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Una storia d'acqua. Osservazioni sullo stile di 'A Snake of June'

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Academic year: 2021

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Una storia d’acqua.

Osservazioni sullo stile e A Snake of June

Dario Tomasi

Ciò che qui molto semplicemente ci si propone è tentare di definire, attraverso un film esemplare come A Snake of June, alcune caratteristiche dello stile, della messinscena e delle modalità di narrazione di Tsukamoto Shin’ya, tramite, in particolare, l’analisi dei movimenti di macchina a mano e dei raccordi sbagliati che conferiscono ai film del regista un andamento per così dire “amatoriale”. Si passerà poi a prendere in esame le diverse modalità di rappresentazione di uno degli elementi tematici chiave dell’opera di Tsukamoto, l’acqua, e dei modi in cui determinati criteri di organizzazione dello spazio contribuiscono alla definizione del sistema dei personaggi.

Le forme amatoriali: shaky camera e jump cut

Fra le opzioni stilistiche che meglio caratterizzano il cinema contemporaneo – che lo si voglia chiamare “cinema postmoderno” o “postcinema” poco importa – da quello del passato, sia nella sua dimensione classica, sia in quella della modernità, c’è certamente la diffusione dei movimenti di macchina, e dello sguardo dinamico sul mondo. È un dato di fatto che oggi la macchina da presa si muova molto di più di quanto non accadesse in passato, tanto che, come ha scritto David Bordwell: «Ai vecchi tempi – mi fece notare un agente di Hollywood – i registi muovevano gli attori. Oggi muovono la macchina da presa»1. L’avvento del digitale ha di fatto favorito un certo virtuosismo

della macchina da presa e l’avvento di travelling impossibili, perché irrealizzabili in modo analogico, che traducono una sorta di dominio sul mondo, nella forma di una vera e propria onnipotenza visiva che è di fatto un’onniveggenza. Già Laurent Jullier aveva indicato come una prerogativa del cinema postmoderno l’uso di travelling virtuosistici «che trasportano lo spettatore dalla sua poltrona al cuore dell’immaginario»2 e che

percorrono a velocità variabile, con scatti improvvisi dal lento al veloce, per non dire dal lentissimo al velocissimo, ampie porzioni di spazio, mutano frequentemente di direzione con variazioni inattese verso destra o sinistra, l’alto o il basso, attraversano l’intera scala dei piani, dal campo lunghissimo al particolare, e superano ogni sorta di ostacolo. Film di registi postmoderni per eccellenza, come Baz Lurhmann e Tim Burton, ce ne offrono diversi esempi come accade, per non citare che due titoli, in

Moulin Rouge e Sweeney Todd. A fianco di quest’uso spettacolare dei movimenti di

macchina, più consono alle grandi produzioni che ricorrono al digitale per la realizzazione di vere e proprie attrazioni visive, un’altra frequente occorrenza nell’ambito del cinema contemporaneo è quella dell’uso della macchina a mano, a spalla, o se vogliamo, come oggi si ama dire, della shaky camera. Affacciatasi nell’ambito del cinema di finzione negli anni della modernità, la macchina a mano che ha segnato «considerevolmente l’estetica del cinema d’autore alla fine degli anni Novanta»3 ha conquistato sempre più un peso e una diffusione sconosciuti in passato,

tanto da poter diventare un principio stilistico cui non sono più affidate solamente certe sequenze di un film, ma lo stesso film nella sua totalità, o quasi. Assieme a registi come

1 David Bordwell, The Way Hollywood Tells It. Story and Style in Modern Movies, University of

California press, Los Angeles 2006, p. 187

2 Laurent Jullier, Il cinema postomoderno, Kaplan, Torino 2006, pp. 70-5. 3 Ángel Quintana, Virtuel, Cahiers du cinéma, Paris 2008, p. 78.

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Lars Von Trier, i fratelli Dardenne, il Woody Allen degli anni Di Palma e, più recentemente e nell’ambito di un cinema apertamente spettacolare, il Paul Greengrass di

Bourne Supremacy e Bourne Ultimatum, Tsukamoto Shin’ya, da Tetsuo a Kotoko, è

fuor da ogni dubbio uno degli autori più rappresentativi di questa tendenza.

Gli effetti della shaky camera, nel loro andamento irregolare, sporco, sconnesso e a sbalzi, possono, a un primo livello, essere concettualizzati attraverso l’opposizione alla resa visiva sia delle inquadrature statiche (assenza di movimento filmico contro la sua presenza), sia dell’inquadrature realizzate attraverso i più convenzionali movimenti di macchina, come le panoramiche, le carrellate o i dolly (movimento fluido contro movimento sconnesso). Ma, su un secondo piano, gli stessi movimenti di macchina a mano possono essere distinti fra loro in base alla intensità che li caratterizza. È possibile ipotizzare una linea retta che rappresenti i possibili effetti della shaky camera collocando ad un estremo quei casi in cui il movimento è morbido e appena accennato, e all’altro quelli in cui esso si fa particolarmente evidente e gli sbalzi prodotti all’interno del campo visivo rasentano, per lo spettatore, un vero e proprio fastidio percettivo. In un film pressoché intermante girato con la macchina a mano, a contare è soprattutto questo secondo piano: la funzione significante della shaky camera si misura in base ai suoi diversi gradi di intensità, più essa muove, in tutta la sua irregolarità e “fastidiosità”, più la sua intenzionalità espressiva si fa decisiva.

Tale principio è evidente in A Snake of June, proprio a partire dall’onnipresenza in esso della macchina a mano. Ora nei film di Tsukamoto, in questo come negli altri, la

shaky camera si inscrive perfettamente in quella volontà di tradurre visivamente le

ansie, le incertezze e le contraddizioni di soggetti deboli il cui rapporto col mondo e con se stessi è segnato da evidenti forme di insicurezza, dall’incapacità di riconoscere e soddisfare i propri desideri, dal timore che possa affiorare ciò che una certa morale di fatto reprime. La staticità della macchina da presa o la fluidità dei suoi movimenti possono bene tradurre una certa sicurezza e forza del soggetto nel rapporto con ciò che lo circonda, mentre gli sbalzi della macchina a mano sono più consoni nel rappresentare, al contrario, forme di ansia e fobia. Ed è proprio quando queste ansie e fobie prendono il sopravvento che l’uso della shaky camera diventa, in A Snake of June, particolarmente accentuato. Ne è un evidente esempio la scena in cui per la prima volta la donna è costretta – ma si tratta di una “costrizione” per certi aspetti “volontaria”, che corrisponde, almeno in una certa misura, agli intimi desideri della protagonista – ad indossare una vertiginosa minigonna e, senza mutandine, ad attraversare un affollato grande magazzino, mentre diversi scandalizzati sguardi, soprattutto femminili, la colpiscono quasi come fossero dei proiettili (“lo sguardo che uccide”). È qui – come del resto accade nella scena immediatamente successiva in cui Rinko cammina di nuovo in mezzo alla folla dopo essersi infilata nella propria vagina un vibratore – che, sul piano stilistico, si registra un evidente scarto rispetto al resto film, o almeno ai suoi momenti per così dire “più ordinari”, e i movimenti della macchina da presa a mano si fanno ancora più sconnessi, evidenti, sporchi, esplicitamente amatoriali, come accade ad esempio per i bruschi passaggi dal volto e il corpo di Rinko agli sguardi di coloro che la osservano, e viceversa.

Quando poi, secondo un meccanismo di ripetizione caro a A Snake of June, la situazione è riproposta e Rinko percorre una seconda volta il salone dello stesso grande magazzino, con l’identico succinto abbigliamento della prima, di nuovo la macchina da presa sembra impazzire e i suoi movimenti farsi ancora più sconnessi. Questa volta però la shaky camera non ha più la funzione di rappresentare l’ansia di Rinko, che al contrario ha acquistato consapevolezza della propria sessualità e si muove con sicurezza e addirittura in modo sfrontato nello spazio pubblico che sta attraversando, bensì quella

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di colui che la sta spiando, il marito Shigehiko sconvolto dalla scoperta di una dimensione a lui sconosciuta della propria compagna di vita.

Basterebbe confrontare queste due scene a quella successiva in cui – dopo che “chiarezza è stata fatta” – la coppia si ritrova a casa insieme a pranzare, per testimoniare l’uso consapevole che dei movimenti di macchina a mano Tsukamoto fa in relazione ai sentimenti e agli stati d’animo dei suoi due protagonisti. La scena fa da prologo alla «chiusa quasi anestetizzante del film» e alla «ferrea istituzione della coppia-monogamica/famiglia»4. Una musica soave e un effetto di slow motion accompagna

l’incedere della donna, con i piatti in mano, verso il tavolo dove l’aspetta seduto il marito. Il momento del pranzo è ripreso soprattutto attraverso dei movimenti di macchina quasi semicircolari che fanno perno sulla nuca della donna spostandosi alla sua destra e alla sua sinistra – un po’ come nella sequenza del caffé sugli Champs Élysées del godardiano Questa è la mia vita – con un leggero movimento ondulatorio, quasi aggraziato e per nulla “fastidioso”, che è tutt’uno col sereno equilibrio che – sebbene in modo molto burrascoso – la coppia ha faticosamente raggiunto. L’uso che il regista fa qui della shaky camera non poterebbe essere più diverso da quello delle sequenze prima citate.

Un’altra importante caratteristica del cinema contemporaneo, rispetto alle stagioni classica e moderna, riguarda l’uso del montaggio che se da una parte si fa sempre più veloce – con una conseguente riduzione della durata media dei piani5 –, dall'altra tende a

estendere, coinvolgendo anche film dal carattere eminentemente spettacolare e di consumo e non più solo d’”essai” come accadeva negli anni Sessanta, l’uso di forme “sgrammaticate” che, come i jump cut, non vogliono tener conto degli ordinari rapporti spazio e temporali che, sulla base dei principi della leggibilità e della chiarezza espositiva, il cinema classico aveva istituito. Anche in questo caso, come in quello dei movimenti di macchina a mano, siamo di fronte ad una rappresentazione che tende a farsi volutamente più “confusa” e che in questo modo si lega a personaggi anch’essi più confusi – incerti, esitanti – di quanto non lo fossero in passato. Già esemplare a questo riguardo può essere la scena che introduce Rinko al lavoro nel call center del suo istituto d’igiene mentale. Si tratta di una scena di conversazione telefonica, che omette dal campo visivo l’interlocutore della donna, della durata di una ventina di secondi, che avrebbe potuto benissimo essere girata in una sola inquadratura, o, al massimo, in due o tre diversi piani della stessa protagonista. Tsukamoto, invece, oltre a ricorrere alla sua sempre presente macchina a mano, la spezza in undici diverse inquadrature, che scompongono e frammentano il volto e il corpo di Rinko, mostrandocene diversi particolari: gli occhi, la bocca, l’orecchio sinistro, la mano che tiene una penna con cui cancella qualcosa e batte, nella chiusa, su un foglio di carta. Di là da due importanti accessori che questo montaggio mette in rilievo (gli occhiali che rappresentano uno degli elementi che sul piano iconico definiscono la Rinko “prima della cura”, evidenziandone una certa apparente freddezza e frigidità, e l’auricolare del telefono da tavolo che anticipa quello del cellulare attraverso cui Iguchi le impartirà i suoi “ordini”), il breve segmento ha nel suo carattere sconnesso, quanto lo sono i movimenti a mano, la funzione di tradurre in termini visivi le stesse “sconnessioni” della protagonista, prima ancora che queste appaiono sul piano della diegesi filmica e si facciano evidenti allo

4 Massimiliano Spanu, Un incipit: A Snake of June, ovvero del desiderio, o del cinema, in Andrea Fontana, Davide Tarò, Fabio Zanello (a cura di), Il cinema di Shin’ya Tsukamoto, Edizioni Il Foglio, Piombino 2010, pp. 115-6.

5 Si leggano a questo proposito le osservazioni e i dati forniti da David Bordwell in The Way Hollywood

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spettatore. A rendere ancora più confuso e disgiunto il tutto c’è l’uso di espliciti jump

cut6, come quello che passa dall’immagine degli occhiali e dell’orecchio della donna, a

quella dei suoi soli occhiali, mentre si massaggia con le dita gli occhi [Figg. 1-2].

[Fig.1] [Fig. 2]

Questo jump cut ignora le convenzioni della “grammatica filmica” – o almeno di quella che era la “grammatica filmica” – sia sul piano dello spazio, la variazione del punto di vista delle due inquadrature è così minima da non giustificare uno stacco, sia su quello del tempo, l’ellissi presente fra i due piani non è celata da un’inquadratura di transizione.

L’uso del jump cut, che insieme a quello della shaky camera contribuisce a una rappresentazione sconnessa del mondo in perfetta sintonia con i personaggi che lo abitano, è anch’esso un principio che attraversa il film nella sua quasi totalità, coinvolge tutti e tre i protagonisti della storia, e si fa spesso più evidente nei momenti di maggiore intensità drammatica: citiamo, a mo’ d’esempio, quello in cui Rinko è per l’ultima volta nel film stimolata sessualmente dal vibratore, quello dove Shigehiko litiga con la moglie nel bagno di casa, e quello in cui Iguchi è colto da violenti spasmi allo stomaco.

Ma oltre a queste occorrenze in cui il jump cut si muove su un piano intrasequenziale, ve ne sono molte altre dal carattere intersequenziale in cui all’immagine di un personaggio in un luogo ne segue immediatamente un’altra, divisa da un’ellissi dalla precedente, dello stesso personaggio in un luogo diverso (come accade, ad esempio, nella transizione dalla scena in cui Rinko si trova con la minigonna nella stazione della metropolitana a quella in cui è sulle scale mobili del grande magazzino, Figg. 3-4).

[Fig. 3] [Fig. 4]

Che si diano sul piano temporale o su quello spaziale – o più frequentemente su entrambi –, che riguardino l’uno, l’altro o l’altro ancora dei protagonisti della storia, che si pongano sul piano intrasequenziale o su quello intersequenziale, i jump cut sono uno degli aspetti costitutivi dello stile di A Snake of June (come di gran parte della

6 Sul jump-cut, in particolare sul suo uso nel cinema della Novelle Vague, si legga Ken Dancyger, The

Technique of Film and Video Editing. History, Theory and Practice, Focal press, New York 2007, pp.

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filmografia del regista) e giocano un ruolo essenziale nella definizione di un ambito formale atto a trasmettere la condizione di precarietà e incertezza vissuta dai protagonisti del film.

L’instabilità che l’uso costante della macchina a mano e dei jump cut produce sul piano visivo del film, è a sua volta rafforzata dall’insistito ricorso ad altri procedimenti stilistici, che sembrano voler accentuare il carattere volutamente amatoriale delle riprese. Fra questi possiamo citare il ricorso a brevi carrellate ottiche che tendono ad avvicinarsi bruscamente ai volti dei personaggi soprattutto in momenti di particolare disagio, come accade poco prima che Rinko, a causa del dolore provocatole dal vibratore, svenga davanti al verduriere, o quando Shigehiko è selvaggiamente picchiato da Iguchi. A volte creati da queste stesse carrellate ottiche, ci sono anche numerosi effetti di fuori fuoco, che si verificano, ad esempio, durante la telefonata di Iguchi a Rinko nel call center – quando questi dice alla donna che grazie a lei ha trovato il coraggio di vivere –, o nella già citata scena in cui la protagonista attraversa in minigonna il grande magazzino. In altre occasioni l’uso dello sfocato riguarda oggetti anziché volti, come per la pala del ventilatore del bagno in cui Rinko, dopo aver trovato il pacco dei negativi, si eccita col vibratore.

Il carattere sporco di questi effetti è contraddetto, sul piano visivo, ma non su quello della significazione, da altri procedimenti per certi aspetti più raffinati, come quelli concernenti l’uso degli obiettivi e della luce. In alcune occasioni, ad esempio, quando Rinko riceve le telefonate di Iguchi, prima quella in casa in cui lui la sprona a fare quello che davvero vorrebbe fare, e poi quella nel bagno della metropolitana, dove la invita a sfilarsi le mutandine, Tsukamoto gira i primi piani della donna con un obiettivo grandangolare che determina degli evidenti effetti di deformazione visiva, atti ad esprimere il violento turbamento di Rinko [Figg. 5-6].

[Fig. 5] [Fig. 6]

Per quel che riguarda, invece, l’uso della luce e delle ombre, va notato come esso si muove certamente nell’ambito della creazione di effetti di contrasto in prevalenza dinamici, al fine di rendere le immagini tese e nervose quanto lo sono i sentimenti dei personaggi, e di evocare attraverso il gioco dei chiari e degli scuri le loro contraddizioni esistenziali. Principalmente, quest’effetto è costruito attraverso le ombre dei rivoli di pioggia che scendono sulle finestre e si proiettano all’interno di una stanza, come accade, fra le molteplici occorrenze, nella scena della visita di Rinko alla suocera in ospedale [Fig. 7], in quella in cui la donna telefona a Iguchi dopo aver scoperto di essere affetta da un tumore, e in quella in cui Shigehiko è picchiato dallo steso Iguchi. In tutte queste situazioni, come in altre che non citiamo, un’area più illuminata si trova nella parte alta dell’inquadratura, sopra le teste dei personaggi, e in essa si vedono scendere le ombre dei rivoli d’acqua. È sempre la pioggia a farla da protagonista in altre immagini in cui ad essere percorso da ombre dinamiche non è più un elemento della scenografia ma il volto stesso dei personaggi (come accade per Shigehiko dopo la morte della

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madre, Fig. 8), a ribadire così ancora di più lo stretto legame fra luci e agenti atmosferici (la “natura non indifferente”), da una parte, e i sentimenti dei personaggi dall’altra.

[Fig. 7] [Fig. 8]

Altri dispositivi, poi, servano a creare effetti dinamici di luci e ombre, come la pala in movimento del ventilatore del bagno pubblico, che cosi in modo intermittente lascia passare la luce, o il lampeggiante della polizia, che si riflette all’interno della stanza dove marito e moglie fanno, infine, l’amore.

Una storia d’acqua

Ambientato nella stagione delle piogge7, A Snake of June è un film in cui piove a dirotto

dall’inizio alla fine. La pioggia è una sostanza fluida, in grado di penetrare qualsiasi cosa. La pioggia è acqua e quindi portatrice di vita. Nell’economia semantica del cinema di Tsukamoto (e in particolare di A Snake of June) l’acqua è ciò che si oppone a tutto ciò che è rigido, duro e difficilmente penetrabile, come il cemento delle metropoli, le convenzioni sociali, gli imperativi della morale. Associata al risveglio del desiderio e della sessualità (per dirla alla Truffaut: «L’amore è il contatto di due epidermidi e lo scambio di due liquidi»), la pioggia è significata nel film in più modi.

Innanzitutto c’è la sua rappresentazione letterale con le immagini che la mostrano direttamente come unica loro protagonista (sia nella forma del piano ravvicinato, sia in quella del campo lungo, come accade per le ripetute inquadrature dello scroscio d’acqua che si in infila nel tombino – in una bella immagine di penetrante fluidità – o in quelle dello skyline di Shinjuku). Poi ci sono le immagini “condivise”, dove la pioggia è innanzitutto quella che colpisce qualcuno che vi si trova al di sotto (come nel climax in cui Rinko si spoglia in un cortile davanti al marito, che eccitato si masturba – finalmente verrebbe da dire –, e a Iguchi, che la fotografa ripetutamente). La pioggia “entra” nelle immagini del film anche sul piano sonoro, non solo negli esterni in cui è in campo, ma anche in numerosi interni in cui il suo scrosciare off è accentuato da ben calcolate scelte di missaggio8 (per non dire di quando essa penetra all’interno del bagno della stazione).

La pioggia non manca neanche di essere oggetto di sguardi insistiti, come quelli che vi getta ripetutamente Rinko dalla sua vasca da bagno attraverso la finestra ad oblò che si trova sopra la sua testa, o quelli di Shigehiko oltre le vetrine di uno snack bar. Sono in questi casi i personaggi col loro agire – in particolare il loro guardare – a inscrivere con più forza la pioggia nel tessuto visivo del film e ad essere in qualche modo più coinvolti da essa (anche quando sono al riparo).

7 Sull’importanza della pioggia nel film, leggi le dichiarazioni di Tsukamoto in Tom Mes, Iron Man. The

Cinema of Shinya Tsukamoto, FAB press, Goldaming 2006, pp. 167-71.

8 Importanti osservazioni tecniche a questo proposito si trovano negli extra dell’edizione Tartan del Dvd del film.

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In altre occasioni la pioggia è presente nel film anche se non mostrata direttamente, né fatta sentire. Ad essa, infatti, si allude nelle già citate ombre di rivoli che attraversano parte della scenografia o si disegnano sul volto dei personaggi, ma anche grazie all’insistita presenza dell’ombrello che la donna e il marito portano con loro in diversi interni pubblici (grandi magazzini, stazioni della metropolitana, snack bar). Pioggia e acqua sono anche significate nelle diverse scene in cui Rinko fa la doccia o è immersa nella vasca da bagno e, nella loro esplicita valenza sessuale, dalle gocce di sudore che imperlano il suo volto e altre parti del corpo.

Nel film, tuttavia, l’acqua può anche assumere un significato di minaccia, ma solo su un piano soggettivo. È questo quel che accade nelle allucinazioni di Shigehiko quando prima vede “annegare” una coppia che qualcuno vuole costringere fare l’amore – che è in certa misura quel che sta accadendo a lui e a Rinko – e poi, nel finale, se stesso sul punto di affogare. Ma si tratta, come detto, di situazioni puramente immaginate, che rappresentano la soggettività di Shigehiko, la sua paura nei confronti del desiderio, alla luce della quale l’acqua, come portatrice di sessualità, non può che essere qualcosa che suscita un sentimento di paura, se non di vero e proprio terrore.

Oltre la soglia: gli spazi di Rinko e Shigehiko

Sul piano del sistema dei personaggi, A Snake of June dedica una particolare attenzione al rapporto tra Rinko e il marito Shigehiko, alla sterilità della loro relazione, alla mancanza di intimità che li caratterizza9. Tom Mes articola su più livelli il modo in cui

il film rappresenta la distanza fra i due: dalla differenza fisica e d’età al loro abbigliamento (in particolare, come già abbiamo notato, quello di Rinko), dalla maniera di conversare, troppo formale, al modo in cui essi sono isolati all’interno delle inquadrature che li mostrano e degli spazi che dovrebbero condividere10. Proprio

quest’ultimo aspetto, dove la prossemica si intreccia alle modalità di rappresentazione e di messinscena, merita di essere approfondito. A Snake of June è, pur con tutte le sue peculiarità, una sorta di versione drammatica della classica commedia hollywoodiana di rimatrimonio11, che si fonda sul passaggio da una situazione di disgiunzione ad una di

congiunzione (che l’atto sessuale rende davvero la più congiunta possibile). Ora ciò che ci interessa notare è come per buona parte del film, prima cioè che i due si “liberino” sessualmente, Tsukamoto insiste nello spazializzare le deficienze del loro rapporto, giocando su esplicite contrapposizioni di tipo prossemico. Prendiamo in esame le prime quattro scene del film che li vedono insieme. Nella prima la donna rientra in casa e trova inaspettatamente il marito impegnato a detergere il lavandino del bagno. Rinko si scusa per aver comprato da mangiare solo per sé, non sapendo che lui sarebbe tornato prima del previsto (già un piccolo evento che per quanto giustificato è perlomeno spia di un certo malessere). Prima di prendere in esame la dislocazione spaziale dei due personaggi, va notato come la scena si apre con una delle immagini ricorrenti del film, quella di uno scroscio piovano che penetra all’interno di un tombino [Fig. 9], inquadratura a cui segue quella, altrettanto ripetuta, di un dettaglio del foro di scolo del lavandino che l’uomo sta nettando [Fig. 10].

9 Un dialogo fra Iguchi e Rinko rivelerà la dimensione in qualche modo filiale del rapporto di questa col marito, che la donna ha scelto proprio per la sua distanza dal padre ubriacone e donnaiolo, come se Shigehiko, appunto, fosse un sostituto del genitore che aveva desiderato avere e non aveva avuto. 10 Tom Mes, Iron Man, cit., 177

11 Si veda a questo proposito, Stanley Cavell, Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del

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[Fig. 9] [Fig. 10]

Se associamo queste due immagini al rientro della donna, la loro implicazione semantica e di anticipazione narrativa è abbastanza evidente. Per quanto non ancora “liberata”, Rinko si accinge ad essere quel “fiume in piena” che penetrando negli spazi domestici – dal tombino al lavabo – travolgerà il marito e libererà la sessualità di entrambi12. Ma ciò che adesso è più pertinente notare è come il dialogo fra i due

personaggi – e il loro primo incontro nella diegesi filmica – avvenga in due spazi separati, il living per la donna [Fig. 11], il bagno per l’uomo [Fig. 12], senza che mai uno dei due invada quello dell’altro.

[Fig. 11] [Fig. 12]

Nella seconda scena Rinko sfoglia un libro, seduta a un tavolo, mentre il marito lavora al computer. Di nuovo si registra un breve dialogo fra i due. Lei dice che vorrebbe un cane, «uno grosso», poi ripiega su un piccolo coniglio, che il marito però le fa notare sarebbe destinato a diventare anche lui «grosso»13. «Lo sai che crescono»

replica lei con un sorriso, ribadendo così la distanza fra chi accetta la natura in tutte le sue implicazioni (alle spalle della donna campeggia su un camino la scritta «1983 selfonscious nature») e chi invece in qualche modo la rifiuta. La conversazione si chiude col rimprovero dell’uomo che invita la donna a non lasciare sparsi per casa i suoi libri (esplicitando così nella forma della contrapposizione fra ordine e disordine la distanza che separa i due, nonché l’atteggiamento più paterno che maritale dell’uomo). Come nella precedente scena anche qui i due occupano due spazi separati, lei è nel living, e lui nello studio, e quando sono mostrati in uno stesso piano, la profondità di campo, ma non di fuoco, sembra voler marcare ciò che li separa e allontana [Fig. 13].

Nella terza scena Rinko è a letto, e, nel dormiveglia stende il suo braccio là dove dovrebbe trovarsi Shigehiko, che invece non c’è. La donna allora si alza, va in un’altra

12 L’associazione fra Rinko e l’“acqua che travolge” è rafforzata poi dal fatto che la prima inquadratura della scena immediatamente successiva a questa ce la mostra nuda di spalle sotto la doccia.

13 Quella del «grosso» è una vera e propria ossessione del film: più «grossa» – è detto nella sua prima scena – dovrebbe essere la macchina fotografica con cui scattare immagini erotiche, e il modello più «grosso» di vibratore è – come fa notare con un sorriso il venditore e rimarca poco dopo lo stesso Iguchi – quello acquistato nel pornoshop da Rinko.

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camera, e vede il marito dormire steso su una chaise-longue. Qui lo spazio è sì condiviso, ma si tratta di una condivisione che rafforza una distanza (marito e moglie si trovano là dove non “dovrebbero” essere), e, inoltre, il fatto che questi stia dormendo rende di fatto impossibile ogni comunicazione (all’opposizione di luoghi si sostituisce quella fra l’essere e il non-essere coscienti). Il mattino successivo, la donna, in cucina, passa per un attimo a fianco dell’uomo, sporgendogli il giornale, ma poi subito se ne allontana per andare alla scrivania e sfogliare la posta che contiene la prima delle missive anonime di Iguchi. È ancora qui, come accadeva nella seconda scena, la profondità di campo a misurare lo spazio che separa i due [Fig. 14].

[Fig. 13] [Fig. 14]

Il lavoro sulla prossemica nel definire il rapporto fra Rinko e Shigehiko, almeno nella sua fase di disgiunzione, non termina certamente con queste iniziali scene, ma prosegue ancora a lungo. Un altro dispositivo messo in atto da Tsukamoto è quello, ad esempio, di ricorrere ad una sorta di “effetto soglia”, come di uno spazio che definisce un al di qua e un al di là, che i due personaggi rispettivamente occupano, in modo da fare percepire ciò che li separa. Ne abbiamo due esempi sia in un’altra scena che si svolge ancora di mattino, quando il marito saluta la moglie prima di andare al lavoro [Fig. 15], sia nel secondo rientro di Rinko, ancora preceduto dal gioco dello scroscio di pioggia che fluisce nel tombino per “trasformarsi” nel foro di scolo dell’acqua, in cui la donna parla all’uomo, non osando, di nuovo, oltrepassare la porta [Fig. 16].

[Fig. 15] [Fig. 16]

Concludiamo le nostre considerazioni sul film e sullo stile di Tsukamoto, con la terza scena in cui Rinko sorprende Shigehiko pulire compulsivamente il bagno. Questa volta la donna si decide al varco della fatidica soglia per ottemperare lei a una funzione che sembra avvertire più sua che del marito. Ma l’invasione di campo genera quasi uno scontro fisico fra i due, che Tsukamoto traduce visivamente con una serie particolarmente violenta di jump cut, come a voler evidenziare l’intensificarsi di un conflitto, giunto ormai a un livello in cui non può che degenerare, se non trova il modo, come troverà, di trasformarsi nel suo contrario.

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