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Analisi dei processi e misurazione della performance nelle reti di imprese: il caso RPM

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Economia e Management

Corso di laurea magistrale in Strategia Management & Controllo

L’analisi dei processi nelle reti di imprese: il caso

RPM

Relatore Candidato

Prof. Riccardo Giannetti Gianluca Bertelli

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Indice

INTRODUZIONE ... 3

CAPITOLO 1 LE RETI DI IMPRESE: UNO STRUMENTO DI COLLABORAZIONE E INNOVAZIONE ... 5

1.1LE POTENZIALITÀ DELLA RETE ... 5

1.1.1 Prospettive a confronto: Social Network Analysis e Network Governance ... 6

1.1.2 Le traiettorie evolutive delle reti ... 7

1.1.3 Efficienza e stabilità nella rete ... 9

1.1.4 Distretto e rete ... 10

1.2.1 Vantaggi strategici ... 12

1.2.2 Vantaggi economico-finanziari ... 13

1.3IL PROBLEMA DIMENSIONALE DEL SISTEMA ECONOMICO ITALIANO ... 15

1.3.1 L’innovazione nel mercato italiano ... 16

1.3.2 Closed Innovation ... 18

1.3.3 l’Open Innovation ... 18

1.3.4 Tra closed-innovation e open-Innovation ... 20

1.4IL CONTRATTO DI RETE PER REGOLARE L’OPEN INNOVATION ... 23

CAPITOLO 2 IL BUSINESS MODEL ... 26

2.1IL BUSINESS MODEL: DEFINIZIONE E CENNI INTRODUTTIVI ... 26

2.2MODELLI DI BUSINESS E STRATEGIA: CONFRONTO E DIFFERENZE ... 27

2.3L’IMPORTANZA DI UN BUSINESS MODEL ... 28

2.4ELABORAZIONE DEL BUSINESS MODEL ... 30

2.6IL MODELLO DI BUSINESS CANVAS ... 32

2.7 I VANTAGGI FUNZIONALI DEL MODELLO CANVAS ... 38

CAPITOLO 3 I PROCESSI AZIENDALI ... 40

3.1I PROCESSI IN AZIENDA: DEFINIZIONE ED ELEMENTI COSTITUTIVI. ... 40

3.2L’ORGANIZZAZIONE DELL’IMPRESA PER PROCESSI ... 42

3.3LA MAPPATURA DEI PROCESSI ... 47

3.3.1 Gli elementi del processo ... 48

3.3.2 la scomposizione dei processi ... 50

3.3.3 Le tecniche di mappatura ... 55

CAPITOLO 4 LA MISURAZIONE DELLE PERFORMANCE ... 62

4.1 I KEY PERFORMANCE INDICATORS E LE ALTRE MISURE DI PERFORMANCE ... 62

4.2TIPOLOGIE DI INDICATORI ... 64

4.3SETTE CARATTERISTICHE DI KPI ... 66

4.4DIFFERENZA TRA KEY RESULT INDICATOR E KEY PERFORMANCE INDICATOR ... 67

4.5L’IMPORTANZA DELLA MISURAZIONE TEMPESTIVA ... 69

4.6COLLEGAMENTO TRA BALANCED SCORECARD E KPI ... 70

4.7DEFINIZIONE DI MISSION, VISION E STRATEGIA ... 71

4.8I FATTORI CRITICI DI SUCCESSO ... 72

4.9VANTAGGI DELLA COMPRENSIONE DEI FATTORI CRITICI DI SUCCESSO ... 73

4.10STRATEGIA, FATTORI CRITICI DI SUCCESSO E KPI ... 73

CAPITOLO 5 IL NETWORK RPM PERFORMANCE ENGINEERING ... 75

5.1IL MOTORSPORT ... 75

5.1.1 Key relationships ... 78

5.1.2 Key Drivers ... 79

5.2RPMPERFORMANCE ENGINEERING NETWORK ... 81

5.3COMPOSIZIONE DELLA RETE ... 83

5.4I VANTAGGI DELLE IMPRESE NELLA RETE ... 85

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6.1METODO DI LAVORO ... 90

6.2MODELLO DI BUSINESS, PROCESSI INDIVIDUATI E FATTORI CRITICI DI SUCCESSO ... 91

6.3MAPPATURA DEI PROCESSI ... 93

6.3.1 Processo di selezione nuove imprese ... 93

6.3.2 Processo di raccolta dati e comunicazione delle competenze ... 99

6.3.3 Processo di sviluppo attività promozionali ... 102

6.4.1 Misurazione della performance dei processi ... 107

6.5INDICATORI CHIAVE DI PRESTAZIONE ... 109

CONCLUSIONI ... 111

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Introduzione

Le aziende italiane che lavorano nel motorsport sono costituite per la maggior parte da piccolo e medie imprese, ed al loro interno spesso si celano grandi contenuti tecnologici che spesso non vengono sfruttati come potrebbero per mancanza di organizzazioni o mancate opportunità derivate dal fatto che tali aziende sono troppo piccole per sopportare determinati rischi e costi, in questo contesto viene molto utile il concetto di rete di imprese, che sarà l’oggetto centrale di studio.

La rete di impresa è un utile strumento per far si che le PMI riescano ad organizzarsi in un modo migliore riuscendo così a cogliere nuove sinergie e opportunità con i partner, oltre che organizzare delle azioni in gruppo per partecipare ad attività prima impensabili. La rete oggetto di studio è la Rete Professionisti Motorsport (RPM) costituita da imprese che operano nel settore del motorsport, automotive, aeronautici, difesa. L’intento del lavoro è stato quello di cercare di formalizzare i processi in atto all’interno della rete per riuscire osservarne le performance tramite indicatori intermedi e indicatori finali (KPI), in questo modo si prova a dare un’impronta per il possibile sviluppo futuro nell’osservazione dei processi e della misurazione delle performance nel momento in cui diverranno più complessi nel tempo.

Al fine di giungere al tale scopo il saggio di tesi è stato suddiviso in 6 capitoli, nei primi quattro capitoli è stata analizzata la letteratura accademica inerente al campo di studi affrontato; negli ultimi due capitoli ci si concentra sulla presentazione della rete, dello studio empirico ed infine le conclusioni del lavoro svolto.

Il Primo Capitolo si occupa di osservare il fenomeno delle reti di imprese osservandone le potenzialità e le principali problematiche

Il Secondo Capitolo osserva la teoria del modello di business canvas, analizzandone i vari aspetti, risulterà fondamentale nel lavoro empirico per comprendere come opera la rete e come riesce a garantirsi una sostenibilità nel lungo termine.

Il Terzo Capitolo tratterà i processi aziendali, come si definiscono e come sono organizzati per poi trattare le varie tecniche di mappatura presenti per identificarli in azienda.

Nel Quarto Capitolo si trattano, come ultimo argomento di letteratura, gli indicatori di performance, osservandone la differenza e le peculiarità, in modo tale che venga

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compreso quali possano essere le caratteristiche degli indicatori corretti rispetto ai fenomeni osservati.

Nel Quinto Capitolo si osserva innanzitutto una panoramica sul settore del motorsport cercando di comprendere come si articola la sua catena del valore, subito dopo si descrive il la rete RPM cercando di comprendere al meglio le tipologie di vantaggi che questa offre al suo interno.

Nel Sesto Capitolo si svolge tutto il lavoro empirico riguardante il delineamento del modello di business della rete, l’individuazione e mappatura dei processi e sottoprocessi ed infine la proposta di indicatori che monitorino i risultati intermedi e finali.

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CAPITOLO 1 Le reti di imprese: uno strumento di collaborazione e innovazione

1.1 Le potenzialità della rete

Nella lingua italiana, il termine “rete” si usa generalmente per indicare un intreccio di fili o altro materiale, di maglie di misure e forme variabili, unite per creare una struttura di riparo, protezione o sbarramento. Calandolo nel contesto di riferimento e traducendolo nella maniera più opportuna, il concetto si ripropone nella definizione di reti di imprese.

Una rete di imprese è costituita da un gruppo di realtà imprenditoriali, autonome dal punto di vista giuridico. Relazioni e impegni di cooperazione, investimenti congiunti e, in taluni casi, contratti, che rappresentano i fili di un intreccio, attraverso cui le imprese decidono di collaborare per conseguire un progetto comune, di produzione, di marketing, di formazione, di ricerca e sviluppo, senza perdere la propria individualità (Ricciardi, 2003). Si tratta di forme di cooperazione attiva, nate dall’urgenza di riorganizzare il panorama industriale, indebolito dalla crisi economica del 2007, di aumentare la competitività delle imprese sul piano internazionale e l’indipendenza dai mercati locali, caratterizzati da una domanda stagnante (Campagna, 2014).

Le reti sono considerate strumenti di innovazione organizzativa, in grado di rivoluzionare il concetto di mercato e sfatare l’opinione, assodata e tradizionale, che i membri ne siano solo competitors. Sono forme di collaborazione produttiva, sostenute da rapporti elastici, tali da escludere una dipendenza riconoscibile tra le imprese, e stabili a tal punto da non poter essere paragonati a meri rapporti di mercato (Campagna, 2014).

All’interno del presente lavoro, si indagheranno i meccanismi di governance relativi alle reti di imprese. Particolare attenzione sarà dedicata alle relazioni e alla vita di rete: condividere investimenti e competenze a cui accedere in maniera più flessibile, frazionare il rischio, applicare conoscenze e know-how utili al raggiungimento di performance migliori rispetto al caso in cui le imprese operino singolarmente, rappresentano per le piccole e medie imprese (PMI) opportunità per godere dei vantaggi della grande dimensione, senza fusioni o acquisizioni.

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1.1.1 Prospettive a confronto: Social Network Analysis e Network Governance

La letteratura accoglie numerosi contributi in merito al concetto di rete, considerato uno dei modelli decisivi nella definizione di connessioni e interazioni tra soggetti diversi (Kilduff e Tsai, 2003). Kilduff e Tsai lo definiscono “one of the defining paradigms of the modern era” (Kilduff e Tsai, 2003, p. 13), esplicitando le innumerevoli aree all’interno delle quali viene esaminato e studiato: dalla fisica alla biologia, dall’antropologia fino alla sociologia e psicoterapia (Kilduff e Tsai, 2003). Altrettanto varie sono le discipline coinvolte nella sua osservazione, tra cui strategic management, studi di business e di pubblica amministrazione, psicologia, comunicazione. (Provan et al., 2007).

L’ampio spettro di realtà interessate comporta l’esistenza di differenti prospettive da cui porsi nello studio delle reti. A questo proposito, si individuano due tipi di approccio: Social Network Analysis (SNA) e Network Governance (Provan et al., 2007; Provan e Kenis, 2008).

Il Social Network Analysis, (nominato anche Analytical Approach) si focalizza sull’architettura della rete. Innalzando le relazioni e le configurazioni dei rapporti sociali ad oggetto dell’analisi, SNA esamina le variabili strutturali che consentono alla rete di evolversi, di migliorare la propria performance, di potenziare le opportunità e incentivare i risultati delle singole unità partecipanti alla rete (Provan e Kenis, 2008). a

Il Network Governance, invece, riconosce la rete come focus di ricerca e mira ad osservare come i risultati derivati dalla sua costituzione e dalla sua pianificazione siano diretta conseguenza di specifici sistemi di governance, quali ad esempio meccanismi di coordinamento, strutture organizzative, processi e aspetti sociali intrinsechi nelle interazioni tra i membri della rete (Provan et al., 2007; Provan e Kenis, 2008).

Secondo la prospettiva di network governance, Powell (1990) riconosce che le reti corrispondono a forme organizzative e di governo distinte dagli idealtipi del mercato e della gerarchia (Powell, 1990).

Tale teoria si pone in netto contrasto con il filone economico rappresentato da Williamson (1975; 1985). Williamson sostiene che la rete è una forma ibrida, risultato dell’accostamento tra mercato e gerarchia, dove in passato prezzo e potere contrattuale incarnavano rispettivamente i meccanismi di coordinamento delle realtà suddette. Il

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nucleo della Transaction Costs Economics consiste nel sostenere che l’aggregazione tra imprese è giustificata dal risparmio sui costi delle transazioni, causa di incertezze e consistenti investimenti di denaro, tempo ed energia per le singole aziende (Powell, 1990, p. 296).

Powell, invece, sostiene che i principi di complementarietà, intesa e adattabilità ai cambiamenti repentini costituiscono elementi fondanti per reti produttive di successo (Powell, 1990, p. 304). In tale prospettiva, reciprocità e collaborazione rappresentano gli elementi cardine nell’organizzazione di un network. Il primo, esteso a lungo termine, coinvolge una più elevata percezione di stabilità e sicurezza nella ricerca e nel conseguimento di compiti, nello scambio di informazioni e nella generazione di fiducia tra partner. Il secondo, invece, nasce dalla necessità di accostare interessi comuni, non perseguibili singolarmente dalle imprese (Powell, 1990, p. 305).

In definitiva, la rete viene considerata una struttura organizzativa e di governo, in cui l’elemento innovativo e la “positiva” modalità di coordinamento la contraddistinguono dal mercato e dalla gerarchia (Provan e Kenis, 2008, p. 233).

1.1.2 Le traiettorie evolutive delle reti

Tralasciando l’analisi della struttura organizzativa e le performance dei singoli componenti, sostengono che il solo studio della rete nella sua interezza, in termini di collaborazione multilaterale, processi e strutture fondanti, conduce alla comprensione delle dinamiche che sottostanno alla sua evoluzione, al suo governo e al conseguimento degli obiettivi comuni prefissati1 (Provan et al., 2007, p. 480). Secondo la suddetta tesi, il whole network corrisponde all’aggregazione di tre o più imprese, connesse per il raggiungimento di uno scopo comune. In ambito relazionale non si crea una struttura gerarchizzata: i partecipanti alla rete tendono ad operare autonomamente (Provan et al., 2007). Brass e altri autori (2004), invece, valutano le dinamiche interne alle reti attraverso diversi livelli di analisi. Essi definiscono le reti come un set di nodi, i cui legami sono rappresentati dalla presenza o meno di relazioni. Il loro contenuto è a sua volta determinato dal filtro e dal punto di vista assunti dal ricercatore nella propria analisi

1 “Only by examing the whole network can we understand such issues a show networks evolve, how they are governed, and, ultimately, how collective outcomes might be generated” (Provan et al., 2007, p.480).

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(Provan et al., 2007). Essi distinguono tre livelli di analisi: interpersonal, interunit e

interorganizational. Focalizzando l’attenzione sulla composizione delle reti e

sull’interazione tra i membri costituenti, attraverso i tre livelli di analisi evidenziano gli aspetti antecedenti e conseguenti alla formazione delle reti di imprese. Tra gli elementi che precedono la composizione di interpersonal networks, si evidenzia che il livello di omogeneità i membri della rete tra è determinante. Età, background culturale, educazione, tenore di vita, occupazione, prestigio e provenienza geografica simili contribuiscono a facilitare la comunicazione e a potenziare il livello di fiducia e reciprocità (Brass et al., 2004). Inoltre, anche la personalità dei partecipanti e la loro prossimità geografica possono influire nello sviluppo del modello di rete suddetto, in relazione all’acquisizione di un ruolo determinante agli occhi dei restanti partecipanti e all’agevolamento delle relazioni tra colleghi (Brass et al., 2004). Qualora non esista tra i partner un background similare, sarà l’interazione stessa a consentire loro di acquisire analoghi schemi comportamentali, percezioni e attitudini. Tra le altre conseguenze, la posizione occupata all’interno del network determina il livello di soddisfazione successivo (o contemporaneo) all’attività in rete e al raggiungimento dell’obiettivo prestabilito. Una posizione isolata, ad esempio, non conduce ad uno stato di soddisfazione all’interno dell’operato comune. In maniera analoga, un elevato livello di centralità all’interno del network comporta situazioni stressanti per le pressanti richieste di risultati e aspettative contrastanti in un mondo di mutamenti sempre più urgenti (Brass et al., 2004). Contemporaneamente, però, coloro che occupano un ruolo centrale nel conseguimento dell’obiettivo predetto, hanno l’opportunità di detenere il controllo su un numero maggiore di risorse e informazioni e hanno la possibilità di acquisire una posizione di leadership nel network (Brass et al., 2004).

Gli aspetti suddetti si ripetono anche negli altri livelli di aggregazione. Le reti interunit sono definite come aggregazioni di imprese che interagiscono tramite relazioni formali e informali. Le prime si stabiliscono in seguito alla condivisione di attività, scambio di informazioni e trasferimento di dipendenti. Le seconde, invece, coincidono con rapporti affettivi e amichevoli stabiliti tra i partecipanti della rete, provenienti da diversi gruppi e unità organizzative, all’interno delle quali si instaurano relazioni interpersonali (Kilduff e Tsai, 2003). Le medesime relazioni possono variare l’attrattività delle singole unità che ne fanno parte. Un’unità, infatti, è più propensa a relazionarsi con altre ad essa complementari o con la stessa prospettiva strategica (Tsai, 2000). L’interazione consente

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loro di condividere conoscenze e processi di innovazione del prodotto, potenziando le performance dell’intero network (Kilduff e Tsai, 2003; Brass et al., 2004).

Con interorganizational network si comprendono le aggregazioni fondate da relazioni collaborative a lungo termine, tra imprese, fornitori, clienti (attuali e potenziali), competitors e altri attori che ruotano attorno ai processi di produzione e consumo. Joint venture, gruppi di business, coalizioni strategiche rientrano all’interno di questa tipologia di network. La cooperazione tra i partecipanti alla rete insegue specifici obiettivi: acquisizione di nuove risorse, informazioni e tecnologie, diminuzione di incertezze, potenziamento e/o aumento della legittimità, oltre alla realizzazione di progetti comuni (Brass et al., 2004). Diversi sono gli elementi che facilitano i rapporti cooperativi: il grado di fiducia tra partner, regole che normano i rapporti di reciprocità, similitudini in relazione alle condizioni economiche, di potere e al background storico-culturale (Brass et al., 2004).

1.1.3 Efficienza e stabilità nella rete

L’efficienza della rete è determinata dalla sua stabilità, a sua volta definita dal grado di fiducia e correttezza tra i retisti (Imbruglia e Quarto, 2014), dalla condivisione di informazioni e conoscenze e dall’elaborazione di un sistema di pianificazione (Ricciardi, 2010), oltre che dalle motivazioni che hanno condotto alla sua costituzione. La stabilità della rete è direttamente proporzionale al grado di coinvolgimento dei partner, collegato alla causa per cui la rete è stata fondata. Qualora l’impresa guida selezioni una cerchia di imprese, stimolate e interessate da un progetto comune, finalizzato al riposizionamento competitivo dei partecipanti, allora la stabilità e la durata della rete sono elevate. Se, invece, la costituzione della rete si fonda su proposte contingenti, come ricevere finanziamenti specifici, e la sua progettualità è proiettata nel breve periodo, la rete artificiale è destinata a sciogliersi in poco tempo. (Ricciardi, 2013).

La possibilità di confidare nelle capacità altrui influenza la stabilità della rete, poiché genera sicurezza e tranquillità. Di fronte a relazioni durature, eventualmente nate da rapporti antecedenti alla costituzione di una rete, si crea un clima di fiducia e correttezza reciproca, che consente di amalgamare i componenti all’interno di un’atmosfera di cooperazione ottimale, prevenendo così atteggiamenti opportunistici e disaccordi. La conoscenza antecedente alla costituzione della rete, infatti, permette di stabilire delle

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relazioni più solide. Se gli attuali retisti hanno collaborato in esperienze precedenti, hanno avuto modo da un lato di verificare l’affidabilità e il grado di efficienza altrui; dall’altro di interagire e conoscersi, favorendo l’instaurazione di relazioni fiduciarie (Ricciardi, 2005).

Fare rete significa riconoscere gli altri operatori come partner. Dunque, implica considerare le attività di ciascuno come contributi essenziali alla realizzazione del prodotto di rete e qualificare le relazioni come strumento utile per produrre valore. Pertanto, l’integrazione fra i membri si verifica nel momento in cui ogni partecipante condivide il proprio background e, contemporaneamente, entra in contatto con le conoscenze apportate dagli altri membri (Aureli S. et al., 2011; Ricciardi, 2005). Si consegue, così, un’atmosfera connotata da trasparenza e chiarezza. Trasparenza, per costruire un sistema, in cui le relazioni tra unità generano qualità aggiuntive a quelle possedute dai singoli elementi. Chiarezza negli obiettivi, per fondare una collaborazione seria e duratura. Il tutto a favore di rapporti diretti e meno burocratici (Imbruglia et al., 2014).

Infine, analizzando le opportunità offerte dal mercato, risulta più evidente alle imprese in quali ambiti è possibile ottenere dei ritorni economici. La pianificazione degli obiettivi, delle risorse e delle responsabilità sostiene la vita della rete, consentendole una maggiore stabilità e accompagnandola nel riposizionamento competitivo nel mercato. Il sistema di pianificazione prevede che, valutato il progetto di cooperazione e individuate le attività da svolgere, si selezionano i potenziali partner secondo criteri specifici. Insieme, si definisce il piano strategico, sulla base del quale viene presa ogni decisione. In seguito, si delineano procedure di controllo (sistemi informativi, condivisione dati, riunioni, incontri regolari) delle attività dei retisti, in funzione di un’adeguata gestione delle relazioni (Ricciardi, 2005).

1.1.4 Distretto e rete

Tipici degli anni ’70-’80, in cui l’economia aveva ancora una dimensione locale, i distretti sono forme di aggregazione produttiva e fortemente territoriali. Sono, infatti, concentrati

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in un’unica e limitata area geografica2, caratterizzata da una produzione dominante (Imbruglia et al., 2014).

Becattini nel 1979 definì il distretto industriale come “un’entità socio-territoriale, [...] in un’area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali” (Becattini, 1991).Nella definizione soprastante, Beccatini usa l’espressione “popolazione di imprese”. I distretti creano un ambiente vivo e un sistema stimolante, in cui diversi attori, appartenenti al medesimo settore industriale, interagiscono per la composizione del prodotto finale. Si tratta di piccole e medie imprese dei settori tradizionali che integrano le proprie specializzazioni, apportando così da un lato una riduzione della distanza cognitiva fra loro interponibile; dall’altro promuovendo il trasferimento e l’uso di conoscenze face to face, utili a produrne di nuove. Il contatto diretto tra le aziende membri dell’aggregazione distrettuale e l’impegno apportato nello svolgimento della medesima attività, learning by interacting e learning by using, consentono di ottenere miglioramenti e sviluppare in modo endogeno innovazione (Penco, 2010).

Sono imprese geograficamente vicine, che condividono il medesimo punto di vista sulla crescita economica, attuabile se si compete e si coopera in uno specifico segmento di mercato. In questo senso, le PMI si suddividono le diverse fasi del lavoro. Ogni azienda, specializzata in una fase del confezionamento del prodotto, contribuisce al completamento di un processo produttivo ben radicato nel territorio (Belussi e Caldari, 2009). Si generano relazioni collaborative spontanee e quasi automatiche all’interno di un contesto, percepito sia come realtà produttiva sia come ambiente di vita familiare, politica e sociale (Brunetta et al., 2015). Accantonando strategie dal “respiro corto”, nelle reti, invece, le imprese si pongono obiettivi di medio-lungo termine, rispondendo al bisogno di riposizionamento del tessuto economico industriale italiano (Brunetta et al., 2015).

2Nel 1919 l’influente economista inglese Alfred Marshall (Londra, 1842 - Cambridge, 1924) chiarì in “Industry and Trade” che la concentrazione geografica delle aziende è dettata innanzitutto dall’esigenza degli imprenditori di rimanere a stretto contatto con le risorse da cui dipendono (clima e terreno, in primis). In secondo luogo, dall’appoggio ad un ambiente da cui proviene una domanda stabile di beni di elevata qualità. Infine, dalla vicinanza a città (una o più) grandi e importanti (Belussi e Caldari, 2009)

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Per quanto riguarda la territorialità, nelle reti il territorio permane un elemento di aggregazione importante, ma non determinante. Pur rappresentando una componente di fiducia reciproca tra realtà imprenditoriali ubicate nella stessa area, in questo contesto deve essere interpretato come un vantaggio per una più forte presenza nel mercato internazionale (Imbruglia e Quarto, 2014; Brunetta et al., 2015). Inoltre, le reti registrano un livello di stabilità maggiore dei distretti. Questi, infatti, a livello nazionale non godono di una disciplina omogenea regolata da un contratto, come si vedrà in seguito per le reti di imprese (Imbruglia e Quarto, 2014).

1.2. I vantaggi dell’operare in rete 1.2.1 Vantaggi strategici

Appartenere a una rete comporta una serie di benefici.
Come già illustrato, le relazioni sono i fondamenti della rete e si traducono in scambi di conoscenze tra imprese. Migliorano i processi decisionali, inducono processi di crescita qualitativa, rafforzando il livello di competitività e sostenendo le imprese durante eventuali periodi di crisi.
Si instaurano in un ambiente dinamico e elastico. L’appartenenza alla rete, infatti, non impedisce alle imprese di mantenere la propria indipendenza. Esse continuano a svolgere la propria attività economica autonomamente o con il sostegno di altri soggetti, anche al di fuori del network (Ricciardi, 2010; Aureli e al., 2011).
L’elasticità e la mutevolezza della rete sono determinate dal fatto che essa può cambiare nel tempo, crescendo grazie all’inclusione di nuovi partner o diminuendo, a causa dell’esclusione di altri membri per scelte di convenienza individuali o collettive (Ricciardi, 2010).

Le relazioni che si instaurano tra le imprese della rete vanno a creare un maggior valore di tutto il sistema, si creano cioè delle sinergie, che possono essere di varie tipologie:

1. Operative: sono quelle sinergie che riguardano la gestione operativa e quindi si possono riflettere sulla condivisione di risorse e l’efficientamento dei processi, il rafforzamento della presenza sul mercato. L’obiettivo di questo tipo di sinergie è il massimo sfruttamento possibile delle relazioni che riguardano elementi tangibili quando si genera la condivisione di elementi oggettivamente quantificabili o di elementi intangibili se si riferiscono a elementi non identificabili come capacità

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manageriali. Le sinergie operative possono essere di mercato riuscendo a soddisfare più bisogni dei nostri clienti offrendo loro una molteplicità di prodotti e servizi. Sinergie di Produttività e di Approvvigionamento quando riusciamo ad aumentare la produzione grazie alla rete e abbiamo uno sconto maggiore sull’acquisto di partite maggiori di componenti. Sinergie infrastrutturali quando condividiamo con altri soggetti della rete alcune attività come l’amministrazione. 2. Finanziarie: hanno come obiettivo la riduzione dell’onerosità dei finanziamenti,

di facilitare l’accesso al credito grazie ad una maggiore stabilità ottenuta dalla partecipazione alla rete e di diminuire il fabbisogno finanziario. Grazie alle precedenti sinergie operative riusciamo ad ottenere un maggiore autofinanziamento cosicché possiamo ridurre i debiti finanziari. Inoltre ci può essere un incremento della capacità di accesso al credito grazie ad una stabilità maggiore nella previsione dei ricavi ed ad una diversificazione del rischio. 3. Fiscali: le sinergie fiscali riguardano in particolar modo le società che realizzano

delle fusioni, in particolare per le reti di imprese è stato previsto in passato la possibilità della sospensione di imposta per utili fino a 1 milione di euro destinati alla realizzazione del programma di rete entro l’esercizio successivo.

Logicamente le sinergie più importanti sono quelle operative mentre quelle finanziarie e fiscali possono fare da contorno.

Dalla coesistenza delle rispettive specializzazioni e dall’integrazione di know-how specialistici, deriva uno scenario flessibile e adattabile alle varie esigenze, in cui si potenzia l’efficienza produttiva e si stimola l’innovazione, anche tecnologica (Imbruglia e Quarto, 2014; Ricciardi, 2005).

1.2.2 Vantaggi economico-finanziari

La riduzione dei costi operativi, transazionali3 e la minore incidenza dei costi fissi rientrano tra i vantaggi economico- finanziari. Il processo di selezione dei partner è funzionale alla scelta di soggetti meritevoli, competenti, in linea con la mentalità

3Tra le teorie nella letteratura nazionale e internazionale che spiegano i motivi che inducono le imprese ad aggregarsi, si definiscono il transactional approach e il strategic management approach. Nel primo caso, si assume che le imprese si aggregano per minimizzare i costi delle transazioni. Nel secondo caso, per interesse, ovvero per migliorare la posizione competitiva di ogni singola impresa, sia nel panorama economico-industriale, sia in termini di acquisizione di nuove risorse (Aureli S. et al., 2011).

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reticolare e gli obiettivi preposti (Ricciardi, 2005). Secondo l’approccio economico, sostenuto da Williamson (1989), valutate le competenze distintive e le varie risorse di cui dispongono, ad ogni operatore viene affidata una fase specifica della produzione, l’attività in cui questi sono specializzati. Consentendo a ciascuno di “fare quel che sa fare meglio” (Ricciardi, 2010), si contraggono in questo modo i costi degli ammortamenti e del personale grazie ad un sistema produttivo più snello (condivisione di strutture produttive) che richiede alle singole società un minor fabbisogno di personale e minori impianti. Si attua, in definitiva, una combinazione di economie di scala ed economie di apprendimento raggiungibili tramite maggior efficienze a livello di costo unitario, puntando sulla specializzazione della fase produttiva svolta nella singola impresa, volta a migliorare la qualità del prodotto finale. La condivisione degli investimenti consente alle imprese di frazionare il rischio, in quanto serve un minor capitale da investire rispetto se avessimo fatto lo stesso investimento in totale autonomia, questa condivisione di investimenti può favorire l’impatto sul costo del capitale grazie ad un minor fabbisogno di capitale di terzi aumentando il valore creato dell’impresa.

Se la rete è stabile, le piccole imprese possono beneficiare di condizioni di finanziamento migliori, rispetto al caso in cui agiscano da sole facendo riferimento alle prima citate sinergie finanziarie. L’aggregazione in rete riduce i costi che le imprese devono sostenere per reperire le fonti di finanziamento necessarie. Questo è legato sia alla distribuzione del carico di spesa tra i membri sia ad una più trasparente relazione con gli istituti di credito che consente un contenimento dei costi di transazione e dei tempi di erogazione del finanziamento. L’appartenenza alla rete, mediante il frazionamento dei rischi, comporta un miglioramento della posizione creditizia delle imprese che la formano. Questo fattore, alla luce di quanto stabilito da Basilea 2 e Basilea 3, induce gli istituti di credito a sviluppare adeguati sistemi di valutazione del rischio per le imprese in rete, capaci di valorizzare i vantaggi di natura economica che derivano da tale strumento.

In questo senso la rete svolge la funzione di garanzia al credito. A tale proposito è fondamentale la dotazione da parte delle banche di strumenti per la valutazione del “capitale sociale” connesso alla cooperazione in rete sulla base di quanto sancito ed elaborato dal Comitato di Basilea nel nuovo accordo sul capitale (Ricciardi, 2003)

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1.3 Il problema dimensionale del sistema economico italiano

Le PMI rivestono un ruolo cruciale nello scenario economico- produttivo italiano. Questo segmento, infatti, ha registrato una presenza consistente, non solo in termini numerici, pari al 99% delle imprese industriali (Dati Istat 2015), ma anche dal punto di vista occupazionale.

Nonostante la flessibilità e la propensione commerciale e produttiva che le caratterizzano, la crisi finanziaria del 2007 si è ripercossa anche su un panorama così prospero, smorzando la capacità di competere delle PMI (Imbruglia e Quarto, 2014; Brunetta et al., 2015).

Varie e diverse sono state le problematiche con cui le PMI si sono interfacciate. Innanzitutto, la globalizzazione dei mercati ha inciso sullo scenario competitivo. Le PMI hanno dovuto affrontare la crescita di Paesi, la cui aggressività, in relazione a prezzo e incremento qualitativo del prodotto, ha consentito loro di conquistare segmenti di mercato transnazionale in cui le PMI riscuotevano maggiore successo4.

In secondo luogo, la complessità e l’eterogeneità della domanda, sempre più segmentata, ha disorientato le imprese, causando un generale stato di incertezza, soprattutto nei settori di attività più soggetti alla competizione del prezzo (settori tradizionali, ad esempio moda, oreficeria, mobilio) (Brunetta et al., 2015). Si aggiungano le conseguenti difficoltà finanziarie all’interno di un sistema che ha risentito di un deterioramento della liquidità, dovuto ad una contrazione del fatturato ed estensione dei tempi di pagamento (IRES, 2011). La riduzione nelle vendite, nelle esportazioni e, dunque, nella produzione è stata avvertita drasticamente dal 2008 (Brunetta et al., 2015; Ricciardi, 2010; Campagna, 2014).

Anche la centralità acquisita dai processi innovativi ha colto impreparate le PMI. In precedenza, il complesso imprenditoriale italiano agiva sfruttando la leva del prezzo

4In seguito alla globalizzazione, la dimensione delle PMI è stata avvertita come un limite. A partire dagli anni ’90 del secolo scorso, il sistema industriale italiano ha cominciato a confrontarsi con entità di maggiori dimensioni e, in generale, con il mercato internazionale, dimostrando la sua debolezza a causa di due difetti strutturali, ovvero la dimensione ridotta delle imprese italiane e la specializzazione nei settori tradizionali. Le esportazioni italiane Made in Italy sono state penalizzate da un ambiente sempre più competitivo e dall’acquisizione di importanti segmenti di mercato da parte di Paesi stranieri. Inoltre, costi del lavoro più elevati, minori processi di R&S, un basso livello infrastrutturale, il decentramento produttivo, seguito dalla relativa perdita di fasi della filiera produttiva (cosa che ha messo in crisi il processo di produzione locale), l’introduzione dell’euro, investimenti consistenti in capitale umano e capacità d’innovazione da parte dei competitors hanno colto impreparate le PMI non più capaci di sostenere autonomamente il confronto con il mercato globalizzato (Imbruglia e Quarto, 2014).

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(Campagna, 2014). Questa politica risultava la strategia migliore per poter emergere a livello territoriale, in un contesto “pre-globalizzato”. La globalizzazione, invece, ha evidenziato quanto questa linea di azione, oggi, non sia più adeguata, dato che ricerca e sviluppo hanno assunto una posizione determinante per la competitività globale. L’industria italiana con fatica ha retto la concorrenza internazionale perché poco presente nei settori high-tech, specializzandosi in quelli tradizionali (CNEL, 2008)5. La specializzazione nei settori maturi del Made in Italy, da un lato, ha comportato, il rischio di essere contendibili da altri paesi, sconfinando in settori a bassa capacità di crescita. Il nanismo delle imprese e la scarsa presenza nei compartimenti high-tech hanno trascinato le PMI italiane ad una perdita di quote nel mercato globale.

Il CNEL nel 2008 ha redatto un documento sui temi dell’innovazione produttiva e della competizione globale, promuovendo un percorso di ristrutturazione del sistema economico-produttivo e riposizionamento competitivo delle imprese. Tra i “talloni d’Achille” descritti, si evidenzia come l’industria italiana non abbia in passato adeguatamente investito in R&S, perché specializzata in settori low-tech. Ad oggi, risulta un modus operandi non più adeguato a raggiungere un livello di vantaggio competitivo significativo all’interno del mercato globale.

1.3.1 L’innovazione nel mercato italiano

Definita la complessità del mercato e percepiti i continui mutamenti cui è sottoposto, l’innovazione diventa strumento primario per sostenere la crescita del sistema economico-produttivo e fronteggiare la concorrenza. Consente l’acquisizione di nuova tecnologia, comporta un livello di efficienza produttiva maggiore, con la conseguente compressione dei costi, genera valore di mercato e risponde alle richieste dei consumatori.

Secondo un’indagine condotta nel 2011 dal Ministero dello Sviluppo Economico, l’innovazione deve essere conseguita (Ministero dello Sviluppo Economico, 2011):

5 I settori industriali si suddividono in: low-tech, ovvero settori a bassa intensità tecnologica (prodotti alimentari, tessile, abbigliamento, articoli in legno,); medium low-tech, con cui si individuano le industrie a contenuto tecnologico medio- basso (prodotti petroliferi, articoli in plastica e gomma, prodotti ottenuti dalla lavorazione dei metalli); medium high- tech, le industrie a contenuto tecnologico medio-alto (prodotti chimici, macchinari, automobili); high-tech, le industrie ad alta intensità tecnologica (prodotti farmaceutici, materiali informatici, apparecchi radio, televisione e comunicazioni, strumenti di ottica e orologeria)(CNEl,2008).

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- nei settori maturi, in cui l’industria italiana da sempre eccelle sui competitor (moda, alimentare, mobilio, oreficeria), introducendo nuove tecnologie e mezzi di produzione;

- nel settore delle tecnologie additive (additive-manufacturing), le cui potenzialità si concretizzano nel risparmio di costi e tempo durante il confezionamento del prodotto6;

- nei centri di R&S e nelle forme di ricerca cooperativa, in cui l’Italia è in difetto rispetto agli altri paesi europei (Ministero dello Sviluppo Economico, 2011).

Il cambiamento esterno del mercato stimola e spinge l’imprenditore a reagire per potervi sopravvivere, inducendolo ad adottare un approccio proattivo all’innovazione.Innovare è sinonimo di crescita. Questa si verifica grazie all’attuazione di una strategia studiata in base agli obiettivi da preposti e supportata da delle analisi di scenario che quindi possa essere attuabile, caratterizzata da una visione integrata delle varie funzioni aziendali e del mercato (clienti e concorrenti). Elaborare un sistema di gestione dell’innovazione può rappresentare un elemento di differenziazione per le PMI all’interno di un contesto non solo locale, e considerarsi elemento chiave del brand aziendale. Possedere la migliore tecnologia non è sufficiente per avere successo nel mercato: l’innovazione deve essere intesa come la commercializzazione di nuove idee, nel senso di prodotti, processi, servizi e modelli di business. Il valore derivante dall’introduzione di queste innovazioni nel mercato è tale nel momento in cui, introdotta la novità, il bacino di utenti e stakeholder percepisce il miglioramento rispetto al prodotto/servizio precedentemente offerto ed è spinto a riacquistare/reinvestire.

Fare innovazione, però, implica non solo investire adeguatamente risorse, umane e finanziarie, ma anche una particolare disposizione al rischio ed alla delega, mentre nelle piccole realtà spesso si riscontra una rigidità degli imprenditori rispetto al cambiamento

6 Con additive manufacturing si indica l’insieme di processi produttivi, grazie ai quali un oggetto (concepito come modello digitale), viene ricreato nella realtà in modo additivo, sovrapponendo cioè strati successivi. Le stampanti 3D, ad esempio, sono strumenti che realizzano oggetti tridimensionali grazie alla produzione additiva.
Notevoli sono i vantaggi: oltre all’opportunità di produrre qualsiasi forma, difficilmente riproducibile con altre tecnologie, consentono una riduzione dei costi di produzione, manodopera e di trasporto. Inoltre, permettono una riduzione dei tempi di assemblaggio.

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di certi processi decisionali e produttivi, come nel riporre fiducia nei terzi tramite la delega di alcune parti dei processi.

1.3.2 Closed Innovation

Nel vecchio modo di procedere, che Chesbrough (2003) definisce Closed Innovation

Model, le imprese sono portate a seguire la seguente ipotesi: le innovazioni di successo

richiedono controllo. In altre parole, le aziende seguono un cammino preciso secondo il quale devono generare le idee che poi vorranno sviluppare, fabbricare, distribuire e commercializzare. Quest’approccio richiede una fortissima “auto-referenzialità”: se vuoi qualcosa di ben fatto, devi produrlo da te stesso.

Per anni alla logica della closed-innovation è stata tacitamente data una fondamentale importanza come “la giusta via” per portare con profitto nuove idee sul mercato7. La maggior parte delle imprese che nel 1900 hanno riportato successi, hanno affrontato il mercato utilizzando questo tipo di approccio. Il percorso da questo proposto ha portato le aziende ad investire pesantemente in attività interne di ricerca e sviluppo, ad assumere il personale migliore e più preparato e ad applicare le tecnologie più recenti, con costi non indifferenti. Ma, grazie a questi investimenti in personale e tecnologia le imprese sono state in grado di scoprire il maggior numero di idee innovative e tra queste selezionare le migliori che hanno tradotto in prodotti portati con successo sul mercato. Questo ha consentito loro di ricavare la maggior parte dei profitti che hanno protetto attraverso un aggressivo controllo delle loro proprietà intellettuali (brevetti e licenze). Chesbrough (2003)

Hanno potuto poi reinvestire i proventi in nuove attività di R&S che hanno portato a nuove scoperte innovative, creando così un circolo virtuoso per l’innovazione

1.3.3 l’Open Innovation

Le imprese potrebbero invece collaborare con altre organizzazioni coinvolte nella catena del valore (clienti, utilizzatori, fornitori, distributori, ricercatori), secondo un approccio

7 si considerano i settori ad altamente tecnologici e la tipologia di settori maturi a cui si fa riferimento nel documento del Ministero dello Sviluppo Economico,2011.

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di innovazione collaborativa, in questo potrebbero modo ottenere dei vantaggi. I tre principali benefici che si possono notare sono:

1. il valore del prodotto co-creato: tramite una strategia di business che vuole

enfatizzare la realizzazione del valore aziendale condiviso con il cliente, l’azienda cerca di innovare sulla base dei requisiti o delle proposte che gli utenti fanno per un prodotto/servizio già esistente o completamente nuovo.

2. il valore offerto dai prodotti e servizi complementari: consiste nel creare valore

per il cliente non solo con il prodotto che acquista, ma dandogli la possibilità di aumentare il valore della sua esperienza tramite servizi aggiuntivi complementari al prodotto principale, un esempio può essere il servizio di assistenza in pista delle aziende per gli acquirenti di determinati veicoli.

3. I vantaggi ottenuti dalla cooperazione, grazie al miglioramento dell’immagine

e/o al riposizionamento strategico ottenuti tramite la cooperazione, l’impresa può riuscire ad aumentare la propria profittabilità, perché i prodotti/servizi incontreranno maggiormente le esigenze dei consumatori facendo si anche che rimangano più fedeli al brand stesso.

Il modello dell’Open Innovation (Chesbrough et al., 2006) non è ancora entrato nella pratica comune. Il modello tradizionale di innovazione tende principalmente a ricercare e sviluppare valore all’interno dell’azienda, a discapito di interdisciplinarietà, network, scambi di conoscenze e informazioni. Chesbrough8 ha definito come un processo di innovazione distribuita, fondato su flussi di conoscenza interni e esterni, che da un lato accelerano l’innovazione interna all’azienda, dall’altro estendono il mercato attraverso l’uso esterno dell’innovazione creata. È “un paradigma che afferma che le imprese

possono e debbono fare ricorso a idee esterne, così come a quelle interne, e accedere con percorsi interni e esterni ai mercati, se vogliono progredire nelle loro competenze tecnologiche” (Chesborough et al., 2006).

7Henry Chesbrough (1956) è un economista statunitense. In “The era of open innovation” (2003) descrive il passaggio dal modello tradizionale di innovazione cui era abituata l’impresa, al nuovo paradigma dell’open innovation.

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La Open Innovation tende a essere concentrata nel momento generativo delle idee: sta alla base di molte idee e tecnologie che generano prodotti emersi dall’interazione di più attori della catena del valore. È un processo dinamico, continuo, verso una ricerca di confronto e scoperta (Costa, 2011).

Si tratta di un’idea democratica, che prevede collaborazioni tra realtà di dimensioni diverse e l’empowerment di soggetti precedentemente soffocati dal modello tradizionale (closed-innovation). Se ne deduce uno sfondo etico, basato sull’idea che l’economia può avere una dimensione cooperativa, non solo competitiva.

1.3.4 Tra closed-innovation e open-Innovation

Per la maggior parte del ventesimo secolo il modello della closed-innovation ha funzionato e molto bene. Verso la fine del secolo, tuttavia, diversi fattori combinati assieme hanno cominciato a minare questo paradigma. Tra di essi, anzitutto, la sempre più forte mobilità dei lavoratori che ha fatto crescere la difficoltà delle imprese di controllare e proteggere le loro idee ed esperienze. Infatti, quando una persona lascia l’impresa dopo anni, porta con se un’esperienza e conoscenze che solitamente può sfruttare nella nuova azienda. In altri casi, l’impiego di stage e tirocini nei laboratori d’imprese ha facilitato lo spill out di conoscenze che ha permesso poi di creare nuove società.

Un altro fattore che ha indebolito il modello vigente, è stato la disponibilità, il ricorso e l’utilizzo dei finanziamenti esterni all’azienda (ad esempio il venture capital). Questi hanno permesso a nuove aziende di sostenere gli sforzi per commercializzare idee innovative, a volte derivate come spillover dai laboratori di grandi imprese, divenendone addirittura formidabili concorrenti.

Altri fattori da ricordare sono il sempre più breve time to market per molti prodotti e servizi che mette in difficoltà le grandi società poco snelle e veloci e la competizione che ormai è divenuta globale e con connotati non più solamente locali ma sovente, nazionali o internazionali.

L’azione d’indebolimento svolta da tutti questi fattori ha fatto si che il circolo virtuoso sostenuto dalla closed-innovation si sia spezzato, creando nuove opportunità per il personale soprattutto delle grandi imprese. Infatti, queste persone, se l’impresa in cui

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lavorano fa una nuova scoperta e non la sfrutta in un tempo opportuno, possono appropriarsene e utilizzarla attraverso un’impresa start-up finanziata con il seed o venture

capital. A volte questa nuova azienda fallisce dopo poco ma se, come più spesso accade,

ha successo può poi attrarre nuovi capitali e soci avendo la possibilità di ricercare all’esterno altre nuove idee da sfruttare, crescendo ulteriormente.

Si evidenzia anche un’altra difficoltà nel modello della closed-innovation. Infatti, l’impresa che in principio aveva fatto la scoperta innovativa che poi non ha utilizzato ed è stata adoperata da altri, ovviamente, non ottiene un ritorno dai suoi investimenti in R&S pur se li aveva appositamente stanziati. Quindi non potrà investire in nuova ricerca. Ma dall’altra parte, l’azienda che sfrutta e ottiene profitti dal nuovo prodotto generalmente non reinveste il guadagno in ricerca di base per altre nuove scoperte perché, ad esempio, non ha personale preparato che possa eseguire altra ricerca. Perciò anche qui si ha una rottura del circolo virtuoso e, in questa situazione, il modello della closed-innovation non è più sostenibile.

Nasce così un nuovo approccio che Chesbrough (2003) chiama open-innovation.

Questo assume che le imprese possano e dovrebbero utilizzare idee (e tecnologie) sviluppate esternamente ad esse allo stesso modo di quelle che nascono all’interno.

Inoltre, al tempo stesso, le aziende possono commercializzare le idee avute all’interno attraverso canali che sono esterni al loro attuale business in modo da generare comunque valore aggiunto per l’organizzazione. Alcuni modi per attuare ciò sono le imprese

start-up (che possono essere formate da personale proveniente dall’azienda da cui nasce questa

nuova società) e i cosiddetti licensing-agreement (ovvero accordi per contratti di licenza di brevetti). In aggiunta, le idee possono essere originate esternamente ai laboratori di ricerca dell’impresa e portate all’interno per essere sviluppate e/o commercializzate. In altre parole, i confini tra impresa e l’ambiente esterno circostante sono più labili e “porosi” permettendo una permeabilità, un passaggio più facile e frequente di innovazione.

L’open-Innovation implica che l’azienda abbia una vasta conoscenza disponibile, frutto di ricerche interne ed esterne all’impresa, che deve essere utilizzata entro breve tempo in modo da creare valore. Infatti, un’azienda non dovrebbe limitare in alcun modo la

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conoscenza che ottiene dalla ricerca condotta internamente e dall’altra parte dovrebbe avere le capacità di restare aperta a tutte le nuove conoscenze che possono venire dall’esterno, riuscendo a discernere le conoscenze utili alla sua attività. Questa nuova visione suggerisce anche un innovativo modo di operare.

Quindi un’impresa non dovrebbe più tenere sottochiave le sue proprietà intellettuali (intellectual property) ma, al contrario, dovrebbe trovare il modo per trarre profitto dal loro uso concesso ad altri, ad esempio attraverso accordi per contratti di licenza di brevetti (licensing agreement).

Una delle maggiori differenze tra i paradigmi della closed e open-Innovation risiede nel modo in cui le aziende esaminano i loro progetti. In un processo di R&S, i ricercatori e i manager devono separare le idee buone da quelle scadenti in modo da eliminare queste ultime e sostenere e commercializzare le prime.

Entrambi i modelli sono capaci di estirpare quelli che Chesbrough chiama i “falsi positivi” (cioè idee fasulle che inizialmente sembrano promettenti), ma l’approccio dell’open-Innovation incorpora in più la possibilità di salvare i “falsi negativi” (cioè progetti che inizialmente non sembrano importanti ma poi, invece, si rivelano di sorprendente valore).

Un’impresa troppo focalizzata verso il suo interno (ovvero che segue il modello della

closed-innovation) tende a perdere opportunità perché parecchie di esse vengono

sviluppate al di fuori dell’azienda che non è in grado di appropriarsene oppure sono sviluppate internamente ma necessiterebbero di essere combinate con tecnologie esterne per esprimere appieno il loro potenziale. Questo è piuttosto rischioso per le imprese che hanno fatto investimenti a lungo termine nella ricerca per scoprire più tardi che alcuni dei progetti abbandonati hanno invece un importante valore commerciale.

Tutto ciò non significa che tutte le imprese abbiano dovuto o debbano migrare verso il paradigma della open-Innovation. Come espresso da Chesbroug, attualmente le imprese si collocano in un continuum che si può tracciare dalla condizione di completamente closed-innovation a quella di esclusivamente open-Innovation. Sicuramente i due approcci possono coesistere nella medesima impresa, senza alcun tipo di conflitto, ma anzi con una complementarietà tra loro.

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Ad esempio, secondo Chesbrough (2003), la Procter & Gamble ha istituito una politica per cui ogni idea originata nei suoi laboratori viene offerta all’esterno, addirittura anche a concorrenti, se non è utilizzata all’interno per nuovi prodotti entro tre anni. Questo approccio permette sia la nascita di nuove imprese spin off, sia di affrontare il mercato al momento giusto con innovative soluzioni che portino profitti.

1.4 Il contratto di rete per regolare l’open innovation

Dopo aver osservato la necessità odierna delle imprese di volgere verso l’open innovation per poter rimanere competitive sul mercato, è opportuno capire come il contratto di rete serva a regolare i rapporti che vanno tra gli addetti che aderiscono ad una rete di imprese. il contratto a cui le imprese aderiranno contiene i diritti e gli obblighi che i retisti decidono di sottoscrivere e rispettare, per la buona riuscita degli obiettivi comuni e, dei singoli retisti.

Il contratto di rete è stato introdotto nell'ordinamento italiano con l'art. 3 del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5 convertito, con modificazioni dalla Legge 9 aprile 2009, n. 33. Il comma 4-ter e ss. della L. 33/20099 recita:

“Con il contratto di rete più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la competitività sul mercato [...]”.

Il contratto di rete può essere definito genericamente come un negozio plurilaterale che genera un fenomeno di aggregazione tra imprese al fine di instaurare una reciproca collaborazione per accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e competitiva sul mercato.

Prevede alcuni obblighi formali nella sua stipulazione. Deve contenere: l’indicazione delle imprese partecipanti; la stesura degli obiettivi strategici da perseguire e le modalità con cui verificarne il perseguimento; un programma di rete, con diritti e obblighi di ciascun retista e il modo con cui realizzare gli obiettivi comuni; la durata del contratto; le modalità di adesione e le regole per l’assunzione delle decisioni dei partner.

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Si tratta in pratica di un contratto plurilaterale di cooperazione interaziendale. In particolare, con l'art. 45 del decreto-legge n. 83/2012, convertito nella legge n. 134/2012 sono state introdotte importanti innovazioni rispetto alla disciplina previgente.

All’art 45, comma 3 lettera e) della legge 134/2012 si dispone che: se il contratto ne prevede l’istituzione (del fondo patrimoniale), il nome, la ditta, la ragione o la denominazione sociale del soggetto prescelto per svolgere l’ufficio di organo comune per l’esecuzione del contratto o di una o più parti o fasi di esso, i poteri di gestione e di rappresentanza conferiti a tale soggetto, nonché le regole relative alla sua eventuale sostituzione durante la vigenza del contratto. L’organo comune agisce in rappresentanza della rete e, salvo che sia diversamente disposto nel contratto, degli imprenditori, anche individuali, partecipanti al contratto, nelle procedure di programmazione negoziata con le pubbliche amministrazioni, nelle procedure inerenti ad interventi di garanzia per l’accesso al credito e in quelle inerenti allo sviluppo del sistema imprenditoriale nei processi di internazionalizzazione e di innovazione previsti dall’ordinamento, nonché all’utilizzazione di strumenti di promozione e tutela dei prodotti e marchi di qualità o di cui sia adeguatamente garantita la genuinità della provenienza;».

Con la trasformazione di questo decreto, è stata dunque riconosciuta al contratto di rete la possibilità, nel momento in cui venga costituito un fondo patrimoniale comune e un organo comune destinato a svolgere attività con i terzi, di acquisire soggettività giuridica. Quindi se il contratto prevede l'istituzione di un fondo patrimoniale comune e di un organo comune destinato a svolgere un'attività, anche commerciale, con i terzi, la rete può iscriversi nella sezione ordinaria del registro delle imprese nella circoscrizione in cui è stabilita la sua sede. Con l'iscrizione nel registro delle imprese la rete acquista

soggettività giuridica. Al fondo patrimoniale comune si applicano, in quanto

compatibili, le disposizioni sul fondo consortile di cui agli articoli 2614 e 2615, secondo comma, del codice civile. In ogni caso, per le obbligazioni contratte dall'organo comune in relazione al programma di rete, i terzi possono far valere i loro diritti esclusivamente sul fondo comune.

Si può definire dunque la rete di imprese come strumento aggregativo che consente di sfruttare parte dei vantaggi della grande dimensione, pur senza annullare le singole identità aziendali. Sfruttando i meccanismi della collaborazione tra imprese, si candida ad essere uno strumento di generale applicazione, flessibile e concreto nel definire e

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governare le interrelazioni tra imprese su cui si ritiene di far leva per ottenere vantaggi per favorire l’aumento della competitività e dell’innovazione sia nazionale che internazionale. Con la possibilità di istituire una “rete soggetto”, ovvero una rete dotata di soggettività giuridica che potrà svolgere attività commerciale, operando con una propria partita Iva, dotata di una sede sociale definita e di un fondo patrimoniale, questa diventa un vero e proprio centro di imputazione di posizioni giuridiche ed economiche, attive e passive con il conseguente obbligo di adempimenti contabili e fiscali.

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CAPITOLO 2 Il business model

2.1 Il business model: definizione e cenni introduttivi

Il tema del business model è per molti aspetti un tema di recente sviluppo. Non esiste ad oggi una definizione assoluta (Smith, Shafer e Linder 2005 pg. 203). Spesso il business model viene erroneamente associato al concetto di strategia ma rappresentano due costrutti differenti. Il business model agevola le analisi del contesto competitivo e la valutazione di decisioni relative alle scelte strategiche di un’azienda ma non rappresenta “la strategia” (Smith, Shafer e Linder 2005 pg. 203). Già Clark e Bellman nel 1957, ma anche Jones nel 1960, accennavano al business model ma gli studi concreti sono recenti, ad opera di studiosi quali Pigneur, Tucci e Osterwalder.

In questo elaborato ci focalizzeremo sul business model canvas pertanto osserviamo come gli autori Osterwalder, Pigneur e Tucci(2005) identificano il modello di business: I tre autori ricorrono a contributi della letteratura precedente e nella loro descrizione della struttura di business utilizzano nove blocchi strutturali definiti dagli stessi “blocchi di costruzione” che successivamente vengono riuniti in quattro “pilastri”(Figura 1). Da questi blocchi deriverà poi il “Business Model Canvas” ideato da Osterwalder. La definizione di business model proposta: “Il business model è uno strumento concettuale contenente un insieme di elementi e le relative relazioni che permette di esprimere la logica di business di una specifica impresa. É l’espressione del valore che un’impresa offre a uno o più segmenti di clienti e dell’architettura dell’organizzazione. Descrive la rete di collaboratori che creano, promuovono e consegnano questo valore per generare flussi di ricavi profittevoli e sostenibili” (p.5). Il business model viene inserito al centro del cosiddetto “Business Triangle” (figura 2) in cui ritroviamo la strategia, l’organizzazione e i sistemi informativi di un’impresa. Su queste tre componenti agiscono forze esterne quali ambiente sociale, norme e regolamentazioni, forze competitive, domanda di mercato e sviluppo tecnologico che possono sollecitare delle modifiche nel business model al fine di preservarne l’efficacia.

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Figura 1: I nove blocchi del business model secondo Ostewalder, Fonte. Osterwalder A., Pigneur Y., Tucci C.L., 2005.

Figura 2 Business model come elemento centrale del “Business triangle” Fonte: Osterwalder A., Pigneur Y., Tucci C.L., 2005.

2.2 Modelli di business e strategia: confronto e differenze

É importante distinguere due concetti fondamentali che sono appunto quelli di strategia e modelli di business. il modello di business di un’impresa è un riflesso della sua strategia realizzata. Secondo Casadesus-Masanell e Ricart, c’è poco da guadagnare dalla distinzione dei due concetti nel momento in cui, non ci sono rischi particolari da considerare nella scelta del modello di business. La differenza sostanziale tra strategia e modello di business emerge quando il piano strategico d’azione richiede modifiche del

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business model per via di contingenze da considerare. Una contingenza che ritroviamo nel momento storico attuale per fare un esempio, è la ripresa dalla recessione economica. Le imprese hanno piani che considerano vari scenari possibili e ognuno si caratterizza di relative modifiche del business model. Tali piani sono legati alle possibili strategie aziendali. Altre possibili contingenze possono nascere dalle azioni delle altre imprese concorrenti che chiaramente l’azienda non può controllare. Un esempio può essere il potenziale ingresso di un nuovo competitor sul mercato che quindi può comportare che si debba calibrare la propria strategia anche in base a questa situazione. Per cui se tale entrata dovesse verificare, si farà riferimento ad un ipotetico business model A, altrimenti ad un ipotetico business model B che considera lo scenario opposto.

In sostanza la strategia è molto più della semplice selezione di un modello di business, si tratta di un piano contingente che ci dice come dovrebbe essere configurato il modello di business in base alle contingenze che potrebbero verificarsi.

Il modello di business è il riflesso della sua strategia realizzata. In situazioni semplici (in cui non ci sono rischi, aldilà delle semplici scelte competitive, su cui basare le proprie scelte strategiche), la strategia può “coincidere” con l’organizzazione del modello di business. Mentre ogni organizzazione possiede un business model (poiché ogni organizzazione fa delle scelte e le scelte hanno delle conseguenze), non tutte le organizzazioni hanno una strategia ovvero un piano d’ azione per le diverse contingenze e scenari che potrebbero presentarsi (Casadesus-Masanell e Ricart 2010).

2.3 L’importanza di un business model

Il business model è importante perché interessa in maniera diretta e concreta le attività delle aziende. Supporta i manager e li aiuta a prendere decisioni in merito alle risorse che hanno a disposizione così da poter ottenere il maggior valore possibile nel tempo. Osterwalder, Pigneur e Tucci(2005) distinguono cinque funzioni rilevanti del business model:

• Comprensione e condivisione: diventa necessario un concetto generico e condiviso per descrivere il modello di business in modo che tutti capiscono gli elementi rilevanti. Solitamente esprimerlo tramite un modello visivo aiuta la comprensione. Riuscire a

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condividere e comunicare il modello è molto importante per migliorare il dialogo tra persone che operano nella stessa impresa ma provengono da background diversi.

• Analisi: tramite l’analisi del modello di business potrebbe essere più facile trovare i giusti indicatori con cui monitorare l’implementazione della strategia, inoltre la logica aziendale cambia spesso nel tempo e nello spazio quindi un modello strutturato è utile a confronti spaziali (con altre aziende) e confronti temporali per capire come si sono modificate le problematiche nel tempo.

• Gestione: se il concetto di modello di business migliora comprensione e condivisione possiamo dire che i decision maker nelle aziende riescono a creare modelli migliori ed utilizzandoli come una nuova unità di analisi, li aiutano a migliorare le decisioni da prendere. Inoltre, tramite la mappatura del modello di business si creano le basi per migliorare la velocità e l’adeguatezza delle reazioni (intese come cambiamenti da apportare internamente) alle variazioni esterne.

• Acquisizione di prospettiva: i manager di un’azienda possono sperimentare la creazione di modelli di business partendo dagli elementi dell’azienda e le loro relazioni reciproche, utilizzando questi elementi come se fossero blocchi Lego si possono creare molteplici modelli e tramite la simulazione di essi si possono sperimentare a basso rischio per l’impresa dei possibili futuri modelli di business. In questo modo ha luogo anche l’innovazione del modello, creando un portafoglio di modelli con strategie annesse, che mantiene l’azienda pronta per far fronte ad esigenze di cambiamento.

• Registrazione del brevetto: si tratta di elementi particolari del modello di business che possono essere brevettati per fare in modo che il nostro modello sia protetto o più difficilmente imitabile. È una particolarità che riguarda specialmente l’e-business.

In base alle considerazioni di questi autori, la prima funzione risulta essere forse la più importante infatti accade spesso che nelle organizzazioni, i soggetti non si servono di modelli o schemi mentali condivisi. Si rivela quindi fondamentale formalizzare il modello di business per meglio comprenderlo, condividerlo e comunicarlo all’ interno e all’esterno in base alle circostanze (Osterwalder, Pigneur e Tucci 2005). L’ importanza è riscontrabile anche a livello di sistema informativo interno poiché coloro che prendono le decisioni, hanno la possibilità di fruire di un maggior numero di informazioni. Il

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modello di business poi può anche essere comparato con quello di altre imprese concorrenti che si trovano o meno nel settore di riferimento, al fine di ricavarne spunti e idee importanti in termini di innovazione.

Non è semplice riuscire a progettare un business model che sia coerente, che abbia elementi legati sinergicamente in maniera positiva tra loro, ottimizzato nelle sue funzionalità. Esso deve anche essere abbastanza flessibile in termini di modifiche apportabili e reattivo ai cambiamenti del sempre più mutevole contesto in cui si trovano le imprese, incoraggiando una visione e una prospettiva innovativa agendo sulle relazioni che legano gli elementi costituenti. Il business model è legato alla strategia ed è condizionato dallo scenario competitivo in cui l’azienda opera, quindi è fondamentale progettare business model diversi a cui fare riferimento con tempestività in caso di bisogno. Si rivela necessaria la simulazione di vari business model in base agli scenari possibili in modo da poter condurre esperimenti abbassando quindi il tasso di rischio e riducendo il pericolo per l’organizzazione.

Il concetto di business model implica anche la possibilità di perseguire innovazione e cambiamento. Ovviamente ogni esperto arricchisce la materia con contributi e metodologie differenti pertanto ancora non si è giunti ad una definizione da tutti condivisa. Ciò che sembra però essere un punto di unione delle varie concezioni è che il business model esprime il modo in cui un’azienda riesce a combinare gli elementi e le risorse che ha a disposizione per svolgere le proprie attività trovando così una formula che possa creare valore per i clienti e per l’azienda stessa.

2.4 Elaborazione del business model

Nel momento in cui ci troviamo a dover scegliere un modello di business per un’azienda, dobbiamo capire quello che può rivelarsi il più adeguato alla nostra realtà aziendale e al contesto di riferimento. A seconda delle decisioni che prenderemo, ci sarà una diversa allocazione delle risorse, un determinato investimento di capitale e uno specifico modello di business. Questa scelta è uno dei momenti fondamentali nel percorso di vita di un’impresa sia che si sviluppi una nuova attività imprenditoriale, sia che si stia seguendo un processo di innovazione perché non è una decisione da cui si può facilmente tornare indietro. Creare un modello di business e tradurlo in pratica e operatività richiede la disponibilità di risorse e il loro impiego per sviluppare l’attività scelta. In base alle

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