). Le prime costituiscono i fattori di selezione/discriminazione delle traiettorie della genesi del fenomeno, mentre le seconde rappresentano l’esito finale del processo di impoverimento e, per tale ragione, possono essere identificate come marcatori degli effetti. [Tomei, 2011].

Il significato della povertà va oltre la condizione di insufficienza economica: è l’integrazione di diverse dimensioni inerenti alla sfera economica, ma anche sociale dell’individuo [Tomei and Natilli, 2011]. In tal senso, è doveroso fare un particolare riferimento all’esclusione sociale la quale è spesso causa di processi di impoverimento dovuti all’essere esclusi dai rapporti nell’ambito

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sociale ed economico. L’esclusione rimanda dunque alla dimensione socio-relazionale del processo di vulnerazione e marginalizzazione. A tal proposito si possono distinguere diverse forme di esclusione: rispetto alla ricchezza (povertà relativa), rispetto a relazionalità significative, rispetto i processi formativi e rispetto ai sistemi culturali [Tomei, 2011]. La prima forma riguarda l’aspetto economico relativo al reddito disponibile che rimanda all’inserimento nel mercato del lavoro. Per quanto concerne l’esclusione relazionale, la struttura familiare, la sua dimensione e la rete informale costituiscono indicatori importanti da considerare. Infine, da non sottovalutare sono anche l’esclusione rispetto ai processi formativi, intesi come quei processi mediante i quali l’individuo acquisisce competenze strumentali e abilità, e l’esclusione rispetto ai sistemi culturali con cui si intende l’acquisizione di strumenti linguistici, di elaborazione e di comunicazione.

Il concetto di esclusione nel tema della povertà venne ampliamente studiato da Simmel il quale analizza la dimensione del povero all’interno del proprio gruppo sociale ed evidenzia la sua solo parziale esternalità rispetto al gruppo. Tale parzialità dipende dal fatto che il povero è considerato marginale rispetto al gruppo a causa di «una forma particolare dell’azione specifica con esso» [Simmel, 1989]. Possiamo evincere, in tal senso, che l’aspetto della relazionalità permane e l’essere povero non è dovuto ad una completa esclusione dal contesto sociale.

Nel percorso di scivolamento verso la condizione di povertà si assiste dunque all’intrecciarsi di diverse forme di esclusione in una pluralità di sfere della vita e che si sostanziano in un progressivo indebolimento delle capacità del soggetto di essere inserito a pieno nel proprio contesto sociale [Sen, 1992].

Oltre alle condizioni soggettive, inoltre, la ricerca sociologica si è focalizzata sullo studio del ruolo dei sistemi di relazione propri degli attori sociali i quali comprendono il rapporto con il mercato del lavoro, il sistema di welfare, le reti sociali di supporto e l’accesso al sistema di istruzione. [Tomei, 2011].

Di fondamentale importanza risulta essere, dunque, la condizione di vulnerabilità dell’individuo con cui si intende la situazione in cui l’autonomia e la capacità di autodeterminazione del soggetto sono costantemente minacciate da un inserimento instabile all’interno dei sistemi di integrazione sociale e di distribuzione delle risorse [Ranci, 2002].

Cause dei processi di impoverimento possono riguardare anche le trasformazioni sociali che si verificano in seguito a periodi di crisi economica e finanziaria e che possono determinare un aumento di discriminazioni e diseguaglianze nell’assetto sociale [Tomei, 2011].

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Nelle statistiche ufficiali e nel disegno delle politiche pubbliche di lotta alla povertà è ancora prevalente l’idea di una povertà definita principalmente in termini di reddito. Tuttavia, si sta progressivamente affermando l’opinione che la misura di privazione nello spazio del reddito rappresenti una metrica, seppur necessaria, ma che da sola non basta a render conto dell’eterogeneità delle condizioni di vita reali degli individui e delle famiglie e dunque della loro effettiva condizione di povertà o di benessere. La sola condizione reddituale appare dunque riduttiva. Diverse sono le argomentazioni avanzate nei confronti di tale inadeguatezza: da un lato, vi sono aspetti importanti della vita delle persone che difficilmente sono riassumibili attraverso la sola misura del reddito; dall’altro, alle diseguaglianze nello spazio delle risorse si associano spesso disuguaglianze in altri spazi, come quello delle opportunità e della vulnerabilità; infine, vi sono diseguaglianze che si manifestano nel campo della salute, dell’istruzione, della partecipazione al mercato del lavoro o nell’arena politica [CIES1 and IUSS2, 2009].

Sebbene le definizioni possibili di povertà siano numerose, come testimoniato dall’abbondante letteratura in proposito, queste possono essere ricondotte principalmente a tre definizioni, corrispondenti alle seguenti scuole di pensiero: Utilitarista, dei Bisogni Primari e delle Capacità [Matutini, 2013].

Partendo dall’idea che la povertà abbia origine da una situazione di deprivazione o insufficienza di risorse, secondo gli utilitaristi, tra cui figurano Jeremy Bentham e John Stuart Mill, tale condizione è dovuta all’indisponibilità di risorse economiche. A ciò consegue uno scarso benessere economico, inteso come utilità, con cui si intende la «proprietà di ogni oggetto per mezzo della quale esso tende a produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene o felicità oppure a evitare che si verifichi quel danno, dolore, male o infelicità» [Bentham, 1789]. L’utilità coincide dunque con la condizione psicologica di felicità, piacere, appagamento, oppure con il livello di consumo totale da cui essa deriva. Secondo tale approccio, l’utilità è assunta come il solo indicatore del benessere dell’individuo.

1 La Commissione d’indagine sulla povertà e l’esclusione sociale è una commissione governativa costituita

ufficialmente con il Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri nel 1984. È prevista dall’art. 27 della L.328/000 secondo il quale la Commissione ha il compito di effettuare ricerche e rilevazioni per indagini sulla povertà e sull’emarginazione in Italia e di formulare proposte al fine di rimuoverne le cause e le conseguenze.

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I promotori dell’approccio dei Bisogni Primari, invece, identificano la causa della caduta in povertà nella mancanza totale o parziale di un paniere di beni e servizi la cui disponibilità, per un individuo, è prerequisito di un elevato livello di qualità della vita.

In opposizione al filone Utilitarista e dei Bisogni Primari, l’approccio delle Capacità segna un cambiamento di prospettiva circa l’analisi del fenomeno della povertà. Questa nuova scuola di pensiero si afferma intorno agli anni ’80 e vede come suo massimo esponente Amartya Sen il quale elabora una nozione di benessere e di povertà più ampia, riferendosi ad una situazione generale che guarda al well-being degli individui. Il concetto di capacità viene distinto in due parti: capacità come abilities legate a fattori ascritti o acquisiti dagli individui e capacità intesa come capacitazione e dunque capabilities riguardanti l’insieme dei fattori di natura economica e sociale che possono limitare l’esercizio delle capacità dell’individuo [Sen, 2000].

L’autore propone di sostituire alla concezione di benessere materiale, limitato alla sola disponibilità di risorse, l’idea di “star bene” (well-being) intesa come una condizione che include «ciò che l’individuo può fare o può essere» (insieme di being e doing) a partire dai mezzi e dalle risorse a disposizione e in relazione alle capacità delle persone di trasformare questi mezzi in realizzazioni, traguardi, risultati che esse intendono conseguire. È l’insieme di questi traguardi potenzialmente raggiungibili (spazio delle capacità o capability set) o effettivamente realizzati (spazio dei funzionamenti o functionings) che contribuisce, nel complesso, a determinare il benessere e lo sviluppo dell’individuo [Sen, 1985]. Il benessere di una persona non dipende dalle risorse economiche né dalla disponibilità di un certo paniere di beni e servizi, bensì dal tipo di vita che si è in grado di condurre. La povertà diviene la mancata realizzazione delle funzioni essenziali per la vita umana ed è legata all’incapacità di realizzare le proprie funzioni. La realizzazione di questi traguardi o funzionamenti dipende di certo dall’ammontare di risorse economiche a disposizione, ma anche da altri fattori: caratteristiche personali, contesto familiare, economico, sociale e culturale di appartenenza. All’interno di questa cornice, i beni e le risorse a disposizione dell’individuo sono un mezzo per la realizzazione del proprio benessere, ma non sono essi stessi il benessere. Quest’ultimo deriva dunque dalle proprie capacità, in termini di libertà di scelta.

La capacità di una persona, afferma Sen, è la sua «libertà sostanziale» e «dall’insieme delle capacità di una persona si riflette la sua libertà di condurre differenti tipi di vita» [Sen and Nussbaum, 1993].

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1.2 Misurare la povertà: tra assoluta e relativa

Numerosi sono gli studi effettuati nel campo della povertà, indagata nelle sue diverse forme e manifestazioni. La complessità di tale fenomeno comporta l’esigenza di adottare delle unità di misura, per cui risulta necessario introdurre una distinzione fra due concetti: la povertà assoluta e la povertà relativa.

I principali studi sulla povertà condotti all’inizio del XX secolo si basavano sull’analisi della

povertà assoluta. Con tale concetto si identifica la condizione di mancanza di risorse minime in

termini di alloggio, beni alimentari ed economici necessari per la sopravvivenza quotidiana dell’individuo: si tratta dunque di una povertà estrema, dovuta all’assenza di beni primari che mette a rischio l’esistenza di quest’ultimo. La povertà assoluta misura, in altri termini, la componente della popolazione che vive al di sotto delle condizioni minime di sussistenza.

Secondo l’Istat la soglia di povertà assoluta rappresenta il valore monetario, a prezzi correnti, del paniere di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia, definita in base all’età dei componenti, alla ripartizione geografica e alla tipologia del comune di residenza. Una famiglia è definita assolutamente povera se sostiene una spesa mensile per consumi pari o inferiore a tale valore monetario.

La povertà assoluta deve essere distinta dalla povertà relativa che fa, invece, riferimento all’assenza di beni primari necessari alla riproduzione sociale degli individui in relazione al tenore di vita medio della popolazione di cui essi fanno parte. Essa è dunque correlata agli standard di vita prevalenti all’interno di una determinata comunità e comprende bisogni che vanno al di là della semplice sopravvivenza, ma dipendono dall’ambiente sociale, economico e culturale. La povertà relativa viene considerata in base alla soglia della povertà, una linea al di sotto della quale si ritiene che il reddito dell’individuo non sia in grado di garantire un livello di vita accettabile dalla società di riferimento e, per questa ragione, tale individuo viene definito “povero”. La povertà relativa misura, dunque la distanza sociale esistente fra i gruppi sociali svantaggiati e la classe media all’interno di un determinato contesto sociale [Ranci and Pavolini, 2015].

La stima della povertà relativa diffusa dall'Istat si basa sull'uso di una linea di povertà nota come International Standard of Poverty Line (ISPL) che definisce “povera” una famiglia di due componenti con una spesa per consumi inferiore o uguale alla spesa media per consumi pro-capite nazionale. Per definire le soglie di povertà relativa per famiglie di diversa ampiezza si utilizzano

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coefficienti correttivi (scala di equivalenza Carbonaro) che tengono conto dei differenti bisogni e delle economie/diseconomie di scala che è possibile realizzare al variare del numero dei componenti [Istat, 2006]. Vengono infine calcolati due indici: il primo è la proporzione dei poveri, ossia l’incidenza, cioè il rapporto tra il numero di individui che si trovano in condizione di povertà e il numero di individui residenti; il secondo è il divario medio di povertà, ossia l’intensità, che misura di quanto, in termini percentuali, la spesa media mensile delle famiglie povere è inferiore alla linea di povertà.

Per quanto riguarda le metodologie e le tecniche di misurazione della povertà i principali contributi si basano sull’utilizzo di diversi tipi di indicatori.

Gli indicatori di Laeken sono stati proposti nel 2011 dal Comitato per la Protezione Sociale

(CPS) della Commissione Europea, in accordo con gli Stati membri. Si tratta di 18 indicatori che hanno lo scopo di valutare la natura multidimensionale della povertà. Le dimensioni indagate riguardano: povertà monetaria, disuguaglianza economica, mancata partecipazione al mercato del lavoro, condizioni di vita, condizioni di salute e istruzione. Tuttavia, la maggioranza di tali indicatori si riferisce alla condizione economica e reddituale e tralascia altri indicatori che permettono di conoscere e comparare gli aspetti qualitativi di povertà ed esclusione, come evidenziato dal Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE). Gli indicatori di Laeken sono dunque utilizzati nella misurazione della povertà relativa e della disuguaglianza [Tomei, 2011].

Gli indicatori di deprivazione materiale elaborati secondo l’indagine su reddito e condizioni di

vita dall’European Statistics on Income and Living Conditions (EU-SILC), invece, si riferiscono all’incapacità degli individui di potersi permettere beni materiali o attività considerate normali dalla società di riferimento. Questi indicatori possono inoltre essere utilizzati per misurare la povertà assoluta [Tomei, 2011].

L’indice di Povertà Umana (IPU), invece, nasce nel 1997 dall’ United Nations Development

Programme (UNDP) e misura la disponibilità di opportunità necessarie per condurre un tenore di vita agiato e dignitoso facendo riferimento a indicatori di privazione o esclusione (una vita breve, mancanza di istruzione, mancanza di accesso alle risorse pubbliche e private). La privazione umana quindi viene indagata mediante diverse dimensioni che riguardano: longevità, conoscenza, standard di vita dignitoso ed esclusione sociale [Tomei, 2011].

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L’indice di risorse-disagio, infine, viene sviluppato dall’Osservatorio sulla Povertà di Milano

nel 2003 ed è costituito da indicatori riferiti alle risorse disponibili, al disagio sociale, alle dimensioni demografiche e di tipologia familiare. [Tomei, 2011].

1.3 Gli studi nel contesto nazionale e locale

Il periodo di emergenza socio-sanitaria a livello mondiale ha causato la nascita di nuovi bisogni e nuove carriere di impoverimento e, per tale ragione, risulta di fondamentale importanza volgere lo sguardo agli studi condotti dai diversi enti pubblici e privati al fine di mettere in luce le maggiori problematiche riscontrate nella lotta contro la povertà.

A livello nazionale l’attuale periodo di emergenza ha senz’altro accentuato le disuguaglianze e l’esclusione sociale già esistenti nel territorio.

Secondo i dati ISTAT, nel contesto italiano, in cui erano ancora evidenti gli effetti della crisi economica del 2008, si verifica, nell’anno 2020, un aumento dei poveri assoluti, cioè privi di beni essenziali, che ammontano a più di 4,5 milioni. L’indagine registra una variazione tendenziale in riduzione degli occupati dello 0,9% già a partire da marzo 2020, del 3,2% a giugno e del 2,4% nel mese di luglio. Ad aprile 2020, il tasso di disoccupazione scende al 6,3 per cento (-1,7 punti in un mese e -3,9 punti nel confronto annuale) a fronte del forte aumento del tasso di inattività. Nel complesso, la crisi ha comportato un marcato calo della forza lavoro (occupati e disoccupati in cerca di occupazione) con il tasso di attività della fascia 15-64 anni sceso al 61,9 per cento (-2,0 punti in un mese e -4,0 punti rispetto ad aprile 2019), il livello più basso da aprile 2011 [ISTAT 2020].

Anche i dati dei centri di ascolto di Caritas Italiana fanno presagire una crescita della povertà: da un anno all’altro l’incidenza dei “nuovi poveri” passa dal 31% al 45% e quasi la metà di chi si rivolge alla rete Caritas non lo aveva mai fatto in passato. Aumenta in particolare il peso delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani, dei nuclei familiari e delle persone in età lavorativa. Secondo l’indagine effettuata da Caritas Italiana, tra i disoccupati diminuiscono le azioni di ricerca di lavoro e cala soprattutto la quota di quanti dichiarano di essersi rivolti a un centro per l’impiego. Aumentano anche i divari territoriali nella partecipazione al mercato del lavoro: il calo del tasso di disoccupazione è maggiore nel Mezzogiorno 3,2 punti percentuali) e nel Centro (-3,0 punti percentuali), in confronto al Nord (-0,8 punti percentuali) e si associa all’aumento più

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intenso del tasso di inattività nelle regioni meridionali e centrali. Tornano ad aumentare le differenze di genere: tra le donne è maggiore il calo del tasso di occupazione (-2,2 punti percentuali in confronto a -1,6 punti percentuali gli uomini) rispetto a quello di disoccupazione (-2,3 e -1,9 punti, rispettivamente). Per quanto riguarda l’analisi per cittadinanza, il tasso di occupazione e quello di disoccupazione diminuiscono in modo molto più sostenuto per gli stranieri (-5,5 e -4,2 punti percentuali, rispettivamente) rispetto agli italiani (-1,5 e -1,7 punti percentuali), mentre il tasso di inattività aumenta molto di più per gli stranieri (+9,5 punti rispetto a +2,9 punti tra gli italiani). Aumentano anche i divari generazionali a sfavore dei più giovani: per la classe di età 15-34 anni è maggiore la diminuzione del tasso di occupazione (-3,2 punti percentuali) e di quello di disoccupazione (-3,0 punti percentuali), a cui si associa l’aumento più elevato del tasso di inattività (+5,6 punti percentuali); per i 35-49enni il tasso di occupazione cala di 1,6 punti, quello di disoccupazione di 1,8 punti e quello di inattività mostra un incremento di 3,3 punti.

Secondo i dati presentati dal Rapporto 2020 della Caritas pisana, aggiornati al 10 settembre, sono 19.310 le persone che si sono rivolte ai servizi delle Caritas toscane nei primi nove mesi del 2020, circa i quattro quinti (83,5%) delle 23.139 incontrate in tutto il 2019 e il 33,7% di essi, uno su tre, corrispondenti a 6.563 nuclei, riguarda famiglie che non si erano mai rivolte ad un Centro d’Ascolto prima del 10 marzo 2020, data del primo lockdown.

La ricerca condotta dalla Caritas Pisana, infatti, mostra un significativo aumento delle richieste di aiuto da parte di disoccupati che erano già senza lavoro prima della pandemia ma che, magari, riuscivano a sopravvivere grazie al sostegno della rete familiare o amicale, adesso anch’essi ritrovatisi in una situazione di difficoltà economica. Un altro profilo emergente è quello dei lavoratori della cosiddetta “area grigia”, un po’ borderline fra il precariato e il sommerso e dei lavoratori autonomi costretti a fermarsi causa lockdown e dipendenti che non avevano ancora percepito la Cassa Integrazione Guadagni (CIG) o l’avevano ricevuta con notevole ritardo. Proprio i ritardi nell’erogazione della CIG sono indicati fra i motivi che hanno avuto un impatto notevole sui processi d’impoverimento innescati dalla pandemia in molte diocesi della Toscana. Problema analogo ha riguardato anche l’erogazione dei bonus per i lavoratori autonomi e stagionali: la mancata o ritardata erogazione, secondo i responsabili delle Caritas diocesane, ha avuto un peso molto significativo nella maggior parte delle diocesi.

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Capitolo 2

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POLITICHE E DIVERSE FORME DI POVERTA’

Questo capitolo presenta un excursus storico circa le diverse fasi di cambiamento dei processi di impoverimento e delle misure di contrasto alla povertà adoperate fino ad oggi attraverso cui si vogliono meglio comprendere le cause e gli effetti legati a tale fenomeno, focalizzando l’attenzione sulle diseguaglianze e sull’esclusione sociale.

In una seconda parte il focus si sposta poi sull’esplicazione delle principali misure di contrasto alla povertà implementate, facendo particolare riferimento ad un nuovo strumento di policy messo a punto nel periodo di emergenza sanitaria.

2.1 L’evoluzione dei rischi sociali e degli strumenti di policy

La povertà è uno dei rischi sociali più radicati nella nostra società. Essa dipende da numerosi fattori e tende ad accrescere nei periodi di crisi e depressione economica per poi diminuire generalmente nei periodi di maggiore crescita e prosperità [Ranci and Pavolini, 2015].

Le prime e più note politiche di contrasto alla povertà risalgono alla fine del XVI secolo e l’inizio del XVII secolo quando in Inghilterra si diede vita alle Poor Laws, sistema assistenziale rivolto alle fasce più povere della popolazione controllato dalle parrocchie. Tale sistema subì delle modifiche importanti nel 1834 con l’emanazione della Poor Laws Reform Act mediante la quale vennero introdotte delle distinzioni fra “poveri meritevoli” e “poveri non meritevoli”. Queste prime forme di intervento non erano basate su alcun diritto soggettivo e si fondavano su una visione paternalistica, moralista e stigmatizzante della povertà. Si trattava, infatti, di un aiuto finalizzato alla mera sopravvivenza [Leone, Rinaldi and Tomei, 2017].

Fin dall’inizio dell’età moderna la povertà assunse prevalentemente la forma di “pauperismo”, un movimento spirituale medioevale che rimanda ad una condizione di estrema miseria in cui vertevano alcuni predicatori cristiani al fine di esaltarne il messaggio religioso e sociale. La povertà era causata da fattori economici e strutturali quali la mancanza di capitali e di risorse o da fattori eccezionali quali guerre, calamità naturali e carestie.

Soltanto a partire dal Settecento cominciarono a svilupparsi le prime forme di beneficenza laica ispirate al filantropismo illuminista, le quali posero le premesse per svincolare l’assistenza ai bisognosi da ogni presupposto religioso per trasferirla così allo Stato. La beneficenza pubblica

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costituì dunque il primo intervento diretto dello Stato in risposta ai bisogni dei cittadini. È così che lo Stato diviene “benefattore” [Franzoni and Anconelli, 2003].

L’avvio della Rivoluzione industriale coincise con la nascita di nuovi bisogni da parte dei lavoratori, causati dall’avanzamento del processo di industrializzazione che li costrinse a vivere, spesso soli, in grandi agglomerati urbani, soggetti a difficili condizioni di lavoro e precarietà igienico-sanitaria. Nacquero così le prime Società di Mutuo Soccorso per iniziativa della classe operaia, ossia delle associazioni volontarie di lavoratori che si autotassavano al fine di ricevere una protezione contro infortuni, malattia, inabilità, disoccupazione e morte.

Intorno alla fine dell’Ottocento nel Regno di Prussia, durante il secondo Reich tedesco guidato dal cancelliere Bismarck, si posero le basi per lo sviluppo del welfare state o stato sociale, espressione adottata per indicare l’insieme delle politiche sociali di intervento statale volte a garantire l’assistenza e il benessere dei cittadini.

Con la crescita della società salariale le condizioni di povertà subirono un notevole decremento grazie all’aumento dei tassi di occupazione e all’estensione dei programmi di welfare volti a proteggere la popolazione dai rischi più ricorrenti inerenti all’impossibilità di procurarsi un reddito mediante il lavoro svolto o altri rischi quali la vecchiaia, la malattia, l’invalidità e il licenziamento [Ranci and Pavolini, 2015]. Nel contesto italiano vi fu il primo concreto intervento statale con la Legge Crispi-Pagliani del 1888 mediante la quale vennero introdotte le prime assicurazioni sociali obbligatorie contro infortuni, malattia e vecchiaia.

Dopo il periodo improntato sulla previdenza sociale, con la pubblicazione del Rapporto sulla

Povertà redatto da Lord Beveridge in Inghilterra nel 1942, si posero le basi per la moderna

concezione di sicurezza sociale. Secondo Beveridge, un moderno stato sociale doveva essere in grado di garantire ai propri cittadini i diritti sociali attraverso la creazione di un servizio sanitario obbligatorio e universalistico, misure di reddito minimo e assicurazioni sociali accessibili all’intera popolazione [Franzoni and Anconelli, 2003].

Il fenomeno della povertà si ridusse in modo sempre più consistente durante i Trenta gloriosi, anni di grande crescita economica in seguito alla Seconda Guerra Mondiale, in cui si consolidò il welfare state. Quest’ultimo era improntato su un regime di tipo male-breadwinner in cui si diede importanza all’implementazione di misure finalizzate alla protezione dei rischi dei maschi adulti lavoratori. In questi anni in Italia vennero introdotte le prime Casse Mutue (INPS, INAIL, INAM,

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ENPAS, ENPAM) a cui dovevano obbligatoriamente iscriversi le diverse categorie di lavoratori, con i familiari a carico, al fine di fruire di un’assicurazione sanitaria e/o sociale.

In Europa si identificarono tre diversi modelli di welfare: universalistico (tipico dei paesi nordici), categoriale (diffuso nei paesi continentali) e residuale (nei paesi del sud Europa e in alcune zone anglosassoni) [Esping-Andersen, 1999]. Il sistema previdenziale italiano rimase a carattere residuale in quanto si basava su una serie di particolarismi e lasciava scoperti i disoccupati, le casalinghe, gli inabili e i lavoratori in nero [Neve, 2000].

Durante i Trenta Gloriosi si assiste alla nascita del modello fordista-keynesiano caratterizzato da misure e interventi a carattere contributivo e assistenziale di tipo “passivo” e non condizionale. La loro erogazione si basava infatti sul possesso di determinati requisiti o sul superamento della “prova dei mezzi” mirata a comprovare l’effettiva condizione di bisogno [Leone, Rinaldi and Tomei, 2017].

La povertà rimase dunque una delle principali problematiche delle società salariali; i processi di impoverimento furono principalmente legati all’esclusione dal mercato del lavoro e colpirono non solo i disoccupati di lunga durata ma anche coloro che si trovavano in condizioni di marginalità sociale, quali tossicodipendenti e immigrati. In Italia questo periodo fu caratterizzato dall’introduzione di speciali indennità per gli alloggi e dall’adozione del “Piano INA-Casa”, promosso dal ministro Fanfani, con il quale si fornirono agevolazioni alle famiglie dei lavoratori per l’acquisto di un’abitazione. A completare il quadro contribuirono le politiche per l’istruzione con cui si decise di estendere l’obbligo scolastico fino a comprendervi l’istruzione secondaria inferiore [Conti and Silei, 2013].

Con la Legge 1115/1968 in Italia si posero le basi per la nascita degli ammortizzatori sociali nell’ambito delle politiche contro la disoccupazione la quale aumentò notevolmente dagli anni Settanta agli anni Novanta. Questo periodo fu segnato da una lunga crisi economica determinata dalla deindustrializzazione a cui conseguirono la chiusura di diverse fabbriche e un aumento dei processi di impoverimento. Per tali ragioni, vennero introdotte delle riforme più restrittive circa l’accesso agli ammortizzatori sociali, al fine di contenere la spesa pubblica. Nacquero anche le prime politiche di welfare improntate sul reddito minimo, definito come il minimo indispensabile per garantire le condizioni di vita considerate accettabili dalla società. Si tratta di una misura di sostegno e di integrazione al reddito che tiene in considerazione una determinata soglia oltre la quale decade il diritto di ricevere tale intervento. Questa misura di sostegno era indirizzata agli

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individui che non godevano di una partecipazione continuativa all’interno del mercato del lavoro e per tale ragione non potevano accedere agli ammortizzatori sociali. Il reddito minimo si basava sul principio di universalismo selettivo poiché era indirizzato alle fasce marginali della popolazione e, pertanto, non costituì una misura sufficiente per contrastare la povertà.

Nonostante la crisi, in Italia si registrò un aumento delle risorse destinate al finanziamento degli schemi pensionistici, su base previdenziale, per tutti gli anni Settanta.

Negli anni 1973-1979 si assiste alla crisi del modello economico fordista conseguente agli shock petroliferi di quel periodo. Tale momento storico fu caratterizzato, dunque, da un cambiamento di prospettiva riguardo il fenomeno della povertà causato dalle trasformazioni del mercato del lavoro, delle dinamiche demografiche, delle strutture e dei ruoli familiari. Ciò comportò la nascita di nuovi bisogni e rischi sociali ed anche la necessità di implementare nuovi interventi e politiche di contrasto alla povertà e alla disoccupazione. In particolare, la povertà non venne più percepita come una condizione esclusiva dei disoccupati e altri gruppi sociali in condizioni di difficoltà, bensì divenne un fenomeno profondamente diversificato e complesso. La prospettiva da cui tali fenomeni sono stati osservati subì dei cambiamenti grazie all’influenza del pensiero neo-liberale. Ciò si tradusse nella fine dell’epoca fordista poiché si pose maggiore attenzione sugli individui e sulle condizioni dell’offerta nel mercato del lavoro riducendo in tal modo l’enfasi keynesiana sulla domanda e sulle condizioni sociali [Villa, 2007].

Gli anni Ottanta furono invece caratterizzati da una scarsa incidenza del sistema pensionistico: l’abolizione delle pensioni minime ai non bisognosi, la stretta sulle pensioni di invalidità e l’irrigidimento dei criteri di accesso alle cosiddette “pensioni baby” ai dipendenti pubblici [Conti and Silei, 2013].

Intorno alla metà degli anni Novanta, in seguito alla nascita dell’economia postindustriale, la disoccupazione cominciò a diminuire e con essa anche i tassi di povertà. Ciò fu possibile soltanto per mezzo della riduzione dei salari minimi e l’introduzione di nuove forme di lavoro flessibili, quali contratti a tempo determinato e part-time, con il conseguente aumento del lavoro atipico. Alla riduzione dei salari conseguì inoltre la nascita dei cosiddetti “working poors”, ossia quei lavoratori che pur avendo un lavoro stabile non erano in grado, con la retribuzione percepita, di assicurarsi uno stile di vita dignitoso. Un'altra problematica riscontrata in tale momento storico fu la segregazione sociale e urbana nelle periferie di alcune città europee che si cercò di contrastare

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mediante degli interventi di housing first e che provocò l’intensificazione di processi di esclusione sociale [Franzoni and Anconelli, 2003].

Durante il processo di creazione dell’Unione Europea prese avvio anche un processo di nascita di una “politica sociale europea”. Nel 1992 venne approvata dalla Commissione Europea la Raccomandazione 92/441/CEE del Consiglio delle Comunità Europee che aveva il compito di definire i criteri comuni in materia di risorse e prestazioni sufficienti nei sistemi di protezione sociale dei paesi membri. Tutti gli Stati dovevano dunque adeguare le proprie politiche di welfare in riferimento a tale legge che indicava gli schemi di reddito minimo come il primo strumento di contrasto alla povertà. In tal senso, l’obiettivo dell’UE era di realizzare una base comune di diritti sociali come fondamento del proprio modello sociale [Leone, Rinaldi and Tomei, 2017]. Tale modello cominciò a prendere vita con il Programma di Azione Sociale 1995-1997 e la successiva approvazione del Trattato di Amsterdam nel 1997. Il Programma di Azione Sociale 1995-1997 introdusse il Fondo Sociale Europeo per lo sviluppo dell’occupazione e per il sostegno delle persone povere e vulnerabili quali anziani e disabili. Il Trattato di Amsterdam, invece, si raggiunse mediante un accordo fra tutti gli Stati membri relativamente all’integrazione della politica sociale. Per la prima volta si citarono esplicitamente nei trattati la lotta contro la povertà e l’esclusione sociale. Con l’introduzione del Trattato del Funzionamento dell’Unione Europea, quest’ultima adottò un approccio integrato tra le politiche di occupazione e le politiche di welfare, promuovendo l’inclusione sociale attraverso il Fondo Sociale Europeo e favorendo anche interventi di prevenzione all’esclusione sociale [Leone, Rinaldi and Tomei, 2017].

Di particolare importanza nel 2000 fu l’Agenda di Lisbona (2000-2005), adottata dall’UE con lo scopo di introdurre, accanto alle misure di intervento del reddito minimo, dei programmi di accompagnamento all’inserimento sociale e lavorativo con l’intento di potenziare la politica sociale e garantire la riduzione delle diseguaglianze nell’ottica di una coesione sociale e crescita economica. Tale Agenda era dunque finalizzata a garantire una piena occupazione mediante interventi di protezione sociale, promozione dell’integrazione sociale e lotta contro la discriminazione.

Anche la successiva revisione dell’Agenda, negli anni 2006-2010 proseguì con la stessa linea di pensiero con gli obiettivi di “prosperità” e “solidarietà” volti all’inclusione sociale che doveva a sua volta contribuire in modo diretto ed efficace alla promozione dello sviluppo economico [Leone, Rinaldi and Tomei, 2017].

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La crisi finanziaria del 2007 stravolse nuovamente lo scenario con un aumento considerevole della disoccupazione, del rischio di esclusione sociale e un arresto delle politiche di welfare a causa dell’indebitamento da parte dei paesi europei. I dati elaborati dall’Istat rivelano che in Italia, le famiglie che si trovano in condizioni di povertà relativa erano 2 milioni 653 mila e rappresentavano l’11,1% delle famiglie residenti; nel complesso si registrarono 7 milioni 542 mila individui poveri, il 12,8% dell’intera popolazione.

Gli anni successivi furono notevolmente influenzati dalla crisi del 2007 che provocò un aumento della povertà assoluta e della cosiddetta povertà transitoria in molti paesi Europei a causa della crescita di posizioni precarie nel mercato del lavoro.

Nel 2008 l’UE adottò la Raccomandazione 3/19/2008 sull’inclusione attiva la quale riprese i principi di “welfare attivo” assunti con l’Agenda di Lisbona. Tale legge si basava su tre pilastri: supporto al reddito adeguato, mercati del lavoro inclusivi e accesso a servizi di qualità. In tal modo, il welfare state divenne non più erogatore di dispositivi di tutela e di protezione passiva, bensì produttore di servizi promozionali e personalizzati che miravano all’empowerment dell’individuo. Quest’ultimo, dunque, doveva essere capace di fronteggiare i rischi di povertà ed esclusione sociale soprattutto attraverso l’attivazione lavorativa [Leone, Rinaldi and Tomei, 2017]. Nuovi principi del modello sociale europeo fanno quindi riferimento alla responsabilità dell’individuo e all’autodeterminazione.

Nel 2009 viene stipulato il Trattato di Lisbona con il quale venne istituita la Comunità Europea. Il Trattato determinò dei progressi sul consolidamento della dimensione sociale dell’integrazione europea ribadendo i principi di piena occupazione e solidarietà, rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia e dell’uguaglianza.

L’anno successivo, con la Strategia Europa 2020, prosecuzione della Strategia di Lisbona, si affrontarono le diverse problematiche scaturite dalla crisi economica e finanziaria di quel periodo, ma ci si concentrò soprattutto su un obiettivo: ridurre di 20 milioni il numero di poveri e di persone a rischio di povertà ed esclusione sociale fino al 2020. Successivamente l’UE diede vita alla Piattaforma Europea contro la povertà e l’esclusione sociale mediante la quale si riflette sulla multidimensionalità di tale fenomeno.

Nel 2013 la Commissione Europea promosse il Social Investment Package, un nuovo strumento atto a valorizzare le capacità dell’individuo e migliorare le proprie competenze spendibili in ambito lavorativo e nelle relazioni sociali al fine di evitare la caduta in povertà e l’esclusione sociale. Gli

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interventi economici di supporto al reddito divengono così di secondo piano rispetto ad altri strumenti quali servizi di assistenza sociale e alloggiativa, servizi per la prima infanzia, servizi per la non autosufficienza, servizi sanitari, politiche di inserimento lavorativo e interventi di tipo formativo [Leone, Rinaldi and Tomei, 2017].

Per quanto riguarda il fenomeno della povertà al giorno d’oggi, i dati rilevati dall’Istat nel 2019 mostrano quasi 1,7 milioni di famiglie in condizione di povertà assoluta, per un numero complessivo di quasi 4,6 milioni di individui (7,7% del totale, 8,4% nel 2018). Dopo quattro anni di aumento, si ridussero per la prima volta il numero e la quota di famiglie in povertà assoluta pur rimanendo su livelli molto superiori a quelli precedenti la crisi del 2007. Rimase invece stabile il numero di famiglie in condizioni di povertà relativa: nel 2019 erano poco meno di 3 milioni (11,4%) cui corrispondono 8,8 milioni di individui (14,7% del totale).

La situazione attuale è stata segnata da notevoli cambiamenti per effetto della crisi economica e sociale provocata dall’emergenza sanitaria la quale ha provocato una perdita sostanziale di opportunità di lavoro. Si rileva, infatti, un aumento del 40% di richieste di aiuto e di oltre un milione di poveri che si sono rivolti ad associazioni caritatevoli al fine di beneficiare di aiuti alimentari. Ciò è quanto viene riportato dalla Coldiretti (Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti), una delle maggiori forme di rappresentanza e assistenza dell’agricoltura italiana. Fra i nuovi poveri, oggi figurano coloro che hanno subìto la perdita del posto di lavoro, piccoli commercianti o artigiani e ancora coloro che sono impiegati nel sommerso i quali non godono di particolari sussidi o aiuti pubblici, come anche molti lavoratori a tempo determinato o che svolgono attività saltuarie.

Secondo un’altra indagine condotta dalla Confcooperative3 (Confederazione cooperative italiane) e dal Censis4 (Centro Studi Investimenti Sociali), che sono rispettivamente la principale organizzazione di rappresentanza, assistenza e tutela del movimento cooperativo e delle imprese sociali in Italia e l’istituto di ricerca socio-economica italiano, emerge che sono 2,1 milioni le

3 Costituita nel 1919 ispira la sua azione alla dottrina sociale della Chiesa. In ragione della funzione sociale che la

Costituzione italiana (art. 45) riconosce alla cooperazione, Confcooperative ne promuove lo sviluppo, la crescita e la diffusione

44 Fondato nel 1964 il Censis svolge da oltre cinquant’anni una costante e articolata attività di ricerca, consulenza e

assistenza tecnica in campo socioeconomico. Tale attività si è sviluppata nel corso degli anni attraverso la realizzazione di studi sul sociale, l’economia e l’evoluzione territoriale, programmi d'intervento e iniziative culturali nei settori vitali della realtà sociale: la formazione, il lavoro e la rappresentanza, il welfare e la sanità, il territorio e le reti, i soggetti economici, i media e la comunicazione, il governo pubblico, la sicurezza e la cittadinanza.

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famiglie che si trovano in uno stato di povertà assoluta e la metà di queste famiglie, il 4,1% sul totale delle famiglie italiane, vivono esclusivamente di lavoro irregolare, per un totale di 3,3 milioni di lavoratori irregolari. Di queste famiglie, più del 33%, vale a dire 350 mila famiglie, è composta da cittadini stranieri. Per il mancato rimbalzo economico, inoltre, si rischierebbe di perdere 828.000 posti di lavoro, arrivando a contare 2,8 milioni di “working poor”.

2.2 Le misure di prevenzione e contrasto alla povertà

I soggetti in condizioni di povertà, con limitato reddito o con difficoltà di inserimento nella vita sociale attiva e nel mercato del lavoro, accedono prioritariamente ai servizi e alle prestazioni erogati dal sistema integrato di interventi e servizi sociali. Così recita l’art.2 della L.328/2000, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali.

Numerosi sono i fattori che influenzano il fenomeno della povertà: oltre ad una deprivazione materiale, vi sono altre cause che la determinano tra cui la mancanza di accesso alle opportunità, legata ad esempio a discriminazioni nell’accesso ai servizi e alla possibilità di partecipare pienamente alla vita economica e sociale del paese. La condizione lavorativa e professionale, la situazione abitativa, l’istruzione e la disponibilità economica sono tutti aspetti che influiscono nella qualità della vita di ogni individuo.

Le policy implementate per favorire l’inclusione sociale, pertanto, si caratterizzano per un’ampia gamma di iniziative diversificate, sia per ambito di intervento sia per tipologia di strumenti. Gli interventi erogati, dunque, sono soprattutto volti alla prevenzione della caduta in povertà e dell’esclusione sociale.

Di seguito vengono presentati i principali interventi di contrasto alla povertà messi in atto dal Sistema Pubblico ponendo particolare attenzione ad uno degli strumenti di policy introdotto durante il periodo di pandemia.

2.2.1 L’indennità di disoccupazione

L’istituto di welfare di contrasto alla povertà che possiede maggiore carattere previdenziale è l’indennità di disoccupazione la quale è finalizzata alla protezione dell’individuo dal rischio sociale relativo alla perdita dell’occupazione.

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Le indennità di disoccupazione nel tempo susseguitesi rientrano nel sistema più ampio degli

ammortizzatori sociali. Queste costituiscono delle misure indirizzate ai lavoratori dipendenti e

intervengono al termine dell’attività lavorativa, a sostegno del lavoratore che si trova in stato di disoccupazione (NASpI, DISCOLL), oppure in costanza di attività lavorativa al fine di integrare il reddito da lavoro, diminuito a seguito della sospensione o della riduzione dell’attività, come ad esempio la Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria, la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria e la Cassa integrazione in deroga.

La NASpI (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego) è una misura a carattere redistributivo e coincide oggi con la prestazione a sostegno del reddito concessa ai lavoratori con rapporti di lavoro subordinato che hanno perso involontariamente la loro occupazione, salvo eccezioni particolari come il caso di soggetti inattivi a seguito di dimissioni o di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. Tale indennità è stata istituita dalla L.183/2014 (legge delega, cosiddetta Job Act) e dal D.lgs. 22/2015 recante “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati”. Quest’ultima legge è intervenuta abrogando le indennità ASpI (Assicurazione Sociale per l’Impiego) e Mini ASpI, ossia una minima prestazione erogata ai lavoratori atipici.

L’importo dell’indennità NASpI è calcolato sulla base della retribuzione media mensile degli ultimi quattro anni ed è corrisposta mensilmente, per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi quattro anni, per un massimo di 24 mesi.

Oltre alla NASpI, oggi è in vigore anche il sistema dell’indennità di disoccupazione agricola, le norme speciali destinate ai lavoratori frontalieri e categorie assimilate (art. 65 Reg. UE 883/2004) nonché ai rimpatriati (legge 402/1975); vi è inoltre l’indennità di disoccupazione DISCOLL, riservata ai lavoratori parasubordinati, ossia ai collaboratori coordinati e continuativi che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione. Anche tale misura è prevista dal D.lgs 22/2015 ed è stata resa strutturale a partire dal 1° luglio 2017 con la L. 81/2017 che ha introdotto alcune importanti modifiche rispetto alla disciplina originaria. Questa ha ampliato la platea dei destinatari aggiungendo gli assegnisti e i dottorandi di ricerca con borsa di studio, mediante la Circolare 115/2017. Recentemente il D.l. 101/2019 ha modificato il requisito contributivo abbassando ulteriormente i requisiti di accesso. Condizione necessaria per accedere alla prestazione è l’iscrizione in via esclusiva alla Gestione Separata Inps. L’indennità DISCOLL è corrisposta mensilmente per un arco temporale pari alla metà della durata del rapporto di collaborazione,

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assegno di ricerca o dottorato di ricerca con borsa di studio presenti nel periodo che va dal 1° gennaio dell’anno civile precedente l’evento di cessazione dal lavoro al già menzionato evento, per una durata massima di sei mesi.

La Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria (CIGO) è un ammortizzatore sociale che può essere richiesto al verificarsi di situazioni aziendali dovute ad eventi transitori e non imputabili all’imprenditore o ai lavoratori, ovvero determinate da situazioni temporanee di mercato. La transitorietà implica la previsione certa della ripresa dell’attività lavorativa. L’integrazione salariale avviene a fronte di una sospensione dell’attività o di una semplice riduzione dell’orario di lavoro. Tale misura è indirizzata a diverse aziende quali imprese industriali manifatturiere, di trasporti, estrattive, di installazione di impianti, produzione e distribuzione dell'energia ed èstata introdotta dal D.lgs 148/2015. Ad esclusione dei casi relativi ad eventi oggettivamente non evitabili, la CIGO può durare 3 mesi consecutivi (prorogabile fino a un massimo di 12 mesi al ricorrere di determinate circostanze) oppure 12 mesi in due anni se applicato in modo non continuativo. Come previsto dal D.l 18/2020 del 17 marzo, le imprese che rientrano nel campo di applicazione della cassa integrazione che sospendono o riducono l’attività lavorativa per eventi riconducibili all’emergenza sanitaria, hanno diritto di accesso a tale trattamento, con specifica causale “emergenza COVID-19”, a condizioni agevolate quali termini di presentazione della domanda più ampi e periodo di fruizione del trattamento per un massimo di 9 settimane.

La Cassa Integrazione Straordinaria (CIGS) è un ammortizzatore sociale messo in atto per far fronte a eventi aziendali strutturali che non compromettano la continuazione dell’attività aziendale. Questa misura viene concessa a diverse tipologie di aziende con più di 15 dipendenti, inclusi apprendisti professionalizzanti e dirigenti. La durata del trattamento di CIGS varia in base alla causale che ha condotto l’azienda a farne richiesta e per tutto il 2020 sarà possibile fruire di un ulteriore intervento di CIGS di massimo dodici mesi nei casi di crisi o di riorganizzazione complessa dell’azienda.

La cassa integrazione in deroga (CIGD), invece, è uno strumento di politica passiva, introdotto a partire del 2005, per garantire un sostegno economico a lavoratori di quelle imprese che beneficiano degli ordinari interventi d’integrazione salariale. Concepito come strumento sperimentale di sostegno al reddito in costanza di rapporto, l’ammortizzatore è stato oggetto di diverse proroghe nel corso degli anni.In seguito all’emergenza epidemiologica, il D.l 18/2020 ha previsto la facoltà di riconoscere, da parte delle Regioni e delle Province Autonome, trattamenti

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di cassa integrazione salariale in deroga ai datori di lavoro del settore privato, ivi inclusi quelli agricoli, della pesca e del terzo settore compresi gli enti religiosi civilmente riconosciuti ed esclusi soltanto i datori di lavoro domestico, per i quali non trovino applicazione le tutele previste dalle vigenti disposizioni in materia di sospensione o riduzione di orario. La CGD per l’emergenza sanitaria viene riconosciuta per la durata della sospensione del rapporto di lavoro, sino ad un massimo di 9 settimane.

2.2.2 Il Reddito di Cittadinanza

Il reddito minimo di inserimento viene introdotto dal D.lgs 237/1998 del 18 giugno ed è definito quale misura di contrasto della povertà e di sostegno al reddito nell'ambito di quelle indicate dalla L.328/00. All’art. 22 di tale legge vengono elencati i LIVEAS, ossia i Livelli Essenziali di Assistenza Sociale, che costituiscono degli “interventi erogabili sotto forma di beni e servizi secondo le caratteristiche e i requisiti fissati dalla pianificazione nazionale, regionale e zonale, nei limiti delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali, tenuto conto delle risorse ordinarie già destinate dagli enti locali alla spesa sociale” [Bertotti, 2016]. Si tratta dunque di un elenco di prestazioni e di servizi pubblici riferiti al godimento dei diritti civili e sociali che devono essere determinati e garantiti su tutto il territorio nazionale con la funzione di tutelare l’unità economica e la coesione sociale della Repubblica e di rimuovere gli squilibri economici e sociali.

Tra le misure indirizzate al sostegno del reddito, il Reddito di Cittadinanza (RdC) assume oggi un particolare rilievo. Tuttavia, il percorso per la definizione di tale misura fu molto lungo e tortuoso.

La prima misura organica di contrasto alla povertà in Italia è rappresentata dal SIA (Sostegno per l'inclusione attiva), introdotto nel 2016. Il SIA costituisce, in quegli anni, un’assoluta novità per il nostro paese e va ad ampliare su tutto il territorio nazionale la sperimentazione avviata nel 2013 della Nuova Carta Acquisti5. Nonostante tutto, tale nuovo intervento presenta dei limiti: in primo luogo, il dispositivo era indirizzato alle sole famiglie con minori, escludendo di fatto i nuclei composti da soli adulti. Inoltre, i requisiti stringenti in termini di ISEE permettevano di raggiungere un numero ancora troppo esiguo di persone e famiglie in povertà.

5 La Nuova Carta Acquisti sperimentale è disciplinata dal Decreto interministeriale 10 gennaio 2013, ed è stata

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Tale misura, infatti, prevedeva l’erogazione di un contributo mensile di natura economica proporzionale alla numerosità del nucleo familiare: 231 euro per famiglie con due componenti; 281 euro per tre membri; 331 euro per quattro componenti; 404 euro per le famiglie dai 5 componenti in su.

La parte relativa all’attivazione dei beneficiari dell’intervento prevedeva, invece, una presa in carico multidimensionale da parte dei Servizi Sociali comunali, attraverso la predisposizione di piani individualizzati, a cui i nuclei dovevano necessariamente aderire, pena l’esclusione dal beneficio. Tale progetto riguardava nello specifico: atti di ricerca attiva di lavoro; adesione a progetti di formazione o inclusione lavorativa; frequenza e impegno scolastico e comportamenti di prevenzione e cura rivolti alla tutela della salute.

Dal 1° gennaio 2018 il SIA venne sostituito dal Reddito di Inclusione (REI).

Tale intervento venne presentato quale misura di contrasto alla povertà dal carattere universale, condizionata alla valutazione della condizione economica. Anche tale intervento si basava su un beneficio economico erogato mensilmente attraverso una carta di pagamento elettronica (Carta REI) e un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa volto al superamento della condizione di povertà, predisposto sotto la regia dei Servizi Sociali del Comune. Nell'ottica della progressiva estensione della misura, la Legge di Bilancio 2018 (art. 1, comma 192) abroga dal 1° luglio 2018 tutti i requisiti familiari (presenza di un minorenne, di una persona disabile, di una donna in gravidanza, di un disoccupato ultra 55enne). In tal modo si supera dunque il grande limite imposto precedentemente dal SIA.

Il beneficio economico relativo al REI era però soggetto a variazioni in base al numero dei componenti del nucleo familiare e delle risorse economiche possedute dal medesimo nucleo: era infatti richiesto un valore ISEE in corso di validità non superiore a 6mila euro.

Il RdC viene infine introdotto con il D.l. 4/2019 del 28 gennaio e sostituisce la precedente misura del Reddito di Inclusione (REI). Tale intervento costituisce una misura di contrasto alla povertà erogata mediante un sostegno economico che si fonda sull’accompagnamento del beneficiario all’inserimento nel mondo del lavoro e all’inclusione sociale. Qualora tutti i componenti del nucleo familiare abbiano età pari o superiore a 67 anni, assume la denominazione di Pensione di Cittadinanza (PdC).

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Il Reddito di Cittadinanza si basa su particolari criteri di accesso che fanno riferimento a requisiti economici, di cittadinanza e di residenza di cui si deve essere in possesso al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio.

Per quanto concerne i requisiti economici, si fa riferimento all’ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente) il cui valore deve essere inferiore ad una certa soglia, attualmente prevista di 6000 euro e aumentata di 9360 euro per le famiglie residenti in alloggi in affitto.

La durata dell’erogazione del RdC varia in base alla condizione economica del nucleo familiare ed è concessa per un periodo massimo di 18 mesi.

A partire dal programma di riforme promulgato con l’Agenda di Lisbona del 2000, gli interventi di reddito minimo si basarono su percorsi di accompagnamento socioprofessionale. Questa prestazione trova la sua ragion d’essere nella sottoscrizione del Patto per il lavoro presso il Centro per l’impiego, attraverso il quale prende avvio il percorso di inserimento lavorativo. Nel caso in cui nel nucleo non siano presenti componenti disoccupati è invece prevista la sottoscrizione del Patto per l’inclusione sociale. Quest’ultimo sostituisce il Patto per il lavoro anche nel caso di nuclei che abbiano già sottoscritto con i servizi del Comune un progetto personalizzato, ai sensi del decreto legislativo 147/2017, ovvero qualora i Centri per l’impiego ravvisino la presenza di particolari criticità per cui sia difficoltoso l’avvio di un accompagnamento professionale.

Il Patto per l'inclusione sociale è da sottoscrivere qualora il bisogno dell’individuo sia complesso. In tali casi, i servizi sociali del Comune di riferimento procedono con una valutazione multidimensionale del nucleo familiare al fine di avviare il percorso di attivazione sociale e lavorativa coinvolgendo, oltre ai servizi per l'impiego, anche altri enti territoriali competenti. La valutazione multidimensionale è finalizzata a identificare i bisogni del nucleo familiare e dei suoi componenti in vista della predisposizione del Patto per l'inclusione sociale.

I percorsi rivolti all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale possono prevedere l’adesione ad attività destinate al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, completamento degli studi, nonché altri impegni individuati dai servizi competenti. Secondo una ricerca condotta da Banca d’Italia sulle misure di contrasto alla povertà, il RdC risulta essere un intervento capace di ridurre il numero di poveri assoluti (l'incidenza della povertà) e, soprattutto, ne attenua la condizione di bisogno (l'intensità della povertà). Tali risultati, che non tengono conto delle reazioni individuali ai cambiamenti delle politiche pubbliche e degli incentivi

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economici, riflettono sia le ingenti risorse impiegate sia le caratteristiche della misura. A parità di spesa complessiva, un ridisegno dello strumento che favorisca le famiglie numerose con minori a scapito dei single lo renderebbe tuttavia più efficace nel contrasto alla povertà assoluta.

2.2.3 Il Reddito di Emergenza

Introdotto con il Decreto Rilancio n. 34/2020 del 19 maggio all’art.82, ai nuclei familiari in condizioni di necessità economica, in conseguenza dell’emergenza sanitaria, è riconosciuto un sostegno al reddito straordinario denominato Reddito di Emergenza (REM).

Si tratta, come per il RdC, di una prestazione in cui il beneficiario non è il singolo richiedente, ma l’intero nucleo familiare. Tra i requisiti figurano:

▪ La residenza in Italia, verificata con riferimento al componente richiedente il beneficio, senza alcuna durata minima e nessuna continuità, nonché necessità di regolarità di soggiorno;

▪ Una soglia del reddito familiare riferita al periodo di aprile 2020 e che si ottiene moltiplicando il valore della scala di equivalenza per 400 euro. Tale valore è pari a 1 per il primo componente del nucleo familiare ed è incrementato di: 0,4 per ogni ulteriore componente di età maggiore di 18 anni; 0,2 per ogni ulteriore componente minorenne, fino ad un massimo di 2,1 nel caso in cui nel nucleo familiare siano presenti componenti in condizioni di disabilità grave o non autosufficienza come definite ai fini ISEE. ▪ Il valore del patrimonio mobiliare familiare con riferimento all’anno 2019 inferiore a

una soglia di 10.000 euro, accresciuta di euro 5.000 per ogni componente successivo al primo e fino ad un massimo di 20.000 euro. Il massimale è incrementato di 5.000 euro in caso di presenza nel nucleo familiare di un componente in condizione di disabilità grave o di non autosufficienza.

▪ Il valore ISEE che deve essere inferiore a 15.000 euro.

Il beneficio viene erogato in due quote mensili per un massimo di 800 euro, elevabili a 840 euro solo in presenza di disabili gravi o non autosufficienti e altri casi particolari. Questa misura è stata inizialmente riconosciuta fino ad agosto 2020 e successivamente prorogata fino al 15 ottobre

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2020 con l’art.23 del D.l 104/2020 del 14 agosto. Il reddito di emergenza resta incompatibile con la percezione di una pensione, ad eccezione dell’assegno di invalidità, e con il reddito di cittadinanza.

Il REM riprende dunque alcuni criteri del RdC e lo sostituisce per i richiedenti nel periodo di vigenza. Il suo obiettivo consiste nel raggiungere tutta la popolazione in condizione di necessità che non rientra nelle altre prestazioni di welfare. In questa prospettiva diventa cruciale facilitarne l’utilizzo da parte di tutti coloro che, pur possedendone i requisiti, non ne hanno sinora considerato l’impiego e adattarne temporaneamente i requisiti alla situazione di emergenza. Di conseguenza, rispetto al RdC sono previsti: informazione automatica agli aventi diritto; drastica semplificazione della documentazione necessaria per beneficiare della misura; velocizzazione delle procedure per l’erogazione del trasferimento; modifica dei vincoli di accesso legati al patrimonio mobiliare e immobiliare; allentamento temporaneo delle sanzioni legate alla condizione di lavoro irregolare e altro [Forum DD and ASviS, 2020].

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Capitolo 3

LA RICERCA SUL CAMPO

Nel seguente capitolo viene esposta l’indagine condotta partendo innanzitutto dalla descrizione del contesto sociale di riferimento, la città di Pisa, per poi concentrare l’attenzione sulla presentazione del caso di studio di tale ricerca, il Centro di Ascolto della Caritas pisana.

A tal proposito si prosegue con l’esplicazione del disegno di ricerca e degli strumenti utilizzati nell’indagine: il questionario e il campione. Per quanto riguarda il primo strumento, viene descritta la metodologia utilizzata e l’approccio di tale ricerca, di tipo quantitativo; il collettivo6, invece, viene presentato identificando le diverse tipologie di beneficiari dei servizi Caritas, suddivisi in base alla propria condizione professionale e lavorativa, a cui sono state somministrate le interviste strutturate.

L’obiettivo che si intende perseguire è finalizzato all’analisi dei nuovi processi di impoverimento riscontrati durante il periodo della pandemia.

3.1 Il contesto della ricerca: la città di Pisa

Nell’analisi del fenomeno della povertà di fondamentale importanza risulta essere la presentazione della struttura sociale di riferimento. Lo studio di ogni fenomeno sociale deve necessariamente essere colto all’interno del contesto entro cui si esprime poiché tale visione permette di qualificare il fenomeno oggetto di studio e comprenderne le origini.

Pertanto, è necessario volgere lo sguardo sulla descrizione delle caratteristiche socioeconomiche della popolazione pisana, contesto locale entro cui si svolge la presente ricerca.

Secondo i dati Istat la città di Pisa conta 91.393 abitanti, con una prevalenza di femmine che rappresentano il 52,1% della popolazione, rispetto ai maschi che rappresentano il 47,9%.

La popolazione è formata da 46.886 famiglie composte in media da 1,93 componenti. Per quanto riguarda la fascia d’età preponderante, il 7,8% della popolazione appartiene alla fascia d’età 45-49 anni per un’età media di 46,7 [Istat, 2020].

6 Si utilizza tale termine poiché non si fa riferimento ad un vero e proprio campione non essendo stato estratto

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