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Continuità nella trasmissione di spazi culturali: il bene comune nelle pratiche di allevamento tradizionale delle Regole di Spinale e Manez

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Academic year: 2021

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Continuità nella trasmissione di spazi culturali alpini: il bene comune nelle pratiche di allevamento tradizionale delle Regole di Spinale e Manez

Beatrice Marelli, Martina Tarantola, Achille Schiavone Dipartimento di Scienze Veterinarie, Università degli Studi di Torino

Le pratiche di allevamento tradizionale oggi esistenti nei territori alpini rappresentano una chiave di lettura di rara sintesi del lascito culturale di una ruralità condivisa, tessuto sociale attorno al quale sono sorti, per secoli, paradigmi di relazione in seno alle comunità locali. Rivolte alla sussistenza, le pratiche di allevamento hanno coordinato la gestione del pascolo con i ritmi della stagionalità delle comunità locali, fornendo solide basi e incentivi per la costituzione di veri e propri assetti istituzionali. Tra questi, unica è la fattispecie della comunità delle Regole di Spinale e Manez, antico insieme di norme vocate al delicato coordinamento della gestione sociale ed ecologica dei territori situati attorno alle valli Giudicarie, in Trentino. L’obiettivo di questo studio è ritracciare una continuità tra le antiche regole e le pratiche correnti d’allevamento di stampo tradizionale, per evidenziare un parallelo mantenimento a favore di una continuità culturale, custodia dinamica di delicati equilibri comunitari, così come proposto da Ostrom nel paradigmatico riferimento al concetto di “bene comune” nella governance del territorio (Ostrom, 1990). Gli atteggiamenti e le scelte condotti dagli attori sociali contemporanei oggetto d’investigazione, in prevalenza allevatori, sono stati rilevati con l’ausilio di tecniche qualitative, in particolare interviste con domande aperte o semi-strutturate, per lasciare emergere tendenze specifiche e preferenze individuali. Inoltre, una massiccia osservazione non partecipante ha preceduto l’intervento in campo, con l’obiettivo di ricostruire il contesto rurale di appartenenza e l’esclusione di alcune variabili dall’analisi (l’andamento demografico e l’invecchiamento della popolazione, la tendenza dei flussi migratori). Per la valutazione storica, è stata condotta una ricerca archivistica mirante all’individuazione delle antiche pratiche di allevamento proposte dalla regola. La fase preliminare del lavoro in campo offre degli elementi che incoraggiano la possibilità dell’esistenza di un effettivo legame di mutuo rinforzo tra spazi culturali e relazionali, da un lato, e il mantenimento di pratiche d’allevamento tradizionale dall’altro, preferite al richiamo meccanicistico della modernità poiché conservative di un sentiero di relazione conosciuto.

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Introduzione

Poiché le comunità alpine costitutivamente affondano le proprie radici in una pervasiva condivisione di risorse, siano esse naturali o prodotte dall’uomo, lo sguardo della sociologia può essere utile strumento interpretativo dell’urgenza di coordinamento insita in un tale sistema di relazioni complesse. Accade spesso, infatti, che le azioni dei singoli siano compiute all’interno di un ambiente fisico e sociale culturalmente definito, socialmente orientato, e non possano essere considerate indipendenti, poiché continuamente mediate dall’interazione con scelte altrui. L’ambiente dominante delle relazioni comunitarie può essere così definito di interdipendenza, in quanto scelte e benefici di ciascuno dipendono dalle azioni compiute dagli altri attori che si vengano a trovare nel medesimo contesto.

D’altro canto, anche lo studio della gestione delle risorse naturali in uso da parte di una comunità, oltre che impellente esigenza per la sopravvivenza, fornisce importanti spunti per una riflessione teorica. Le risorse ambientali si pongono, infatti, nel campo d’analisi dei problemi di azione collettiva, o dilemmi sociali. I dilemmi di azione collettiva sono situazioni in cui gli attori sociali risultano coinvolti in contesti di interdipendenza nei quali le scelte rivolte alla massimizzazione degli interessi individuali a breve termine conducono al conseguimento di benefici complessivi inferiori a quelli potenzialmente raggiungibili (Ostrom, 1990).

A tale riguardo, Olson (1965) ha ribadito la tensione tra razionalità individuale e collettiva e il rischio di un fallimento nella gestione dei beni affidati alla comunità: solo la presenza di un’organizzazione non basata sulla contribuzione volontaria dei propri membri, come lo stato, può essere in grado di raggiungere l’obiettivo della gestione sostenibile del bene oggetto di contesa. L’autore sviluppa la propria teoria focalizzando l’attenzione sui beni pubblici. Vicine alla prospettiva olsoniana sono le considerazioni, di poco successive, elaborate da Hardin (1968), che sposterà il focus sulle risorse comuni. Secondo l’autore, il carattere distintivo di queste ultime sta nella sottraibilità del loro consumo: a differenza dei beni pubblici, caratterizzati da accesso e godimento illimitato e non rivale, in questo caso ciò che viene utilizzato da un individuo non è più disponibile per i restanti membri della comunità. Come coniugare interessi individuali ed esigenze collettive senza ledere gli uni o riconsiderare e mortificare le altre? Hardin ritiene inevitabile che una risorsa, lasciata in libera e comune gestione ad una comunità di utilizzatori, venga distrutta dal prevalere degli interessi individuali sull’interesse collettivo. Per questo esito, considerato una “tragedia inevitabile”, non esisterebbe alcuna soluzione, se non l’intervento di un’autorità esterna che regoli le azioni degli utilizzatori costringendoli a un comportamento responsabile. Studi successivi hanno invece dimostrato come gli attori sociali siano in grado, in particolari condizioni, di elaborare autonomamente complesse istituzioni per la gestione delle proprie risorse (Ostrom,

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1990). Agli inizi degli anni ’90 nasce così la teoria delle risorse comuni, che, forte di una diffusa evidenza empirica, interpreta e descrive queste complesse dinamiche, sostenendo la possibilità e l’auspicabilità della gestione comunitaria quale soluzione all’apparente insolubile dilemma dell’azione collettiva.

Le risorse comuni (o commons) vengono definite come beni naturali o artificiali il cui godimento è in capo ad un gruppo di potenziali beneficiari stretti in un sistema che difficilmente permetterà loro mutui benefici che non siano rivali, ma che al contempo limita reciproche esclusioni a causa della natura fisica della risorsa in uso. Secondo l’apparato della teoria dei commons, tanto la gestione autoritaria e centralizzata proposta da Hardin (1968), quanto la privatizzazione delle risorse comuni suggerita dall’economia neoclassica, non possono e non devono essere considerate inevitabili soluzioni, ma semplici opzioni. Ostrom ha voluto dimostrare come gli attori reali non siano irrimediabilmente condannati dai problemi posti dall’azione collettiva, poiché un’importante evidenza empirica mostra come singole comunità tradizionali siano riuscite ad evitare i conflitti e a raggiungere accordi sull’utilizzo delle risorse mediante la costruzione di adeguati assetti istituzionali. L’autrice sottolinea come la debolezza del modello teorico di Hardin risieda nel non tener conto del fatto che gli attori possono effettivamente impegnarsi a seguire una strategia cooperativa, e soprattutto rendere credibile il proprio impegno attraverso un’auto limitazione delle istanze individuali. I diversi casi presentati dal libro introduttivo della teoria (“Governing the commons”, Ostrom 1990), differenziati per tipo di risorsa, grado di sviluppo economico delle aree di appartenenza e modalità di sfruttamento del bene, dimostrano questa propensione. Gli utilizzatori, nel momento in cui esista un’istituzione deputata alla gestione del bene, non sembrano più costretti a giocare un dilemma del prigioniero l’uno contro l’altro, ma, grazie alla possibilità di accordarsi su livelli sostenibili di sfruttamento, affrontano un problema di diversa natura: quello della gestione di un bene pubblico di secondo livello, l’istituzione. Un’analisi dettagliata della dinamica istituzionale è stata condotta dallo storico dell'economia e premio Nobel Douglass North (1990), che ha sottolineato come il nodo centrale di questi studi risieda nell’importanza attribuita al problema della cooperazione, intesa quale concorso di opere ed azioni che consente ai sistemi economici di impadronirsi dei vantaggi degli scambi. Secondo North, le istituzioni sono un insieme di regole formali ed informali che assicurano stabilità e prevedibilità al comportamento economico e sociale (North, 1990). North sottolinea come il sistema regolatore della vita quotidiana sia in gran parte costituito da codici morali, norme di comportamento e convenzioni derivanti dall’informazione diffusa nella società ed ereditati dal passato. Sorti allo scopo di coordinare il continuo ripetersi dei rapporti sociali nel tempo, essi consistono nei presupposti valoriali da cui si diramano i vincoli formali, e comprendono norme di comportamento sanzionate, a livello

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comunitario o internamente, dai singoli individui. La soluzione comunitaria dei commons, intesa proprio come sviluppo di istituzioni endogene di gestione, rappresenta la chiave di volta nel contrasto tra interessi individuali e benessere collettivo su cui si focalizza il dilemma evidenziato da Hardin. Ciò che questo approccio ha mostrato nella sua vastissima evidenza empirica (Ostrom, 2011) è che, a determinate condizioni, sia possibile sviluppare un processo di innovazione istituzionale i cui effetti si traducono in incentivi positivi di lungo periodo. Tra queste condizioni, la principale è l’esistenza di una comunità in grado di interfacciarsi di fronte alle proprie responsabilità e dirigere le proprie preferenze con continuità.

In un’epoca in cui forte è il richiamo al concetto di comunità e molteplici sono i tentativi di idearne nuove o di riscoprirne tracce (Bagnasco, 1999), cosa può essere tratto da esperienze comunitarie tradizionali alpine, tutt’ora esistenti e di antica origine? Come possono queste sopravvivenze fornire oggi utili indirizzi di policy per la gestione delle risorse comuni in contesti dove le istituzioni appaiono invece deboli o inconsistenti? Questo studio, attraverso l'indagine e la ricostruzione di una comunità locale trentina ante litteram, si prefigge di porre all'argomentazione teorica l'evidenza della necessità di tradizioni forti ed efficaci per la gestione delle risorse comuni, articolate in un contesto specifico e storicamente improntato e vocato alla cooperazione qual è quello alpino. Ci si prefigge di analizzare come le variabili ed i fattori ambientali e sociali tipici dell'area trentina abbiano potuto influenzare le dinamiche di relazione a suffragio di un contenimento duraturo e fattivo nella tentazione al free-riding in ambito rurale. In particolare, le variabili verso le quali si presterà maggiore attenzione sono quelle associate alla gestione dell’allevamento in chiave tradizionale, con l’obiettivo di ritracciare una continuità tra le antiche regole e le pratiche correnti. Ci si interroga, inoltre, su che tipo di solidarietà animi queste pratiche, intese come probabile spazio e veicolo di continuità culturale espressa in chiave dinamica. Il risultato atteso della ricerca mira alla dimostrazione di come le istituzioni comunitarie tradizionali deputate alla gestione di risorse comuni siano efficienti proprio perché coordinate a sistemi di monitoraggio e di sanzionamento interni, elaborati in seguito ad un processo di adattamento al contesto ambientale e sociale reso possibile da una diffusa interiorizzazione di norme, valori e credenze collettive. Gli atteggiamenti e le scelte condotti dagli attori sociali oggetto d’investigazione, in prevalenza allevatori, sono stati rilevati con l’ausilio di tecniche qualitative, in particolare interviste con domande aperte o semi-strutturate, per lasciare emergere tendenze specifiche e preferenze individuali. Inoltre, una massiccia osservazione non partecipante ha preceduto l’intervento in campo, con l’obiettivo di ricostruire il contesto rurale di appartenenza e l’esclusione di alcune variabili dall’analisi (l’andamento demografico e l’invecchiamento della popolazione, la tendenza dei flussi migratori).

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A ragione di ciò, ci si interroga sulle dinamiche che animano la socialità e radicano i valori individuali in quei comportamenti partecipativi così auspicati dall'intero paradigma teorico delle risorse comuni, e ben rappresentati in questo sistema di governance locale nella cifra di sintesi dell’allevamento. Ci si interroga, infine, sul ruolo preciso del rapporto con l’animale nella costituzione ed emersione di comportamenti cooperativi.

Lo studio di caso

L’antica comunità delle Regole di Spinale e Manéz si profila come una delle istituzioni più longeve per la gestione dei beni comuni nel panorama italiano. Probabilmente risalente a prima dell’anno mille, vede la sua ufficializzazione nel 1249, anno in cui i potestà delle Alpi Giudicarie si riunirono presso il monte Spinale (Trento) per sancire l’uso collettivo e la destinazione indivisibile ed inalienabile di quelle terre a favore degli abitanti dell’allora comunità di Preore (oggi facente capo ai comuni di Ragoli, Montagne e Preore). Assieme al diritto di legnatico vennero stabilite precise norme di accesso al pascolo ad esclusivo e perpetuo beneficio dei membri della comunità. Nasceva così un’istituzione destinata a vedere immutata nel corso dei secoli la propria vocazione di salvaguardia dei beni ambientali e del patrimonio culturale delle valli a ridosso del monte Spinale. Un’attribuzione chiara di compiti e responsabilità ha contraddistinto da sempre l’istituzione, che ha previsto oltre ai propri membri ordinari, degli amministratori responsabili di fronte all’intera collettività sulla base di un apposito giuramento introdotto nel 1410. Si tratta di un codice di condotta valido ancora oggi, diventato codice morale e tradotto in orientamenti di governance coerenti con la tutela dell’ambiente umano, culturale e naturale. A partire dall’età napoleonica, l’istituzione della Regola è stata oggetto di attacchi da parte di amministrazioni di livello superiore, che hanno cercato di sostituire all’antica comunità un più moderno sistema comunale di rappresentanza. A nulla sono però valsi questi tentativi, poiché il gruppo sociale ha protetto se stesso e le proprie istituzioni da ogni ingerenza esterna fino al definitivo riconoscimento della propria indipendenza, avvenuto nel 1960 ad opera di una legge della provincia di Trento. Mostrando capacità di governance attente al territorio, sistemi di accountability solidi e una personalità autonoma rispetto ad istituzioni di livello superiore, seppur ben integrata, le Regole di Spinale e Manéz si presentano come un caso esemplare di corretta costruzione istituzionale per la gestione di beni comuni.

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Da un punto di vista applicativo, si sono ricostruite la storiografia e la dinamica di relazione della comunità attraverso l'analisi degli interventi normativi sviluppati negli ultimi nove secoli relativamente alla gestione dell’allevamento e delle malghe.

Grazie alla disponibilità di decine di persone, nel triennio 2012-2015 sono state raccolte numerose interviste in seno alla comunità delle Regole, distribuita sui tre comuni di Ragoli, Preore e Montagne (Valli Giudicarie, provincia di Trento). L’obiettivo di questo lavoro sul territorio è stato quello di raccogliere, elaborare e trattenere i punti di vista dei regolieri (nome tipico dell’appartenente alla comunità), ma non solo, attorno al significato della Regola vista come istituzione storicamente presente nella vita delle relazioni e delle singole persone, con particolare attenzione al supporto del sistema zootecnico tradizionale. Ogni intervista è stata strutturata in modo da far emergere il legame personalissimo tra l’individuo e la comunità di appartenenza, secondo il seguente schema:

1) Breve presentazione (dati anagrafici, professione dell’intervistato, storia famigliare)

2) Relazione con la comunità delle Regole: regoliere o no, se sì da quanto, che significato ha l’appartenenza

3) Punto di vista sulla gestione presente e passata delle pratiche di allevamento

4) Suggerimenti di gestione per il futuro; critiche e scenari possibili considerati a rischio 5) Riferimenti ai valori dei singoli soggetti.

Grazie a questo modello, si è potuto avere un quadro chiaro e completo, nonché strettamente privato, dei pensieri stanti ai componenti la comunità e a coloro che, pur non facendone parte ufficialmente o direttamente, conoscono la Regola perché residenti sul suo territorio o ivi occupati. Nella raccolta dei dati, si è pensato di optare per una scelta che includesse più possibile, e alla pari, il pensiero femminile, presente e passato, per non discriminare in base al genere le considerazioni sull’istituzione. Le interviste si sono svolte direttamente nelle case delle persone, qualora preferito, oppure presso la sede delle Regole, nel comune di Ragoli. Gli incontri hanno avuto il carattere di una esposizione libera sui temi sopra esposti, dove ogni intervistato ha avuto la possibilità di porsi e porre interrogativi, critiche ed elogi nei confronti della comunità. La popolazione campionaria è stata scelta in base alla stretta relazione con i temi dell’allevamento e dell’agricoltura: si sono prediletti allevatori, in genere persone che hanno/hanno avuto a che fare con il settore, o che volutamente l’hanno abbandonato, persone che tradizionalmente se ne sono occupate perché così “si faceva”.

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Per motivi di comodità nell’elaborazione dei dati, le considerazioni emerse vengono qui esposte in base alla coorte generazionale di appartenenza, distinguendo i soggetti in base a tre fasce d’età: anziani (più di 60 anni), adulti (dai 40 ai 60 anni) e giovani (al di sotto dei 40 anni). Si sono raccolte 80 interviste in profondità, arricchite, qualora possibile, dalla visita delle stalle e dall’osservazione non partecipante degli spostamenti delle mandrie durante il periodo estivo ai pascoli delle malghe di proprietà della comunità.

Il riferimento all’allevamento come elemento privilegiato d’interesse durante le interviste, ha colto la disponibilità delle singole persone in seno all’argomento ecologico più generalmente inteso, oltre che l’assoggettamento alle regole istituzionali, o, al contrario, una loro interiorizzazione. Secondariamente, la scelta dell’allevamento quale cifra di sintesi della relazione tra gli individui e la comunità in ambiente alpino ha permesso di tastare l’efficacia della trasmissione delle pratiche tradizionali in seno ad un ambiente non composito e di fatto chiuso a processi migratori come quello della comunità delle Regole.

La ricerca ha preso il via dall’interesse primario verso coloro che, avendo vissuto il secondo dopoguerra nei territori delle Regole, possono ad oggi vantare una conoscenza approfondita e multiforme dell’istituzione e delle sue evoluzioni nella destinazione d’uso e gestione dei beni di proprietà collettiva, in primis pascoli e malghe. La prima fase della ricerca ha mirato a ricostruire quali fossero le pratiche tradizionali della zona per quanto riguarda la gestione dell’allevamento, in particolare bovino: alternanza stalla-malga, periodi di transumanza a fine maggio e settembre, numero e qualità dei capi, loro pulizia e detenzione, stabulazione, cura in caso di malattia o parto. Queste informazioni hanno permesso di cogliere uno spaccato di vita contadina dove l’animale era parte integrante le relazioni nella vicinia, in toto responsabile per piccoli ma importanti gesti quali la pulizia dello zoccolo, dell’ambiente della stalla, dell’approvvigionamento del fieno. Immaginiamo quindi emergere, accanto ai ricordi di bovine da latte in catena, un tessuto sociale antico, stretto oggi come allora e presente nella memoria dei giorni in cui i prati si sfalciavano solo grazie all’aiuto dei vicini e il fieno si portava a casa con la gerla, lo stomaco vuoto e il cuore pieno di solidarietà. Si è cercato di avvicinare coloro che potevano aver visto e riconosciuto in questo, parallelamente ai cambiamenti epocali dell’organizzazione economica e dell’evoluzione industriale, eventuali mutamenti di valore nella visione della Regola stessa. Ci si è chiesti quanto essa sia cambiata accanto ai mutamenti delle pratiche d’allevamento, e se sia oggi percepita come un tempo, oppure abbia subito un processo di mutamento/evoluzione tale da toglierne l’identità originale. Qualcosa è rimasto del significato antico? A questa domanda si è tentato di rispondere nei primi mesi dell’indagine in campo, quando si sono intervistate le persone che hanno vissuto in prima

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persona i cambiamenti di gestione economica e famigliare che hanno investito le valli alpine a partire dalla diffusione della moderna industria, l’abbandono delle colture tradizionali di montagna e l’emigrazione verso territori con maggiori dotazioni manifatturiere.

Cominciando l’analisi con uno sguardo archivistico sulle pratiche di allevamento, emerge come la prima regolamentazione in merito all’attività zootecnica sia riconducibile al 1377, anno in cui fu redatto un primo statuto della sola vicinia di Manez. Il documento sentenziava in maniera perentoria l’obbligo da parte dei membri della comunità di portare al pascolo estivo un numero di capi non superiore a “quanti se ne possono alimentare nell’inverno con il proprio prodotto”. Il documento sanciva anche una pena, comminata in caso di fragranza di reato, e concretizzata nel pignoramento di beni, assieme ad una multa cospicua, da pagarsi ai “consorti di Manez”, gli altri membri della comunità. In maniera più intellegibile, lo statuto proseguiva elencando due mancanze gravi per il gruppo: fare recinzioni per tenervi del bestiame e tagliare il fieno prima della festa di s. Bartolomeo, che cade il 24 agosto. Queste ultime effrazioni al regolamento comunitario venivano in particolar modo considerate gravi qualora il fatto fosse accaduto di notte. In questo caso, la pena pecuniaria sarebbe diventata ingente, assieme a quella sociale, prevedendo un allontanamento per dieci giorni dalla comunità stessa, e un reintegro sotto il vaglio dei consorti. Appare evidente la ragione della severità di queste norme, assieme allo stretto vincolo di autotutela imposto dalla regola, pena la sopravvivenza in un sistema intero di approvvigionamento silvi-pastorale. Vedere distrutto un pascolo per l’ingordigia di un membro della comunità, appariva evidentemente un rischio troppo grande da correre, in un’epoca in cui estremamente povera era l’alternativa, costituita dalla produzione casalinga di utensili da rivendere presso le vicinie o i mercati delle valli giudicarie. Con il passare dei decenni, si osservano uno sviluppo ed un’evoluzione delle regole, fino ad arrivare al 1486, anno in cui si arriva a statuire come obbligatorio un sistema di fecondazione delle vacche da latte garantito dai “consoli”, rappresentanti della regola. Per mantenere la qualità dei capi e la produzione del “cacio”, ecco che i consoli, “visitando di uscio in uscio tutti i vicini”, si assicuravano che tutto avvenisse con uguale informazione e possibilità. Inoltre, essi erano incaricati di mantenere con propri mezzi tutto il personale della malga estiva della comunità (vaccari, caprari, pecorari) dalla data dell’8 maggio e fino al termine della stagione, tempo ritenuto congruo per cominciare il movimento del bestiame verso la transumanza e l’alpeggio. Era tassativamente vietato “custodire le bestie da sé”, poiché tutta la comunità era chiamata ad essere solidalmente presente in questo particolarissimo momento dell’anno, rispondendo dei rischi e delle produzioni. Addirittura, un sistema di mutualità era previsto nella forma di un indennizzo per coloro che, estratti a sorte, fossero stati chiamati a lasciare in stalla il proprio bestiame per le necessità della vicinia. A maggior

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onere per il mantenimento, corrispondeva una somma giornaliera di dieci soldi, “acciò quelli possino servire alli vicini”.

Se i primi secoli di vita della regola, inizialmente sorta come luogo di ritrovo e poi assurta al grado di istituzione, sono serviti per inserire e sofisticare regolamenti e relazioni di godimento di beni comuni, è nel 1583 che prende forma in maniera definitiva il corpus normativo arrivato fino a noi sottoforma della Comunità delle Regole di Spinale e Manez. In questo particolarissimo documento, sopravvissuto per più di quattro secoli, appaiono perfezionati i sistemi di monitoraggio e sanzionamento interni al gruppo dei pari, con possibilità di denuncia di atti ritenuti non conformi da parte di qualsiasi membro della comunità, purché di età superiore ai 12 anni. Le malghe diventano luogo strategico di sedimento di pensiero, motore dell’economia e principale modalità di sostentamento della popolazione, che vedeva i propri capi di bestiame, sola grande ricchezza, custoditi e provvidi. L’aspetto nevralgico del sistema-malga emerge dai primi punti del documento, che sottolineano la necessità che il console stesso, o un suo sostituto giurato, negli otto giorni precedenti l’apertura dell’alpeggio si recasse “a stare sul monte, per custodirlo secondo le disposizioni della regola, pena il risarcimento dei danni”.

In questo sistema di delicati equilibri e necessità, la mutualità sorta attorno alla mungitura, in particolare, era stata in grado di sviluppare una particolare attenzione anche per famiglie meno fortunate. Si riporta qui integralmente il capo 25 del regolamento 1583:

“Che ogni famiglia parziaria (parte del tutto) che non sia proprietaria di bestie da mungitura, possa affittare due vacche oppure otto capre e condurle in malga senza pagare l’erbatico; chi invece avrà non più di quattro vacche, possa affittarne altre due, oppure otto capre, pagando come erbatico 6 carantani ogni vacca e 1 carantano ogni capra. Chi affitterà le bestie, dovrà sottostare ad oneri comuni (pesa del latte, contribuzione del pane, mercede ai pastori e ai custodi)”.

Queste pratiche in particolare, ed altre la cui memoria è andata perduta, dipingono il quadro di una comunità con caratteristiche precise: necessità della relazione, sussidiarietà, forte identificazione con il territorio e con l’attività dell’allevamento di sussistenza, grande senso di autonomia e orgoglio per la propria appartenenza. Il segnale di un valore del bene, che non solo fisicamente, andava accrescendosi nel corso dei secoli, è rimasto inalterato e protetto, fino al 1970 e agli anni degli sconvolgimenti legati allo sviluppo economico di queste aree.

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Passando ad integrare questo profilo con il materiale emerso nel corso delle interviste, emerge come spesso la Regola e i ritmi della stagionalità zootecnica siano stati percepiti dai contemporanei, ed identificati, con la capacità di autocoscienza della comunità, dove le reti di relazione e la cooperazione sono state necessarie per centinaia di anni, ma improvvisamente rese accessorie dalla velocità della tecnica e dalla crescita economica, giunta in Trentino a partire dagli anni ’70. Con grande rammarico, qualche regoliere riporta alla memoria le difficoltà quotidiane del vivere di sussistenza, assieme però al grande significato di valori di quella rete d’aiuto assolutamente necessaria al sopravvivere del corpo, ma talvolta anche dello spirito. La cooperazione organica che ha caratterizzato e regolato la gestione dell’alpeggio della Regola per lunghi anni, ha reso fondamentale la conoscenza, il rispetto e la reciprocità tra regolieri per la buona riuscita di un risultato che prima d’essere collettivo, era di ciascuno. La buona salute di una giovenca e la nascita di un vitello, eventi necessari alla sussistenza di un’intera famiglia, spesso per un lungo inverno, sono stati sostituiti, nella loro presenza primaria, dal pensiero meccanicistico del lavoro dipendente, responsabile quanto bastava per veder sfumare secoli di corresponsabilità. A tutti stava a cuore una giusta regolazione dei beni ambientali di proprietà collettiva, poiché primariamente ognuno dipendeva proprio da quell’equilibrio di partecipazione e lealtà d’intenti che la carta di Regola aveva descritto come basilare nella sua secolare saggezza. L’intervento della Regola a favore di un giusto ed egalitario coinvolgimento dei fuochi nella gestione di prati e boschi, oltre a prevenire ogni fenomeno di defezione sociale, ha posto le basi per un sistema di mutuo coordinamento e sanzionamento, garantendo auto sussistenza famigliare sia di tipo economico che di carattere sociale. Dalla maggior parte delle interviste, emerge un senso di nostalgia per un sentimento di appartenenza che oggi viene sentito come sfuggente, mentre un tempo cogente e pervasivo nella partecipazione ad una comunità di cui si sentiva quasi il respiro e il fascino, attraverso la durezza degli impegni della montagna, parallelamente ricompensati da un collante sociale che rendeva uniche anche le difficoltà, mentre rinsaldava legami famigliari e amicali attorno ad un obiettivo comune, di carattere concreto e al contempo spirituale: la cura di animali mansueti ma preziosi. Si può pensare che, accanto alle tradizionali agenzie educative, scuola in primis, le regole di gestione dei pascoli, parallelamente alla zootecnia di impianto collettivo, abbiano svolto per decenni un ruolo docente nella vita dei regolieri e delle loro famiglie, amministrando proprietà condivise e indivise attraverso le generazioni. Ciò che risulta affascinante, dalle ricostruzioni, è il senso di responsabilità e il grande collante sociale svolto e percepito, nel corso dei secoli, di fronte a rischi esterni di sfaldamento o interni di implosione. L’istituzione della Regola, e le sue imposizioni obbligatorie in capo ai regolieri sulla responsabilità di ogni momento dell’alpeggio, hanno impattato contro guerre, saccheggi, riorganizzazioni legislative, politiche, processi migratori e

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depauperamento sociale, rimanendo integralmente aderenti allo statuto primigenio, diretto alla tutela della relazione tra un determinato paesaggio e una determinata comunità. Parte del paesaggio sono proprio gli animali e tutto l’impianto di gestione famigliare, compresi i ritmi e le ciclicità derivanti da una loro gestione.

Come corpus normativo di gestione zootecnica e di regole concrete, la Regola ha dato effettiva prevedibilità e stabilità al comportamento sociale, rivelandosi un’istituzione in grado di realizzare pienamente e con resilienza, continuità ed elasticità il compito della preservazione di uno stile relazionale locale tradizionale. In particolare durante il secondo dopoguerra, con tessuti sociali sfaldati dai conflitti e dalla difficoltà di sussistenza, ecco che l’istituzione della Regola ha fornito una modalità, una prospettiva, un sedimento e una base da cui rialzare ogni modalità di relazione attraverso il ricorso ad uno sguardo sicuro al bestiame, fosse esso in funzione produttiva, economica, o strettamente personale e famigliare. Senza questa guida interna alla comunità, non sarebbe stato possibile il dispiegarsi di mezzi, strumenti e idee che ha innescato poi l’imprenditorialità spontanea ed efficiente del boom economico, che a partire dagli anni ‘70 ha investito anche queste territori. Probabilmente, per molti intervistati, questo ruolo istituzionale svolto dalle pratiche di gestione del territorio (con particolare rilievo per quelle dell’allevamento), oltre a mitigare i dissapori interni al gruppo locale ha saputo dare vita ad un preciso profilo di significati che ha fatto da sfondo agli eventi quotidiani, intessendosi in relazioni autentiche e dando prevedibilità al comportamento sociale. Tutto ciò si è svolto tramite un processo di inculturazione naturale e simbiotico con il paesaggio e con le reti di riferimento, diventando efficace codice di comunicazione e vita, normativo più che leggi imposte da autorità esterne. Questo sfondo relazionale e di significati è emerso costante ad ogni intervista raccolta a persone che abbiano visto e vissuto l’economia tradizionale della comunità delle Regole, prima dell’avvento del processo di industrializzazione e del turismo di massa sui territori di proprietà collettiva.

Negli anni ’80, la decisione di sostituire antichi pascoli con piste da sci nei territori di Madonna di Campiglio, ha bloccato il continuum del processo d’integrazione tra uomo e natura, disarticolando le due componenti, naturale ed artificiale, ponendo l’uomo al servizio della tecnica e del commercio, parimenti allontanandolo dal cuore delle sue antiche sollecitudini di salvaguardia. Lo sviluppo economico e la scelta di compartecipazione delle rendite dei territori indivisi con attività e personalità di carattere esterno rispetto alla comunità locale, ha fatto sì che questo millenario e delicatissimo equilibrio di voci venisse improvvisamente ad interrompersi. Se uomo e natura hanno potuto dialogare attraverso la Regola per quasi un millennio, ecco che, poi, la “fabbrica del commercio di divertimento” (così definita da un intervistato), venutasi a creare sulle proprietà

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collettive, ha diluito questa onestà e immediatezza di intenti, a parere di molti, inserendo portatori di interessi divenuti strategici per il rendiconto economico, ma non sempre per quello sociale.

La gran parte degli intervistati che ha vissuto il passaggio di testimone tra destinazioni d’uso dei territori delle regole (da pascoli a piste di sci in particolare), si è detto sorpreso, a tratti confuso, riguardo gli esiti di questa scelta. Introdurre un soggetto esterno in qualcosa di così domestico e famigliare come la gestione dei territori, ha portato benessere economico e rendite poi ridistribuite sottoforma di legnatico o contributi economici, attività gratuite per i bambini e i ragazzi della comunità, nonché attività imprenditoriali o dipendenti direttamente legate alla prestazione ricettiva. Malgrado ciò, emerge il quesito in merito alla possibile perdita di identità derivante da questa sorta di “baratto” (con le parole di un intervistato) tra antico e nuovo, tra locale ed esterno. In particolare, pare che il maggior senso di rammarico e di perplessità sia attribuito al carattere percepito come completamente spersonalizzato della proprietà della società responsabile della gestione delle funivie. Se, da un lato, una tradizione alberghiera e di ricettività ha contraddistinto il tessuto locale, dando modo a molte capacità imprenditoriali di esprimersi e generare redditività per gli stessi regolieri a partire da questo processo di apertura verso l’esterno, ecco che l’inserimento di un interlocutore terzo rispetto al territorio (una società di funivie), di fatto ha disabilitato un circuito di mutua responsabilità percepita verso il territorio stesso. Il parallelo impoverimento dell’allevamento come forma di sussistenza e la sua sostituzione con una finalità spesso legata al nostalgico, ha sfalsato ulteriormente questo delicato equilibrio di relazioni. Venendo a mancare una motivazione sincera all’avvicendarsi in certe attività quotidiane, ecco che ha perso di lustro e veridicità tutto ciò che attorno all’allevamento si muoveva: fiere di paese, ritrovi serali nei fienili. Questi componimenti sociali, atti più a contenere e costituire il tessuto sociale che a svolgere effettive funzioni di governo del bestiame, costituivano la coloritura dello spazio culturale entro cui si permeava il vivere civile, ora, di conseguenza, percepito come di altro sapore. Vero è, comunque, che la Regola, nella forma dei suoi rappresentanti, rimane presente e parte attiva della gestione delle funivie stesse; ciò malgrado, è interessante notare come emerga forte un senso e una volontà di radicalizzazione, per cui di fatto, molti tra gli anziani (e non solo) intervistati, hanno lamentato un dissapore verso questo investimento di terzi, di cui non si conosca il volto. E’ importante, a questo punto, focalizzare l’attenzione su un aspetto caratterizzante le proprietà collettive del territorio trentino nel suo complesso: esse hanno potuto storicamente integrare aspetti, peculiarità, richieste e voci discordanti in un’unità di contenuto attraverso un’omogeneizzazione resa possibile da un’istituzione. Questa, allorché basata su accordi previi, è stata resa autonoma nella gestione, e capace di evolversi, attraverso un meccanismo di rappresentatività e delega interno ad una comunità locale, dove le persone sono conosciute, pesate nelle loro azioni, valutate nella loro affidabilità. Il

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sistema di rappresentanza è riuscito ad arginare ostruzionismi e appropriazioni private di rendite collettive finché è valso questo filtro interno al gruppo, che si è visto giustamente presente nei processi decisionali. Dalle interviste emerge come questo non sia più stato percepito a partire dal momento in cui i beni collettivi, pascoli e malghe in primis, hanno assunto una gestione con abiti e forme tendenti al privato, come, per esempio, la compartecipazione di una società nella gestione delle strutture ricreative. La sensazione è che la fiducia, costruita e custodita attraverso generazioni di mutuo controllo tra famiglie attraverso l’aiuto nella gestione collettiva del bestiame e del bosco, sia venuta a mancare, frantumando l’obiettivo comune in soddisfazioni private, compartecipi di un profitto reso esterno alla comunità locale. Il cambio di destinazione della terra delle Regole e degli antichi, fedeli animali, da sussistenza per i locali a godimento di un momento ludico per altri, ha reso per alcuni difficile la lettura e la traduzione emotiva di intenti, prima così semplice ed immediata. L’istituzione, non più chiamata a regolare necessità, ma coinvolta in un “gioco di equilibri e di forze”, si è posta il “quesito dell’arrendevolezza o dell’evoluzione”, a seconda di come si voglia intendere questo cambiamento. Taluni vedono, infatti, lo sviluppo delle attività ricettive come potenzialità di sviluppo e bene a disposizione della comunità locale tutta ma sola, negando ogni intervento di capitale esterno, inteso come tramonto di un’era di difficoltà e di peripezie, ma di grande solidarietà. Altri, invece, intravedono l’incameramento di soggetti esterni, di fatto finanziatori, come un’ottima opportunità di sviluppo e di rilancio in chiave moderna dell’istituzione della Regola stessa, del territorio e della popolazione locale. Questa modernità, raggiunta attraverso l’apporto di nuove tecnologie che offrono nuove possibilità di potenziamento delle infrastrutture già esistenti, crea nuovi usi, accessi e godimenti dei beni collettivi. Di fronte all’evoluzione dei tempi, i soggetti intervistati si sono posti la questione della bontà e della necessità di un parallelo “adeguamento” della Regola, da taluni visto come necessario, da altri come una perdita al sentire della propria identità. Il bene da gestire è profondamente cambiato. La popolazione intervistata è pressoché spaccata su questa questione, che fa da spartiacque anche tra generazioni. Generalmente, infatti, un sentimento nostalgico verso un assetto più semplice e lineare, locale, della Regola, si registra in persone che hanno vissuto l’istituzione prima dell’avvento dell’ammodernamento e dell’industria turistica di massa, cogliendone la differenza rispetto al passato. La coorte più giovane, invece, cresciuta in seguito grazie proprio allo sviluppo della modernità negli ultimi quarant’anni, stenta a capire come il potenziamento produttivo dei territori possa essere visto come maldestro o dannoso. Per quest’ultima coorte, la gestione tradizionale del legnatico, del bosco, la cura quotidiana fatta a mano del bestiame, la lavorazione del latte e del formaggio, sono spiragli di un mondo di fatiche, difficile oggi da desiderare. Le prospettive si distinguono a causa di uno scollo generazionale evidentissimo, marcato dalla differenza tra struttura socio/famigliare tradizionale di

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montagna e socialità contemporanea. La prima, basata sui già citati sistemi di sostegno intra-vicinie, ha necessariamente aderito al sistema di regole e valori proposti dalla Regola, poiché in essa sostentata e proposta; la seconda, invece, basata su una scarsa comunicazione diretta, tecnologia, pensieri e azioni consumate nell’immediato, cresciuta grazie ad una maggior agiatezza, ha visto percorrere le sue vie con maggior autonomia dei singoli gruppi famigliari, ha visto processi migratori, una conoscenza dell’economia di sussistenza di montagna solo riportata. È facile comprendere come il ragionamento ora imponga la necessità di cogliere valutazioni in merito a questo cambio epocale: se la Regola, con le sue norme ordinate e curate di vita, ha potuto resistere a crisi endogene ed attacchi esterni fin dal 1200, è stato possibile grazie alla necessità feroce del raggiungimento degli obiettivi da essa fissati, in primis una cooperazione forte a garanzia della sussistenza locale. Una volta superate queste esigenze e raggiunto un certo livello di benessere, era difficile che essa potesse riproporsi così com’era nata, senza ribadire al proprio interno le destinazioni d’uso e di garanzia del suo vivere ancora, dopo mille anni, in seno e grazie, attraverso la linfa della comunità. Un’istituzione come la Regola ha posto radici nelle relazioni personali e nel rapporto di queste con il territorio da salvaguardare, con gli animali da nutrire e di cui necessariamente nutrirsi, beni indivisibili eppure condivisi, ancorati ad una base fiduciale grande.

Elaborazione dei dati e conclusioni

Quel che ha contraddistinto la sopravvivenza di questa istituzione, strettamente locale, sembra essere qualcosa di però diverso da una base fiduciale, di più profondo: un sistema di valori di carattere tradizionale, basato sull’identificazione del proprio agire con quello comunitario. Venendo meno la necessità di una cooperazione organica a causa della trasformazione dell’economia tradizionale di montagna in economia moderna, ora post-industriale, ecco che quel sistema di valori è venuto meno. Cambia il contesto, cambiano le necessità e cambiano le regole: questo è il processo in corso a livello assiologico nella coorte intermedia della presente indagine. Le persone adulte, inserite in un mondo lavorativo che in automatico produceva ricchezza, stimolate dalla rinascita culturale del boom economico, hanno spesso sviluppato visioni nuove della Regola, che andava perdendo, per esse, il significato di strumento di sussistenza che rivestiva per i propri genitori, per divenire un riferimento meramente culturale, un richiamo ad un senso di responsabilità familiarmente trasmesso. Legata al mondo del folklore, simbolo onirico d’infanzia, la Regola ha assorbito valenze non più empatiche, vissute e strutturate su necessità, mancando di identificazione collettiva. Le generazioni più vicine all’epoca contemporanea hanno vissuto e vivono l’istituzione come una realtà strutturata, radicalmente distinta dalla pubblica amministrazione ma ad essa collegata per motivi statutari, in grado di offrire servizi di carattere scolare, ludico e volontaristico,

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senza quel senso di appartenenza, necessità ed urgenza che ne faceva massimo interesse nel passato. Una questione che simboleggia il mutamento di valori in corso nella comunità delle Regole, è rappresentata dall’insieme di richieste e considerazioni stanti l’accesso al titolo di regoliere. Se, fino a qualche decennio fa, nessuno si sarebbe arrischiato a mettere in discussione rigide ed antiche norme di residenza e territorialità locale, ecco che ora, con confini culturalmente più labili, la comunità si muove verso richieste morbide, con proposte d’inclusione anche per coloro che risiedano parzialmente sui territori, o vi abbiano vissuto per lunghi anni, e ora vogliano ritornare. Si pone, all’istituzione stessa, la questione della sua ridefinizione secondo nuovi criteri, antichi o volontariamente definiti ora e statuiti alla luce di un nuovo panorama, non solo fisico, ma anche e soprattutto culturale e sociale. Se l’allevamento e le sue dinamiche scandivano lo scorrere di generazioni, che naturalmente si susseguivano al focolare (non a caso la definizione di membro della comunità con il termine di “capofuoco”), ora questo passaggio stenta ad essere iniziatico, poiché non necessariamente presente, voluto e cercato, inserito ed atteso dalle giovani generazioni. La presenza femminile e della sua rappresentanza è un altro tema emerso nella seconda coorte intervistata. Se, da un lato, si afferma la parità di rappresentatività attraverso la categoria generica di “capofuoco” valida per entrambi i generi, ecco che, di fatto, spesso diventa prerogativa maschile la partecipazione al ruolo di consigliere e presidente della comunità, di nomina pubblica. Alcune riflessioni sorgono in merito alla volontarietà o meno di questo stato, e al fatto che esso sia uno specchio fedele dell’identità di una comunità tradizionale, con ruoli volontariamente o di prassi attribuiti, o sia invece lo specchio infedele di un movimento d’intenti, che lentamente ma inesorabilmente lavora per portare anche le donne a ruoli di responsabilità/esposizione.

Queste istanze rappresentano un sentire originario che evolve e si rinnova alla luce di domande e sollecitazioni, che da esterne (evoluzione culturale, sviluppo industriale) diventano interne (ruoli di genere, rimodulazione di priorità, accesso alla comunità). Le riflessioni hanno il compito di asservire oggi una pulizia di sguardo interiore dell’istituzione, che necessita e richiede una valutazione congrua e un bilancio del fin qui condotto, per ripartire nella direzione scelta, o ancora da definire, sia essa di ordine sociale, culturale o di carattere naturalistico.

Se lo specchio con l’ambiente naturale circostante fa da cornice al sorgere della cultura locale, ieri come oggi, ecco che la cifra di sintesi dell’intero sistema-regola è però da attribuirsi a quell’insieme di relazioni che ha contraddistinto l’uomo nel suo approccio con gli animali. Tanto cari e necessari alla sussistenza che ha scandito questa comunità per secoli, essi hanno svolto un silenzioso ruolo di facilitatori sociali (Ballarini, 2000), stimolando dialogo e socializzazione durante la messa in opera dell’accudimento giornaliero. Finché la relazione con l’animale è stata presente nella quotidianità,

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ha potuto esercitare una fascinazione di carattere pedagogico sull’uomo, ponderando relazioni, tempi, spazi, attraverso la cura espressa come episodio non epifanico dell’agire. Una volta interrotto questo legame con l’animale a causa del venir meno delle antiche pratiche di allevamento, l’uomo si è trovato sprovvisto di un lascito silente ma continuo. In un tempo in cui la rapida evoluzione della tecnica ha condotto la comunità ad una promiscuità e disomogeneità culturale, gli animali hanno perso quel ruolo di collante così cruciale allo sviluppo di legami interrotti o indeboliti. Impoverito nella cura della propria anima (Ballarini, 2010), l’uomo ha visto snaturare segnali e relazioni in funzione di un nuovo approccio ad un’alterità in cui ha stentato a riconoscersi. La stimolazione fattiva, culturale e sociale, veicolata dalla prossimità con gli animali domestici era in grado di sviluppare una simpatia forte con tutto ciò che di valore l’uomo aveva: beni materiali e immateriali, relazioni comprese. Non più responsabilizzato ad un con-dominio sulla natura, l’uomo ha visto il riempimento sempre più veloce di spazi mutevoli, non stabilizzati da processi di crescita e inculturazione e affezione ai luoghi, di fatto perdendo parte della propria identità passata (Geertz, 1973).

Quali sono gli obiettivi della comunità delle Regole oggi? Quali le risposte che la comunità decide di scegliere di fronte alle sopra citate sfide della modernità? In base alle criticità scelte come prioritarie, l’istituzione ha l’occasione di approfondire l’autocomprensione dei meccanismi che si intendono stimolare, proteggere, veicolare. Il tema della sinergia possibile tra diverse attività in seno alla Regola potrebbe essere d’indirizzo per un riordino non nostalgico ma fattivo delle componenti sociali, culturali, fisiche del paesaggio, tutte a disposizioni di un ritorno al passato attraverso strategie di un futuro possibile, desiderato e desiderabile, in quanto realmente scelto. Unitamente alla valutazione dell'efficienza di sistemi di monitoraggio e sanzionamento, questo condurrà ad una riflessione delle istituzioni contemporanee, locali e di livello superiore, su indirizzi di policy che possano essere utilmente resi spendibili, anche laddove l'identità e la valenza cooperativa stentino ad incorporarsi efficacemente in comportamenti partecipativi, per i motivi sopra esposti.

Concludendo, l’esperienza della comunità delle Regole di Spinale e Manez, con le sue norme di regolazione di pascoli, malghe e bestiame di proprietà individuale, ma collettivamente gestito secondo il sistema tradizionale tipico del comparto alpino, porta a valutare quale sia il labile confine tra tradizione ed evoluzione. Seguendo Camanni (2010), se la sopravvivenza della tradizione sta nella capacità di riflettere e incorporare il cambiamento, ecco che risulta importante chiedersi quanto sopravviva del lascito del passato qualora l’evoluzione implichi un’opacità del sistema di valori che ha retto lo spazio di regolazione tra pubblico e privato per così lungo tempo. Ancora,

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passo necessario e ulteriore è vagliare una selezione appropriata e giusta, coerente, di risorse, interpretando il cambio nei tempi senza lasciare quegli spazi vuoti che Cognard (2006) ritiene possibili, eppure pieni di azione, per chi sia in grado di rendere suo il significato della parola “risorsa”, sia essa un oggetto, un’azione, o un ideale. Spetta ad ogni comunità, infatti, l’irripetibile compito di scegliere che identità darsi per il proprio futuro.

Bibliografia:

Bagnasco A. 1999, Tracce di comunità, Il Mulino

Ballarini G. 2000, Animali terapia dell’anima, Fondazione Iniziative Zooprofilattiche e Zootecniche, Brescia

Camanni E. 2010, Ghiaccio vivo. Storia e antropologia dei ghiacciai alpini, Priuli & Verlucca

Cognard F. 2006, Le rôle des recompositions sociodémographiques dans les nouvelles dynamiques rurales: l’exemple du Diois, in Méditerranée, 107, pp. 5-12.

Geertz C. 1973, The Interpretation of Culture, Basic Book, New York Hardin G. 1968, The Tragedy of the Commons, Science, 162

North D.C. 1990, Institutions, Institutional Change and Economic Performance, Cambridge University Press

Olson M. 1965, The Logic of Collective Action, Harvard University Press

Ostrom E. 1990, The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press Ostrom E. 2005, Understanding Institutional Diversity, Princeton University Press

Ostrom E. 2011, Why Do We Need to Protect Institutional Diversity?, European Political Science, 37

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