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Academic year: 2021

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Tavola rotonda: La modernità del lavoro

Alessio Gramolati

Siamo alla parte finale di un impegnativo, ma molto fruttuoso, viaggio che abbiamo fatto intorno a questo secolo di storia del movimento dei lavoratori, del movimento operaio, del movimento sindacale, della sua relazione con molti dei fattori che ne hanno segnato, condizionato, in qualche maniera temperato le caratteristiche culturali ed a questo punto abbiamo la responsabilità di fare un ultimo tentativo. Penso in primo luogo sia utile provare a fare un bilancio, con i protagonisti di questa tavola rotonda, su alcuni temi che hanno suscitato maggiore attenzione nel dibattito e poi in un secondo momento tentare di collocare questa riflessione in una prospettiva che guarda al futuro, a questo tema della modernità del lavoro. Naturalmente pur scontando quella che Marc Auget chiama la dittatura dell’incerto presente, l’idea è quella di collocarsi da subito nelle due dimensioni temporali, passato e futuro, che ho appena rappresentato.

Avevo già detto in apertura dei lavori, nel saluto ai convegnisti, dell’importanza di questa iniziativa. Insieme a ciò voglio adesso segnalarvi un piccolo paradosso che, come Segretario di questa Camera del Lavoro, mi pare utile sottolineare.

Vorrei infatti evidenziare quanto e come il valore ed il successo di questa iniziativa stia anche nel fatto che si sia svolta a Firenze. Voi direte: «Ma ce lo dici ora che non era il posto più adatto?» No, forse simbolicamente può apparire un luogo lontano da molte delle cose che si sono discusse. D’altra parte Firenze, la storia del suo movimento sindacale non è stata segnata, come altri luoghi, dalla storia della cultura operaia, o almeno da quella parte della cultura operaia che ieri è stata rappresentata e identificata negli anni del fordismo con l’operaio-massa. Noi siamo storicamente molto lontani da quella tradizione. L’operaio-massa si conosce sul finire degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta solo in alcuni stabilimenti dell’hinterland fiorentino, e la centralità delle figure e del nostro agire non caratterizzavano certo quegli stabilimenti. Qualcuno potrebbe allora dire che Firenze non è stata una città operaista e quindi che forse qui, meglio che altrove, si poteva fare una riflessione di questo genere proprio perché godevamo di una prospettiva privilegiata per vedere le cose dalla giusta distanza, nella loro nitidezza. Paul Eluard diceva: «Donner à voir», mettere all’orizzonte una cosa per vederla meglio.

Tuttavia, questa possibilità non ci deve far pensare che Firenze non sia città del lavoro. Lo è molto più di quanto a noi riesca quotidianamente

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rappresentare nel dibattito politico e sociale della nostra comunità; molto più di quanto si sia riusciti a rappresentare della nostra storia. Questa è una città assolutamente permeata dal lavoro dell’uomo. Anzi, difficilmente noi possiamo trovare un territorio così modificato dall’attività antropica dell’uomo. Penso non solo alla città, ma ad una dimensione più generale, alle nostre colline, al nostro territorio, ogni parte di ciò che ci circonda è segnato da questa attività. E questa è segnata da un tratto distintivo, che credo abbia accompagnato scelte di valore, qualche volta esercitate su piano negoziale – lo dico per alcune affermazioni che ho sentito durante il convegno – altre semplicemente per volontà degli uomini, per il loro fondersi e incontrarsi di culture: e cioè il fatto che si sia riusciti a mantenere, a preservare nelle scelte di modernizzazione e di sviluppo un tratto distintivo di qualità. Credo che questo tratto abbia permeato la cultura del lavoro e la cultura sindacale della CGIL e dei suoi gruppi dirigenti.

Resta il fatto che per fortuna e grazie a questo convegno ci siamo dati la possibilità di vedere un mondo più grande, una dimensione più vasta, una realtà più complessa. In questo sarei per proporre a Giovannini di rappresentarci quali sono stati, a suo parere, i punti più salienti di questa intensa «due giorni», quali sono anche gli interrogativi che un’occasione come questa ci pone. Certo anche gli interrogativi perché, come è giusto che sia, un convegno di studi non è mai esaustivo su tutti gli aspetti e tutte le connessioni che scaturiscono dal suo dibattito. Quindi, parte del suo successo non lo deve solo alle risposte che trova, ma anche ai nuovi interrogativi che apre, al bisogno di nuove chiavi di interpretazione e di comprensione dei processi.

Con queste premesse, permettetemi di dire che il convegno è stato un successo e dunque, prima di passare la parola a Paolo Giovannini, vorrei chiedervi un piccolo ringraziamento, un applauso a chi a permesso tutto questo, cioè a Gigi Falossi che è stato il motore e l’organizzatore infaticabile, militante di questa causa di conoscenza – come si è sentito dall’apprensione con cui i relatori ci raccontavano come sono stati selezionati e «tampinati» in questi giorni ! Persona come sempre assolutamente insostituibile e che ci ha permesso di fare una grande cosa. Adesso, se Paolo Giovannini vuole darci questo primo quadro di sintesi, sarebbe un buon inizio per tutti noi e per questa tavola rotonda conclusiva.

Paolo Giovannini

Purtroppo mi hanno detto un minuto fa cosa dovevo fare e quindi non ho potuto mettere un grande ordine nelle idee. Le dirò un po’ sparsamente. Anche perché questo convegno è ricchissimo di idee, di spunti, di sollecitazioni, di intuizioni, di problemi che pone su questa tematica e che abbiamo scelto di

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mettere al centro del convegno con – almeno credo – una certa dose di coraggio. Perché non sono temi sui quali normalmente in ambito sindacale ma persino in ambito scientifico si riflette molto. Quindi procederò forse un po’ disordinatamente, ma spero di non dimenticare almeno le cose essenziali.

Una, la riprendo molto brevemente e l’ho accennata nell’intervento di fine mattinata, durante la discussione, cioè il problema – che mi pare centrale in questo dibattito e che è stato a volte affrontato ma più spesso no, non per colpa di nessuno, ognuno ha cercato di seguire le sue piste – e cioè il fatto che noi si parla di un insieme di idee, di rappresentazioni, di patrimoni etici, di aspettative sul presente e sul futuro – cioè in una parola di quello che definiamo sinteticamente col termine cultura – molte volte legandolo, nelle relazioni esposte in questo convegno, a condizioni che riguardano l’esperienza di lavoro oppure il territorio di riferimento oppure il vissuto quotidiano dei lavoratori, ma in un certo senso non ponendosi il problema che i patrimoni culturali, comunque siano stati creati, una volta creati sia in termini di cultura del lavoro, sia in termini di cultura operaia, sia in termini di cultura sindacale, acquisiscono una loro parziale autonomia e quindi si possono ripresentare nel corso degli eventi storici e possono trovare una nuova loro validità, una loro forza anche se sono cambiate radicalmente le situazioni che hanno portato alla loro genesi.

Farò qualche esempio mentre scorrerò un po’ i miei appunti sui vari interventi che si sono susseguiti. Cercando – ma questo lo lascio soprattutto ai miei compagni di tavola rotonda – anche di sottolineare quei pochi spunti che mi sono venuti in mente e che legano le cose che si sono dette oggi al tema che è al centro della tavola rotonda, cioè la modernità del lavoro. Comincio tanto per cominciare da Cella. Perché è stato uno dei primi interventi, ma non solo: un intervento di grande spessore che ha posto una serie di problemi che sono stati discussi ampiamente nel corso di questi due giorni. In Cella, ci sono due punti che a mio parere vale la pena di sottolineare in questo quadro che cerco di fare in questo breve intervento. E cioè il fatto che ci siano dei patrimoni culturali, delle espressioni culturali, delle costellazioni di culture che sono nati in certe condizioni – e che Cella ha evidenziato con grande precisione – ma che poi hanno incontrato delle difficoltà col lavoro «moderno», chiamiamolo così.

Quando Cella propone quella metafora sul movimento dei lavoratori britannici, in cui lui dice c’è tutto, che è una sorta di museo, che cosa vuol dire? Vuol dire che nell’esperienza del primo movimento operaio al mondo e nell’esperienza del primo sindacalismo al mondo, si sono venute creando attraverso casi molto diversi (dei minatori, dei carpentieri, dei tessili, dei metalmeccanici, ecc.), si sono venute creando tutta una serie di esperienze nella vita e nel territorio di riferimento, ma anche in relazione alle esigenze che si

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stavano creando empiricamente di relazione con il proto-capitalismo inglese, le prime esperienze di confronto tra operai e «padroni» e poi sindacato e associazioni degli industriali; si sono venute creando tutta una serie di pratiche e direi anche di mitologie che sono lì, da cui ha pescato ampiamente la storia successiva del movimento operaio.

Sono convinto che certe costellazioni di valori, che sono nate in quel periodo, e certe pratiche e certe forme organizzative siano ancora presenti, straordinariamente presenti nella pratica del movimento operaio contemporaneo, il che sta a dire – cerco di arrivare ad una conclusione di ordine specifico per quanto riguarda il dibattito di oggi – sta a dire che, di fronte a Cella come di altri interventi di cui poi dirò, noi dobbiamo fare questo sforzo di valutare cosa rimane vivo e cosa invece viene superato nel confronto con la modernità del lavoro. Ci sono spunti che emergono su questo stesso piano anche in altre relazioni. Mi piacerebbe ricordare qui fra le tante la relazione di Favilli che di nuovo ha messo in rilievo – a mio parere – dal suo punto di vista e con una sua ottica, come si sia in presenza nella storia del delicato rapporto tra culture operaie e culture sindacali di un problema che lui ha definito di superamento della modernità. Ma poi – mi pare – ha aggiunto un punto importante e cioè di quali elementi siano presenti all’interno della cultura operaia o della cultura sindacale che non sono stati sviluppati concretamente nel loro tempo nelle condizioni alle quali si riferiva la sua analisi, ma che sono lì in attesa di essere sviluppati. Ci sono degli elementi di modernità che forse hanno bisogno dei loro tempi per trovare una realizzazione e una valorizzazione.

Queste poche cose le dico perché c’è, mi pare, il problema – che dovrebbe essere la centro di questo dibattito – di capire a cosa può servire un convegno come quello di questi giorni per affrontare il problema della modernità del lavoro. Che presenta aspetti che sono stati anche dibattuti in questi giorni, anche con molta vivacità, ma che continuano a porre lo stesso problema. Faccio ancora un ultimo esempio su Cella e su tutto il dibattito che si è generato, qui, a proposito del sindacalismo dei diritti. Non so se sono io che ho letto l’intervento di Cella in questo modo, ma mi pare che lui ad un certo punto abbia sostenuto che il sindacalismo dei diritti potrebbe essere in un certo senso interpretato come una variante postmoderna della cultura di classe quando la classe non c’è più. Ecco, questo è un esempio abbastanza interessante di trasformazione di un bagaglio culturale e sindacale al mutare delle condizioni sociali che ne sono state portatrici. In questo caso il sindacalismo dei diritti come un tipo di proposta rivendicativa, ma anche di proposta culturale, che fa i conti con la trasformazione della società e in particolare con una trasformazione della sua cultura di classe, con la perdita di centralità e di valore

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che viene da sé nella tradizionale cultura di classe.

Un secondo aspetto che mi piace sottolineare e che è stato ripreso in molte relazioni, e poi sistematizzato nell’intervento alla fine della mattinata di Causarano, è stato quello del complesso e delicato rapporto tra culture operaie culture del lavoro, culture di fabbrica nelle sue varie specificazioni, ma anche culture sindacali e culture del territorio. Io qui tenderei, forse per abitudine ad un tipo di frequentazione scientifica e culturale un po’ caratteristica del nostro giro fiorentino, tenderei a dare molta importanza, e forse più importanza di quanta ne sia stata data in questi giorni, al problema del territorio – come qualcuno l’ha chiamato – cioè alla relazione tra i luoghi – che poi era una delle nostre sessioni – nei quali poi si manifestano e crescono queste esperienze e la sostanza del prodotto culturale che ne viene fuori. È stato un tema affrontato da Buccarelli nella sua relazione, tra cultura di fabbrica e cultura del territorio, ma è un tema che ritroviamo in molte relazioni. In particolare, mi è parsa di grande interesse – da questo punto di vista – la relazione di Fabio Dei, a dire il vero una relazione centrale per molti aspetti, non solo per questo – sarà che Fabio Dei era l’unico antropologo presente tra di noi e quindi aveva anche maggiore sensibilità e anche maggiore facilità di cimentarsi con questo tema – ma che è stato ripreso in modi diversi da vari relazioni, da quella di Lattes, a quella di Pellegrino ed altre, da cui viene fuori a mio parere con forza che c’è una relazione causale tra territorio e culture operaie, culture del lavoro e culture professionali che specifica e articola queste diverse espressioni culturali. Questo ci invita – a mio parere – a non fare un discorso unico e semplificante come inevitabilmente noi abbiamo tentato di proporlo nel titolo del convegno, cioè «cultura operaia» e «cultura sindacale».

In realtà le culture operaie e le culture del lavoro, le stesse culture sindacali risentono profondamente del luogo nel quale vivono, crescono, si esprimono e si articolano. Quindi, se risentono– e profondamente – delle culture tipiche delle società locali, allora noi in effetti siamo di fronte a questa difficoltà straordinaria e cioè di dire ... di fare un passo in avanti in questa direzione – come molte relazioni hanno fatto, cercando di specificare all’interno di categorie vaste come quelle della cultura del lavoro, della cultura operaia, della cultura sindacale, le espressioni territorialmente definite di queste stesse culture che non possono essere appiattite l’una sull’altra. Il territorio di riferimento ha una centralità così evidente, che è veramente antiscientifico attenuarne il peso se non eliminarlo.

Nell’esperienza inglese i minatori del Galles, i minatori scozzesi, o minatori di Chesterfield o dello Yorkshire, esprimono culture sindacali tipiche della loro appartenenza professionale, ma ancora più tipiche della loro appartenenza territoriale. Tant’è vero che, come ricorderà chi ha riflettuto sul

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grande sciopero dei minatori del 1984-85 in Inghilterra, spesso questo ha dato anche vita a divisioni interne molto pesanti. Nello stesso mondo sindacale. La relazione di Pellegrino credo che abbia fatto un lavoro di questo genere, aggiungendo un altro elemento che di nuovo è importante far emergere. Intanto ha fatto questo stesso tipo di operazione parlando degli artigiani Firenze, in quanto – come dire – ci ha fatto vedere in che misura la loro stessa localizzazione, la loro stessa articolazione sul territorio, la stessa geografia degli insediamenti, portasse ad elaborare culture del lavoro artigiano differenziate che poi sono transitate nelle culture operaie, ma portandosi dietro il segno di questa appartenenza. Ecco questo intervento ed altri ancora ci dicono due cose insieme: quella che ho appena detto e cioè l’attenzione alle articolazioni e al peso delle culture locali, ma anche l’attenzione alla loro storia. Anna Pellegrino ci dice che noi dobbiamo tener conto delle culture del lavoro pregresse per capire le culture operaie di oggi, quando gli artigiani vanno in fabbrica non diventano da artigiani operai, ma portano nel mondo del lavoro operaio la loro storia, la loro cultura, le loro idee, la loro idea di lavoro, di mestiere... quindi tutto questo complesso di elementi che transitano nel mondo operaio a mio parere portano dietro di se la storia della loro genesi. Ma si potrebbe fare un’operazione analoga, che qualcuno ha tentato di fare in maniera ancora più ardita, perché in fondo qui siamo ancora in presenza di una certa continuità tra lavoro artigiano e lavoro operaio.

Riferendoci a quello che alcuni hanno sottolineato, cioè che per comprendere le culture operaie e anche le culture sindacali del Novecento dobbiamo anche tener conto della forte eredità che viene trasmessa ad esse dalle vecchie culture contadine. In fondo il mondo industriale nasce dal mondo contadino, come sappiamo, ma in alcuni luoghi è più forte questa influenza, perché la logica delle immigrazioni dalla campagna alla città, la logica soprattutto localizzata delle migrazioni, ha fatto transitare il mondo contadino con i suoi valori, con le sue idee, con le sue strutture, l’ha fatto transitare nella città e nella fabbrica. Ci sono qui spunti che ci vengono dallo stesso Lattes – a mio parere – ma che ci vengono nella storia del dibattito scientifico, da ricerche come quelle per esempio classiche di Roger Absalom sui tessili pratesi profondamente influenzati dal tipo di organizzazione e struttura sociale da cui derivavano, dalla mezzadria, dalle campagne o dalle montagne intorno a Prato. In Lattes il discorso è più complesso, c’è anche questo a mio parere, ma c’è anche dell’altro ... E’ curiosa la relazione di Lattes – credo che tutti l’abbiano notato – curiosa nel senso che comincia tutto sommato cercando di distruggere l’idea di culture del lavoro ... e poi fa una relazione dove in realtà il punto centrale – almeno io l’ho letta così – è quello di una fortissima articolazione interna alla cultura operaia che non può non avere una rilevanza soprattutto dal

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punto di vista culturale; cioè, lui parla di «tribù» – il termine è già esemplificativo, in fondo l’antropologia culturale a lungo tempo si è soffermata soprattutto sulle popolazioni primitive – e quindi, quando Lattes ci parla di «tribù operaie», specificando che questo termine significa che derivano da luoghi e territori molto differenziati, ma si portano dietro la loro storia, le loro tradizioni le loro abitudini, il loro dialetto anche ... ci fa vedere che cosa? Ci fa vedere che il territorio e le culture di provenienza si riversano nella nuova realtà operaia, naturalmente non rimanendo le stesse, confrontandosi, articolandosi, in relazione alle nuove condizioni di lavoro nelle quali si trovano, ma in un certo senso dove questa ricchezza di provenienza e di origine culturale finisce per avere un’enorme rilevanza nella articolazione e nella definizione della nuova cultura operaia.

Chiudo – perché forse non c’è molto tempo – con un’ultima osservazione, anche questa di carattere molto generale, che non è stata affrontata da nessuno se non mi pare nella relazione di Pietro Causarano sugli insegnanti. E cioè noi – ma questo è un vecchio problema che chi si è occupato di sociologia del lavoro ha sempre avuto davanti – noi abbiamo parlato di culture del lavoro e di culture sindacali come se il termine «lavoro» fosse un termine chiaro. Il termine lavoro non è un termine chiaro. Il termine lavoro è un termine che copre una realtà molto differenziata. Causarano ci ha parlato degli insegnanti e a proposito di essi ha cercato di articolare una differenza rilevantissima, non solo per quel tipo di attività lavorativa ma per moltissime attività lavorative, comprese le attività operaie, tra mestiere e professione. Se noi riflettiamo sulla stessa definizione di professionalità, per come si è venuta articolando a partire dalla fine degli anni Sessanta nel dibattito sindacale e per come poi è venuta ad essere per almeno un decennio al centro di questo dibattito, vediamo immediatamente come il termine lavoro sia un termine che appiattisce realtà assai più complesse e articolate che andrebbero lette in termini sociali, culturali e sindacali differenziati.

Chiudo con un ultimo punto che viene fuori dalla bella relazione di Bertucelli (molte più cose verrebbero fuori dalla relazione di Bertuelli come di altre che non ho detto, ma se c’è tempo poi su alcune ritornerò perché secondo me vale la pena che siano ricordate). E cioè il fatto che a mio parere – potrebbe essere uno dei punti da discutere in questa tavola rotonda –la maggiore o minore centralità, e quindi successo, di un tipo di cultura operaia, di cultura del lavoro... il successo o il declino di questa cultura operaia o cultura del lavoro è in diretta relazione a come, se e a quanto esse si rapportino con la centralità tecnologica che caratterizza via via il processo di trasformazione sociale. Facciamo un esempio classico – che viene a mio parere fatto lateralmente da Bertuelli: i metalmeccanici diventano una componente fondamentale del

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movimento del lavoro e del movimento sindacale, perché? Per tanti motivi, ma certamente uno dei motivi fondamentali è, o almeno era, che questo gruppo professionale stava in diretta relazione con quelle nuove tecnologie che davano l’impronta al mondo industriale, che lo stavano trasformando in termini organizzativi oltre che in termini tecnologici. Diciamo per dirla in uno dei tanti modi possibili ... diciamo che questo ceto dei metallurgici, questo gruppo professionale dei metallurgici ascende, assume importanza e centralità perché ascende assume importanza e centralità la tecnologia di fabbrica sulla quale loro si applicano, della quale loro sono gli esperti, i portatori di cultura vera. Ecco, questa a mio parere potrebbe essere una chiave di lettura da poter usare anche oggi ... chi sa e chi ascende ... chi rimane ai margini e chi va al centro delle attuali culture del lavoro e delle attuali culture sindacali ... Io credo che una riflessione sulla relazione che oggi nel lavoro moderno si stabilisce tra nuove tecnologie e strutturazione e successo o declino di alcune culture del lavoro invece che di altre, sia una chiave di lettura che ci può servire a districarsi in questo complesso panorama culturale, sindacale e anche politico. Su questo non mi soffermo, ma sarebbe interessante aprire una parentesi da discutere in questa tavola rotonda. Grazie.

Alessio Gramolati

Ora Franca Alacevich, docente universitario, esperta di relazioni industriali ed essa stessa, per una parte della sua vita, protagonista in una serie di complessi processi negoziali. Il carattere interdisciplinare del convegno, le molte considerazioni che sono emerse dalle relazioni, che puntualmente Paolo ha ripreso, ci danno conto di come la cultura operaia abbia una sua specifica autonomia ma anche – come ogni cultura – elementi forti di interdipendenza.

Paolo poc’anzi ne ha evidenziati alcuni, citando delle relazioni e dando il suo contributo originale: la relazione non speculare tra culture operaie e culture sindacali, le loro relazioni con le politiche e i territori, i generi, le identità, i corpi – come diceva ieri Franco Carnevale – le complessità sociali, i processi di migrazione che si sono sviluppati dentro di esso. Diciamo che noi in questo convegno, l’emisfero di «sinistra», delle inter-relazioni, lo abbiamo sostanzialmente disvelato. A me resta un dubbio, che chiederei a Franca di aiutarmi a chiarire: se esiste un emisfero di «destra» – cioè le controparti dell’operaio, del lavoro salariato organizzato, ovvero gli imprenditori, i padroni, gli industriali – e come questo abbia influito sull’altro emisfero. Soprattutto in una economia come la nostra, dove prima degli operai sono scomparsi esattamente quei soggetti.

Basti guardare alla nostra città, a come negli anni Novanta si sia prodotto una sostituzione degli attori industriali interni alla comunità con attori che

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venivano non dall’esterno della comunità, ma da altre comunità di altri paesi, spesso di altri continenti. Ecco, si tratta di capire quanto questi soggetti e la loro scomparsa, il loro mutuarsi nei processi di finanziarizzazione, speculazione e della rendita, hanno o meno condizionato la cultura operaia in questo lungo e complesso secolo, soprattutto nella sua fase più recente, in questi ultimi venti o trent’anni che hanno rappresentato il momento più difficile. Un problema peraltro – poi Carlo Ghezzi mi correggerà – che non sembra essere tipicamente fiorentino o toscano. Questo elemento della dissoluzione di una classe dirigente imprenditoriale/industriale è uno dei grandi temi, delle difficoltà, delle criticità del nostro Paese a partire dalla metà degli anni Ottanta, da noi accentuato da quel passaggio dalla prima alla seconda generazione che risulterà molto critico, molto fallace, tale da consegnarci un inedito capitalismo effimero, quasi impalpabile. La domanda quindi che pongo a Franca è questa: tutto ciò ha influito o no sulle culture operaie?

Franca Alacevich

Rispondere a questa domanda non è certo facile, né io sarò in grado di farlo compiutamente. Anzi, mi scuso per non essere stata presente a tutti i lavori di questo importante convegno – mi piace poco parlare, avendo in fondo partecipato solo ad una piccola parte del dibattito, e mi scuso se non potrò tenere adeguatamente conto di tutto quanto è stato detto.

Non credo che i concetti di «destra» e «sinistra» rappresentino bene quello di cui vogliamo parlare; almeno, se la componente dei datori di lavoro può essere definita come «di destra» e quella dei lavoratori «di sinistra». Quel che è certo è che esiste un problema di interazione tra le due componenti. C’è sempre stato, c’è oggi, e ci sarà sempre un problema di relazione tra la rappresentazione della realtà e del proprio ruolo in questa che il movimento dei lavoratori si costruisce, per così dire, in «autonomia», al suo interno, e in rapporto alla propria cultura, e la cultura degli altri coi quali si ha a che fare, datori di lavoro anzitutto. Le due rappresentazioni, infatti, sono strettamente legate al tipo di interessi di cui i soggetti sono portatori, fondati nelle relazioni asimmetriche di lavoro e nel diverso potere relativo in dotazione, e riflettono il ruolo sociale di attori diversi. E’ normale che sia così.

I datori di lavoro, siano essi proprietari o dirigenti delle imprese nelle quali i lavoratori sono inseriti, vivono a loro volta la loro esperienza umana più importante (di lavoro) e ne risentono tutti i condizionamenti. La cultura dei datori di lavoro è «di destra»? Io non direi così. Per rispondere alla domanda posta da Alessio Gramolati vorrei considerare, brevemente, sia la cultura dei datori di lavoro privati, sia quella della pubblica amministrazione. I datori di lavoro hanno ricoperto un ruolo molto importante nei processi che abbiamo

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sotto il fuoco della nostra attenzione in questi due giorni di convegno: la cultura operaia si è formata anche nel contraddittorio con quella dei datori di lavoro, sia delle imprese private di qualunque settore sia della pubblica amministrazione, che rappresenta uno dei maggiori datori di lavoro.

L’ultima riflessione di Paolo Giovannini, che riprende il dibattito di questi giorni, ha rilevanza anche quando prendiamo in considerazione la cultura degli «altri», i datori di lavoro appunto. Anche per loro riveste un ruolo cruciale il rapporto con la centralità delle tecnologie impiegate e del proprio segmento produttivo di beni o servizi nel mondo globale. Essere nel cuore della ricerca, alle frontiere dell’innovazione, o appartenere, invece, a settori più tradizionali e maturi promuove una rappresentazione della realtà, del ruolo dell’impresa nella realtà, dei bisogni e delle linee di trasformazione dell’organizzazione del lavoro, dell’uso stesso della forza lavoro che probabilmente è molto importante anche per la «destra» – usando le parole di Alessio, non mie – di questo universo. In passato – certamente qui in Toscana meno che altrove, come ha notato Alessio Gramolati, ma anche qui in Toscana dove l’organizzazione del lavoro non è di grande impresa, è meno fordista, ma resta sempre legata al vecchio modo di produzione – possiamo spiegare la cultura dei datori di lavoro a partire dal vecchio «patto sociale». Il vecchio «patto sociale» degli anni Sessanta e Settanta era basato, come tutti sappiamo, sullo scambio tra stabilità del posto di lavoro e tutele sul posto di lavoro con subordinazione, spesso bassa qualificazione, organizzazione del lavoro rigida e gerarchicamente orientata, parcellizzazione dei compiti, in una parola il vecchio modello di lavoro. Questo scambio allora bastava all’impresa, per essere competitiva, e bastava anche ai lavoratori, forse. Tuttavia, secondo me, sotto questo profilo la storia andrebbe un po’ riletta. Mi piacerebbe farlo – ma non è il mio mestiere – e considerare i processi venuti poi a condensazione nel periodo successivo agli anni Sessanta e Settanta, alcuni dei quali sono stati positivi, alcuni altri invece negativi.

Ad esempio, la crescita del reddito medio delle famiglie ha consentito anche la crescita dei livelli medi di istruzione, l’innalzamento degli stili di vita e di consumo ... tutte cose prima negate, che poi mano a mano si sono diffuse in una porzione sempre più grande della popolazione. Il vecchio «patto sociale» bastava ai lavoratori quindi, almeno in parte, consentendo loro una rivalutazione del loro ruolo nell’organizzazione del lavoro – molto costretto – attraverso la centralità del processo produttivo, l’orgoglio di settore (essere metalmeccanici) e dell’appartenenza a una particolare impresa. Nello stesso tempo, quel «patto sociale» bastava ai datori di lavoro, perché la produzione di beni e di servizi che quell’organizzazione del lavoro consentiva aveva un suo spazio, un suo mercato, una sua stabilità nel mercato – qui parlo di mercato dei beni e dei servizi – locale, territoriale, nazionale, ma anche in quello globale in

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forte espansione, più o meno coordinata. Quel patto consentiva alle imprese di utilizzare un tipo di forza lavoro funzionale alla competitività.

Negli anni Ottanta, e più ancora negli anni Novanta, le sfide da affrontare sono cambiate. Si sono avviati grandi processi di ristrutturazione delle imprese. I servizi sono cresciuti e hanno acquisito rilevanza maggiore rispetto all’apparato industriale. Sono cresciuti anche i servizi alle imprese attraverso le esternalizzazioni, la specializzazione di funzioni che prima stavano all’interno delle imprese. Si sono sviluppate le comunicazioni. E’ divenuto possibile delocalizzare le imprese, o reperire prodotti e servizi ovunque nel mondo, per la crescita dei paesi in via di sviluppo e nuovi venuti sulla via dello sviluppo. Questi ultimi sono stati sempre più in grado di produrre nei settori tradizionali a costi molto minori, ponendo le imprese industriali e dei servizi di fronte all’esigenza di modificare radicalmente il loro ruolo. Da qui, la crescita di attenzione alla qualità, alla creatività e alla diversificazione dei prodotti, ai servizi client oriented, volti cioè a tenere conto dei livelli di soddisfazione dei consumatori. Di fronte a questi cambiamenti, il vecchio «patto sociale», il vecchio scambio tra sicurezza e dipendenza, è diventato sempre più inadeguato. Tuttavia, il mondo delle imprese produttrici di beni e di servizi – e mi riferisco qui alle imprese private – ha reagito al cambiamento secondo due logiche diverse.

Poche, pochissime, imprese del nostro paese, e ancora meno imprese della nostra regione che sono piccole e prevalentemente in settori tradizionali, hanno saputo collocarsi alle frontiere dell’innovazione. Lo «zoccolo duro» e resistente delle imprese italiane e toscane ha saputo tenere il passo per un bel po’. In questo «zoccolo duro» considererei anzitutto il sistema della moda, in cui era più facile adattare i vecchi meccanismi, muoversi su nuove piste, perché in fondo non si aveva bisogno di ricerca altamente innovativa sul piano delle tecnologie; in cui la creatività e la qualità erano perseguibili attraverso il contributo dato dalle competenze della forza lavoro, che sono «incarnate» in ognuno dei soggetti umani che in questo mondo lavorano. Questa forza, che peraltro ancora resiste in parte del sistema moda in senso lato (considerando anche mobili, accessori e quant’altro) ha distolto l’attenzione dal fatto che in altri campi, su altre frontiere, l’Italia e la Toscana restavano fuori dalla divisione internazionale del lavoro. Ci siamo trovati sempre più emarginati sul terreno della ricerca dei nuovi metodi di lavoro e della ricerca sui nuovi prodotti, che avvenivano sempre più altrove. Quando si vanno a studiare le poche imprese innovative davvero, si vede che pongono una forte attenzione sulle qualità intrinseche dei lavoratori. Un direttore del personale molto avveduto di una di queste imprese del settore moda, diceva: «Io posso comprare il tempo di lavoro dei lavoratori, ma non posso comprare la loro

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creatività, il loro impegno per l’azienda, la loro adesione alla missione aziendale» – pur se il termine «missione» non mi piace molto applicato alle aziende – «Per ottenere queste cose, è indispensabile mettersi al lavoro concretamente con i lavoratori e le lavoratrici della mia impresa, promuovendo un processo che porti queste persone a scegliere di mettere la loro creatività, la loro intelligenza al servizio dell’impresa». In aziende di questo tipo – che, ripeto, sono poche, pochissime – la cultura del lavoro dei datori di lavoro è stata in grado di dialogare con la cultura dei lavoratori e delle lavoratrici, di fare un salto notevole dal vecchio «patto sociale» verso le nuove dinamiche della società.

La maggioranza delle imprese ha invece reagito ai nuovi problemi, alle nuove sfide, scegliendo la «via bassa»: riduzione del volume dell’occupazione, riduzione del costo aziendale del lavoro, ricorso al lavoro flessibile e spesso precario. L’effetto è stato che i lavoratori non hanno sufficienti ragioni per «investire» nel lavoro e nell’azienda, per sviluppare un senso di appartenenza, per trasferirvi la loro capacità oltre gli stretti confini del rapporto di lavoro. Né l’impresa ha interesse ad «investire» sulla sua forza lavoro marginale, di cui non potrà prevedibilmente usufruire in futuro. Ne emerge una sorta di circolo vizioso, tutto al ribasso, che certamente non favorisce la tenuta della competitività e il posizionamento alle frontiere dell’innovazione; e i paesi nuovi arrivati sulla via dello sviluppo possono in breve tempo riuscire a sostituirsi sui mercati a queste imprese, giocando sui loro costi ridotti. In questi casi, ovviamente, l’incontro tra le due culture è divenuto uno scontro, ha generato conflitto, e un conflitto difficile da contenere.

Venendo ai datori di lavoro pubblici, alla pubblica amministrazione, vediamo ripetersi la storia, e prevalere anche in questo caso la «via bassa». Conosco il settore da vicino, perché oltre a lavorare al suo interno ho «praticato» le relazioni industriali per sette anni, oltre ad averne studiato alcune funzioni cruciali come quella del governo del mercato del lavoro. La pubblica amministrazione riveste un ruolo strategico per favorire l’innovazione, e avrebbe necessità di stare al passo coi tempi e di fornire servizi efficienti per favorire l’economia e lo sviluppo del paese. Avrebbe, dunque, bisogno essa stessa di essere molto innovativa. In questi giorni la stampa riporta una vivace polemica sulla quantità di passaggi burocratici che sono necessari per aprire un’impresa ... ed è vero. Nel dibattito di questi anni, dalla fine degli anni Novanta, si è posta molta attenzione sul funzionamento dei servizi per il mercato del lavoro – così centrali oggi per il raccordo tra domanda e offerta del lavoro, in condizioni molto mutate rispetto a prima. Ebbene, nei servizi pubblici per l’impiego il personale impegnato è in larghissima parte precario: collaborazioni coordinate e continuative o a progetto, lavoro interinale,

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contratti a progetto, «lavoratori autonomi» che prestano il loro servizio professionale ... Non sto esagerando, è così. Anche in questo caso, i soggetti portatori di innovazione, quelli che i datori di lavoro dovrebbero valorizzare per stare al passo con le nuove sfide, sono ai margini, o fuori, della forza lavoro.

In conclusione, se la cultura del lavoro dipendente ha faticato e sta faticando a trasformarsi in relazione alla nuova realtà, altrettanto credo che abbia faticato e stia faticando la cultura datoriale. In questo percorso faticoso, di entrambi, non c’è stata, però, solidarietà. Anzi, è cresciuta la conflittualità. Il discorso su questa nuova conflittualità è più complicato e richiederebbe maggiore spazio.

Alessio Gramolati chiudeva la sua domanda affermando che forse «gli imprenditori non ci sono più». Sicuramente la finanziarizzazione delle imprese in un gioco di scatole cinesi è un fenomeno presente, e ha portato i datori di lavoro (e qui mi riferisco piuttosto ai dirigenti che ai proprietari) ad essere molto più attenti al posizionamento delle azioni sul mercato azionario che non ai contenuti e ai modi della produzione. E’ cosa nota, quindi la cito solo di passaggio. Produce poi maggiori difficoltà nel rispondere alle nuove sfide, e questo può avere l’effetto di marginalizzare ulteriormente la nostra economia. I nuovi paesi forse prenderanno il nostro posto. Speriamo che crescano non a scapito nostro, ma in una crescita coordinata e coerente. Tuttavia, io porrei la cosa in termini diversi: non abbiamo «meno» datori di lavoro, ma abbiamo datori di lavoro diversi, che spesso non sono al passo coi tempi, che rischiano di far perdere competitività al nostro paese nel suo complesso e a molti dei nostri territori, anche in questa regione. Ma con questi «nuovi» datori di lavoro bisogna fare i conti. Quindi il confronto tra culture è un confronto che va innalzato il più possibile, col contributo di tutti, perché solo da un confronto magari difficile e pesante, e inizialmente di scontro, può venire fuori quel bene collettivo che è la crescita del nostro paese in un modo «più decente», per usare il linguaggio europeo.

Alessio Gramolati

Come avete avuto modo di notare è già la seconda volta che mi si rimprovera il fatto che ho dato le domande dieci minuti prima. Come molti di voi sanno, non ho avuto la fortuna, il privilegio di studiare molto nella mia vita. Ho iniziato a lavorare abbastanza precocemente e quindi poter per una volta mettere in difficoltà due di coloro che in quella brevissima vita da studente mi facevano interrogazioni senza preavviso è una soddisfazione alla quale non volevo assolutamente rinunciare!!!

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credo che sia anche il modo migliore per condurre una discussione non preordinata, che ha dato risposte, ma ha posto anche nuovi interrogativi.

A Carlo Ghezzi ne giro uno di questi sul quale io non ho molti dubbi, ma che, per il modo in cui è stato proposto dal dibattito, ha introdotto qualche elemento dialettico. Mi riferisco soprattutto al tema delle culture sindacali. Carlo come sapete è presidente della Fondazione Di Vittorio, già segretario della Camera del Lavoro di Milano, poi segretario nazionale CGIL con le responsabilità dell’organizzazione. In occasione del saluto di commiato alla scadenza del suo incarico nella segreteria nazionale della CGIL, Carlo disse una cosa molto bella: che per tutti i ruoli e le posizioni di potere che aveva avuto dentro l’organizzazione sperava di poter essere riconosciuto come uno che non aveva mai approfittato della propria posizione di potere. In effetti Carlo è una persona che è uscita dalla CGIL esattamente come vi è entrata, con questa giacchetta e con la solidarietà e l’amicizia di un numero importante di compagni che l’hanno conosciuto e stimato per il suo impegno e per la sua instancabile dedizione. Dunque Carlo, nella discussione che c’è stata in questi giorni si è molto dibattuto sulla rappresentazione dei modelli sindacali, a partire dall’intervento di Cella che su questo punto è stato molto stimolante, tant’è che è stato ripreso da molti. Si è molto insistito sull’ultima delle cinque culture che hanno attraversato il secolo del lavoro dalla fondazione della CGIL ad oggi – quelle stesse culture che hanno attraversato anche altre esperienze sindacali confederali – indicando nella strategia e nella linea dei diritti che la CGIL assunse a partire dal 1991 un tratto che collocava quell’indirizzo un po’ al confine di ciò che è la missione, l’identità e il ruolo di un sindacato. Ora verrebbe da dire «benedetta fu quella scelta», se a partire da allora e per i tredici, quattordici anni successivi abbiamo avuto un trend di crescita dal punto di vista organizzativo delle dimensioni che abbiamo conosciuto, invertendo una tendenza che vedeva una forte erosione della rappresentanza sindacale. Tuttavia avere un’organizzazione che si pone ai margini della propria mission per definizione, cioè quella della negoziazione e della contrattazione, comporta il rischio di una desindacalizzazione al quale in qualche maniera dobbiamo dare una risposta compiuta, fugare, se possibile, ogni dubbio o eventualmente introdurre quegli elementi di riflessione e valutazione critica che sono propri di un convegno di studi come questo.

Carlo Grezzi

Avete esaminato le tante e diverse culture del lavoro che vivono nel movimento operaio del nostro paese, le culture sindacali delle categorie e le culture dei territori che sono vissute e che vivono nella CGIL che compie cento anni e che è tra gli organizzatori di questo convegno. Si sono analizzate le

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storie e le condizioni specifiche che hanno generato queste culture. Un ricco patrimonio: meccanici, braccianti, chimici, tessili, grafici, alimentaristi, ferrovieri, funzione pubblica, edili, categorie che esprimono culture forti che a loro volta impattano, come sottolineava Paolo Giovannini, con culture ancor più forti e radicate espresse dai territori: da Torino a Milano, da Genova all’Emilia, dalla Toscana a Roma, dai tanti e diversi Mezzogiorni fino alla Sicilia, dalla Puglia alla Sardegna.

I meccanici esprimono indubbiamente una cultura consolidata, ma tra i meccanici di Torino e di Firenze o quelli di Milano e quelli di Napoli ci sono differenze profonde. La storia e la cultura del movimento operaio italiano sono dunque la risultante di un complesso mix generato da tante culture e da tante storie che si confrontano e si misurano, si intrecciano tra di loro, generano iniziativa e selezionano i gruppi dirigenti del sindacato attraverso un confronto continuo, vivace, duro, aperto e a volte anche aspro.

I commentatori sono usi presentare un volto unitario della CGIL quasi sempre dipinta come monolitica. Non è affatto una organizzazione né granitica né statica. La sua unità è stata costruita con pazienza nel corso degli anni e dei decenni e vive quotidianamente un confronto impegnativo fra culture diverse, tra scelte ed opzioni concrete che si misurano su tanti temi, spesso partendo da posizioni tra loro assai divergenti. Tutto ciò non è da rapportarsi solo alla dimensione categoriale o territoriale, ma anche alle culture politiche che definirei più trasversali e più profonde che in essa anno vissuto: i riformisti, i massimalisti, i sindacalisti rivoluzionari, i comunisti, gli anarchici, i radicali, i repubblicani, i cattolici democratici, le nuove culture che si sono manifestate più recentemente.

In questo perenne e fruttuoso confronto pesano i rapporti di forza che vengono messi in campo. Quando i braccianti negli anni Cinquanta avevano un milione e cinquantamila iscritti indubbiamente pesavano nel dibattito interno al sindacato molto di più dei braccianti di oggi che organizzano meno di duecentocinquantamila lavoratori. Pensiamo ai tipografi, a quei lavoratori che segnarono la storia del movimento operaio soprattutto alle origini, pesando in modo significativo rispetto a quanto possano pesare nelle realtà di oggi nella quale non esistono più, quando il giornale e il libro vengono stampati con strumenti informatici, senza più aver bisogno dei tipografi e dei litografi. Le figure d’avanguardia di cento anni fa sono sparite, spazzate via dalle tecnologie, ed esempi similari potrebbero essere numerosissimi.

Il mix di culture che traggono origine dal lavoro continua ad intrecciarsi e a rinnovarsi, ad arricchirsi di contributi nuovi, siano essi portati dalle donne, da una rinnovata attenzione ai diritti, alle tematiche ambientali o da nuove sensibilità indotte dai processi di un mondo coinvolto in una globalizzazione

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dal segno finale assai incerto.

Vorrei rispondere alle sollecitazioni di Alessio Gramolati su qualche aspetto della storia del sindacato italiano. Nella sfida per tenere congiunte la difesa degli interessi immediati insieme con la capacità di trasmettere il sogno di una società più giusta, si possono individuare i partiti di sinistra, i sindacati e il movimento cooperativo come le tre grandi organizzazioni che propongono tali obbiettivi ai ceti subalterni. Nella seconda parte dell’Ottocento i confini tra queste moderne forme di aggregazione si presentano frequentemente assai nebulosi e difficilmente distinguibili. Con il passare degli anni il sindacato diviene la aggregazione del mondo del lavoro che si afferma maggiormente e che va ad assumere la maggior consistenza, giungendo ad avere, da noi, un peso specifico che non ha forse eguali in altri paesi al mondo. E nel sindacato c’è l’ambizione, che la CGIL esprime sin dal suo nascere, di essere un soggetto politico oltre che un grande soggetto sociale. La neonata Confederazione Generale del Lavoro comincia subito a litigare con Filippo Turati e il PSI sulla qualità del programma del partito, su quali siano le priorità che il gruppo parlamentare socialista deve darsi in fatto di legislazione sociale. In forme diverse e variegate questa dialettica del sindacato con le forze politiche della sinistra va avanti, si perpetua per oltre un secolo. I momenti di maggior drammaticità nella dialettica tra CGIL e sinistra non sono solo individuabili nei confronti carichi di passioni e di tensioni che si sviluppano tra Togliatti e Di Vittorio, tra Berlinguer e Lama o tra Cofferati e D’Alema, ma si manifestano assai frequentemente attorno alla discussione su cosa è il sindacato e sulla sua autentica autonomia.

Voglio qui ricordare la lucida concezione di cosa sia il sindacato che ha Di Vittorio. Questi, presidente della Federazione Sindacale Mondiale, subito dopo la morte di Stalin illustra le sue idee nella sua relazione al congresso mondiale di Vienna del 1953 e spiega come il sindacato debba avere tra i propri compiti la difesa immediata delle condizioni di lavoro, debba battersi per ottenere più avanzate protezioni sociali ma debba essere anche il portatore di un progetto di profonde trasformazioni economiche, culturali e sociali della società, conseguendo l’obbiettivo di indurvi riforme profonde e per conseguire tutto ciò debba essere capace di costruire le alleanze sociali che gli sono necessarie.

Di Vittorio presidente della FSM non si vide approvare la relazione nel documento finale del congresso perché le sue idee vennero vissute dai sindacati dell’Est europeo e dalla CGT francese come delle eresie: un sindacato che si pone come soggetto di trasformazione e si batte per le riforme nella società cozza contro la concezione della seconda che assegna al sindacato la conduzione della lotta economica e al partito la conduzione della lotta politica e la costruzione delle necessarie alleanze, cozza con i dettami della Terza

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internazionale che affermano comunque la superiorità della funzione del partito sul sindacato. Ma in Italia la concezione di Di Vittorio del sindacato quale soggetto politico viene fatta propria da tutti i gruppi dirigenti della CGIL che hanno proseguito la sua opera di direzione e che la ripropongono nella loro azione quotidiana. Voglio ricordarvi che la CGIL si definisce da sempre sindacato generale e che ha messo questo termine nel proprio nome sin dalla sua nascita avvenuta nel 1906. Da allora non lo ha mai cambiato, né si è mai pentita.

Voglio ricordarvi anche che nel nostro paese il lungo cammino del sindacato trae vigore dalla proclamazione del primo sciopero generale di una città, nel 1900 a Genova. Non è uno sciopero economico, è uno sciopero per affermare il diritto all’auto-organizzazione. Il primo sciopero generale proclamato in Italia, il primo nel continente europeo, avviene dopo il massacro di minatori a Buggerru nel 1904 ed è proclamato anch’esso per affermare la possibilità di auto-organizzarsi senza essere assassinati dai gendarmi, non ha per oggetto il salario o l’orario o la previdenza.

Tutto ciò sta dentro la storia di questo paese che ha fatto pesare sul lavoro e sulle sue organizzazioni compiti straordinariamente ardui, dei quali forse avremmo fatto anche volentieri a meno. La conquista di ogni avanzamento democratico, sociale e civile per sé e per tutti si avvalgono sempre di un contributo straordinario da parte delle forze del lavoro. Siamo un paese nel quale la rivoluzione borghese non è mai stata interamente compiuta, un paese con una imprenditoria corporativa, un esercito e una pubblica amministrazione deboli, con tanti intellettuali facili a voltar gabbana, con una società civile che non riesce compiutamente a costruire un compromesso sociale condiviso e consolidato come nel resto dell’Europa. Da noi, appena il rapporto di forza si modifica anche di poco, il padronato tenta di mettere in discussione le precedenti regole del gioco. Siamo in un paese nel quale i lavoratori, quei maledetti antichi sovversivi regolarmente repressi dai gendarmi nel corso dei conflitti sociali che si susseguivano fino all’avvento del fascismo, diventano classe dirigente quando nel corso degli scioperi del 1943 e del 1944 un milione di persone incrociano le braccia ricorrendo ad una forma di lotta pacifica, lo sciopero, partendo da piattaforme che rivendicano il miglioramento della mensa, il riconoscimento della tredicesima, il ricambio dei pneumatici della bicicletta – sì, perché allora si andava a lavorare prevalentemente in bicicletta – e soprattutto chiedono la pace, la fine del secondo conflitto bellico mondiale. Sostengono richieste squisitamente riformiste insieme con la richiesta più politica che esista: la fine della guerra. Ed è l’unica realtà del lavoro in Europa che sciopera così massicciamente in un paese occupato dai nazisti.

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Costituzione che al primo punto afferma che la nostra massima istituzione è fondata sul lavoro. Sul lavoro pesano poi quasi tutte le mobilitazione e le lotte per ottenere le riforme sociali e per affermare la legalità. Ricordiamo quanti sono i sindacalisti ammazzati dalla mafia. Pesa anche moltissimo sulle forze del lavoro la difesa della democrazia contro il terrorismo. Sono CGIL, CISL e UIL che proclamano nel 1969 lo sciopero generale dopo Piazza Fontana, dopo le bombe e la strage, e che segnano l’avvio di una difficilissima battaglia di lunga lena per difendere la partecipazione e la convivenza civile. Una battaglia che la nostra democrazia ha infine vinto. Dobbiamo riflettere maggiormente su come si è progressivamente strutturato il sindacato italiano in un paese nel quale la presa d’atto che il conflitto sociale ha una sua piena legittimità, che le regole che lo presiedono vadano rispettate, che gli accordi da concludere tra le parti siano una fisiologica mediazione tra interessi diversi che si misurano, sono approdi che stentano ancor oggi ad essere pienamente affermati.

Permettetemi infine solo qualche battuta sul rapporto tra culture e gruppi dirigenti. Queste culture così ricche e così articolate delle quali avete discusso esprimono gruppi dirigenti che ne sono una diretta e conseguente espressione e che queste culture le rappresentano mentre si scontrano con altre culture ed altre esperienze dando luogo ad una dialettica forte e vivace che viene sottoposta alla conclusione della discussione, quando questa si deve trasformare in scelte concrete, alla validazione democratica da parte dei lavoratori. Queste diverse culture hanno saputo non solo convivere tra loro ma hanno permesso alla CGIL ed al sindacalismo confederale italiano di attraversare, proprio perché in tal modo strutturato, proprio perché così radicato, proprio perché capace di esprimere leadership pluraliste e solide, di attraversare vicende terribili nella storia d’Italia, momenti drammatici e passarli da protagonisti. Possiamo ben dire che a tutt’oggi ce l’abbiamo fatta.

Così come possiamo affermare che con le sue potenzialità e la sua forza, i suoi limiti ed anche le sue contraddizioni, il sindacalismo confederale continua ad essere l’organizzazione sociale più grande e più rappresentativa della società italiana. Un baluardo della nostra democrazia, una garanzia ed un riferimento insostituibile per la difesa e per il consolidamento dei diritti dei ceti più deboli.

Alessio Gramolati

Grazie a Carlo. Ora direi con Giovanni Mari di lasciare alle nostre spalle la ricostruzione e l’analisi del passato e proiettare la nostra riflessione nella dimensione dell’oggi e soprattutto del domani, del futuro, cioè il tema della modernità. Su questo versante, anche per contingentare il tempo che ci rimane, proporrei a tutti sostanzialmente la stessa riflessione e di rispondere alla stesse domande. Parto da una brevissima premessa, dichiarandomi su questo. Sono tra

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coloro che ritengono che il lavoro operaio non si è dissolto, non è scomparso, piuttosto si è spesso spostato, ha proprio migrato. Se noi oggi provassimo a guardare il lavoro operaio nella sua dimensione globale, e dovessimo pesarlo rispetto agli anni che abbiamo analizzato in questa discussione, comparandolo a quelle che erano le dimensioni che aveva raggiunto in Occidente, non so se quantitativamente risulterebbe ridotto piuttosto che non. Basta guardare gli oggetti di cui disponiamo per avere il senso dell’intensità e dell’estensione con la quale il lavoro operaio oggi condiziona la nostra vita e i nostri consumi, basta pensare alla Cina, a quanti sono i milioni di produttori che si sono affacciati in quell’area del mondo: Cina, India, tutta la parte del Sud-Est asiatico, per avere un’idea di quanto sia vasto e complesso questo processo e d’altra parte anche i dati sull’Italia – al di là del sensazionalismo che fa un’assemblea in una grande fabbrica come la FIAT – ci dicono che il lavoro operaio ancora è esistente e persistente nelle sue sfaccettature e nella sua complessa attualità. Piuttosto è cambiato profondamente il modello organizzativo. Anziché la crisi del modello fordista, ritengo ci sia più in generale la crisi del modello gerarchico e che questo sia stato uno dei grandi temi che ha fatto esplodere nuove forme di lavoro.

Probabilmente da quella crisi – non so se faccio di nuovo arrabbiare Franca – ne siamo usciti un po’ da «destra», con la suggestione che dare una partita IVA a una persona, dargli una condizione titolata di lavoratore indipendente corrispondesse immediatamente al distacco dal processo di gerarchizzazione in cui il fordismo era in qualche maniera il punto scientifico di culmine. Ecco, detto che quella risposta era il tentativo di superare quel modello gerarchico, una domanda in qualche modo di libertà, oggi noi constatiamo come invece proprio quel modello abbia prodotto una generazione di persone e di lavoratori che in Europa vengono definiti economicamente dipendenti e che non tanto sul reddito quanto piuttosto sul tema della libertà hanno qualche problema, nel senso che la loro dipendenza dal datore di lavoro è incommensurabilmente cresciuta. D’altra parte quando un contratto si rinnova di trimestre in trimestre, di semestre in semestre, questo problema è abbastanza evidente. Se questo è il tema, lo pongo a tutti come interrogativo e non credo che il bisogno di emancipazione si soddisfi ripristinando la condizione precedente. La liberazione di un lavoratore e la risposta alla sua domanda di emancipazione dentro un call-center non è tenerlo a tempo indeterminato tutta la vita a svolgere una mansione dequalificante. Se penso a quella prospettiva per un qualsiasi ragazzo o ragazza che si è laureato, sicuramente penso a qualcosa che non entusiasma, che non auspicherei per i miei figli. Allora qui c’è il grande tema, e ritorno sulla domanda che solo in parte Carlo ha affrontato: quale cultura del lavoro, quale modernità del lavoro e

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quale sindacato possono far fronte a queste complessità, in una società che si è trasformata e che ha fatto della globalizzazione la vera rivoluzione sulla quale la nostra storia ha bisogno di reinventarsi con una nuova prospettiva.

Giovanni Mari

Ringrazio Gramolati delle parole introduttive al mio intervento, in particolare perché permettono di mettere a fuoco alcune problematicità cruciali.

A monte delle questioni più difficili e complesse che devono essere affrontate dalla cultura del lavoro, sia da quella imprenditoriale, sia da quella del sindacato, ritengo vi sia il problema dell’idea del lavoro; di quale idea di lavoro si abbia, implicitamente (per lo più) o esplicitamente, quale sia la sua validità e, soprattutto, quale idea o idee di lavoro i processi in atto richiedano per essere capiti. Penso che questo sia il problema principale che abbiamo di fronte, perché è universalmente riconosciuto che l’idea di lavoro che abbiamo ereditato e interpretato dalle rivoluzioni industriali e dalle culture dell’Ottocento e del Novecento non sia più in grado di fornirci gli strumenti teorici essenziali e gli orientamenti pratici di cui abbiamo bisogno. Una insufficienza concettuale, sia chiaro, che emerge solo se per lavoro intendiamo qualcosa di essenziale, cioè quell’aspetto dell’attività che costituisce, per dirla con Labriola, la «nota distintiva del vivere umano». Solo se pensiamo al lavoro con questo valore e con questa centralità esistenziale, e non semplicemente come ad un’attività occasionale, o ad un’attività inscrivibile interamente in una dimensione economica, sorge l’esigenza di chiarezza ideale. Una esigenza, per riferirmi a ciò che ha sostenuto poco fa Ghezzi quando ha difeso l’idea di un sindacato che non lotta per obiettivi interamente racchiusi nella dimensione economica aprendosi alle dimensioni più generali sino ad includere quella dei diritti, che appartiene integralmente alla tradizione del sindacato di cui oggi celebriamo il centenario.

Senza un’idea di lavoro come attività essenziale per la definizione dell’essere umano che sia all’altezza dei processi in corso corriamo anche il rischio, quando facciamo storia o parliamo del lavoro, di fare mero antiquariato discutendo di qualcosa che non c’è più o che non è più centrale come una

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volta. Anche se certe realtà sociali non scompaiono del tutto per il fatto di aver perso una precedente centralità, è necessaria la ridefinizione dei quadri teorici fissati al tempo della precedente centralità per riuscire a pensare alla nuova: possibilità chiusa dalla nostalgia della vecchia e dall’attardarsi a non abbandonare il punto di vista della residualità ancorché consistente della vecchia centralità. L’artigiano non scomparve quando sorse l’operaio di fabbrica. Ma se Marx non avesse radicalmente ridescritto la visione del lavoro dal punto di vista dell’artigiano non sarebbe mai pervenuto a fissare il significato del nuovo lavoro industriale. A sua volta quest’ultimo ha acquistato una nuova importanza nei paesi di recente industrializzazione, ma in quelli di vecchia industrializzazione ha perso la precedente centralità. In Italia rappresenta attualmente circa il 25% della popolazione attiva e tende continuamente a calare. E non si tratta, come è noto, di un mero fatto statistico e numerico.

Dobbiamo pertanto chiederci di fronte a quale realtà ci troviamo e se da essa emerga una nuova idea di lavoro. Quale tipo di attività col valore di «nota distintiva del vivere umano» stia emergendo nelle società di più antica industrializzazione. Quali caratteri abbia questa attività e come essi si pongano rispetto ai precedenti. E che cosa tutto questo significhi socialmente e individualmente. Sono questi i grandi problemi che abbiamo di fronte. E il sindacato questa idea di lavoro non può non averla. Esso la richiede integralmente. Alle altre organizzazioni può occorrere solo settorialmente: economicamente, finanziariamente, professionalmente, sociologicamente, ecc. Il sindacato invece deve fare appello e muovere uomini e non profili.

Il sindacato deve saper gestire quello che è trainante e nuovo nei suoi rapporti con quello che è stato trainante fino a poco tempo prima, perché deve trovare delle mediazioni e deve trovare delle forme di unità fra i tanti tipi di lavoro che abbiamo, e di cui non è detto che i principali siano quelli che la storia ci ha tramandato e che meglio conosciamo. Per quanto riguarda le città e la manifattura, ad esempio, il lavoro dell’artigiano, con tutte le sue trasformazioni, quello dell’operaio di fabbrica e le nuove forme di lavoro

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automatizzato in cui non ritroviamo più i caratteri tipici del lavoro della modernità, si pongono su di una linea di continuità e discontinuità che occorre approfondire se vogliamo capire il lavoro contemporaneo. Quando si parla di «fine del lavoro», si può dire una cosa giusta oppure una cosa profondamente sbagliata. Se si intende una rarità del lavoro, si rimane alla superficie dei fatti; se si intende che è finito il Lavoro (con la L maiuscola) del Novecento, come sostiene Accornero, si può essere d’accordo; se invece con fine del lavoro si intende che al lavoro umano si possono sostituire le macchine in nome di una liberazione dal lavoro, questa appare un’utopia aberrante e regressiva, oltreché contraddittoria, perché fondata sull’idea di un lavoro che, appunto, si sostiene non esserci più.

Ma qual è il lavoro che c’è? Più precisamente, rispetto ai diversi tipi di lavoro che si riscontrano nella nostra società, alcuni ereditati dal passato e quindi meno interessanti ed altri più o meno inediti o profondamente trasformati, quali sono i piani su cui è possibile rinvenire le trasformazioni più significative per mettere a fuoco l’idea emergente di lavoro? Non si tratta, evidentemente, né di una domanda semplice, né di una domanda nuova. Perché è almeno dalla prima rivoluzione industriale che risuona l’interrogativo. Esso rappresenta, ad esempio, la principale domanda che sottostà a tante pagine di Smith o Ricardo, Hegel o Marx. Pagine in cui circola la percezione della fine di un lavoro: quello che l’umanità aveva conosciuto da sempre. Insieme alla percezione che a tale fine si connettesse una sorta di trasformazione antropologica cui si dette il nome di proletariato. Un nuovo soggetto sociale, non solo per la quantità e la centralità economica e sociale, che svolgeva un lavoro che propriamente non era un lavoro ma il risultato della fine del lavoro che Marx chiamò «lavoro astratto». Una specie di lavoro finito che il taylorismo rese ancora più «astratto», che il taylorismo, per così dire, finì di nuovo, facendo assumere alla direzione di fabbrica gli elementi di conoscenza e di qualità del lavoro che l’operaio era riuscito a salvaguardare e ricostituire a contatto con la macchina.

Oggi ci troviamo nuovamente in una situazione di profonda trasformazione e di frattura storica, in cui appare finito quel

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lavoro uscito dalla fine del lavoro preindustriale che il taylorismo aveva, per così dire, ri-finito. Perciò non possiamo evitare di porci nuovamente e radicalmente l’interrogativo di che cosa ne sia del lavoro. A cominciare da che cosa ne sia dei tratti caratteristici del lavoro della modernità: il rapporto con la natura, quello con la conoscenza ed il nesso tra tempo di lavoro, non lavoro e identità personale. L’idea di una natura che non sia più semplicemente e prometeicamente da dominare e sfruttare, ma ormai da curare e salvaguardare; l’idea di una conoscenza che non è più semplicemente elaborata in vista di applicazioni che favoriscano la trasformazione della materia ai fini della riproduzione della vita umana, ma che è essa stessa ciò di cui sono fondamentalemente fatte le merci per soddisfare tali bisogni; l’idea, che nasce con Lutero e Calvino, che solo nel mondo e nel lavoro l’uomo rinvenga la certezza della propria identità e che l’ozio, identificato col non lavoro, sia solo dispersione di tale identità e non possibilità di crescita e sviluppo dell’individuo; sono queste tutte aree e piani di ricerca che si aprono ad una nuova formulazione dell’idea di lavoro. La quale, in particolare, non sembra possa evitare il lato cruciale di tutta la questione, l’interrogativo dell’interrogazione: se il «regno della libertà» debba essere pensato solo «al di là» della «necessità» rappresentata dal lavoro (Marx), oppure invece, nella società della conoscenza, si possa pensare ad una libertà

del lavoro come possibilità di una (ancorché parziale e

graduale) trasformazione della necessità in libertà individuale sulla base di una libera scelta del lavoro a partire dalle capacità e conoscenze personali. Lato cruciale, perché «la libertà viene prima» (Bruno Trentin).

Paolo Giovannini

Al solito ci confrontiamo con domande difficili ... Io procederei in questo modo, un tentativo. Ancora una volta pensare a queste due giornate di lavoro per confrontarci adeguatamente, per trarre qualche insegnamento se è possibile. Trarlo per affrontare il problema della modernità del lavoro. Ne citerei solo due o tre punti: uno, il primo, il Novecento è stato, come è stato detto e come è, il secolo dell’industria. Ha portato alla creazione e anche al radicamento di un pregiudizio industrialista che ci trasciniamo dietro in questo secolo nuovo, a mio parere un po’ di lavoro su questo aspetto, cioè di non essere vittime dei

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propri pregiudizi va fatto. Naturalmente bisogna stare attenti a non cadere nell’errore di crearsi nuovi pregiudizi. Cioè di dare delle affrettate definizioni di centralità o nuova centralità del secolo che viviamo creandoci un pregiudizio che poi inevitabilmente ci condurrà a dei nuovi errori. Secondo punto, il bilancio dell’eredità. Anche questo è un punto che discende dal lavoro che abbiamo fatto, se accettiamo quello che bisogna accettare e cioè che gli aspetti toccati da molti delle culture del lavoro e culture sindacali non sono aspetti che decadono così ... automaticamente, ma che lasciano delle eredità, buone e cattive, alcune scompaiono, altre si rivitalizzano. Anche qui dobbiamo fare un lavoro di riflessione, di discussione e di pulizia mentale per accettare e valorizzare in forma nuova gli elementi che ci servono per affrontare il problema della modernità del lavoro, ma lasciar cadere forse altri che appesantiscono la nostra azione e riflessione (l’appesantiscono non solo sul piano sindacale ma anche sul piano politico perché le culture politiche, soprattutto alcune culture politiche della sinistra, come sappiamo sono profondamente influenzate dalla storia del lavoro, dalle culture del lavoro, dalle culture sindacali e quindi possono a loro volta essere vincolate e vincolanti, nel senso di essere portatori o eredi di culture, obiettivi, aspettative che fanno parte più del secolo passato che del secolo che viviamo).

Allora cosa fare. La riflessione che farei, come tentativo, è questa: noi abbiamo visto una cosa – almeno su questo mi pare siamo tutti abbastanza d’accordo – cioè abbiamo visto la frantumazione di vecchie forme di lavoro e la disarticolazione e il continuo cambiamento delle forme stesse. Diciamo che oggi non abbiamo più riferimenti forti, abbiamo una situazione di continuo mutamento e di difficoltà crescente di identificazione del lavoro stesso, di cos’è il lavoro, delle forme nelle quali esso si manifesta, e questo indebolisce anche fortemente un’azione sindacale di fatto. Se le cose che abbiamo sentito in questi due giorni sono vere e se la riflessione che sto avanzando ha qualche senso, questo cosa significa? Significa che se l’aggregazione del lavoro e nel luogo del lavoro è venuta meno o si è fortemente indebolita o comunque è così mutevole e così rapidamente mutevole che non si riesce a starle dietro, è però vero che c’è un dato che rimane relativamente fermo. È il dato del territorio. A mio parere non da oggi il sindacato si è accorto di questo problema. Io ricordo – per dire – la stagione delle riforme degli anni ‘70 che aveva grandi obiettivi politici e in un certo senso suppliva anche a una debolezza del sistema politico però aveva anche questo senso, cioè che il sindacato tentava di far fronte a dei problemi che comunque la gente che lavorava, che comunque e dovunque lavorasse si trovava a dover fronteggiare... il problema della salute, il problema dei trasporti, il problema dell’ambiente ecc. Traducendo con un significato più moderno il problema del territorio nel quale in ogni caso si svolge la vita

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