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Premessa a "I Liberi di colore nello spazio atlantico"

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Academic year: 2021

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C. M., C. T.

Premessa

(doi: 10.1408/80378)

Quaderni storici (ISSN 0301-6307)

Fascicolo 1, aprile 2015

Ente di afferenza: Consorzio Bess (bess)

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QUADERNI STORICI 148 / a. L, n. 1, aprile 2015

Nel panorama storiografico sulle società coloniali e post-coloniali americane, gli studi sui liberi di colore stanno acquistando una rilevanza sempre maggiore. Si tratta di uomini e donne di ascendenza africana (in tutto o in parte), legalmente liberi in quanto affrancati dalla schiavitù o liberi dalla nascita. Se il numero variava secondo le zone, in ogni società schiavista del mondo atlantico era comunque presente una loro comu-nità più o meno ampia. Attraverso l’analisi di casi particolari e tentativi di comparazione che vanno dalla Virginia, alla Louisiana, ai Caraibi in-glesi e francesi, al Brasile e all’America spagnola tra il XVII e il XIX se-colo, il fascicolo vuole sottolineare l’importanza di questa categoria per ripensare al rapporto tra schiavitù e cittadinanza nel mondo atlantico. Se la razza divenne nel corso del XVIII e XIX secolo la categoria pri-maria nella definizione delle barriere di inclusione ed esclusione, la sua non ovvietà offrì alle persone la possibilità di mettere in scena la propria identità attraverso l’apparenza, il comportamento, le azioni. L’instabile status dei liberi di colore li rende quindi un soggetto privilegiato per studiare il processo di negoziazione e formazione dell’identità razziale così come la definizione dei criteri di cittadinanza in contesti coloniali e post-coloniali1.

Nelle società coloniali americane il termine «libero» significava, di fatto, avere l’indipendenza personale da un proprietario di schiavi, da un’autorità indigena o da un signore, e avere l’autonomia per spostarsi e vivere del proprio salario. In questo senso, i liberi di colore non erano inclusi nella categoria degli indigeni, né in quella degli schiavi. Tuttavia, il «colore» rinviava a una macchia che li escludeva anche dalla categoria dei bianchi. In effetti, oltre a essere estremamente divisi al loro interno e nient’affatto omogenei, non godevano degli stessi diritti e privilegi delle élites bianche. Per le loro origini africane e il loro passato di schiavi non soltanto erano considerati inferiori, ma spesso anche pericolosi e «stra-nieri»2. Poiché sfuggivano a ogni tentativo di classificazione somatica o

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co-loniali ed élites bianche, soprattutto in quei contesti dove i discendenti di unioni tra africani ed europei si mescolavano anche agli indigeni.

L’esistenza dei liberi di colore minava infatti il vincolo, presente in tutte le società del mondo atlantico, tra la discendenza africana e lo status di schiavo, creando di fatto un gruppo intermedio in quello che era generalmente considerato un ordine dicotomico di proprietari bianchi e schiavi neri. Non è un caso, quindi, che nel corso del Set-tecento, quando numerosi liberi di colore arrivarono ad assumere un ruolo economico e sociale importante, nella maggior parte delle società coloniali americane si cominciarono a negare loro diritti giuridici fon-damentali, che di fatto rendevano la condizione di libertà uno status meno significativo rispetto ai bianchi. Ecco quindi che l’assimilazione con questi ultimi divenne una richiesta pressante verso la fine dell’epoca coloniale, in quanto permetteva loro di non essere esclusi da alcuni di-ritti fondamentali, come l’accesso alle cariche, la possibilità di ricorrere ai tribunali, di sposarsi, ecc.

Sino a tempi abbastanza recenti, gli studi sui liberi di colore hanno analizzato temi e aspetti essenzialmente sociali della loro vita, come i meccanismi di manomissione, i tassi di riproduzione, le attività svolte, il patrimonio, mostrando come le differenze tra le varie società coloniali dipendessero più dalle condizioni sociali ed economiche locali che dal-le rispettive dal-legislazioni metropolitane3. Tali risultati erano in evidente

contraddizione con una delle tesi che più ha influenzato la storiografia sulla schiavitù e le sue conseguenze in termini di relazioni razziali, il famoso libro di Frank Tannenbaum Slave and Citizen4. Concentrando

la sua analisi sui sistemi normativi metropolitani, Tannenbaum affer-mava infatti che l’esclusione degli afro-americani dai diritti e dalla citta-dinanza nel Novecento era un effetto del duro sistema schiavista che si era radicato nei territori inglesi dell’America settentrionale; in America latina, al contrario, il ruolo saliente dello Stato e della chiesa cattolica aveva contribuito a rendere gli schiavi persone dotate di diritti e quindi, in seguito all’abolizione della schiavitù, il loro accesso alla cittadinanza era stato più facile.

Questa tesi, il cui principale obiettivo era la dimostrazione della va-lidità della nozione di «democrazia razziale» nel caso latinoamericano, è stata messa in discussione non solo da studi che, rendendo evidenti le pratiche e i modelli di discriminazione ancora persistenti in Ameri-ca latina, hanno provato come questa nozione fosse semplicemente un mito teso a perpetuare l’egemonia delle élites latinoamericane5, ma

an-che da lavori più recenti an-che hanno interpretato in modo radicalmente nuovo la relazione tra diritto e schiavitù. Invece di porre l’attenzione sui sistemi normativi metropolitani, questi studi considerano piuttosto

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gli schiavi attori sociali che utilizzano i ricorsi alla giustizia come par-te di un repertorio più ampio di iniziative e strapar-tegie per affrancarsi dalla schiavitù. Le interazioni degli schiavi con le istituzioni giuridiche hanno assunto un ruolo sempre più importante nella letteratura sulla relazione tra diritto e schiavitù6. Storici e giuristi si sono così occupati

dei modi in cui gli schiavi e i liberi di colore contribuirono, attraverso le pratiche, alla creazione di significati, costumi e diritti giuridici. A differenza delle precedenti analisi, focalizzate sui codici, gli statuti, le dottrine, tali studi considerano la legge non come un insieme fisso di principi e precetti, ma come uno spazio politico e sociale conflittuale, dove i diversi interessi, inclusi quelli degli schiavi e dei liberi di colore, collidevano costantemente.

L’enfasi sulle strategie giuridiche ha influenzato anche le analisi sulle categorie razziali. Le nuove ricerche hanno dimostrato la natura contingente delle classificazioni razziali, considerate il prodotto di co-struzioni giuridiche e sociali, mettendo in evidenza il ruolo delle leggi nella creazione dei significati sulla razza, e la collaborazione ma anche il conflitto tra i vari attori (vicini, soldati, avvocati, ecclesiastici, giudici) nella produzione della conoscenza sulla razza. Questi lavori, come gli studi giuridici sulla schiavitù, si basano su fonti specifiche (i proces-si sulla determinazione dell’identità razziale degli individui, i registri parrocchiali, i testamenti), attraverso le quali è possibile analizzare le pratiche informali di identificazione razziale7. L’attenzione si è quindi

spostata dai discorsi «imperiali» sulla razza verso il modo con cui gli individui negoziano le loro identità razziali e giuridiche, anche nella sfera pubblica. Il saggio di Jessica Pierre-Louis sulla Martinica, conte-nuto in questo fascicolo, mostra ad esempio come una delle strategie utilizzate dai liberi di colore per superare le barriere legate al colore della pelle fosse lo «sbiancamento» del lignaggio grazie soprattutto al ruolo delle donne di colore, che, contrariamente agli uomini, avevano la possibilità di sposarsi con europei. Lo spoglio dei registri parrocchiali dell’isola dalla seconda metà del Seicento sino al secolo successivo ha permesso di vedere che una parte minoritaria ma significativa delle fa-miglie dell’isola, con uno o più ascendenti di origine africana, erano considerati bianchi.

L’accento sulle attività e strategie legali degli schiavi e dei liberi di colore ha infine fatto riemergere un rinnovato interesse verso l’ap-proccio comparativo e transnazionale nello studio della razza e della schiavitù nelle Americhe. La prospettiva della nuova storia atlantica, che tende a studiare in termini di connessioni le società che sorsero sulle sponde dell’oceano, ha fatto emergere, in questi ultimi venti anni, le somiglianze e i processi che accomunavano i diversi sistemi imperiali.

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Secondo tale ottica, nelle Americhe le società schiaviste, che fossero iberiche, francesi o inglesi, non si svilupparono in un totale isolamento l’una dall’altra; al contrario, le norme e le consuetudini sulla schiavitù e sulle relazioni razziali, influenzate dagli scambi commerciali e culturali, dalle migrazioni e dalla tratta atlantica degli schiavi, si costituirono al-l’interno di un rapporto di reciproca interazione8. Se guardiamo poi alle

strategie degli schiavi, ci rendiamo conto che, ovunque essi si trovasse-ro, la loro preoccupazione principale fu la creazione o lo sfruttamento di spazi di manovra all’interno del sistema normativo per aumentare la loro autonomia e migliorare la loro vita.

L’articolo che apre questo fascicolo, Manumission and Freedom in

the Americas: Cuba, Virginia and Louisiana, 1500s-1700s, rappresenta

un esempio significativo del nuovo modo di guardare alla relazione tra schiavitù e libertà. Se da un lato evidenzia le similitudini nelle strategie di alcuni schiavi per ottenere la libertà, mettendo in relazione tra loro tre contesti diversi, dall’altro sottolinea il ruolo dei regimi giuridici locali nel determinare i tassi di manomissione e quindi la creazione di comu-nità di liberi di colore più o meno ampie. Tuttavia, i livelli di manomis-sione non devono essere necessariamente considerati come il risultato di attitudini più umane dei coloni nei confronti degli schiavi o dell’as-senza di pregiudizi razziali, ma la conseguenza di un’ampia varietà di fattori di tipo demografico, economico e religioso. I contesti giuridici a cui si fa riferimento, poi, non sono le dottrine o le legislazioni metro-politane, ma codici e norme legate ai singoli contesti. In questo modo i due autori del saggio, Ariela Gross e Alejandro de la Fuente, eviden-ziano chiaramente come, anche nei casi riguardanti le manomissioni, lo sviluppo di pratiche giuridiche locali, determinate dalle condizioni economiche e sociali oltre che da fattori culturali, fosse fondamentale per comprendere i tassi di manomissione e quindi le dimensioni delle comunità di liberi di colore.

Se la nuova relazione tra diritto, razza e schiavitù è essenziale per comprendere l’origine di questo fascicolo monografico, la sua novità risiede piuttosto nel collegare il tema dei liberi di colore con la citta-dinanza. Non solo infatti l’esistenza di questa categoria mina la tradi-zionale bipartizione delle società schiaviste americane tra bianchi liberi e schiavi neri, ma le richieste dei liberi di colore si trasformano, alla fine dell’epoca coloniale, in una vera e propria sfida all’ordine politico e sociale. Allo stesso modo, la relazione con la cittadinanza permette di non considerare i liberi di colore esclusivamente dal punto di vista della razza. Gli articoli qui proposti non considerano mai la dimensione razziale come un dato di fatto, ma si interessano al contrario al modo in cui le appartenenze razziali si costruiscono nelle configurazioni locali

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e nelle situazioni politiche. La razza non è dunque un elemento che definisce a priori i liberi di colore, ma uno dei fattori che emerge dalle interazioni tra i vari gruppi sociali.

La maggioranza dei contributi si concentra su un periodo che va dalla seconda metà del Settecento fino alla prima metà del secolo suc-cessivo, quando le società americane vennero scosse da una serie di rivolte e rivoluzioni che modificarono profondamente lo scenario poli-tico dello spazio atlanpoli-tico. Non ci riferiamo tanto all’indipendenza delle colonie americane dalle metropoli europee, ma a tensioni e processi che iniziarono all’interno degli imperi prima della loro dissoluzione e che in parte ne furono la causa. Nozioni come i diritti naturali, la cittadinan-za, la sovranità popolare cominciarono a circolare prima dell’avvento dello stato nazionale ed alcuni gruppi iniziarono ad appropriarsene e a rivendicarne il riconoscimento da parte delle autorità coloniali9. Gli

articoli di John Garrigus e Clément Thibaud sono significativi da que-sto punto di vista, in quanto mostrano chiaramente l’importanza delle rivendicazioni politiche dei liberi di colore negli anni Ottanta-Novanta del Settecento, ossia primo dello scoppio delle rivoluzioni. Se nel caso della parte francese di Santo Domingo, analizzato in modo comparativo con la Giamaica, la loro esclusione dalle cariche pubbliche e dall’élite politica dell’isola li aveva portati a ribellarsi in occasione dello scoppio della rivoluzione in Francia, nel caso della Tierra Firme (Colombia e Venezuela), descritto da Thibaud, le cospirazioni e le sommosse degli anni Novanta spinsero le élites creole a concedere ai liberi di colore la cittadinanza politica al momento dello scoppio delle rivoluzioni nelle colonie spagnole.

Il legame tra il tema dei liberi di colore e la cittadinanza si deve anche alla riformulazione del concetto di cittadinanza, soprattutto in epoca moderna. Da una definizione normativa, che rimandava a una relazione diretta tra un individuo e lo stato, si è progressivamente pas-sati a una definizione più ampia e flessibile di cittadinanza: le forme di appartenenza erano costruite nel tessuto sociale attraverso pratiche di integrazione e identificazione che rendevano certe persone riconoscibili da altre come membri di una comunità. L’inclusione e l’esclusione dalla comunità politica non erano quindi stabilite dall’alto, ma si costruiva-no e negoziavacostruiva-no attraverso le pratiche sociali10. In questa concezione

della cittadinanza, la dimensione volontaristica e il consenso degli altri assumono un’importanza fondamentale: una persona poteva diventare membro di una comunità politica se dimostrava l’intenzione di farne parte (attraverso la residenza, l’acquisto di una casa, il pagamento delle tasse, la partecipazione alle milizie locali, l’occupazione di una carica pubblica, la partecipazione a una confraternita) e se nessun altro

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ma-nifestava la propria opposizione. Jessica Pierre-Louis, nel suo saggio sulle strategie di sbiancamento di alcune famiglie di ascendenza afri-cana della Martinica, mostra chiaramente che la «bianchezza» era più una costruzione sociale e culturale che fisica, che rimandava appunto all’intenzione di far parte di una comunità e a concetti come l’onore, la reputazione, l’integrità.

L’analisi della dimensione sociale della cittadinanza richiede il pas-saggio da fonti quali i regolamenti e i codici delle varie colonie a fon-ti di fon-tipo giudiziario e, in parfon-ticolar modo, quelle notarili. Attraverso l’analisi di un registro di denunce e dichiarazioni che vanno dal 1778 al 1786 e riguardano un distretto meridionale dell’isola di Santo Do-mingo, Petit- Goâve, l’articolo di Dominique Rogers, Sguardi divergenti

sull’assimilazione dei liberi di colore, dimostra che, malgrado le leggi

discriminatorie della seconda metà del XVIII secolo che in teoria li escludevano da molti diritti e privilegi, avvicinandoli alla condizione di schiavi, i liberi di colore dei quartieri analizzati godevano ancora del di-ritto di ricorrere in giustizia, anche contro i bianchi, e potevano vedere i loro diritti riconosciuti dalle autorità giudiziarie. Si ritenevano inoltre superiori rispetto agli schiavi e molti di loro erano convinti, come i giudici locali e gli stessi bianchi, di godere di una pari dignità con que-sti ultimi. I conflitti sulle terre analizzati da Federica Morelli nel caso della regione mineraria del Pacifico (tra il sud della Colombia e il nord dell’Ecuador) dimostrano allo stesso modo che i liberi di colore non solo potevano ricorrere in giustizia ma che, in alcuni casi, riuscirono a impossessarsi e sottrarre le terre ai membri delle élites bianche della sierra. Il riconoscimento giuridico dei diritti sulla terra permise loro di essere riconosciuti come vecinos (residenti e membri della comunità) e accedere quindi alla cittadinanza.

La dimensione sociale della cittadinanza non implicava solo possi-bilità di integrazione al gruppo dei bianchi per i liberi di colore. Il pre-giudizio del colore, unito al carattere flessibile e corporativo della citta-dinanza, significava allo stesso modo essere esclusi da diritti e privilegi anche in caso di assenza di specifiche norme discriminatorie. Tuttavia, l’intervento della società nella definizione dei criteri di cittadinanza non si arresta con l’introduzione della modernità politica durante e dopo l’epoca rivoluzionaria. Nonostante la definizione di alcuni requisiti ge-nerali nei documenti costituzionali, il margine di manovra lasciato alle comunità locali nello stabilire i criteri di inclusione e esclusione degli individui fu ancora estremamente rilevante. Ciò fu il risultato non solo dell’assenza di meccanismi di controllo da parte degli stati sulle società, ma anche del perdurare di concezioni più tradizionali che mettevano l’accento sugli aspetti organici, corporativi e gerarchici della società.

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Il costituzionalismo liberale spagnolo e la sua definizione della cittadi-nanza, legata all’antica nozione iberica di vecindad, è emblematico del-la difficoltà di passare da un concezione organica a una individualista del corpo politico11. I regimi liberali ottocenteschi non devono infatti

esser considerati come gli artefici di un ordine completamente nuovo in opposizione al passato, ma piuttosto come uno strano amalgama di antico e di moderno, di tradizione e innovazione, in cui gli elementi ereditati dal passato convivevano e si articolavano con alcuni strumenti della modernità politica.

Il contributo di Clément Thibaud illustra chiaramente la compene-trazione tra la concezione sociale e organica della cittadinanza e quella politica legata al costituzionalismo moderno: mentre la seconda è legata alla dichiarazione del principio dell’eguaglianza giuridica, la prima è legata a un linguaggio tipico di antico regime, quello dei privilegi. L’ar-ruolamento dei liberi di colore nelle milizie, prima con il riformismo borbonico e in seguito ancor di più con lo scoppio delle guerre, implica contemporaneamente un’integrazione alla comunità di vecinos (alle mi-lizie si estendeva infatti il fuero militare) e un processo di razializzazione della società, in quanto i pardos (mulatti) e i morenos (neri) vengono in-tegrati in corpi separati dai bianchi. L’accesso ai privilegi, ossia la possi-bilità di non essere perseguibili dalla giustizia ordinaria e di essere esenti dal pagamento delle imposte, relativizzava le incapacità giuridiche dei liberi di colore – i quali non potevano accedere alle cariche pubbliche –, permettendo loro l’accesso alla cittadinanza. Il fuero militar continuò a sopravvivere anche dopo l’indipendenza nella maggior parte dei paesi ispanoamericani, almeno fino alla seconda metà del XIX secolo.

La concezione sociale e corporativa della cittadinanza, legata al go-dimento di certi privilegi, è evidente anche nei casi in cui i liberi di colore, oltre alla proprietà della terra rivendicano anche quella degli schiavi. Se nei linguaggi della modernità politica la libertà individuale è un diritto, in antico regime la posizione di un individuo nella società, e quindi anche il suo grado di libertà, era determinato dai privilegi. Se una persona poteva garantire o negare un privilegio a un’altra significava che quest’ultima si trovava in una condizione inferiore o di dipendenza. La schiavitù rappresentava quindi un elemento costitutivo della libertà: era la perfetta garanzia dell’esistenza di una società di uomini liberi, in quanto rendeva possibile l’autonomia sociale ed economica dei pro-prietari. Il passaggio da tale idea di libertà a quella di diritto inalienabile del genere umano, stabilito dalle dichiarazioni di indipendenza e dalle costituzioni ottocentesche, fu estremamente complesso e contradditto-rio, come dimostra la sopravvivenza della schiavitù, nella maggior parte dei paesi americani, almeno fino alla seconda metà del XIX secolo12.

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L’idea che una persona d’origine africana potesse godere della libertà iniziò ad apparire a molti bianchi una contraddizione inaccettabile tra la fine del Settecento e la definitiva abolizione della schiavitù. In molte società americane questo periodo coincise infatti con la promulgazione di una legislazione tesa a rendere più difficile la manomissione degli schiavi. Inoltre in alcuni casi, come in Brasile e nel sud degli Stati Uniti, i discendenti degli africani che non erano in grado di documentare il loro status di liberi erano spesso ridotti in schiavitù13. L’estrema

fluidi-tà dei confini tra schiavitù e liberfluidi-tà nel corso del XIX secolo è chiara-mente analizzata nel saggio di Hebe Mattos, The Madness of Justina

and Januário Mina. L’autrice ricostruisce alcuni percorsi di schiavi ed

ex schiavi nella regione di Paraiba, in Brasile, sottolineando come la pazzia attribuita ai loro comportamenti dalle autorità giudiziarie fosse il risultato del totale sradicamento cui erano sottoposti dai proprietari a causa del cambiamento della legislazione sulla schiavitù, ossia l’aboli-zione della tratta e la graduale emancipal’aboli-zione degli schiavi.

L’interpretazione più sinusoidale della cittadinanza non solo ha messo in crisi la visione tradizionale del concetto come un cammino universale verso un’evoluzione lineare, progressiva, univoca e unilate-rale, ma ha reso evidenti gli ampi margini di manovra di cui anche i liberi di colore potevano godere nelle società americane a cavallo delle rivoluzioni atlantiche. Nonostante le discriminazioni nei loro confronti, avevano la possibilità di accedere allo stesso status dei bianchi, ossia di avere accesso alle cariche pubbliche, di poter svolgere determinate professioni, di ereditare e trasmettere la proprietà, di poter ricorrere alla giustizia. A questi, come hanno sottolineato i recenti studi sulla rivoluzione haitiana, occorre aggiungere i diritti politici. Liberandosi dell’idea che la rivoluzione fosse il risultato della lotta degli schiavi afri-cani contro i proprietari bianchi, le nuove ricerche hanno infatti dimo-strato che i primi conflitti della parte francese di Santo Domingo non si devono tanto alla resistenza degli schiavi, ma alle crescenti discrimi-nazioni contro i liberi di colore e la loro aspirazione ai diritti politici. Da qui, come ci spiega John Garrigus nel suo saggio comparativo tra questa colonia e la Giamaica, la differenza del destino delle due colo-nie durante l’epoca rivoluzionaria. Mentre nel caso della prima si era assistito, nei decenni prima dello scoppio della rivoluzione in Francia, a una totale esclusione dei liberi di colore dalle cariche pubbliche, nel caso della colonia britannica, malgrado le restrizioni discriminatorie nei confronti dei liberi di colore, il sistema delle eccezioni aveva consentito ad alcuni mulatti ricchi di entrare nell’arena politica, evitando che si trasformassero, come nel caso dei francesi nativi di Santo Domingo, Julien Raimond e Vincent Ogé, in uomini politici influenti, capaci di

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convincere le élites metropolitane dell’ingiustizia del sistema razziale. Probabilmente il loro inserimento nel sistema politico avrebbe evitato lo scoppio della guerra civile nell’isola. Lo scoppio della Rivoluzione francese e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dettero loro non solo la possibilità di opporsi con le armi alle discriminazioni dei bianchi, ma anche di accedere all’uguaglianza politica. Se prima della rivoluzione eguaglianza razziale significava diritto a diventare medico o avvocato, dopo il 1789 comportava l’accesso al potere politico14.

Gli effetti della rivoluzione haitiana, come ha chiaramente dimo-strato la storiografia recente, giunsero immediatamente in tutta l’area atlantica, alimentando non solo le aspirazioni degli abolizionisti, ma anche quelle dei liberi di colore15. Il caso ispanoamericano è ancora una

volta esemplare da questo punto di vista, come ci spiega l’articolo di Clément Thibaud: le cospirazioni venezuelane e colombiane della fine degli anni Novanta del Settecento non sono tanto movimenti precurso-ri dell’indipendenza, ma congiure guidate da pardos alla precurso-ricerca dell’e-guaglianza giuridica e politica con i bianchi16. Grazie alla circolazione

degli ideali del repubblicanismo, della libertà e dell’uguaglianza, non solo i liberi di colore presero coscienza di poter aspirare agli stessi diritti dei bianchi, ma furono tra i difensori più convinti di questi stessi prin-cipi. Questo, insieme al timore di una guerra tra razze, contribuì al ri-conoscimento dell’eguaglianza politica durante la crisi della monarchia spagnola, come attestano le costituzioni del Venezuela e della Nuova Granada nel 1811 e nel 181217.

Le guerre, con la loro enfasi sull’immagine del cittadino-soldato, favorirono ancora di più l’integrazione dei liberi di colore alla cittadi-nanza, rendendo inoltre possibile, come nota l’articolo di Federica Mo-relli, la liberazione di numerosi schiavi18. Con l’emergere di una classe

politica e militare nera – che comprendeva generali, senatori e deputati – e l’accesso al voto di un ampio segmento della popolazione di colore, l’élite bianca iniziò a sentirsi minacciata. La paura portò progressiva-mente a mutare i termini della questione: i liberi di colore, servendosi di leggi e costituzioni, denunciavano le discriminazioni razziali alle quali erano sottoposti, mentre il tema dell’unità e della concordia era usato dai creoli per condannare le azioni dei pardos come attentato e minaccia al mito dell’armonia razziale19. Malgrado le opportunità di ascensione

create dall’epoca rivoluzionaria e dalle guerre, i liberi di colore furono progressivamente esclusi dalla scena politica nella maggior parte dei paesi dello spazio atlantico. Come illustra l’articolo di Hebe Mattos l’a-bolizione della tratta e poi della schiavitù non solo resero quest’ultima più dura, provocando un incremento nel commercio interno e quindi nell’instabilità delle loro vite (vedi il caso della schiava Justina), ma

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pro-vocarono una progressiva proletarizzazione e sradicamento dei liberi di colore (vedi il caso di Januário). Nonostante questi ultimi godessero formalmente dello status di cittadini, le condizioni di lavoro cui erano sottoposti rimandavano allo stigma del linguaggio razziale. Con l’avvi-cinarsi dell’abolizione della schiavitù, le politiche dei vari stati america-ni miravano infatti a preparare i liberi di colore a entrare nel mercato del lavoro come una sotto-classe di contadini e lavoratori, o in tempo di guerra di soldati, ai margini della vita politica e della cultura pubblica.

Nonostante gli arretramenti della seconda metà dell’Ottocento, questo fascicolo ha dimostrato che la cancellazione della razza fu una delle principali poste in gioco dell’epoca rivoluzionaria: gruppi a priori esclusi da determinati diritti si mobilitarono per cancellare la macchia imputata loro da una parte della società. Da questo punto di vista, l’a-nalisi di attori e spazi normalmente ritenuti periferici dalla storiografia permette una comprensione più globale e profonda della costruzione della cittadinanza tra epoca moderna e contemporanea.

FEDERICA MORELLI, CLÉMENT THIBAUD

Note al testo

1 Il numero monografico è il risultato del workshop Les libres de couleurs dans l’espace

atlantique, tenutosi all’Università di Nantes il 13 e 14 febbraio 2014, grazie al sostegno del

progetto STARACO (Statuts, race couleurs dans le monde Atlantique de l’antiquité à nos jours: www.staraco.org).

2 T. HERZOG, Defining Nations: Immigrants and Citizens in Early Modern Spain and Spanish

America, New Haven (Conn.) 2003, pp. 152-62.

3 Vedi ad esempio il classico studio di D. COHEN, J. GREENE (eds), Neither Slave nor Free:

The Freedman of African Descent in the Slave Societies of the New World, Baltimora 1972.

4 F. TANNENBAUM, Slave and Citizen: The Negro in the Americas, New York, 1946. 5 F. FERNANDES, A integração do negro na sociedade de classes, São Paulo 1965; E. VIOTTI DA COSTA, The Brazilian Empire: Myths and Histories, Chicago 1985; R. GRAHAM (ed.), The

Idea of Race in Latin America, 1870-1940, Austin 1990; W.R. WRIGHT, Café con Leche: Race,

Class, and National Image in Venezuela, Austin 1990; G.R. ANDREWS, Blacks & Whites in São

Paulo, Brazil, 1888-1988, Madison 1991; P. WADE, Blackness and Race Mixture: The Dynamics

of Racial Identity in Colombia, Baltimore 1993; G.R. ANDREWS, Afro-Latin America, 1800-2000, Oxford-New York 2004.

6 Vedi ad esempio, A. DELA FUENTE, A. GROSS, Comparative Studies of Law, Slavery, and

Race in the Americas, in «Annual Review of Law & Social Science», 6 (2010), pp. 469-85.

7 J. GARRIGUS, Before Haiti: Race and Citizenship in French Saint-Domingue, New York 2006; R.L. TURITS, Par-de-là des plantations: question raciale et identités collectives à Santo Domingo, in «Genèses», 66 (2007), pp. 51-68; A.J. GROSS, What Blood Won’t Tell: A History of Race on

Trial in America, Cambridge (Mass.) 2008.

8 K. GRINBERG, Freedom Suits and Civil Law in Brazil and the United States, in «Slavery & Abolition», 22/3 (2001), pp. 66-82; R.J. SCOTT, Degrees of Freedom: Louisiana and Cuba

(12)

after Slavery, Cambridge (Mass.) 2005; L.W. BERGAD, The Comparative History of Slavery in

Brazil, Cuba, and the United States, New York 2007; E.L. WONG, Neither Fugitive nor Free:

Atlantic Slavery, Freedom Suits, and the Legal Culture of Travel, New York 2009; A.J. GROSS,

Legal Transplants: Slavery and the Civil Law in Louisiana, in «USC Law Legal Studies», Paper

No. 09-16, 2009, URL: http://ssrn.com/abstract=1403422; D.W. GREENE, Determining the

(in)determinable: race in Brazil and the United States, in «Michigan Journal of Race and Law»,

14/2, (2009), pp. 143-95.

9 J. BURBANK, F. COOPER, Empires in World History. Power and Politics of Difference, Princeton 2010, pp. 7 e 219-50.

10 Vedi ad esempio HERZOG, Defining Nations cit.; A. GORDON, T. STACK, Citizenship

Beyond the State: Thinking with Early Modern Citizenship in the Contemporary World, in

«Citizenship Studies», 11/2 (2007), pp. 117-33; S. CERUTTI, Étrangers: Étude d’une condition

d’incertitude dans une société d’Ancien Régime, Paris 2012.

11 F.X. GUERRA, El ciudadano y su reino. Reflexiones sobre la génesis del ciudadano en

América latina, in H. SABATO (coord.), Ciudadanía política y formación de las naciones, Buenos Aires 1999, pp. 33-61.

12 E. FONER, The Story of American Freedom, New York 1998 (trad. it., La storia della

libertà americana, Roma 2000); R. BLACKBURN, The American Crucible: Slavery, Emancipation

and Human Rights, London 2011.

13 S. CHALHOUB, Illegal Enslavement and the Precariousness of Freedom in

Nineteenth-cen-tury Brazil, in J. GARRIGUS, C. MORRIS (eds), Assumed Identities: The Meaning of Race in the

Atlantic World, Arlington 2010, pp. 88-115. Vedi anche la celebre autobiografia di S. NORTHUP,

Twelve Years A Slave; Narrative of a Citizen of New-York, Solomon Northup, Kidnapped in Washington City in 1841, Rescued in 1853, From a Cotton Plantation Near the Red River, in Louisiana, New York 1853.

14 C.E. FLICK, The making of Haiti: the Saint Domingue revolution from below, Knoxville (TN) 1990; L. DUBOIS, A Colony of Citizens: Revolution and Slave Emancipation in the French

Caribbean, 1787-1804, Chapel Hill (NC) 2004; F. RÉGENT, Esclavage, métissage, liberté: la

révolution française en Guadeloupe, 1789-1802, Paris 2004; J.D. POPKIN, You Are All Free: The

Haitian Revolution and the Abolition of Slavery, Cambridge 2010.

15 D.P. GEGGUS (ed.), The Impact of the Haitian Revolution in the Atlantic World, Columbia 2001; ID., The Caribbean in the Age of Revolution, in D. ARMITAGE, S. SUBRAHMANYAM (eds),

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16 Vedi anche A.E. GÓMEZ, La Revolución de Caracas desde abajo, in «Nuevo Mundo Mundos

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