UNA PRONUNCIA NON RISOLUTIVA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
SULL’ESTENSIONE DELLA TUTELA EX ART. 35-TER OP RICONOSCIUTA
ALL’ERGASTOLANO
di Karma Natali
(Dottore di ricerca in procedura penale)
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’art. 35-ter Op: genesi e presupposti. – 3. Procedimento e condizioni di applicabilità dei singoli rimedi risarcitori. – 3.1. (Segue) Il rapporto tra i distinti rimedi affidati al magistrato di sorveglianza: il caso del condannato all’ergastolo. – 4. I limiti e le occasioni perdute di una pronuncia poco coraggiosa.
1. È infondata la questione di costituzionalità dell’art. 35-ter Op nella parte in
cui «non prevede, nel caso di condannati alla pena dell’ergastolo che abbiano già
scontato una frazione di pena che renda ammissibile la liberazione condizionale, il
ristoro economico previsto dal comma 2 dell’art. 35-ter o.p.». Il riferimento è alla
somma di 8 euro che spetta al condannato per ogni giorno di detenzione sofferto in
condizioni tali da violare l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo,
quando non sia possibile ripagare l’interessato con la riduzione di pena prevista dal
primo comma dello stesso art. 35-ter Op. Con una pronuncia ascrivibile al genus delle
sentenze interpretative di rigetto, la Corte ripudia l’esegesi della disposizione
censurata suggerita dal rimettente
1, affermando che della suddetta tutela economica
può fruire anche l’ergastolano che, grazie al proprio percorso trattamentale, possa già
accedere alla misura della liberazione condizionale: l’irriducibilità della pena
perpetua non impedisce al magistrato di sorveglianza di risarcire con una somma di
denaro i trattamenti inumani o degradanti sofferti per almeno quindici giorni.
1 La vicenda da cui trae origine il provvedimento riguarda un condannato all’ergastolo che,
assumendo di aver subìto trattamenti inumani e degradanti nel corso dell’esecuzione penale, presentava istanza di risarcimento ex art. 35-ter Op. Investito della questione, il Magistrato di sorveglianza di Padova aveva accertato le sofferenze patite dal detenuto, riscontrando nella metratura effettivamente disponibile in cella (inferiore ai 3 mq) una violazione dell’art. 3 Cedu. Appurata la lesione, tuttavia, il magistrato aveva giudicato i rimedi di nuovo conio inaccessibili – e dunque, non effettivi – per il condannato alla pena perpetua: all’inapplicabilità del rimedio “in forma specifica” di cui al co. 1 dell’art. 35-ter Op, infatti, non potrebbe supplire il ristoro monetario, «previsto quest’ultimo solo in via aggiuntiva per la parte di pena non più riducibile» (così l’ordinanza di rimessione, M. sorv. Padova, 20.4.2015, reperibile in www.gazzettaufficiale.it). Di qui il sospetto di incostituzionalità in riferimento agli artt. 3, 24, 27 co. 3 e 117 co. 1 Cost.: quest’ultimo, nella parte in cui recepisce l’art. 3 Cedu (in commento all’ordinanza di rimessione vedi F. Mensio, Detenzione inumana e reclamo ex art. 35-ter op: al vaglio della Corte costituzionale la difficile applicazione dei rimedi risarcitori all’ergastolano, in www.lalegislazionepenale.eu, 21.9.2015).
A far sorgere il dubbio era il tenore letterale del co. 2 che, indicando i casi in
cui il risarcimento previsto dall’art. 35-ter Op può assumere forma economica (in
luogo o in aggiunta all’altra modalità di ristoro prevista dalla disposizione), parrebbe
escludere una liquidazione interamente monetaria quando i trattamenti inumani o
degradanti siano stati patiti per un tempo pari o superiore a quindici giorni. Infatti,
in questi casi, l’art. 35-ter Op privilegia l’altro rimedio, quello “in forma specifica” (co.
1), che consente di scontare dalla pena in esecuzione il tempo trascorso in violazione
dell’art. 3 Cedu e, solo «quando il periodo di pena ancora da espiare [sia] tale da non
consentire la detrazione dell’intera misura percentuale di cui al comma 1», ammette
lo strumento di tipo economico, che opera quindi solo in aggiunta alla riduzione
della pena. Il rimedio monetario si configura dunque come un’ipotesi eccezionale,
apparentemente destinata dal legislatore a un utilizzo congiunto con il rimedio
detrattivo di cui al co. 1 dell’art. 35-ter Op. E proprio la previsione di una necessaria
complementarietà con lo strumento in forma specifica ha fatto dubitare della
possibilità di applicare in via esclusiva il ristoro economico laddove la pena fosse,
come nel giudizio principale, irriducibile in ragione della sua natura perpetua.
In risposta a tale interrogativo, la Corte ha precisato che ovviamente anche
l’ergastolano merita il ristoro previsto dall’art. 35-ter Op, e che quindi l’irriducibilità
della pena non preclude le pretese economiche di chi abbia patito trattamenti
inumani o degradanti per più di quindici giorni. E se il principio è certamente
condivisibile, qualche maggiore perplessità suscita la scelta del Giudice delle leggi di
esprimerlo attraverso una pronuncia interpretativa di rigetto. Infatti, stante la
limitata efficacia delle decisioni di infondatezza, la Corte, da un lato, affida al diritto
vivente il compito di stabilizzare le argomentazioni svolte a sostegno
dell’interpretazione adeguatrice, e, dall’altro, perde una valida occasione di garantire
la tutela de qua anche ai condannati “a vita” che potrebbero astrattamente giovarsi
del rimedio detrattivo per anticipare l’accesso ai benefici che la legge ammette nei
confronti dell’ergastolano. Lo stesso remittente aveva incoraggiato il Giudice delle
leggi a ricorrere allo strumento della pronuncia “consequenziale” di incostituzionalità
per pronunciarsi sulla posizione giuridica di tutti i condannati alla pena perpetua, e
non solo di quelli che avessero già espiato il tempo utile per accedere alla liberazione
condizionale
2: ma sul punto la Corte tace, aprendo la strada a una nuova inevitabile
denuncia di incostituzionalità dell’art. 35-ter Op.
2. La decisione della Corte offre il pretesto per un’analisi della disposizione
censurata che meglio consentirà di comprendere le carenze di effettività denunciate
nell’ordinanza di rimessione e solo in parte risolte dalla pronuncia che si annota.
2 Siccome l’interessato aveva già maturato il tempo utile per l’accesso al beneficio della liberazione
condizionale, e quindi l’applicabilità o meno del rimedio in forma specifica risultava irrilevante nel giudizio principale, il Magistrato padovano si era limitato a sollecitare la Corte a considerare una dichiarazione di illegittimità consequenziale del co. 1 dell’art. 35-ter Op nei termini concessi dall’art. 27 della l. 11.3.1953 n. 87. L’indicazione mirava a un’addizione normativa funzionale ad estendere il meccanismo previsto dall’art. 54 co. 4 Op in tema di liberazione anticipata a chi, condannato alla pena perpetua, non avesse però ancora espiato i ventisei anni richiesti per fruire della liberazione condizionale (infra, par. 4).
L’art. 35-ter Op nasce per adeguare l’ordinamento interno alla giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo. Con una celebre decisione del gennaio 2013,
la Corte di Strasburgo aveva richiesto al nostro legislatore di introdurre rimedi
«effettivi, sufficienti ed accessibili» avverso il fenomeno del sovraffollamento
carcerario, e segnatamente strumenti preventivi e compensativi in grado di
contrastare le violazioni dell’art. 3 Cedu
3. A ispirare il diktat della Corte europea era
la ritenuta improrogabile necessità di sanare le patologie della detenzione che
comportassero un intollerabile surplus di afflittività, estraneo ed eccedente la
porzione di libertà che il recluso inevitabilmente cede all’ingresso in carcere. Quando
le condizioni detentive siano tali da integrare un trattamento inumano o degradante
– avevano affermato i giudici europei –, al detenuto devono spettare sia rimedi
preventivi, in grado di assicurare la rapida cessazione della violazione del diritto, sia
strumenti compensativi volti alla riparazione del pregiudizio sofferto. In ossequio alla
direttrice sovranazionale, il piano carceri del 2013-2014 ha quindi inteso incrementare
le garanzie riconosciute a detenuti e internati attraverso la previsione di un sistema a
tutele progressive. E infatti, confermato il rimedio generico di cui all’art. 35 Op,
l’ordinamento si è arricchito di nuove forme di tutela giurisdizionale, di natura,
appunto, preventiva e compensativa (rispettivamente, art. 35-bis e art. 35-ter Op).
I presupposti per l’accesso alla tutela compensativa sono succintamente
individuati dall’incipit dell’art. 35-ter Op: vi è diritto alla riparazione «quando il
pregiudizio di cui all’articolo 69, comma 6, lett. b), consiste […] in condizioni di
detenzione tali da violare l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali […] come interpretato dalla Corte europea dei
3 C. eur., 8.1.2013, Torreggiani e altri c. Italia, con cui la Corte, decidendo nelle forme della pronuncia
pilota sul ricorso di sette dei molti ricorrenti attivatisi dopo la pronuncia Sulejmanovic (C. eur., 16.7.2009, Sulejmanovic c. Italia), ha accertato la sistemica violazione dell’art. 3 Cedu all’interno delle carceri italiane, concedendo all’Italia un anno di tempo per introdurre «un ricorso o un insieme di ricorsi interni idonei ad offrire un ristoro adeguato e sufficiente per i casi di sovraffollamento carcerario, in conformità ai principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte» (tra molti, vedi M. Deganello, I rimedi risarcitori, in Sovraffollamento carcerario e diritti dei detenuti. Le recenti riforme in materia di esecuzione della pena, a cura di F. Caprioli e L. Scomparin, Torino 2015, 257 ss.; per un’analisi circa gli effetti della pronuncia sulla popolazione detenuta nelle carceri italiane, G. Torrente, La popolazione detenuta in Italia tra sforzi riduzionisti e nuove tentazioni populiste, in www.penalecontemporaneo.it, 27.10.2016). Va osservato come in epoca antecedente al d.l. 26.6.2014 n. 92, provvedimento di introduzione dell’art. 35-ter Op, l’ordinamento non prevedesse un istituto dichiaratamente preposto alla tutela compensativa dei diritti del detenuto. La mancanza di un valido strumento in grado di riparare le violazioni sofferte aveva così generato non poche incertezze, soprattutto circa la possibilità di riconoscere tale giurisdizione direttamente in capo alla magistratura di sorveglianza: sebbene una parte di quest’ultima avesse tentato di affermare la propria competenza sulla liquidazione del danno da “sovraffollamento carcerario” (M. sorv. Lecce, 9.6.2011, Silimani, in CP 2012, 249), tale conclusione era stata smentita dalla giurisprudenza di legittimità che limitava le pretese risarcitorie alla sede civile (Cass. 15.1.2013, Vizzari, in CEDCass, m. 254271, con cui la Corte aveva giudicato inammissibile il reclamo presentato nelle forme del rimedio generico ex art. 35 Op, escludendo la competenza della magistratura di sorveglianza su aspettative azionabili unicamente davanti al giudice ordinario).
diritti dell’uomo»
4. In altre parole, non tutte le lesioni patite in occasione – e a causa
– della detenzione assicurano il diritto al risarcimento, ma unicamente quelle che,
per intensità e in ragione del bene giuridico intaccato, si traducano in «trattamenti
inumani o degradanti». Quella offerta dall’art. 35-ter Op non è quindi una garanzia
generica contro tutte le violazioni occorse durante la detenzione, ma una tutela
specifica, riservata a riparare le violazioni dell’art. 3 Cedu: diversamente dal rimedio
giurisdizionale di cui all’art. 35-bis Op
5, l’art. 35-ter Op intende “compensare” solo
4 L’art. 69 co. 6 Op, come restaurato dal d.l. 23.12.2013 n. 146, si occupa di individuare i casi che
consentono l’attivazione della procedura di cui all’art. 35-bis Op, distinguendoli tra la materia disciplinare indicata nella lett. a e quella dei diritti genericamente intesi di cui alla lett. b (per un’accurata ricostruzione dell’istituto, E. Valentini, Il reclamo: casi e forme, in Sovraffollamento carcerario, cit., 205 ss.). Così, quando l’art. 35-ter Op richiama il pregiudizio di cui all’art. 69 co. 6 lett. b Op apparentemente si riferisce ai presupposti di accesso al reclamo giurisdizionale, e segnatamente a quelli che consentono al detenuto di far valere una lesione grave e attuale all’esercizio dei propri diritti, cagionata dall’inosservanza da parte dell’amministrazione delle regole che governano l’ordinamento penitenziario (inteso quale binomio dettato dalla l. 26.7.1975 n. 354 e il relativo regolamento d’esecuzione del 2000). Con il d.l. 92/2014, la corrispondenza biunivoca (e dunque, esclusiva) fino a quel momento affermata tra l’art. 69 co. 6 e l’art. 35-bis Op pare così messa in discussione dalla creazione di un nuovo strumento che, pur non indicato nel richiamo reciproco tra le due menzionate disposizioni (artt. 69 co. 6 e 35-bis Op), si riferisce nel suo 1 co. al «pregiudizio di cui all’articolo 69, comma 6, lett. b)». Lo “scomodo” rinvio al paradigma dell’art. 69 Op ha quindi riversato sul diritto vivente il compito di risolvere numerosi interrogativi: basti pensare agli sbandamenti giurisprudenziali in tema di “attualità del pregiudizio” – questione risolta solo recentemente dalla giurisprudenza di legittimità escludendo l’attualità del pregiudizio dalle condizioni necessarie per la presentazione/decisione del rimedio de quo (cfr. Cass. 11.6.2015, Salierno, in CP 2016, 688, con nota di F. Fiorentin, “Rimedi compensativi” per l’inumana detenzione: l’attualità del pregiudizio non è (probabilmente) rilevante per il risarcimento, e ripresa da ultimo in Cass. 19.12.2016, Migliaccio, in www.cortedicassazione.it; Cass. 19.12.2016, Giacomelli, ivi; Cass. 19.12.2016, Frontoso, ivi; Cass. 19.10.2016, Sortino, ivi; Cass. 19.10.2016, Raimo, ivi; Cass. 19.10.2016, Guizzardi, ivi; Cass. 19.10.2016, Crudo, ivi; Cass. 19.7.2016, Commisso, in CEDCass, m. 268118; Cass. 16.7.2015, Koleci, ivi, m. 265973; Cass. 16.7.2015, Ruffolo, ivi, m. 265856; contra, Cass. 11.6.2015, Hrustic, in www.cortedicassazione.it), così come confermato anche dalla Corte costituzionale nella pronuncia in commento (vedi infra, nota 12) –, ma anche alle difficoltà connesse alla determinazione della dinamica riparatoria, che, nel silenzio della disposizione, avrebbe potuto astrattamente seguire sia scansioni deformalizzate sia la procedura indicata per il reclamo giurisdizionale (soluzione, questa, da ritenersi preferibile, e confermata dagli ultimi approdi giurisprudenziali, cfr. Cass. 16.7.2015, Koleci, cit.; da ultimo, Cass. 17.11.2016, Min. giust. c. Ricciari, in www.cortedicassazione.it; Cass. 17.11.2016, Kacemi Adil, ivi; Cass. 9.9.2016, Min. giust. c. Tanieli, ivi; Cass. 8.9.2016, Morreale, ivi; nonché infra, par. 3 in particolare note 13 e 14).
5 Come appena evidenziato (supra, nota 4), la base sostanziale in cui matura il diritto alla tutela
preventiva è indicata dall’art. 69 co. 6 Op, che, in tema di diritti genericamente intesi (lett. b), consente il reclamo giurisdizionale a seguito di una «inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all’internato un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti». La lesione oggetto del reclamo giurisdizionale è dunque una violazione che attiene ai “diritti” del detenuto: la specificazione contenuta nella lett. b infatti è funzionale a circoscrivere il perimetro della tutela a tutti i diritti di detenuti e internati, escludendo il reclamo ex art. 35-bis Op quando oggetto del pregiudizio siano mere aspettative di fatto. La tutela compensativa risponde invece a una logica diversa, che non segue un criterio “generalizzato” per tutti i diritti di detenuti e internati pregiudicati dal contesto carcerario: la tutela ex art. 35-ter Op non si concentra sull’oggetto della lesione (che invece è il
alcuni pregiudizi, e segnatamente quelli che si ripercuotono sui concetti di umanità e
dignità della detenzione
6.
Il riferimento all’art. 3 Cedu si risolve dunque in un criterio indiretto: l’art.
35-ter Op, infatti, non elenca esattamente i diritti che – se pregiudicati dal contesto
carcerario – consentono il ristoro, ma si concentra unicamente sugli effetti di tale
lesione, che appunto devono coincidere con i «trattamenti inumani o degradanti»
vietati dall’art. 3 Cedu. Il giudice sarà quindi chiamato ad apprezzare uno stato di
fatto, valutando se le conseguenze del pregiudizio siano ascrivibili ai parametri
dettati dalla disposizione sovranazionale
7. Ma nello svolgimento di tali incombenze
egli non pare libero di maturare un autonomo convincimento, posto che lo stesso art.
35-ter Op, quando si riferisce al testo convenzionale, ne specifica la chiave
interpretativa, assumendo quale parametro esegetico obbligato quello adottato dalla
Corte europea dei diritti dell’uomo. Ne segue che la violazione dell’art. 3 Cedu non
pare liberamente apprezzabile dal giudice, il quale non potrà offrire altra
presupposto fondamentale dell’art. 35-bis Op) ma prende in considerazione l’entità dei suoi effetti, che appunto devono tradursi in «trattamenti inumani o degradanti» ai sensi dell’art. 3 Cedu (vedi infra, in questo paragrafo). D’altra parte, è lo stesso art. 35-ter co. 1 Op ad assumere tra i suoi presupposti «il pregiudizio di cui all’articolo 69, comma 6 lett. b)» (e dunque l’oggetto del reclamo giurisdizionale), precisando tuttavia che per l’accesso alla tutela compensativa è necessario un quid pluris, ossia che tale pregiudizio si traduca in una violazione dell’art. 3 Cedu.6 La scelta di ancorare il diritto al risarcimento al parametro convenzionale è frutto dei vincoli
derivanti per il legislatore dalla sentenza Torreggiani, che non poteva che ragionare nei termini dell’art. 3 Cedu (supra, nota 3). È tuttavia innegabile che i valori contemplati da tale disposizione siano rintracciabili anche nell’ordinamento interno all’art. 1 co. 1 Op, nonché all’art. 27 co. 3 Cost. Vero è che, se da un lato la nozione di trattamento inumano è più intuitiva – in quanto si basa sulla verifica di effetti fisici e mentali causati alla vittima (C. eur., 11.7.2006, Jalloh c. Germania) –, più sfumato è il concetto di dignità umana, che invece si presenta come un valore multiforme, che trae la sua ragione ontologica nella necessità di riconoscere un diritto costitutivo e inviolabile alla qualità di uomo in quanto tale. E infatti, stando alle elaborazioni della dottrina, il significato più intimo del concetto di dignità risiederebbe proprio nella volontà del sistema di riconoscere in capo a ciascun uomo, libero o detenuto, la titolarità organica di interessi intrinsecamente legati alla natura umana. Cfr. G. Silvestri, La dignità umana dentro le mura del carcere, in Atti del Convegno “Il senso della pena. Ad un anno dalla sentenza Torreggiani della CEDU”, reperibile in www.cortecostituzionale.it, 28.5.2014; M. Ruotolo, Appunti sulla dignità umana, in AA. VV. Studi in onore di F. Modugno, IV, Napoli 2011, 3124; P. Grossi, La dignità nella Costituzione italiana, in Poteri, garanzie e diritti a sessanta anni dalla Costituzione. Scritti per G. Grottanelli de’ Santi, a cura di A. Pisaneschi e L. Violini, II, Milano 2007, 1357.
7 Astrattamente, il richiamo al paradigma di cui all’art. 69 co. 6 lett. b Op imporrebbe al giudice
anche – e in via preliminare – un giudizio circa la riconducibilità della pretesa che si presume violata al concetto di “diritto” genericamente inteso nella stessa lett. b. Ne segue che il giudice investito di un’istanza ex art. 35-ter Op sarà chiamato a svolgere un duplice accertamento: in un primo momento dovrà valutare se effettivamente il pregiudizio subìto dal detenuto coinvolga un “diritto” – scartando, eventualmente, le domande aventi ad oggetto mere aspettative di fatto –, e solo qualora venga assicurata tale condizione, potrà verificare se sussista una violazione dell’art. 3 Cedu. Va da sé che qualora il primo accertamento (quello informato ai parametri dettati dalla lett. b dell’art. 69 co. 6 Op) si risolvesse con esito negativo il giudice potrebbe astenersi dall’indagare se gli effetti del pregiudizio integrino o meno una violazione dell’art. 3 Cedu. Valutazione che invece parrebbe obbligata qualora il diritto oggetto dell’istanza di riparazione appaia sussumibile tra quelli protetti dalla lett. b.
interpretazione della disposizione se non quella già fatta propria dalla Corte di
Strasburgo
8.
Accertato il pregiudizio nei termini del co. 1, la tutela si realizza attraverso due
strumenti di natura apparentemente risarcitoria
9: un rimedio detrattivo e un ristoro
8 Riferendosi alle violazioni dell’art. 3 Cedu «come interpretato dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo», il legislatore, in altre parole, obbliga il giudice nazionale a muoversi all’interno del perimetro tracciato dalla giurisprudenza di Strasburgo nell’individuare i «trattamenti inumani o degradanti» che attribuiscono a chi ne sia stato vittima il diritto alla tutela compensativa (cfr. G. Giostra, sub art. 35-ter Op, in Ordinamento penitenziario commentato5, a cura di F. Della Casa,
Padova 2015, 418, per il quale si richiederebbe al giudice «una interpretazione dell’interpretazione che la Corte dà dell’art. 3 della Convenzione»). Ispirata al discusso criterio ermeneutico inaugurato dalle sentenze costituzionali “gemelle” del 2007 (sulla cui dubbia compatibilità con l’art. 101 co. 2 Cost. cfr. incisivamente, P. Ferrua, La prova nel processo penale, Torino 2015, 259 ss., Id., L’interpretazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il preteso monopolio della Corte di Strasburgo, in PPG 2011 [4], 116 ss.), la riferita clausola subordina l’operatività della tutela compensativa a un presupposto ulteriore di scarsa ragionevolezza, lasciando intendere – almeno a prima vista – che la riparazione spetti soltanto a chi abbia sofferto lesioni già espressamente ricondotte dalla Corte europea nell’orbita dell’art. 3 Cedu. L’inciso «come interpretato dalla Corte europea» sembrerebbe inoltre doversi intendere in accordo con i più recenti sviluppi della giurisprudenza costituzionale in subiecta materia, ossia alla luce del canone della «giurisprudenza consolidata» quale unico scibile giurisprudenziale a cui il giudice nazionale deve obbedienza (cfr. da ultimo C. cost. 26.3.2015 n. 49, in www.giurcost.org, con nota di F. Viganò, La Consulta e la tela di Penelope. Osservazioni a primissima lettura su C. cost., sent. 26 marzo 2015, n. 49, in www.penalecontemporaneo.it, 30.3.2015). Ciò consentirebbe di limitare – almeno sulla carta – le conseguenze negative derivanti dalla naturale instabilità della giurisprudenza europea: il giudice sarebbe chiamato a risarcire unicamente le lesioni costantemente ritenute rilevanti dalla Corte di Strasburgo. In questo modo, tuttavia, il rischio è che l’operato del giudice nazionale risulti paralizzato dalle incertezze interpretative della Corte, particolarmente evidenti proprio in materia di art. 3 Cedu. Basti pensare alle vicende intercorse in tema di sovraffollamento carcerario, e segnatamente alla creazione (e al relativo accertamento) del criterio “geometrico” adottato nella sentenza Torreggiani sullo spazio minimo da garantire al detenuto: cfr., da ultimo, C. eur. G.C. 20.10.2016, Mursic c. Croazia, e, per un’attenta disamina circa le posizioni della Corte europea in tema di sovraffollamento, F. Cancellaro, Carcerazione in meno di 3 metri quadri: la Grande Camera sui criteri di accertamento della violazione dell’art. 3 Cedu, in www.penalecontemporaneo.it, 13.11.2016; L. Barone, Il nuovo reclamo ex art. 35-ter ord. penit., in CP 2016, 350-352.
9 Un dibattito ancora irrisolto coinvolge la natura della tutela compensativa. Per un primo
orientamento, forte della littera legis che in rubrica e nel testo riferisce di «rimedi risarcitori», l’art. 35-ter Op è uno strumento risarcitorio in senso stretto, accreditabile a titolo di responsabilità contrattuale ex art. 1218 Cc (cfr. T. Palermo, 6.5.2015, in www.questionegiustizia.it), ovvero di responsabilità aquiliana ex art. 2043 Cc (cfr. le pronunce T. Catania, 15.6.2015, in www.questionegiustizia.it; T. Roma, 30.5.2015, ivi; T. Torino, 6.5.2015, ivi).Per altri, invece, la nuova tutela dovrebbe intendersi come mero indennizzo, posto che il giudice non è chiamato ad apprezzare né il danno né la sua quantificazione (vedi infra, in questo paragrafo): così G. Giostra, Un pregiudizio “grave e attuale”? A proposito delle prime applicazioni del nuovo art. 35-ter ord. penit., in www.penalecontemporaneo.it, 24.1.2015; Id., sub art. 35-ter Op, cit., 417; in giurisprudenza, cfr. M. sorv. Messina, 24.2.2016, in www.conams.it; nonché, M. sorv. Bologna, 26.11.2014, ivi. Più chiara la linea tracciata nel Documento conclusivo della Commissione di Studio in tema di ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione (in seguito Bozza Giostra, reperibile in www.penalecontemporaneo.it, 20.12.2013) che, fornendo le basi per il piano carcerario del 2013-2014, aveva invece proposto un «equo indennizzo che, se accettato dalle parti, [avrebbe precluso] l’azione civile di risarcimento del danno per il pregiudizio subìto». Circa le ricadute che una diversa
pecuniario. I due rimedi, sebbene diversi – l’uno, infatti, corrisponde a una variabile
di tempo, l’altro a un valore economico –, seguono entrambi rigidi criteri di
quantificazione del danno parametrati sul tempo in cui la vittima ha patito i
trattamenti inumani o degradanti. Il primo consente una riduzione della pena
detentiva «pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente
ha subìto il pregiudizio» (co. 1), mentre il secondo, di tipo economico, assicura «una
somma di denaro pari a euro 8,00 per ciascuna giornata» espiata in violazione
dell’art. 3 Cedu (co. 2)
10.
3. L’instaurazione del rito è distinta a seconda dello status del potenziale
fruitore del risarcimento. Da questo dipende, infatti, il riparto di competenze tra il
magistrato di sorveglianza e il giudice ordinario: se il promotore dell’azione lato
sensu risarcitoria è detenuto (o sottoposto a una misura di sicurezza detentiva), la
competenza è riservata al magistrato di sorveglianza (art. 35-ter co. 1 e 2 Op); in caso
contrario, l’istanza è rivolta al tribunale del capoluogo del distretto nel cui territorio
l’istante ha la residenza (3 co.)
11. Il magistrato di sorveglianza si conferma quindi il
garante naturale dei diritti dei detenuti, secondo una tradizione ormai consolidata e
riaffermata anche nella pronuncia che si annota
12.
configurazione dell’istituto sortirebbe in tema di prescrizione, F. Fiorentin, Art. 3 Cedu: risarcimento per trattamento inumano e degradante, in DPP 2016, 1388.
10 Per alcune riflessioni sulla scelta di commisurare il ristoro di tipo economico “su base otto”, M.
Deganello, I rimedi, cit., 270 e in particolare nota 65.
11 Il co. 3 dell’art. 35-ter Op esplicita due casi riservati alla competenza del giudice ordinario,
legittimando all’istanza risarcitoria «coloro che hanno subìto il pregiudizio di cui al comma 1, in stato di custodia cautelare in carcere non computabile nella determinazione della pena da espiare ovvero coloro che hanno terminato di espiare la pena detentiva in carcere». E a questi si aggiunge il condannato ammesso ad espiare la pena in modalità alternativa al carcere. Tali soggetti devono presentare l’azione ex art. 35-ter Op, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere, e il tribunale decide in composizione monocratica nelle forme semplificate di cui agli artt. 737 ss. Cpc con decreto non reclamabile.
12 Come sottolineato nella pronuncia in commento, la competenza a decidere sulla richiesta di
ristoro è distinta «a seconda che l’interessato sia o no detenuto: nel primo caso è competente il magistrato di sorveglianza, nel secondo il tribunale civile». Una logica che non sorprende l’interprete penitenziario – in quanto si allinea alla direttrice tracciata con la nota sentenza C. cost. 11.2.1999 n. 26, cit. (e prima ancora, da C. cost. 3.7.1997 n. 212 in www.giurcost.org), in cui la Corte aveva chiarito che «il giudice naturale di tutti i diritti del detenuto coinvolti nel corso e a causa o in occasione del trattamento penitenziario è il magistrato di sorveglianza» – ma che è apparsa non così scontata in tema di art. 35-ter Op, come testimoniato dal dibattito in tema di attualità del pregiudizio. Infatti, stando alla prima giurisprudenza (cfr., tra molte, le ordinanze: M. sorv. Alessandria, 26.9.2014 e M. sorv. Vercelli, 24.9.2014, entrambe reperibili in www.personaedanno.it), la competenza del magistrato di sorveglianza sarebbe dovuta cessare con l’esaurirsi delle condizioni inumane o degradanti, e ciò in ragione della (maldestra) formulazione dell’art. 35-ter co. 1 Op che, nel perimetrare la materia di competenza del magistrato, rimanda al «pregiudizio di cui all’art. 69 comma 6, lett. b)». Un richiamo, questo, che avrebbe imposto al magistrato di sorveglianza di conoscere solo ed esclusivamente le istanze concernenti un pregiudizio «grave ed attuale» all’esercizio dei diritti del detenuto, assegnando invece al giudice civile la competenza su tutte le istanze – anche quelle presentate dal soggetto detenuto – concernenti eventi lesivi non più “attuali”. Posto che, come sottolineato anche da accorta dottrina, «in termini rigorosamente civilistici, il
Tuttavia la disposizione non chiarisce quale sia il procedimento che, investito
dell’istanza di riparazione, dovrà seguire l’organo della sorveglianza. Qui, infatti, il
legislatore si limita a indicare, accanto ai presupposti per l’accesso alla tutela (co. 1
prima parte), gli strumenti attraverso cui l’interessato potrà ricevere ristoro (a
seconda dei casi, il rimedio in forma specifica o quello di tipo pecuniario), lasciando
invece all’interprete il compito di stabilire con quali forme procedurali dai primi si
giunga ai secondi. Nel silenzio della legge, il rischio era che la prassi applicativa si
orientasse per la deformalizzazione della procedura, così dequalificando già in
partenza uno strumento nato invece per arricchire le garanzie a favore del detenuto
13.
Alla percepibile (e forse non troppo calcolata) reticenza normativa ha tuttavia posto
rimedio la Corte di cassazione attraverso l’estensione del rito previsto per il reclamo
giurisdizionale, sicché la materia de qua deve oggi intendersi affidata al modello di
cui agli artt. 666 e 678 Cpp, così come integrato dalle peculiari disposizioni dell’art.
35-bis Op
14.
All’esito del procedimento, il magistrato di sorveglianza dispone di entrambi
gli strumenti previsti dall’art. 35-ter Op, e dunque l’ordinanza conclusiva del rito può
astrattamente contenere sia una riduzione della pena detentiva ancora da espiare sia
un ristoro economico
15. Ma la scelta tra i due strumenti è sottratta all’arbitrio del
pregiudizio è l’effetto dell’attività lesiva e, anche questa cessata, rimane “attuale” sino a quando non è risarcito» (G. Giostra, Un pregiudizio, cit., nonché, M. sorv. Messina, 2.3.2016, in www.conams.it), la giurisprudenza di legittimità ha infine giustamente escluso che il controverso parametro dell’attualità del pregiudizio rientri tra i requisiti necessari a radicare la competenza ex art. 35-ter Op del magistrato di sorveglianza (per i richiami giurisprudenziali, vedi supra, nota 4).
13 Cfr. M. Sorv. Torino, 16 marzo 2016, inedita, per cui la preferenza verso un regime non formalizzato
sarebbe giustificata da diversi fattori tra i quali l’intento di costruire un rimedio rapido e funzionale a ottenere una compensazione specifica. E in questo senso militerebbe anche il parallelismo con l’iter riservato all’interessato in stato di libertà, che suggerirebbe l’utilizzo di forme agili e sintetiche (supra, nota 11).
14 Cfr., Cass. 16.7.2015, Koleci, cit.; da ultimo, Cass. 17.11.2016, Min. giust. c. Ricciari, cit.; Cass.
17.11.2016, Kacemi Adil, cit.; Cass. 9.9.2016, Min. giust. c. Tanieli, cit.; Cass. 8.9.2016, Morreale, cit. Vero è che, anche trascurando la forzatura del rinvio al paradigma di cui all’art. 69 co. 6 lett. b Op – che è letteralmente riferita al solo «pregiudizio» e non al modello decisionale, che peraltro è nominato unicamente nell’incipit dell’art. 69 Op e dunque fuori dalla richiamata lett. b – e pur condividendosi l’esigenza di estendere al massimo grado le garanzie attribuite al detenuto, la tesi che privilegia l’adesione al modello di cui all’art. 35-bis Op non pare indenne da possibili censure. Essa infatti attribuisce ai due procedimenti contemplati dall’art. 35-ter Op (quello a favore del libero e quello nei confronti del detenuto) fisionomie profondamente diverse a dispetto della sostanziale sovrapponibilità dei provvedimenti che possono venire adottati, tanto da far dubitare della compatibilità della disciplina con il tessuto costituzionale. Le frizioni riguardano in particolare il diverso regime di impugnabilità: il secondo giudizio di merito concesso al detenuto nei termini dell’art. 35-bis co. 4 Op, infatti, non trova un corrispettivo nella disciplina applicabile nei confronti dell’interessato libero, che invece si deve rassegnare alla non reclamabilità del decreto pronunciato dal tribunale (così come precisato in chiusura all’art. 35-ter co. 3 Op).
15 Solo chi sia ancora detenuto al momento della decisione può ambire a entrambi i rimedi prescritti
dall’art. 35-ter Op, mentre l’interessato libero – ancorché sottoposto a una misura alternativa alla detenzione – dovrà accontentarsi unicamente del ristoro economico. Infatti, il co. 1 individua solo nella «pena detentiva ancora da espiare» (e non, più in generale, nella “pena ancora da espiare”) il corrispettivo ai trattamenti inumani subiti, sicché il rimedio in forma specifica pare effettivamente
giudice in funzione di uno schema che assume quale parametro di riferimento la
durata della lesione patita
16: il magistrato di sorveglianza è obbligato a disporre la
liquidazione delle somme previste dal co. 2 se il tempo sofferto in condizioni
inumane o degradanti è stato inferiore a quindici giorni (art. 35-ter co. 2 Op ult.
parte), mentre in caso contrario – ossia per pregiudizi intercorsi per un periodo pari
o superiore a quindici giorni – il detenuto dovrebbe beneficiare del rimedio in forma
specifica e, solo eccezionalmente, anche del ristoro economico (co. 2 prima parte). La
durata della lesione diviene quindi il metro per valutare l’intensità del pregiudizio:
inaspettatamente la quantificazione del danno e il relativo “risarcimento” non
dipendono dalle condizioni oggettive o soggettive in cui si è realizzata la violazione
dell’art. 3 Cedu, ma dalla sua estensione temporale (più o meno di quindici giorni). In
altre parole, nell’ottica del legislatore, a seconda del tempo espiato in condizioni
inumane o degradanti – e a prescindere dalle concrete modalità con cui si è
realizzato il pregiudizio –, il detenuto riceverà «a titolo di risarcimento» una somma
di denaro o la riduzione della pena detentiva. Per lesioni più durature, il rimedio in
forma specifica si conferma il ristoro preferito, mentre il ristoro di natura economica
– rimedio “principale” per pregiudizi brevi – rimane uno strumento meramente
sussidiario, applicabile non a discrezione del magistrato di sorveglianza, ma
apparentemente solo nell’ipotesi indicata dalla prima parte del co. 2 dell’art. 35-ter
Op
17.
limitato a chi sia ancora in costanza di carcerazione. La logica è chiara: associare all’interesse privato (alla riduzione della pena) il vantaggio pubblico della decongestione carceraria. E se sulla carta tale meccanismo apparentemente risponde «ad una esigenza di giustizia» – funzionale a “compensare” con «la minor durata [della carcerazione] l’indebita maggiore sofferenza» patita dal detenuto (G. Giostra, sub art. 35-ter Op, cit., 415-416) –, esso svela altresì le preoccupanti derive di un ordinamento più attento ad evitare futuri ammonimenti sovranazionali che alle esigenze di giustizia sostanziale. La scelta legislativa infatti suscita seri dubbi di compatibilità costituzionale in riferimento all’art. 3 Cost., generando una disparità di trattamento tra il soggetto detenuto e coloro che, a parità di presofferto, stiano espiando la pena in modalità alternativa alla detenzione, i quali, sebbene sulla carta più meritevoli (perché in possesso dei requisiti indispensabili per accedere alle misure alternative), non possono fruire della riduzione della pena ma unicamente del ristoro economico di cui al co. 3 dell’art. 35-ter Op.
16 Ciò che emerge dal dato normativo è un meccanismo interamente guidato dalla mano legislativa
che, salvo quanto previsto circa l’accertamento della lesione, lascia minimi spazi di autonomia all’organo investito dell’istanza ex art. 35-ter Op. L’attività riservata al giudice ex art. 35-ter Op infatti è apparentemente limitata all’accertamento del pregiudizio, e dunque all’accertamento del diritto alla tutela lato sensu risarcitoria (infra, par. 3.1.). La declinazione di tale diritto è invece rivendicata dal legislatore, il quale ha esplicitato nell’art. 35-ter Op sia le condizioni per l’applicabilità dell’uno o dell’altro rimedio (infra, in questo paragrafo), sia i criteri di quantificazione del danno patito (supra, par. 2). Ciò che traspare è l’intento del legislatore di assegnare al giudice il ruolo di mero “esecutore” di direttive altrui: questi, infatti, da un lato, è vincolato ai criteri imposti dallo stesso legislatore dell’art. 35-ter Op, ma dall’altro – giova ricordarlo – è anche chiamato a uniformarsi alle indicazioni offerte dalla Corte di Strasburgo in tema di art. 3 Cedu (supra, par. 2.), con la conseguenza che, non solo negli effetti della tutela, ma anche quanto al suo accertamento il giudice pare subire influenze esterne, che inevitabilmente lo allontanano dall’effettivo pregiudizio patito dall’interessato.
17 La disposizione non chiarisce se al rimedio che consente la riduzione della pena si possa fare
ricorso anche in compensazione della violazione subita durante la detenzione per un titolo diverso da quello in esecuzione. In assenza di indicazioni di segno contrario, si potrebbe quindi consentire la
3.1. Il problema è che tale ricostruzione, rigida e sottratta alla discrezionalità
del giudice, mal si presta alle molteplici sfumature della detenzione. E infatti, i dubbi
sottoposti all’attenzione della Corte riguardano proprio il rapporto tra i due rimedi
prescelti dal legislatore per compensare i trattamenti inumani o degradanti. Stando
alla formulazione dell’art. 35-ter Op, i pregiudizi maturati per un periodo «non
inferiore» ai quindici giorni dovrebbero essere risarciti al detenuto con una riduzione
della pena e solo eventualmente con il ristoro monetario. Lo si evince dalle locuzioni
di raccordo tra il primo e il secondo comma dell’art. 35-ter Op. Il co. 1 si preoccupa di
indicare la regola generale, qualificando il rimedio in forma specifica quale
strumento ordinario per riparare lesioni durature, e quindi, nell’ottica del legislatore,
più gravi: «quando il pregiudizio […] consiste, per un periodo di tempo non inferiore
ai quindici giorni, in condizioni di detenzione [inumane o degradanti], il magistrato
di sorveglianza dispone, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena
detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il
quale il richiedente ha subìto il pregiudizio». L’uso dell’indicativo presente del verbo
(«dispone») è tuttavia attenuato dalla previsione della prima parte del co. 2, che
aggiunge un (unico) caso in cui il rimedio in forma specifica è accompagnato dal
ristoro economico: «quando il periodo di pena ancora da espiare è tale da non
consentire la detrazione dell’intera misura percentuale di cui al comma 1, il
magistrato di sorveglianza liquida altresì al richiedente, in relazione al residuo
periodo e a titolo di risarcimento del danno, una somma di denaro pari a euro 8,00
per ciascuna giornata nella quale questi ha subìto il pregiudizio». Il magistrato di
sorveglianza dovrebbe quindi liquidare le somme previste dal co. 2 unicamente in
funzione di supporto al rimedio di cui al co. 1, e segnatamente quando la pena ancora
da espiare si dimostri di durata inferiore rispetto alle detrazioni che spetterebbero al
detenuto in ragione del co. 1 dell’art. 35-ter Op. In questo caso, la riduzione dovrebbe
operare per quanto possibile – e quindi sino all’esaurimento del residuo di pena – e il
ristoro economico soccorrerebbe per “l’eccedenza”, e quindi per la parte di
risarcimento dovuta ex art. 35-ter Op ma non detraibile dalla pena ormai esaurita.
Di qui, un interrogativo: accertata una detenzione in violazione dell’art. 3 Cedu
per più di quindici giorni, il giudice potrebbe in via esclusiva liquidare le somme ex
art. 35-ter Op senza operare alcuna riduzione della pena detentiva in esecuzione?
Apparentemente no, stando al tenore letterale della disposizione. I termini perentori
utilizzati dal legislatore nel co. 1 e la previsione di un unico caso di ristoro economico
farebbero legittimamente dubitare dell’applicabilità del rimedio monetario fuori dai
casi di “complementarietà” con lo strumento in forma specifica, impedendone
un’applicazione in via esclusiva, sempre se, ovviamente, riferita a pregiudizi
detrazione (dalla pena in corso) dei giorni conteggiati a titolo di “risarcimento” per un trattamento inumano subìto durante la detenzione per un reato diverso (sub specie di custodia cautelare, misura di sicurezza o esecuzione di pena). Vero è che tale operazione dovrebbe in ogni caso tenere conto dei limiti sanciti dall’art. 657 co. 4 Cpp. Ne segue che la riduzione pare possibile unicamente qualora la violazione dell’art. 3 Cedu si sia realizzata «dopo la commissione del reato per il quale deve essere determinata la pena da eseguire» (circa il perimetro di operatività del computo, F. Caprioli-D. Vicoli, Procedura penale dell’esecuzione2, Torino 2011, 177-182).intercorsi per più di quindici giorni. Quanto premesso varrebbe allora a circoscrivere
notevolmente l’operatività del rimedio economico, e, più in generale, del ristoro
dovuto ex art. 35-ter Op. Infatti, dalla tutela compensativa rimarrebbero esclusi tutti i
casi in cui il rimedio in forma specifica si dimostra impraticabile: siccome tale
strumento non è sostituibile con il ristoro economico – che può unicamente
aggiungersi al rimedio di cui al co. 1, e comunque solo nell’ipotesi prevista dalla
prima parte del co. 2 –, l’assenza delle condizioni che consentono la riduzione della
pena detentiva precluderebbe l’integrale ristoro ex art. 35-ter Op. Una lettura
rigorosamente fedele al tenore dell’art. 35-ter Op, quindi, negherebbe il risarcimento
nelle ipotesi in cui il condannato – come nella fattispecie scrutinata dal giudice delle
leggi – stesse scontando una pena irriducibile, poiché per natura perpetua. Non
potendo beneficiare della riduzione della pena detentiva, l’ergastolano si vedrebbe
così impedito anche il ristoro economico, con la conseguenza che la tutela fornita
dall’art. 35-ter Op si dimostrerebbe di fatto neutralizzata.
Si tratterebbe però di una conclusione poco convincente sotto il profilo logico,
oltre che sistematico. A ben vedere, infatti, i due rimedi previsti dalla disciplina di
nuovo conio rappresentano due diverse articolazioni di un medesimo “diritto” al
risarcimento. In altri termini, non sono altro che due modi (diversi) di realizzare la
stessa tutela ex art. 35-ter Op; modalità distinte e gerarchizzate dal legislatore per
ragioni di opportunità, ma pur sempre espressione della stessa pretesa risarcitoria.
Ne segue che, riscontrato il presupposto generale per l’accesso alla tutela
compensativa – ossia, per intenderci, l’aver patito una violazione dell’art. 3 Cedu –, il
detenuto merita il ristoro. Che poi il legislatore abbia diversificato le modalità
concrete attraverso cui accreditare il risarcimento, non sposta il dato fondamentale
che impone all’ordinamento di assumersi la responsabilità per la violazione dell’art. 3
Cedu: al detenuto è dovuta una riparazione per i trattamenti inumani o degradanti
sofferti, a prescindere che questa assuma le vesti di una riduzione di pena o di una
liquidazione di denaro. Insomma, impedire il ristoro ex art. 35-ter Op perché
mancano i presupposti dello strumento in forma specifica significherebbe confondere
le condizioni di applicabilità di una delle due modalità di ristoro possibili con le
condizioni per l’accesso alla tutela, che, come abbiamo visto, sono unicamente quelle
indicate dalla prima parte del co. 1.
D’altra parte, peccherebbe di incoerenza un legislatore che, dopo aver
riconosciuto al detenuto un diritto al risarcimento per la detenzione inumana subita,
ne disattendesse gli effetti solo perché il termine finale di espiazione della pena non
può essere anticipato, e dunque per un accidente totalmente estraneo alle condizioni
che danno diritto al ristoro. E sarebbe altrettanto irragionevole ritenere che dietro
alla preferenza accordata allo strumento in forma specifica si celasse una vera e
propria preclusione all’uso del rimedio economico. Una lettura eccessivamente
restrittiva della prima parte del co. 2, infatti, traviserebbe le indicazioni offerte dal
legislatore, che invece proprio in quella disposizione ha inteso enunciare il criterio
logico da seguire quando il ristoro in forma specifica si dimostri incapace di
soddisfare la pretesa risarcitoria: se non è possibile ridurre ulteriormente (o
integralmente) la pena detentiva ancora da espiare, il ristoro per i trattamenti
inumani subiti può (rectius, deve) essere accreditato al detenuto in forma
economica
18.
Vero è che tale affermazione deve conciliarsi con la struttura dell’art. 35-ter
Op, e segnatamente con le indicazioni – sottese allo stesso co. 2 – che ordinano
gerarchicamente le due tipologie di ristoro
19. Ne segue che i due strumenti, sebbene
entrambi astrattamente disponibili, non devono intendersi arbitrariamente
intercambiabili dal magistrato di sorveglianza. Questi, accertato il diritto al
risarcimento per l’inumana detenzione sofferta, dovrà quindi in via preliminare
valutare l’applicabilità dello strumento in forma specifica e, solo qualora tale
indagine dovesse chiudersi con esito negativo, potrà disporre la liquidazione in forma
economica. Ne deriva che il giudice, quando la pena non appaia riducibile, potrà
applicare lo strumento di cui al co. 2 dell’art. 35-ter Op, garantendo così al
condannato all’ergastolo un adeguato ristoro (monetario) per la violazione dell’art. 3
Cedu
20.
4. Il principio cui perviene la Corte costituzionale non può pertanto che essere
condiviso: «sarebbe […] fuori da ogni logica di sistema, oltre che […] in contrasto con
i principi costituzionali, immaginare che durante la detenzione il magistrato di
sorveglianza debba negare alla persona condannata all’ergastolo il ristoro economico
[…] per la sola ragione che non vi è alcuna riduzione di pena da operare»
21. Il
mandato europeo racchiuso nella sentenza Torreggiani, infatti, imponeva di
attribuire strumenti «accessibili ed effettivi» di ristoro a «chiunque [avesse] subìto
una detenzione lesiva della propria dignità»
22. E tale principio, come evidenziato
18 Per la Corte infatti «il legislatore, introducendo il ristoro economico, si è preoccupato di
coordinarlo con il rimedio della riduzione di pena, specificando, per mezzo delle espressioni letterali ricordate dallo stesso rimettente, quando e come al secondo subentra il primo. È a questo scopo che il comma 2 dell’art. 35-ter reca indicazioni linguistiche di mero appoggio al comma 1». Ma fuori dai casi che impongono un coordinamento tra i due rimedi, «resta la piena autonomia del ristoro economico, […] confermata dall’ultimo periodo del secondo comma sopra ricordato».
19 Nel testo della pronuncia che si annota, infatti, la Corte ha precisato che la prima parte del co. 2
«ha anche la funzione di stabilire la priorità del rimedio costituito dalla riduzione di pena».
20 Non è chiaro se il principio elaborato dalla Corte debba limitarsi all’ipotesi de qua – in cui
l’irriducibilità della pena è integrale – o se possa assurgere a criterio generale per risolvere tutti i casi di dubbia applicazione del rimedio in forma specifica, e segnatamente quelli in cui il risarcimento dovuto ai sensi dell’art. 35-ter Op non fosse riconducibile a un multiplo di dieci. Il dubbio sorge dal testo del co. 1 dell’art. 35-ter Op che, esplicitando il criterio di quantificazione del danno (un giorno per ogni dieci espiati in violazione dell’art. 3 Cedu), dimentica di chiarire le modalità di riparazione nei casi in cui la lesione si sia protratta per un tempo non divisibile su base dieci. La giurisprudenza di sorveglianza sul punto pare anticipare le conclusioni qui tratte dalla Corte costituzionale liquidando le somme previste dal co. 2 ad integrazione – e dunque, in via aggiuntiva – rispetto alla riduzione della pena (si veda, Uff. sorv. Genova, 10.10.2014, in www.conams.it). Infatti, a ben vedere, il principio è il medesimo sebbene calato in due situazioni differenti: se il rimedio in forma specifica non è in grado di soddisfare appieno la pretesa risarcitoria, si applica il ristoro monetario, indipendentemente dal fatto che questo operi solo per la restante parte del risarcimento non coperta dal rimedio di cui al co. 1, ovvero integralmente.
21 C. cost. 21.7.2016 n. 204.
nella pronuncia in commento, «deve costituire un indefettibile criterio ermeneutico
ai fini della corretta applicazione della disciplina» contenuta nell’art. 35-ter Op.
Ciò che non convince interamente, tuttavia, sono le modalità prescelte dalla
Corte per definire la questione. In primo luogo, infatti, l’efficacia meramente
persuasiva delle decisioni interpretative di rigetto limita notevolmente la portata del
vincolo affermato con la sentenza, togliendo in parte valore al riconoscimento del
ristoro pecuniario in capo all’ergastolano che abbia già scontato la frazione di pena
che renda ammissibile la liberazione condizionale. E se è vero che il giudice comune,
all’atto di consegnare alla disposizione censurata l’interpretazione già respinta dalla
Corte, dovrebbe comunque sollevare una nuova questione di costituzionalità –
«dando così alla Corte stessa la possibilità di “doppiare” la prima sentenza
interpretativa di rigetto con una sentenza di accoglimento»
23–, difficilmente
potrebbe richiedersi la stessa cura qualora il giudizio a quo vertesse su un oggetto
simile ma non assimilabile a quello già deciso in via incidentale. Il riferimento è alla
posizione dell’ergastolano che – a differenza dell’istante nel procedimento a quo –
non abbia ancora accesso alla liberazione condizionale. Attenendosi al petitum
strettamente rilevante nel caso concreto, e ravvisata un’interpretazione
costituzionalmente conforme del co. 2 dell’art. 35-ter Op, la Corte ha confermato le
perplessità preconizzate dal rimettente, che opportunamente aveva invece suggerito
di estendere il sindacato costituzionale a tutti i casi in cui a patire i trattamenti
inumani o degradanti fosse stato un condannato all’ergastolo. La conseguenza è che
oggi rimane incerta, benché certamente auspicabile, la possibilità di estendere il
ristoro di natura economica ai condannati alla pena perpetua che ancora non
abbiano accesso alla liberazione condizionale.
Nei confronti di tali soggetti si conferma quindi una duplice carenza di
effettività della tutela compensativa: questi, da un lato, non godono del giudicato
costituzionale, e dall’altro, non possono neppure vedersi accreditare il rimedio
detrattivo di cui al co. 1 dell’art. 35-ter Op, pur avendo astrattamente una pena “da
ridurre” nell’ottica già consentita dall’ordinamento in materia di libertà anticipata.
Nell’intento di ideare un sistema che ripagasse le sofferenze inumane o degradanti
attraverso una congrua riduzione della pena ancora da espiare, infatti, il legislatore
ha mancato di introdurre, contestualmente al rimedio di nuovo conio, una fictio iuris
che consenta di conteggiare lo “sconto” per detenzione inumana e degradante in
funzione accelerativa rispetto all’accesso ai benefici penitenziari (permessi premio,
semilibertà e liberazione condizionale), sulla falsariga di quanto invece previsto in
tema di liberazione anticipata dall’art. 54 co. 4 Op. E tale mancanza, come
evidenziato anche nell’ordinanza di rimessione, determina una «palese differenza di
tutela dei diritti fra detenuti temporanei e perpetui posto che soltanto i primi
possono beneficiare dell’ambita riduzione della sanzione penale e, in forma solo
parziale, del ristoro patrimoniale»
24. Ma la Corte, poco coraggiosamente, rinuncia a
rilevare l’asimmetria denunciata dal remittente, confinando ancora una volta il
23 D. Diaco, Le tipologie decisorie della Corte costituzionale attraverso gli scritti della dottrina, in
QuadProcServ Studi 2016 (296), 19.
condannato all’ergastolo ai margini di garanzie costruite pensando, evidentemente,
ai soli detenuti temporanei. E d’altra parte, una dichiarazione d’incostituzionalità
derivata – così come sollecitata nell’ordinanza di rimessione – avrebbe richiesto
l’accoglimento della questione principale, sicché la possibilità di pronunciarsi per
l’infondatezza del petitum di cui al co. 2 dell’art. 35-ter Op pare aver offerto alla Corte
un provvidenziale espediente per non affrontare direttamente l’inevitabile censura di
costituzionalità del co. 1, se riferito agli “altri” condannati a vita.
In conclusione, la soluzione patrocinata dalla Corte con tutta probabilità
richiederà una nuova messa a punto da parte del Giudice delle leggi o dello stesso
legislatore. La direttrice è quella tracciata dai criteri di accessibilità/effettività della
tutela compensativa nei confronti di tutti i detenuti
25, e all’ordinamento non resta
che l’alternativa tra riconoscere un generalizzato diritto al ristoro economico ex art.
35-ter Op a tutti i condannati alla pena perpetua, ovvero differenziare tra questi
coloro che possono conteggiare il tempo espiato in violazione dell’art. 3 Cedu «agli
effetti del computo della misura di pena che occorre avere espiato per essere
ammessi ai benefici dei permessi premio, della semilibertà e della liberazione
condizionale»
26. Vero è che quest’ultima soluzione, per quanto apparentemente in
linea con la preferenza accordata dalla legge al rimedio in forma specifica, sconta la
difficile assimilazione delle condizioni imposte per l’accesso alla tutela compensativa
a quelle dettate dalla disciplina in tema di liberazione anticipata. Se infatti la
detrazione indicata dal co. 4 dell’art. 54 Op è subordinata al vaglio sui progressi
ottenuti dal soggetto durante il trattamento – e dunque rientra nell’ottica
25 Infatti, giova ricordarlo, il mandato europeo richiamava all’istituzione di rimedi “accessibili ed
effettivi”. E tali caratteristiche nell’ottica interna assurgono al ruolo di veri e propri requisiti che non possono essere dimenticati dall’interprete, in quanto costituiranno la base su cui la Corte europea continuerà a valutare i successi dell’opera nazionale.
26 Così, il co. 4 dell’art. 54 Op. Lo scenario prospettato rievoca le stesse esigenze e perplessità sorte al
tempo in relazione all’istituto della liberazione anticipata. Infatti, l’attuale formulazione dell’art. 54 co. 4 Op non è che la risposta della l. 10.10.1986 n. 663 (cd. legge Gozzini) alle indicazioni tracciate da C. cost. 27.9.1983 n. 274 (reperibile in www.gazzettaufficiale.it) dove la Corte, nonostante le numerose pronunce di segno contrario (tra molte, Cass. 14.1.1980, Gula, in CEDCass, m. 144352; Cass. 23.1.1979, Poddesu, ivi, m. 142898; Cass. 18.10.1978, Cottone, ivi, m. 140449; Cass. 12.12.1978, Atzeni, ivi, m. 141164), aveva ritenuto illegittimo – per violazione degli artt. 3 e 27 Cost. – il vecchio testo dell’art. 54 Op «nella parte in cui non prevede la possibilità di concedere anche al condannato all’ergastolo la riduzione di pena, ai soli fini del computo della quantità di pena così detratta nella quantità scontata, richiesta per l’ammissione alla liberazione condizionale», allineandosi, così, alla dottrina più accorta (cfr. V. Grevi, Riduzioni di pena e liberazione condizionale per i condannati all’ergastolo, in RIDPP 1978 [I], 60; per un’analisi delle conseguenze, E. Bernardi, Ergastolo, semilibertà e liberazione anticipata, in LP 1984, 126; L. Cesaris, In margine alla sentenza costituzionale sulla applicabilità delle riduzioni di pena ai condannati all’ergastolo, in CP 1984, VI, 1060). Non pare quindi così improbabile che la Corte, investita questa volta di una questione direttamente riferita al co. 1 dell’art. 35-ter Op, percorra la stessa strada già intrapresa in riferimento all’art. 54 co. 4 Op. Vero è che l’estensione del modello previsto in tema di liberazione anticipata alla materia de qua risulterebbe comunque circoscritta all’ergastolano comune, rimanendo invece preclusa a chi sia condannato al cd. ergastolo ostativo. Circa le asimmetrie che impediscono di «ricondurre il regime dell’ergastolo ostativo entro la legalità costituzionale», A. Pugiotto, Nuove (incostituzionali) asimmetrie tra ergastolo e pene temporanee: il rebus dei rimedi ex art. 35-ter o.p. per inumana detenzione, in www.rivistaaic.it, 12.11.2016.