Corso di Laurea magistrale in
Scienze filosofiche
Tesi di Laurea
Il gusto compassionevole
Relatore
Ch. Prof. Luigi Vero Tarca
Laureando
Andrea Galetti
Matricola 831705
Anno Accademico
2012 / 2013
SOMMARIO
INRODUZIONE
2
I.
PARTE PRIMA
DUALISMO ANIMA-CORPO LA SVALUTAZIONE DELLE
MEMBRA
LA CONCEZIONE DUALISTICA
7
SOMA-SEMA: LA PRIGIONE DEL CORPO
10
SOCRATE: DIALOGO CON POLO SULLA CULINARIA
16
II.
PARTE SECONDA
LA RIVALUTAZIONE DEL CORPO
LA NUOVA CONCEZIONE DEL CORPO NELLA FILOSOFIA MODERNA
25
III.
PARTE TERZA
IL GUSTO
L’APPARATO GUSTATIVO
39
LE EMOZIONI E I RICORDI NEL GUSTO
44
L’IDENTIFICAZIONE SOCIALE DELL’ALIMENTAZIONE: CULTURA E
TRADIZIONI
48
IL GUSTO DELL’INFANZIA
53
L’EDUCAZIONE AL GUSTO
57
IV. PARTE QUARTA
IL GUSTO COMPASSIONEVOLE
LA SCELTA VEGETARIANA
65
IL GALLO CON GLI SPERONI
77
LO STILE SOMATICO
85
INTRODUZIONE
“Non meno che saper, dubbiar m’aggrada”. Dante Alighieri
La ricerca svoltasi nelle seguenti pagine è iniziata con la presa di coscienza
della mancanza di una filosofia alimentare, con la constatazione della
necessità di affrontare tale tema attraverso l’osservazione dei suoi possibili
campi d’impiego. L’alimentazione, per sua natura, è necessariamente legata al
corpo, quindi prima di poter affrontare le problematiche legate alla filosofia
alimentare, si devono prendere in considerazione le teorie filosofiche che
concernono il rapporto anima-corpo. La tradizione, nella maggioranza dei
casi, ha misconosciuto e denigrato il corpo con i suoi sensi e ha riconosciuto
nella psiche la principale sede di conoscenza e verità. Alla base di questo
pensiero vi è la concezione dualistica; questa cominciò a propagarsi con lo
sviluppo delle religioni persiane. Prese forma con lo Zoroastrismo e con le
tribù sciamaniche che influenzarono inizialmente i circoli orfici e pitagorici,
per poi protrarsi nel tempo fino alla filosofia platonica e neoplatonica.
L’epicentro teorico di tale concezione emerge nella filosofia moderna con
Cartesio e con la famosa divisione della realtà da lui compiuta in res cogitans
e res extensa. La rappresentazione dualistica s’innesta profondamente nella
cultura occidentale così da influenzarne gli aspetti religiosi, culturali e sociali.
Il dualismo ha posto una netta divisione tra anima e corpo e ha emarginato
quest’ultimo, ritenendolo privo d’interesse e poco degno di studio. Con la
filosofia contemporanea si comincia a riconoscere una certa valenza alla
corporeità e al suo rapporto con il mondo. Il corpo non è più la prigione
dell’anima, ma assume una propria identità: è vivente e partecipe, comunica
con e attraverso il mondo. Il corpo e i suoi sensi vengono riconosciuti come
elementi con capacità conoscitive. Nonostante ciò, assistiamo a una forma di
gerarchizzazione dei sensi che tende a squalificare il gusto e l’olfatto: essi
vengono associati all’idea di futilità e di superficialità. Il gusto, in particolar
modo, è stato storicamente riconosciuto come mero strumento pratico, utile
solo alla ricerca e al riconoscimento del cibo per la sopravvivenza. Inoltre, è
stato spesso associato all’idea di peccato: senso legato al piacere carnale,
capace di sibilare all’uomo la possibilità di liberare i suoi istinti animaleschi,
distraendolo dai suoi più alti impegni come la spiritualità o la ricerca della
verità. Molte religioni, forse inconsapevolmente, hanno contribuito a questa
forma di denigrazione, accostando i digiuni e le rinunce carnali alla
purificazione dell’anima.
Questo studio si propone di ridare importanza alle sfere sensoriali
storicamente misconosciute e si concentra in particolar modo sul gusto
alimentare.
Vogliamo quindi proporre una rivalutazione filosofica del gusto alimentare
come potenziale elemento creatore di cambiamenti etici nella sfera sociale.
Presentiamo dapprima un’analisi del gusto attraverso differenti punti di vista
che ne illuminino le sue principali caratteristiche: il gusto come apparato
gustativo, quindi le sue forme legate alla sfera prettamente fisica e corporea; il
gusto come facoltà mentale, ovvero come senso portatore e trasmettitore di
vissuti psicologici del soggetto; il gusto come condizione di bisogno primario
dell’uomo, quindi i suoi costituenti aspetti di necessità e di piacere nel
soddisfacimento.
Il gusto non è un carattere marginale dell’esistenza, ma anzi ne influenza
diversi ambiti: la famiglia e il rapporto con la madre (aspetto affettivo),
l’infanzia e i ricordi (memoria ed esperienze), la tradizione culturale e la
socialità (rapporto con l’altro e identificazione di sé). Constatando le varie
influenze che il gusto ha nel soggetto e quindi nell’assetto sociale, proponiamo
una sfida educativa che possa riconoscere, sviluppare e incanalare
positivamente le sue potenzialità. Vogliamo quindi pensare a un’educazione
che abbia una valenza etica e che sia prima di tutto uno strumento di
conoscenza: per questo motivo la chiameremo “educazione esplicativa”.
La valenza etica, in questo caso, sarà data dall’avvicinare il gusto alimentare
al vegetarianismo, una pratica alimentare che insegna a soddisfare il piacere
della nutrizione, senza la necessità di creare dolore o di causare morte. Con
educazione esplicativa s’intende una modalità di formazione che non implichi
alcuna forma di imposizione, ma che offra la maggior conoscenza del reale
senza i vincoli di una scelta predefinita. Spiegare, portare a conoscenza
significa dare informazioni, presentare le possibile scelte, aiutare a
comprendere il valore della scelta e quindi l’importanza e il piacere di portarla
a termine. In questo caso l’educazione esplicativa, che è appunto legata al
vegetarianismo, consisterà, ad esempio, nel dare al bambino tutte le
informazioni sulla provenienza degli alimenti, sull’esistenza delle diverse
forme di nutrizione, sugli effetti fisici, morali e sociali di un’alimentazione di
derivazione animale rispetto a una di tipo vegetale. Le spiegazioni e il grado di
conoscenza dovranno essere ovviamente correlati all’età del soggetto educato:
essi possono variare e appartenere a diversi ambiti o avere differenti intensità.
Si possono spiegare l’impatto del cibo sulla salute, la relazione
uomo-ambiente, il concetto di violenza, il funzionamento dei macelli, il diritto alla
vita, i diritti animali, il significato della mistificazione sociale legato ai sistemi
pubblicitari e al marketing.
L’altro punto di forza è quello che chiameremo “gusto compassionevole”, cioè
la valenza etica e morale del gusto dovuta alla scelta di un’alimentazione
vegetariana. Il vegetarianismo ha una doppia valenza etica: la prima, quella
intrinsecamente compassionevole, che si fonda sulla volontà di non voler
creare dolore e nel considerare gli animali esseri viventi con diritto di vita in
egual modo degli uomini; la seconda è costitutiva della filosofia vegetariana
poiché votata alla non violenza. La non violenza nel vegetarianismo consiste
nell’assenza dell’uso della forza e della coercizione, come mezzo o strumento
per raggiungere un fine o per soddisfare un bisogno, che sia esso necessario o
futile.
Questa seconda parte di tesi si focalizza sul rapporto tra la violenza sugli
animali e la violenza tra gli uomini e sulle contraddittorietà legislative legate a
questo ambito all’interno degli stati. Ad esempio, come esista da un lato la
salvaguardia dei diritti animali e contemporaneamente dall’altro la
regolamentazione della loro uccisione o della loro strumentalizzazione. Le
nostre società crescono su questa ambigua struttura legislativa, che fa leva su
una sorta di fittizia morale, dove si diversificano impropriamente test e
sperimentazioni da maltrattamenti e casi di abbandono.
Il rischio all’interno di queste contraddizioni morali è quello di accettare l’uso
della violenza come strumento. Il passo dalla violenza sugli animali a quella
tra uomini non è poi così lungo: la violenza non ha etnia, non ha specie e
nemmeno razza. L’uso della violenza deve essere considerato in modo
univoco. Parlare di violenze utili o di violenze accettabili può creare confini
labili, dove, alla fine, l’esercizio della violenza viene gestito dalla
maggioranza o dai poteri forti. La storia ha dimostrato che può essere un
percorso pericoloso e incontrollabile. Per evitare questa escalation si propone
di non utilizzare la violenza come mezzo, in primis per un senso di
autoconservazione: per la salvaguardia del nostro futuro come umanità.
La violenza non può essere considerata o divisa in sottogruppi o
sottocategorie, poiché è sempre e solo violenza. Se non acconsentiamo il suo
uso, non possiamo accettarlo in nessun ambito a partire dai piccoli atti
quotidiani come quello dell’alimentazione. Il percorso del gusto
compassionevole è un cammino lento, ma costante: la compassione non
riguarderà in modo esclusivo l’ambito alimentare, ma influenzerà le più
svariate sfere delle personalità contribuendo a crearne uno stile. Tale modalità
potrà essere riversata anche nella soddisfazione degli altri bisogni umani. Non
accettando quella violenza, non accetteremo nemmeno l’uso di quel
linguaggio, non lasceremo che il suo “germe” s’insinui e si propaghi nelle
nostre vita, nella nostra personalità, nel nostro mondo.
I. PARTE PRIMA
DUALISMO ANIMA-CORPO: LA SVALUTAZIONE DELLE
MEMBRA
“Vorrei trovare un’espressione per la
dualità, vorrei scrivere capitoli e frasi
dove
fossero
sempre
visibili
contemporaneamente
canto
e
controcanto, dove accanto ad ogni
varietà vi fosse l’unità, accanto ad ogni
scherzo la serietà.
Perché solo in questo consiste per me la
vita, nel fluttuare tra due poli,
nell’oscillazione tra i due pilastri
portanti del mondo. Vorrei con gioia far
vedere la beata varietà del mondo ed
anche sempre ricordare che al fondo di
questa verità vi è un’unità”.
H. Hesse
LA CONCEZIONE DUALISTICA
La concezione dualistica ha favorito il sedimentarsi di considerazioni
pressoché negative su ciò che intendiamo con corpo. Questo, infatti, è stato
denigrato e svalutato dalla maggior parte della tradizione filosofica, letteraria e
teologica. Il dualismo vede e concepisce il mondo come separazione
ontologica tra anima e corpo. Tale termine fu introdotto da R. Descartes, che
distinse principalmente la realtà in due ambiti: res cogitans (realtà psichica) e
res extensa (realtà fisica).
1In effetti, R. Descartes non fu il fautore del
dualismo, ma solo uno dei suoi massimi e più conosciuti esponenti.
L’origine del termine può essere ricercata nella filosofia pitagorica e nella
concezione religiosa legata all’orfismo.
2Secondo lo studioso e storico
Giovanni Reale infatti:
“Nei documenti letterari greci a noi pervenuti compare per la prima volta in Pindaro una concezione della natura e dei destini dell'uomo pressoché totalmente sconosciuta ai Greci dell'età precedenti ed espressione di una credenza per molti aspetti rivoluzionaria, la quale, giustamente, è stata considerata come elemento di un nuovo schema di civiltà. In effetti, si comincia a parlare della presenza nell'uomo di qualcosa di "divino" e non mortale, che proviene dagli Dei ed alberga nel corpo stesso, di natura antitetica a quella del corpo che dorme o addirittura si appresta a morire, e dunque, quando allenta i vincoli con esso e lo lascia in libertà. [...] Il nuovo schema di credenza consiste, dunque, in una concezione "dualistica" dell'uomo, che contrappone l'anima immortale al corpo mortale e considera la prima come il vero uomo o, meglio, ciò che nell'uomo veramente conta e vale. Si tratta di una concezione, come è stato ben notato, che inserì nella civiltà europea un'interpretazione nuova dell'esistenza umana. Che questa concezione sia di genesi orfica non parrebbe cosa dubbia.”3
1R. DESCARTES, Meditationes de prima philosophia (1641); tr. it. Meditazione metafisiche sulla filosofia prima, in Opere filosofiche, Utet, Torino 1981, vol. I.
2 AA.VV., Enciclopedia garzanti di filosofia, Garzanti, Milano 2003: “Orfismo: movimento religioso
dell’antica Grecia, fondato, secondo la tradizione, dal leggendario poeta tracio Orfeo. […] La tradizione orfica la cui prima compiuta codificazione scritta è attribuita a Onomacrito, risale almeno al sec. VI a.C. […] Con le sue purificazione ascetiche, la «vita orfica» si propone di eliminare nell’anima umana questo elemento titanico e di accedere al divino, evidenziando la dimensione immortale della natura umana.[…]. Al centro delle speculazioni orfiche e delle sue pratiche catartiche, che sottolineano il ruolo estatico di nuove dimensioni spirituali come il tempo e la memoria, si colloca il proposito di una rinuncia all’ordine mondano per conseguire la salvezza integrale dell’anima, intesa come parte divina dell’uomo”.
3 G. REALE, La novità di fondo dell'Orfismo, in Storia della filosofia greca e romana vol.1, Bompiani,
Milano 2004, pp. 62-63. Il testo a cui fa riferimento e da cui estrae tale considerazione è un frammento di Pindaro ed è il seguente: “Il corpo di tutti obbedisce alla morte possente, e poi rimane ancora vivente un'immagine della vita, poiché solo questa viene dagli dèi: essa dorme mentre le membra agiscono, ma in molti sogni mostra ai dormienti ciò che è furtivamente destinato di piacere e sofferenza.” Traduzione di Giorgio Colli in, La sapienza greca vol.1, Adelphi, Milano 2005, p.127.
Questa nuova
4concezione dualistica assieme alla considerazione
dell’esistenza di una parte divina insita nell’uomo, furono anche sottolineate
dal grecista Eric R. Dodds:
“Corrisponda o meno al fatto che per un Ateniese del V secolo la parola
psyché avesse o potesse avere in sé un vago sentore di soprannaturale,
certo non aveva nessuna intenzione puritana, né alcuna suggestione metafisica. L'anima non era prigioniera riluttante del corpo; era la vita, lo spirito del corpo, nel quale si trovava come a casa propria. Ma ecco che il nuovo schema di religione portò il suo contributo carico di conseguenze: attribuendo all'uomo un "io" occulto di origine divina, e contrapponendo così l'anima al corpo, inserì nella civiltà europea, un'interpretazione che noi diciamo puritana.”5
Anche nella tradizione giudaico-cristiana si ritrova questa divisione
anima-corpo, dove l’anima è fonte di vita, animante, guidatrice del corpo. Invece la
carne, le membra sono la parte fragile e possibile fonte di peccato. Nella
Genesi, (capitolo 2, versetto 21) infatti, si legge quanto segue:
“Carne: la carne (basar) è per prima cosa, nell’animale e nell’uomo, la parte molle, tenera del corpo, i muscoli. […] L’anima o lo spirito, animano la carne senza aggiungersi ad essa, rendendola vivente. Tuttavia spesso la “carne” sottolinea ciò che c’è di fragile e di perituro nell’uomo e a poco a poco si percepirà una certa opposizione tra i due aspetti dell’uomo. L’ebraico non ha una parola per designare il corpo. Il Nuovo Testamento supplirà a questa lacuna sviluppando il termine sôma a fianco di sarx.”6
4 Con “nuova concezione” ci riferiamo alla nascita del dualismo e alle sue influenze sulle teorie
filosofiche nell’antica Grecia.
5 E. R. DODDS, The Greeks and the Irrational (1951); tr. it. I Greci e l'irrazionale, Rizzoli, Milano
2009, p. 18. Inoltre Eric R. Dodds fa risalire questa innovazione al contatto della cultura greca con le culture sciamaniche intorno al VII secolo a.C.
6 Genesi cap. 2, v. 21 in La Bibbia di Gerusalemme, testo biblico di La Sacra Bibbia della CEI “editio
princeps” 1971, note e commenti di La Bible de Jerusalem, nuova edizione 1973, Editions du Cerf, Paris. Per l’edizione italiana, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna 1974.
In molti passi si ritrova questo continuo sottolineare l’importanza dell’anima a
discapito della debolezza del corpo. Nel libro del profeta Geremia (capitolo
17, versetto 5), ad esempio, si sottolinea l’inaffidabilità del corpo-carne e il
suo essere ontologicamente distante dal bene.
“Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, che pone nella carne il suo sostegno e il cui cuore si allontana dal Signore. Egli sarà come un tamerisco nella steppa, quando viene il bene non lo vede; dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere.”7
Un altro passo fa invece riferimento al corpo come tomba o prigione
dell’anima. La stessa concezione si ritrova nella tradizione greca, anzi più
correttamente in quella socratico-platonica. In questo testo biblico del profeta
Isaia, estratto dal Libro della consolazione di Israele, il dualismo anima-corpo
è riassunto nella metafora del fiore e la sua linfa.
“Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo. Secca l’erba, il fiore appassisce quando il soffio del Signore spira su di essi. Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del Signore dura sempre.”8
SOMA-SEMA: LA PRIGIONE DEL CORPO
Anche in Platone l’anima viene indicata come un qualcosa di necessariamente
e fondamentalmente separata dal corpo. L’anima è altro, concepita come
7 GEREMIA, cit., cap. 17, v. 5. 8 ISAIA, cit., cap. 40, vv. 6-8.
qualcosa di incorporeo e sovrasensibile, essa viene imprigionata nel
“contenitore” corpo (sôma) che le fa da prigione (sêma). Come il filosofo
spiega nel famoso passo del Cratilo:
“Dicono alcuni che il corpo è sêma (segno, tomba) dell’anima, quasi che ella vi sia sepolta durante la vita presente; e ancora, per il fatto che con esso l’anima semaínei (significa) ciò che semaíne (significhi), anche per questo è stato detto giustamente sêma. Però mi sembra assai piú probabile che questo nome lo abbiano posto i seguaci di Orfeo; come a dire che l’anima paghi la pena delle colpe che deve pagare, e perciò abbia intorno a sé, affinché sózetai (si conservi, si salvi, sia custodita), questa cintura corporea a immagine di una prigione; e cosí il corpo, come il nome stesso significa, è sêma (custodia) dell’anima finché essa non abbia pagato compiutamente ciò che deve pagare. Né c’è bisogno di mutar niente, neppure una lettera.”9
In questo passo si evidenzia bene come l’anima sia imprigionata nel corpo per
espiare le colpe. Inoltre, come sostiene nel Fedone, finché saremo legati al
corpo non potremo nemmeno giungere alla sapienza; solo quando l’anima sarà
libera dal corpo avremo ciò che desideriamo.
“Se mai vogliamo conoscere qualche cosa nella sua purezza, dobbiamo separarci dal corpo e guardare le cose in sé con la sola anima. E a quanto pare, solo allora, cioè dopo la morte e non finché siamo in vita [...] avremo ciò che desideriamo e di cui ci dichiariamo amanti, cioè la sapienza. [...] E non è proprio questo che si chiama morte: liberazione e separazione dell’anima dal corpo? [...] e l’esercizio dei filosofi è proprio questo: liberazione e separazione dell’anima dal corpo.”10
Molte volte per spiegare situazioni o concetti che trascendono la realtà Socrate
e Platone utilizzavano metafore o racconti mitici. Il carro alato è uno di questi
esempi, dove Socrate spiega come l’anima prima volasse libera e dall’alto
governasse il mondo. Caduta nella terra sarà imprigionata nel corpo e solo
9 PLATONE, Opere, vol. I, Laterza, Bari 1967, pp. 213-214.
dopo un periodo di espiazione riuscirà a ritrovare le sue ali e a riprendere il
volo.
“[...] Dell’immortalità dell’anima s’è parlato abbastanza, ma quanto alla sua natura c’è questo che dobbiamo dire: definire quale essa sia, sarebbe una trattazione che assolutamente solo un dio potrebbe fare e anche lunga, ma parlarne secondo immagini è impresa umana e piú breve. Questo sia dunque il modo del nostro discorso. Si raffiguri l’anima come la potenza d’insieme di una pariglia alata e di un auriga. Ora tutti i corsieri degli dei e i loro aurighi sono buoni e di buona razza, ma quelli degli altri esseri sono un po’ sí e un po’ no. Innanzitutto, per noi uomini, l’auriga conduce la pariglia; poi dei due corsieri uno è nobile e buono, e di buona razza, mentre l’altro è tutto il contrario ed è di razza opposta. Di qui consegue che, nel nostro caso, il compito di tal guida è davvero difficile e penoso. Ed ora bisogna spiegare come gli esseri viventi siano chiamati mortali e immortali. Tutto ciò che è anima si prende cura di ciò che è inanimato, e penetra per l’intero universo assumendo secondo i luoghi forme sempre differenti. Cosí, quando sia perfetta ed alata, l’anima spazia nell’alto e governa il mondo; ma quando un’anima perde le ali, essa precipita fino a che non s’appiglia a qualcosa di solido, dove si accasa, e assume un corpo di terra che sembra si muova da solo, per merito della potenza dell’anima. Questa composita struttura d’anima e di corpo fu chiamata essere vivente, e poi definita mortale. La definizione di immortale invece non è data da alcun argomento razionale; però noi ci preformiamo il dio, senza averlo mai visto né pienamente compreso, come un certo essere immortale completo di anima e di corpo eternamente connessi in un’unica natura. Ma qui giunti, si pensi di tali questioni e se ne parli come è gradimento del dio. Noi veniamo a esaminare il perché della caduta delle ali ond’esse si staccano dall’anima.”11
Ancora un altro celeberrimo frammento dello stesso testo in cui Platone
ripropone il famoso paradosso della vita e della filosofia come esercizio di
morte. L’anima, essendo appunto prigioniera del corpo, avrà come obiettivo
quello di lasciare la terra e di ricongiungersi al Divino.
“ «Tutti coloro che praticano la filosofia in modo retto rischiano che passi inosservato agli altri che la loro autentica occupazione non è altra se non quella di morire e di essere morti. E se questo è vero, sarebbe veramente assurdo per tutta la vita non curarsi d’altro che della morte, addolorarsi di ciò che da tanto tempo si desiderava e di cui ci si dava tanta cura». E Simmia, ridendo, disse: «Per Zeus, o Socrate, mi hai fatto ridere, anche se ora non ne avevo proprio voglia! Io penso che la gente, se sentisse dire questo, penserebbe che sia davvero ben detto dei filosofi – e lo riterrebbero in particolar modo i nostri concittadini –, ossia che essi sono veramente dei moribondi; e direbbe di essersi ben accorta che i filosofi sono degni di subire la morte!».
«E direbbe la verità, o Simmia! Però non è vero che la gente se ne sia davvero accorta. Infatti non si è accorta in che senso i veri filosofi siano dei moribondi e in che senso siano degni di morte, e di quale morte! Ragioniamo, dunque, tra noi e lasciamo andare la gente. Riteniamo noi che la morte sia qualche cosa?».
«Certo», disse Simmia.
«E riteniamo che sia altro che non una separazione dell’anima dal corpo? E che essere morto non sia altro che questo: da un lato, l’essere il corpo, separatosi dall’anima, da sé solo, e dall’altro, l’essere l’anima, separatasi dal corpo, da sé sola? O dobbiamo ritenere che la morte sia qualcos’altro e non questo?». «No, questo», disse.”12
Abbiamo visto come, per il filosofo, la morte sia un importante argomento di
studio e come diventi appunto la meta cui giungere. La morte viene
considerata come luogo di divisione tra anima e corpo: la liberazione
dell’anima dalla sua prigione. Nell’esercizio della morte il filosofo non deve
farsi distrarre dai piaceri corporei e dalla tentazioni terrene, ma necessita di
concentrarsi sulla cura della propria anima. Infatti il passo continua nel
seguente modo:
“ «Guarda, ora, o carissimo, se anche tu sei del mio parere; infatti, da quello che ora diremo, penso, risulterà chiaro ciò che noi ricerchiamo. Ti pare che sia degno di un filosofo avere cura dei piaceri di questo tipo, vale a dire dei cibi e delle bevande?».
«Assolutamente no, o Socrate», disse Simmia. «E dei piaceri d’amore?».
«Nient’affatto».
«E che ne dici delle altre cure del corpo? Ti pare che il filosofo li tenga in pregio? Per esempio, il possesso di bei mantelli, di bei calzari e degli altri ornamenti del corpo, ti pare che egli li abbia in pregio o in dispregio, se non per quel poco che è costretto a farne uso?».
«Mi pare – rispose – che non li apprezzi, chi è veramente filosofo».”13
Il filosofo, nel non curarsi dei piaceri e delle passioni del corpo,
esercita l’esperienza di morte: essa diventa la liberatrice dell’anima
che permette alla verità di essere svelata. Per questo motivo, il filosofo
deve essere attratto dalla morte e non deve averne paura; occorre
ch’egli si ricordi come la cura del corpo, il suo nutrimento e gli
interessi a esso legati siano tutti ostacoli atti a impedire la vera
conoscenza della cosa in sé, nella sua essenza e purezza.
“ «E dunque non ti pare – disse – che la preoccupazione del filosofo non sia rivolta al corpo; ma che anzi, per quanto egli può, si ritragga da quello e si rivolga, invece, all’anima?».
«Mi pare di sì».
«E allora, non è evidente, innanzi tutto, che il filosofo, diversamente dagli altri uomini, per quanto riguarda questo genere di cose, cerca di liberare l’anima dal corpo, quanto più gli è possibile?».
«É chiaro».
«E la gente, poi, o Simmia, crede che, per colui che di tali cose non gode e non partecipa, non valga la pena di vivere, e che colui che non si cura dei piaceri che si hanno per mezzo del corpo, tenda, in certo senso, a star vicino alla morte?».
«Verissimo quello che dici».
[...] «Orbene, è necessario» – disse –, in base a queste cose, che nei veri filosofi si formi un’opinione di questo tipo, di guisa che, ragionando fra loro, dicano all’incirca quanto segue.
«Sembra ci sia un sentiero che ci porta, mediante il ragionamento, direttamente a questa considerazione: fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato quello che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità. Infatti, il corpo ci procura innumerevoli preoccupazioni per la necessità del nutrimento; e poi le malattie, quando ci piombano addosso, ci impediscono la ricerca dell’essere. Inoltre, esso ci riempie di amori, di passioni, di paure, di fantasmi di ogni genere e di molte vanità, di guisa che, come suol dirsi, veramente, per colpa sua, non ci è neppure possibile pensare in modo sicuro alcuna cosa. In effetti, guerre, tumulti e battaglie non sono prodotti da null’altro se non dal corpo e dalle sue passioni. Tutte le guerre si originano per brama di ricchezze, e le ricchezze noi dobbiamo di necessità procacciarcele a causa del corpo, in quanto siamo asserviti alla cura del corpo. E così noi non troviamo il tempo per occuparci della filosofia, per tutte queste ragioni. E la cosa peggiore di tutte è che, se riusciamo ad avere dal corpo un momento di tregua e riusciamo a rivolgerci alla ricerca di qualche cosa, ecco che, improvvisamente, esso si caccia in mezzo alle nostre ricerche e, dovunque, provoca turbamento e confusione e ci stordisce, sì che, per colpa sua, noi non possiamo vedere il vero. Ma risulta veramente chiaro che se mai vogliamo vedere qualcosa nella sua purezza dobbiamo staccarci dal corpo e guardare con la sola anima le cose in se medesime».”14
Anche nel Gorgia, si fa riferimento al corpo come tomba dell’anima e si
evidenzia come passioni e i desideri creino bisogni all’uomo rendendolo
infelice.
“ […] e davvero può darsi che noi, in realtà, siamo morti! Come già ho sentito dire da alcuni filosofi: noi attualmente, siamo morti e nostra
tomba [sêma] è il corpo [sôma] e quella parte dell’anima nella quale hanno sede le passioni.”15
SOCRATE: DIALOGO CON POLO SULLA CULINARIA
All’interno di questo dialogo ci sono, inoltre, alcuni frammenti in cui Socrate,
attraverso un’analogia tra culinaria e retorica, vuole dimostrare come
entrambe non siano da considerarsi un’arte. Infatti la culinaria, che è pratica
legata al corpo, non si basa su fondamenti scientifici, ma solo sull’esperienza.
“POLO Ma cosa allora ti sembra la retorica?
SOCR. Un dato16 che tu sostieni aver trasformato in arte in un tuo trattato, del quale ho preso conoscenza da poco.
POLO E cioè?
SOCR. In qual certa esperienza direi. POLO Ma che tipo di esperienza sarebbe?
SOCR. Quell’esperienza che suscita in noi un qual certo diletto e piacere.”17
In questo breve estratto di dialogo, Socrate indica alcune importanti nozioni
che risultano caratterizzanti per la comprensione del suo concetto di retorica.
Egli la definisce, appunto, non solo una «certa esperienza», bensì
un’esperienza che suscita nell’uomo «un qual certo piacere e diletto». Nella
filosofia greca antica l’esperienza non era del tutto esclusa dall’ambito della
15 PLATONE, Gorgia, tr. it. di Francesco Adorno, Laterza, Bari 1997, 493a.
16 In greco πργµα che tradotto è “fatto”, nel significato di fatto accaduto o che accade. La scelta
lessicale di Adorno si può interpretare come una volontà di volere diminuire il significato ontologico della parola. La parola «dato» infatti è meno carica di valore giudizio e di verità di «fatto accaduto» ed è anche slegato dallo spazio e dal tempo.
conoscenza, ma vi partecipava in modo periferico: l’esperienza, troppo
imprecisa e transitoria perché legata ai fenomeni sensibili, veniva piuttosto
considerata come uno stimolo e quindi risultava vana per la ricerca della
verità e della conoscenza.
In un secondo momento, il dialogo prosegue:
“SOCR. Chiedimi, dunque, ora, in che cosa, secondo il mio parere consiste l’arte del cucinare.
POLO Ecco, ti chiedo: in che consiste l’arte del cucinare? SOCR. Non è un’arte Polo.”18
Parlando della culinaria, Socrate sottolinea subito come essa non si possa
considerare un’arte, bensì «un’esperienza». In questo contesto, occorre
ricordare che Socrate, quando parla di arte nel suo significato positivo, si
riferisce spesso al concetto di maieutica. Per maieutica s’intende il metodo
socratico attraverso il quale egli conduce il soggetto alla conoscenza: esso si
basa su una particolare forma di dialogo che presuppone l’interlocutore come
il «partoriente» stesso della conoscenza. Attraverso questa forma d’arte, il
filosofo interroga anime e non corpi. Attraverso il parallelismo con la retorica,
Socrate fa procedere il dialogo al fine di definire la culinaria:
“POLO Ma cos’è allora? Parla!
SOCR. Sì e dico che è un qual certa esperienza.19”
Dunque, cucinare è un’esperienza:
“POLO E di che tipo? Dimmi!
SOCR. Un’esperienza che suscita in noi diletto e piacere, Polo.”20
Cucinare è «un’esperienza che suscita in noi diletto e piacere», ma non rientra
nell’ambito di ricerca della verità e della conoscenza. L’uomo se ne serve per
divertimento, gode del suo utilizzo. Fin qui essa non si aggrava di
18 Ibidem.
19 PLATONE, Gorgia, cit., 1997, 462e-462d. 20 Ibidem.
caratterizzazioni che concernano la sfera del positivo o negativo, del giusto o
sbagliato. Certamente l’esperienza del cucinare è relegata alla corporeità ed è
esclusa dalla dimensione dell’anima.
“POLO Culinaria e retorica sono, dunque la stessa cosa?
SOCR No di certo! Sebbene la culinaria sia una parte di una stessa professione.
POLO Di quale ?
SOCR. Non vorrei fosse troppo scortese dire la verità, e perciò esito a parlare, per un riguardo a Gorgia: non pensi che io prenda in giro la sua professione! E poi, neppure so se la retorica di cui parlo sia la retorica che Gorgia professa, ché dal nostro discorso non è affatto venuto in luce ciò che davvero egli ne pensi. Senza dubbio, comunque, la retorica di cui parlo io è parte di una cosa niente affatto bella.”21
Durante il dialogo, continua il parallelismo tra retorica e culinaria e si giunge a
definire quel certo tipo di retorica «una cosa niente affatto bella». Spesso
Socrate accosta al concetto di bello quello di giusto in senso morale;
similmente, in questo caso, si può pensare che quel tipo di retorica sia ritenuta
dal filosofo una cosa non bella, quindi non giusta. Proseguendo con l’analisi
del dialogo si nota che Socrate vuole delineare l’inutilità e la negatività di una
certa retorica e di certe pratiche.
“SOCR. Sì, Gorgia, a me sembra che la retorica sia un’attività estranea all’arte, pur richiudendo spirito che sa cogliere nel segno, coraggio e una naturale disposizione nei rapporti umani. Nel nocciolo io chiamo la retorica "adulazione", e una di queste è l’arte del cucinare. Ha l’apparenza di un’arte, ma, penso, arte non è, bensì esperienza ed esercizio.”22
In questo estratto Adorno mantiene la tradizionale traduzione “adulazione” per
il termine κολακεία, ma egli stesso sostiene che nel suo significato originario
esso è arricchito da alcune sfumature che lo avvicinano al concetto di
21 Ivi, 462e-463a. 22 Ivi, p. 463 a-b.
«seduzione» (ψυχαγωγία)
23. Quest’ultimo termine appare effettivamente più
adeguato per ciò che Socrate vuole far capire ai suoi interlocutori.
L’adulazione, come si può notare proseguendo nella lettura del dialogo, è
utilizzata nel suo significato più negativo, infatti la seduzione invita a
considerare maggiormente l’aspetto ingannevole della retorica. L’inganno di
voler presentarsi senza farsi conoscere veramente, impossessandosi di
qualunque tecnica pur di rendersi attraenti. Secondo Socrate la retorica è solo
una pratica di convincimento e di raggiro che allontana l’uomo dal retto
cammino. Anche per il termine tradotto nell’ultima frase con «esercizio»,
Adorno propone l’uso più corretto del sostantivo dispregiativo «praticaccia»
24.
Per praticaccia s’intende, per esempio, l’attitudine di quei medici non
scienziati a ultimare la loro conoscenza a forza di esperienza e pratica. La
retorica, così come la culinaria, seduce servendosi del diletto e del piacere al
fine di, socraticamente parlando, voler vendere come pieno un vaso vuoto.
Successivamente Socrate pone rispettivamente la retorica e la culinaria come
copie o spettri della politica e della medicina, con la differenza che
quest’ultime non fanno affidamento a un metodo e a delle regole, ma si
servono dell’esperienza e della pratica, basandosi sulle conseguenti risposte
che da esse ricevono.
“SOCR. Ma riuscirai a capire la mia risposta? La retorica, secondo il mio pensiero è un idolo di una parte della politica.
POLO Ma che vuoi dire con questo? Intendi dire che è bella o brutta? SOCR. Brutta, secondo me – brutto io chiamo tutto quello che è male -, dal momento che ti si deve rispondere come se tu già sapessi quello che penso.[…]
GORGIA E tu lascia da parte e rispondimi su cosa intendi dire quando affermi che la retorica è un idolo di parte della politica.”25
23 κολακεία: manteniamo la tradizionale traduzione «adulazione» anche se in greco v’è qualcosa di
più che, forse, meglio potrebbe tradurre “seduzione”. Cfr. Soph. 222e-223° [nota dell’autore].
24 Cfr. Phaedr. 279b. Cfr anche Phil. 55e; Leg. 938° [nota dell’autore]. 25 PLATONE, Gorgia, cit., 463 d-e.
Qui e successivamente Socrate sostiene che la retorica e la culinaria sono
"Idoli", nel senso di copie, fantasmi o apparenze che non hanno una vera
consistenza, né un regime di regole da seguire. I cosiddetti "venditori di
fumo". Nel passaggio seguente Socrate divide le arti tra quelle valide per la
cura dell’anima e quelle inerenti alla cura del corpo: per la cura dell’anima
individua la politica nelle sue parti di legislazione e di amministrazione della
giustizia; per la cura del corpo indica la ginnastica e la medicina.
“SOCR. L’adulazione, accortasi di queste quattro arti, così costituite e volte sempre a curare nella maniera migliore le une il corpo le altre l’anima – non per via conoscitiva, dico, ma per congettura – si divise essa stessa in quattro, e, strisciando sotto ciascuna delle quattro parti corrispondenti, simula d’essere quella certa parte sotto cui si è insinuata e, senza affatto preoccuparsi del meglio, ma sempre con dilettosi mezzi, caccia ed inganna l’ignoranza, si da apparire cosa di supremo valore. Sotto la cucina scivolò la culinaria, che simula di sapere quali siano i migliori cibi per il corpo, […].”26
Nel prossimo passo sottolinea nuovamente la negatività dell’adulazione e ne
spiega le varie sfumature significative. Sostanzialmente per Socrate
l’Adulatore è colui che si mostra per quello che non è, colui che sostiene di
essere un medico, ma che in realtà non lo è. Ritorna infatti sulla differenza tra
medico scienziato e medico empirico: chi non usa la ragione e la razionalità
non può definirsi “Medico” perché non ha una vera conoscenza della materia.
Gli adulatori non conoscono realmente la materia di cui parlano proprio
perché posseggono una conoscenza fallace basata sull’esperienza e sulla
pratica.
“ Ecco dunque, dunque quello che io chiamo "adulazione", e la dico una gran brutta cosa, Polo – è a te che mi rivolgo – perché, senza preoccuparsi affatto del meglio, è tutta tesa al piacere soltanto; né arte io la dico, ma esperienza, poiché non ha nessuna comprensione razionale
della natura delle cose cui si riferisce, in virtù della qual comprensione possa appunto, riferirsi: ecco perché non sa di ciascuna cosa indicare la causa. Io, perciò, non chiamo arte un dato che tale resti, un dato cioè senza ragione. E se ora ha da muovermi obbiezioni su tutto questo, sono pronto a rendertene ragione.”27
Il corpo e le pratiche che a lui fanno riferimento non hanno capacità
conoscitiva e di giustezza. In questa parte conclusiva Socrate ipotizza
l’inversione di ruoli tra Anima e Corpo. Se il Corpo avesse il compito di
giudicare e di scegliere sarebbe guidato solamente dall’istinto del piacere e
dell’auto-deliziarsi. Per questo, appunto, la cucina sarebbe facilmente
scambiabile con la medicina e tutte le cose, senza distinzione, sarebbero
confuse. Solo attraverso l’anima, portatrice di verità, ogni cosa sarebbe scelta
in modo giusto considerando ciò che sarebbe «migliore» per l’uomo.
“ Sì, perché se l’anima non governasse il corpo, ma fosse il corpo a governarsi da sé, e non fosse l’anima che esamina e giudica ciò che compete alla cucina e ciò che compete alla medicina, ma cucina e medicina fossero giudicate dal corpo sulla base delle delizie che ne riceve, ebbene ampio valore avrebbe il principio di Anassagora, amico Polo – tu di tale dottrina sei esperto -, e cioè “tutte le cose, senza distinzione , sarebbero insieme confuse”, poiché non vi sarebbe più possibilità di giudicare ciò che compete alla medicina, all’igiene, alla culinaria.”28
La denigrazione del corpo, sollevata sia dalla tradizione filosofica che da
quella teologica, è stata largamente studiata, proprio perché la concezione
dualistica ha influenzato gran parte del modo di pensare degli ultimi duemila
anni. Nicola Perullo e Rosalia Cavaliere sono due filosofi contemporanei che
hanno approfondito questi studi con specifico riferimento alla svalutazione dei
sensi. In particolare, hanno notato e sottolineato come il gusto, tra tutti, sia
stato quello più negativizzato e come i sensi cognitivi fossero considerati unici
27 Ivi, 465a. 28 Ibidem.
delegati alla conoscenza; «diversamente dagli oggetti visivi, più stabili e più
duraturi (e diversamente, anche, dagli oggetti sonori formalizzati in una forma
scritta), i sapori e i profumi sono radicati nell’effimero. Essendo volatili ed
evanescenti passano: una ragione in più per escluderli dall’indagine teoretica e
dal dibattito epistemologico sulla percezione sensoriale».
29La prima
trattazione del gusto, con concezione scientifica, avviene nel 1825 con J.A.
Brillant-Savarin che scrive Physiologie du goût, ou Méditations de
gastronomie transcendante, saggio con cui si data la nascita della
gastronomia. Tale saggio ha riscosso successo ed è stato scritto perché, come
vedremo anche nel prossimo capitolo, il corpo cominciava a riacquistare
valenza e importanza all’interno della concezione filosofica. Perullo, nel
seguente passo, sostiene l’impossibilità di discutere sul gusto gastronomico
nella Grecia classica e conferma le nostre teorie sopra citate: egli sottolinea
come, nel pensiero filosofico del tempo, la culinaria non potesse essere né
scienza, né arte e come il gusto fosse solo legato al piacere effimero.
“Come è possibile una riflessione filosofica sul gusto e sulla gastronomia? Non è una domanda retorica. Già Platone – in dialoghi come il Fedro, il Gorgia e il Fedone – rifiutava di assegnare alla cucina lo statuto di scienza e quello di arte, condannandone i piaceri. Platone paragone la cucina alla retorica: un’attività empirica volta al sedurre, mentre soddisfa solo un bisogno primario; non ha niente a che vedere con la conoscenza perché non procede da leggi generali e deducibili né con l’arte perché non soddisfa piaceri intellettuali. I suoi piaceri sono infatti corporali, effimeri e poco degni dell’uomo razionale: «Ti pare che un vero filosofo possa curarsi di piaceri come quelli del mangiare e del bere?», afferma Socrate nel Fedone.”30
La svalutazione del gusto non è un concetto relativo solo al lontano passato;
ne ritroviamo alcuni esempi, infatti, sia nella filosofia moderna sia in quella
29 R. CAVALIERI, Gusto l’intelligenza del palato, Laterza, Bari 2011, p.VI.
30 N. PERULLO, Il gusto come esperienza. Saggio di filosofia e estetica del cibo, Slow Food Editore,
contemporanea: essi si riferiscono al gusto sottolineando il suo aspetto
“carnale”, denigrandolo alla sfera della bassa sensualità ed escludendolo da
quella della conoscenza e da quella dell’arte. Rosalia Cavalieri, nel testo
Gusto, L’intelligenza del palato, riporta un passo hegeliano del 1823, dove il
filosofo sancisce l’inferiorità di tali sensi .
“La svalutazione filosofica dei nostri sensi più carnali si è spinta al punto da contaminare l’arte, in quanto forma di conoscenza affidata ai sensi. L’estromissione della sensibilità materiale dai giudizi artistici è sancita chiaramente da Hegel: «Il sensibile dell’arte si riferisce solo ai due sensi teoretici della vista e dell’udito, mentre risultano esclusi dal godimento artistico olfatto, gusto e tatto. Infatti questi tre sensi hanno da fare con la materialità e con le sue qualità immediatamente sensibili». […] Appunto per il loro carattere viscerale e affettivo, gusto e olfatto hanno finito per rappresentare facoltà del tutto opposte all’intelletto.”31
Come vedremo nel prossimo capitolo, la filosofia moderna e contemporanea ha
rivalutato il corpo sia nelle sue funzioni che nel suo rapporto con il mondo,
tendendo a superare, così, la classicistica visione dualistica anima-corpo. Se
nel versante filosofico si giungeva a una conciliazione del corpo con i suoi
sensi, elevando anche il tanto maltrattato gusto alimentare a oggetto di studio,
nel versante gastronomico si scorgevano nascere nuove mode e stili di
concepire la cucina e gli alimenti, pensiamo ad esempio alle mode
rappresentate da Ferràn Adrià e dalla sua cucina molecolare. Queste innovative
concezioni volevano avvicinare arte e scienza e proporre la loro combinazione
proprio attraverso la gastronomia. La cucina di Adrià fu veloce a farsi
conoscere e, per alcuni aspetti, fu apprezzata e premiata, ma riscosse
ugualmente molte critiche. Tra queste, ricordiamo quella di Fernando Savater
che, nell’articolo “L’arte della digestione”, descriveva questa cucina come uno
spazio a misura di ricchi, snob e “intellettuali”, costruito ad arte da
commedianti con un unico fine che si può riassumere con la celebre frase di
Paul Bocuse: «Niente nel piatto, tutto nel conto». Savater inoltre risollevò le
questioni della differenza tra arte e artigianato e dell’impossibilità della cucina
di uscire dal suo essere una pratica.
“Certo, in senso lato ci sono sicuramente «artisti» dei fornelli, gente che li usa con destrezza e abilità particolari, che si documenta con cura su materie prime e condimenti o che ha una speciale inventiva nell’armonizzare i sapori. Non è cosa da poco e meritano tutto il nostro apprezzamento. Ma la loro bravura appartiene all’onesto mondo dell’artigianato, non a quello della creazione artistica, il cui obiettivo non è soddisfare i sensi, ma risvegliare sentimenti e spingere alla scoperta di inediti significati. […] L’incoronazione di Ferrán Adriá durante la Fiera dell’arte di Kassel non aggiunge una virgola alla sua «genialità», ma rivela quanto siano insulsi i chierici dell’attuale decadenza artistica.”32
Le principali critiche e obiezioni mosse al gusto alimentare e alla culinaria
possono essere raggruppate sotto tre grandi sfere: quella epistemologica,
quella estetica e quella etica. La prima ritiene la culinaria una disciplina non
scientifica perché legata al corpo e ai suoi sensi minori: questi non vengono
considerati elementi adatti a una scienza esatta e non sono portatori di
conoscenza, facoltà appartenente all’intelletto. La seconda delinea come la
culinaria non possa essere considerata un’arte: essa è ritenuta una materia più
vicina all’artigianato, perché costituita da un’esperienza fugace e non
permanente, quindi effimera. La terza relega il gusto all’ambito del piacere
inteso nella sua forma più istintuale e animalesco, quindi la culinaria come
forma potenzialmente più incline al peccato e all’immoralità.
33Prima però di rivalutare il gusto alimentare, affrontandone le critiche ad esso
rivolte, ci soffermeremo sulla considerazione del corpo e dei suoi sensi.
32 F. SAVATER, L’arte della digestione, “La Stampa”, 26 settembre 2007. 33 Cfr. N. PERULLO (2012: 35).
II. PARTE SECONDA
LA RIVALUTAZIONE DEL CORPO
“C’è più ragione nel corpo che nella tua migliore sapienza.
F. Nietzsche
“Amate le bestie: Dio ha dato loro il principio e la gioia pacifica. Non tormentatele, non turbatele, non togliete loro la gioia, non opponetevi all’intento di Dio. Uomo, non innalzarti sugli animali”.
F. Dostoevskij
LA NUOVA CONCEZIONE DEL CORPO NELLA FILOSOFIA MODERNA
La riconsiderazione del corpo nella filosofia del Novecento non è solamente
legata al rapporto dualistico di questo con l’anima e non è nemmeno una
banale considerazione della sua importanza. Il corpo, infatti, si appropria di
una nuova considerazione, nei termini di ruolo e soggetto. Non appare più
come corpo-oggetto o come corpo rappresentativo. Esso non è più accessorio
dell’anima ma diviene corpo vissuto, ricettore e creatore di mondo, in rapporto
con esso. Primo strumento – per dirla con Schopenhauer – per trascendere il
velo di Maya.
“Non è tanto la nozione di corpo genericamente inteso a diventare centrale nella filosofia del Novecento. Sono, più in specifico, le nozioni di “corpo animato” e di “corpo vissuto” in quanto affermano
un’esperienza della corporeità diversa dalla concezione che può riassumersi nelle nozioni di oggetto” o di “corpo-rappresentazione”. Quest’ultime esprimono a loro volta la concezione che ha tradizionalmente sotteso il pensiero dell’Occidente, contribuendo in modo decisivo a caratterizzarlo in senso metafisico: a caratterizzarlo cioè quale pensiero che colloca la verità oltre le cose sensibili. Le nozioni di “corpo-oggetto” o “corpo-rappresentazione” servivano infatti a separare il corpo dall’anima ponendolo in una posizione subordinata rispetto a questa. Ciò vale tanto per la caratterizzazione platonica del corpo quale prigione dell’anima, quanto per quella cartesiana del corpo come res
extensa distinta dalla res cogitans. In ogni caso si trattava di un corpo che ho, mentre il Novecento è andato piuttosto sottolineando una
caratterizzazione del corpo quale corpo che sono.”34
Ed è proprio Schopenhauer uno dei precursori che, già ai primi dell’Ottocento,
imposta una nuova riflessione sul corpo, considerandolo veicolo attraverso cui
ciascuno di noi può trascendere il mondo rappresentato e raggiungere
l’essenza, la volontà. Nella sua opera Il mondo come volontà e
rappresentazione, egli infatti caratterizza il corpo sì come rappresentazione –
all’interno di una più ampia caratterizzazione del mondo come mia
rappresentazione – poi però si chiede come sia possibile superare il velo di
Maya delle rappresentazioni e giungere a individuare nella volontà l’essenza
stessa del mondo. Ed è qui che il filosofo tedesco inserisce un «passaggio
sotterraneo», da ritrovare proprio nel corpo.
“In verità, il senso tanto cercato di questo mondo, che mi sta davanti come mia rappresentazione – oppure il passaggio da esso, in quanto pure rappresentazione del soggetto conoscente, a quel che ancora può essere oltre di ciò – non si potrebbe assolutamente mai raggiungere, se l’indagatore medesimo non fosse nient’altro che il puro soggetto conoscente (alata testa d’angelo senza corpo). Ma egli ha in quel mondo le proprie radici, vi si trova come individuo: ossia il suo conoscere, che è
34 Intervista a M. CARBONE in Leib e Körper, chairs e corpus: la filosofia e la nozione di corpo, a cura
condizione dell’esistenza del mondo intero in quanto rappresentazione, avviene in tutto e per tutto mediante un corpo; le cui affezioni, come s’è mostrato, sono per l’intelletto il punto di partenza dell’intuizione di quel mondo.”35
Non possiamo considerare il corpo e la mente in modo separato, sarebbe come
immaginare di inserire la coscienza all’interno di una macchina, o la coscienza
di una persona in un altro corpo. Mente e corpo sono un tutt’uno e il loro
rapporto e vicendevole, essi si influenzano e si evolvono l’uno rispetto
all’altro e tramite l’altro. Il rapporto che si crea è costituito da un continuo
interscambiarsi d’informazioni e influenze, questo scambio continuo prende
una forma circolare dove non si riesce più a distinguere l’inizio dalla fine.
Codesto corpo è per il puro soggetto conoscente, in quanto tale, una rappresentazione come tutte le altre, un oggetto fra oggetti: i suoi movimenti, le sue azioni, non sono da lui, sotto questo rispetto, conosciute altrimenti le modificazioni di tutti gli altri oggetti intuitivi; e gli sarebbero egualmente estranee ed incomprensibili, se il loro senso non gli fosse per avventura svelato in qualche modo affatto diverso. In caso contrario, vedrebbe la propria condotta regolarsi con la costanza di una legge naturale sui motivi che le si offrono, proprio come le modificazioni degli altri oggetti sono regolate da cause, stimoli, motivi. Ma non comprenderebbe l’influsso dei motivi più di quanto comprenderebbe il nesso di ogni altro effetto, a lui visibile, con la causa rispettiva. All’intima, per lui incomprensibile essenza di quelle manifestazioni e operazioni del suo corpo, egli seguiterebbe allora a dare i nomi di forza, qualità, carattere, a piacere: e non vedrebbe più addentro.”36
Il gioco che s’instaura tra mente e corpo non è un semplice rapporto
causa-effetto,
il corpo diviene allo stesso tempo costruttore di mondo e parte di
mondo; è attraverso il corpo che io abito un mondo e ne faccio conoscenza
incontrandomi con esso.
35 A. SCHOPENHAUER, Die Welt als Wille und Vorstellung (1819); tr. it. Il mondo come volontà e
rappresentazione, Laterza, Bari 1972, pp. 152-154.
“Ma le cose non stanno così: al soggetto conoscente, che appare come individuo, è data la parola dell’enigma; e questa parola è volontà. Questa, e questa sola, gli dà la chiave per spiegare il suo proprio fenomeno, gli manifesta il senso, gli mostra l’intimo congegno del suo essere, del suo agire, dei suoi movimenti. Al soggetto della conoscenza, il quale per la sua identità con il proprio corpo ci si presenta come individuo, questo corpo è dato in due modi affatto diversi: è dato come rappresentazione nell’intuizione dell’intelletto, come oggetto fra oggetti, e sottomesso alle leggi di questi; ma è dato contemporaneamente anche in tutt’altro modo, ossia come quell’alcunché direttamente conosciuto da ciascuno, che la parola volontà esprime. Ogni vero atto della sua volontà è immediatamente e ineluttabilmente anche un moto del suo corpo: egli non può voler davvero l’atto, senza accorgersi che esso appare come movimento del corpo.”37
Ecco qui esplicitata in modo chiaro l'unità tra corpo e volontà, il loro essere
unità agente nel mondo, il loro essere un tutt'uno che agisce.
L’atto volitivo e l’azione del corpo non sono due diversi stati conosciuti oggettivamente, che il vincolo della causalità collega; non stanno fra loro nella relazione di causa ed effetto: bensì sono un tutto unico, soltanto dati in due modi affatto diversi, nell’uno direttamente, e nell’altro mediante intuizione per intelletto. L’azione del corpo non è altro, che l’atto del volere oggettivato, ossia penetrato dall’intuizione.”38
Come evidenzia bene Carbone:
“Egli sottolinea infatti che nell’appetito, nelle tensioni, nel desiderio sessuale noi facciamo un’esperienza del nostro corpo che ci fa andare oltre la sua caratterizzazione in termini di “rappresentazione”, rivelandocelo piuttosto un’incarnazione della volontà. Tale rivelazione ci consente allora di passare al di là della conoscenza del mondo quale
37 Ibidem. 38 Ibidem.
rappresentazione, arrivando, infine, a considerare la volontà come il principio che costituisce, appunto, l’essenza di tutta la realtà.”39
D’altro canto anche Roberto Lolli sottolinea la ritrovata funzione conoscitiva
del corpo e la sua costitutiva istintualità: una
«
volontà che va oltre la nostra
volontà
»
:
“Nel tracciare la parabola della concezione filosofica del corpo, assume grande importanza la svolta introdotta da Schopenhauer che ne Il Mondo
come Volontà e Rappresentazione si distacca dalla gnoseologia
settecentesca e da Kant liquidando la pretesa che la mente possa essere solo un occhio che puramente guarda la realtà. Non siamo “alate teste d’angelo”, ma esseri radicati in un corpo e proprio il corpo diventa lo strumento per un’esplorazione che permette di oltrepassare il limite della rappresentazione del mondo e di attingere a cosa vi sia di là da quel che viene denominato “il Velo di Maya”, l’apparenza fenomenica. Il corpo, con i suoi movimenti spontanei e incontrollabili, coi suoi processi metabolici, con la sua circolazione cardiovascolare e i suoi infiniti micro eventi chimico-fisici si presenta come qualcosa di più di un oggetto fra gli oggetti e ci rivela la presenza di una volontà che va oltre la nostra volontà, di un istinto che è anteposto a ogni altro impulso che crediamo di definire "nostro". Si tratta di un passaggio fondamentale, destinato ad avere un’enorme influenza sul pensiero degli ultimi due secoli. Non si tratta più, infatti, di riconoscere nel corpo un bel contenente o uno strumento cognitivo, una specie di antenna di ricezione della mente orientata verso l’esterno, bensì di distinguervi una specificità ontologica e gnoseologica, ossia il rango di chiave d’accesso a qualcosa che, diversamente, resterebbe per sempre celato.”40
Questa riscoperta del corpo coincide anche con l’affermazione della sua
ontologica ambivalenza. Ambivalenza che, però, non passa più attraverso il
dualismo cartesiano dove, ci ricorda Husserl, l’anima, la res cogitans «è il
residuo di un’astrazione preliminare del puro corpo; dopo quest’astrazione
39 M. CARBONE, Leib e Körper, chairs e corpus: la filosofia e la nozione di corpo, cit., p. 2.
40 R. LOLLI, Il corpo nella filosofia occidentale. La riscoperta del corpo nel XIX e XX secolo Vol. 4,