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Narrazioni tossiche e dialogo interculturale

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Academic year: 2021

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SAGGI – ESSAYS NARRAZIONI TOSSICHE E DIALOGO INTERCULTURALE

di Massimiliano Fiorucci

Il contributo, attraverso il riferimento a numerosi autori di di-versi campi disciplinari, affronta la questione delle narrazioni do-minanti sul tema delle migrazioni. Tali narrazioni vengono defini-te tossiche poiché, senza defini-tener conto dei dati di realtà, propongo-no una rappresentazione scorretta finalizzata a ottenere facili con-sensi elettorali. Successivamente l’Autore propone il dialogo co-me struco-mento per la costruzione della convivenza e si sofferma sul ruolo imprescindibile dell’educazione declinata in prospettiva interculturale. Un’educazione che assegna un ruolo centrale all’istituzione scolastica ma che deve necessariamente andare oltre la scuola.

The article deals with the issue of dominant narratives on mi-gration, with regard to several authors of different disciplinary fields. These narratives are called toxic because, without taking into account the real data, propose an incorrect representation aimed at achieving easy electoral consents. Subsequently the au-thor proposes dialogue as a tool for the construction of coexist-ence and focuses on the indispensable role of education declined in an intercultural perspective. An education that assigns a central role to the educational institution but that must necessarily go be-yond the school.

1. Narrazioni dominanti e dialogo interculturale

Le questioni relative alle migrazioni e alle cosiddette società multiculturali sono ormai centrali per il mondo dell’educazione e,

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come è sempre più evidente, per la società nel suo complesso, per i governi, per i media e per l’opinione pubblica. Si tratta di argo-menti complessi che rischiano di essere facilmente strumentaliz-zati per dividere l’opinione pubblica e per costruire facili consen-si. L’ambito pedagogico ha avuto l’indubbio merito di compren-dere sin da subito la centralità di tali questioni, facendosi interpre-te di questa esigenza ed elaborando visioni e proposinterpre-te all’avanguardia. In Italia, sono della fine degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta del secolo scorso le prime ricerche e i primi studi in campo educativo che avevano come proprio oggetto i fe-nomeni migratori e le relazioni interculturali e, ciononostante, il dibattito pubblico sembra ignorare le strumentazioni concettuali, il lessico pedagogico e le strategie operative elaborate in questo ambito optando per quelle semplificazioni che garantiscono un maggiore clamore mediatico (Fiorucci, Pinto Minerva & Portera, 2017).

La pedagogia si trova, pertanto, ancora di fronte a nuove sfide tra cui quella non rinviabile di costruire le condizioni per il dialo-go fra persone che fanno riferimento a sistemi culturali e valoriali in alcuni casi anche molto differenti formulando una proposta o-rientata in direzione “ostinata e contraria”1 rispetto a quella dello “scontro delle civiltà” (Huntington, 2000). Costruire le condizioni per la convivenza positiva e per il dialogo è in primo luogo una questione educativa che deve fare i conti con una narrazione tos-sica molto potente portata avanti dagli “imprenditori della paura” (Boeri, 2019). Alimentando ad arte i sentimenti di paura e di insi-curezza, in modo particolare in un periodo di profonda crisi eco-nomica, sociale, culturale, valoriale e, non ultima, morale gli im-prenditori della paura continuano in quell’eterno processo di “co-1 Si tratta dei versi di una canzone di Fabrizio De André (1940-1999). La canzone s’intitola “Smisurata preghiera”, ed è l’ultimo brano dell’ultimo album ufficiale di De André, Anime salve, scritto con Ivano Fossati nel 1996. Tali versi danno anche il titolo alla antologia ufficiale postuma di Fabrizio De André u-scita nel novembre del 2005, che si propone di costituire la summa dell’opera artistica del cantautore.

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struzione del nemico” e del capro espiatorio (Eco, 2011; Stella, 2010) sempre utile per deviare l’attenzione della pubblica opinio-ne dai problemi reali e per orientare in senso xenofobico e razzi-sta le campagne elettorali. Tale clima risveglia e fa riemergere vec-chi fantasmi che si credevano sepolti. Colpisce in modo particola-re il fatto che nell’ottantesimo anniversario dalle proclamazione delle leggi razziali, alcuni esponenti politici importanti e che oggi rivestono cariche pubbliche di responsabilità possano affermare impunemente che si debba proteggere la “razza bianca”2.

Tra le tante possibili risposte alla domanda “che cos’è il razzi-smo?” sembrano utili le riflessioni di Clelia Bartoli (2016).

Il razzismo è soprattutto una strategia sociale praticata non di rado anche da sedicenti progressisti e democratici per garantirsi un vantaggio nella competizione per le risorse materiali e simboliche. Iscriversi e ri-vendicare l’appartenenza al club della “razza superiore” sembrerebbe garantire l’esercizio del diritto di prelazione su risorse, privilegi e presti-gio. E a tal fine, la violenza bruta e plateale non sempre è necessaria, mai sufficiente. Occorre piuttosto un ordine, una struttura, un insieme di leggi che, senza far “rumore”, ma con efficacia, statuisca e legittimi il divario. Attraverso una nomenclatura dell’esclusione, norme e prassi discriminatorie, un’urbanistica che segrega ed emargina si edifica il si-stema “razzista”: segnato da iniquità, opportunismo, rabbia e sconforto (pp. 125-126).

Si tratta, in altri termini, di un sistema gerarchico di potere fondato sulla inferiorizzazione, sulla disumanizzazione dell’altro legittimato dall’istituzionalizzazione della differenza intesa come inferiorità. A questo contribuiscono il linguaggio, le strutture ur-banistiche segreganti, la tutela della cittadinanza fondata sul dirit-to di sangue.

Étienne Balibar (2012) si è soffermato in modo particolar-mente acuto sul tema della cittadinanza: l’espressione “cittadinan-2 Attilio Fontana, Governatore della Regione Lombardia, così si è espresso nel gennaio 2018: «dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare a esistere o devono essere cancellate».

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za democratica” può, storicamente, definire soltanto un problema ricorrente, un insieme di conflitti e di definizioni antitetiche, un enigma senza soluzioni definitive.

Se la comunità politica funziona come un “club” nel quale si può essere ammessi o dal quale ci si può veder rifiutare l’accesso, ci si deve domandare come i “membri di diritto” siano stati cooptati, come ab-biano stabilito le regole di ammissione e come si traduca la loro parteci-pazione attiva nella preservazione di quelle regole (Balibar, 2012).

Alla base dell’idea di cittadinanza esclusiva, di inferiorizzazio-ne dell’altro vi è chiaramente una visioinferiorizzazio-ne, un modello di rappre-sentazione dell’altro, un paradigma dominante che alcuni studiosi hanno individuato in modo molto preciso. L’intellettuale palesti-nese Edward Said (1999) definisce l’impostazione eurocentrica come una

nozione collettiva tramite cui si identifica un “noi” europei in con-trapposizione agli “altri” non europei; e in fondo si può dire che la principale componente della cultura europea è proprio ciò che ha reso egemone tale cultura sia nel proprio continente sia negli altri: l’idea dell’identità europea radicata in una superiorità rispetto agli altri popoli e alle altre culture. A ciò si aggiunge l’egemonia delle idee europee sull’Oriente, ove è ribadita la superiorità europea sull’immobile tradi-zionalismo orientale, egemonia che ha per lo più impedito l’elaborazione e la diffusione di altre opinioni in proposito (p. 17).

Il sociologo algerino Abdelmalek Sayad ha elaborato una criti-ca radicriti-cale alla prospettiva etnocentricriti-ca con cui viene gestita e studiata la questione dell’immigrazione: abitualmente dal punto di vista della società di accoglienza, senza alcuna indagine sull’altro polo fondamentale e cioè quello dell’emigrazione, ovvero sulle condizioni di crisi che orientano alla partenza dei migranti. «I rapporti di forza, proprio quelli che hanno generato l’emigrazione-immigrazione, non risparmiano la scienza e, più particolarmente, la scienza del fenomeno migratorio» (Sayad, 2002, p. 163). «Come due facce della stessa medaglia, aspetti

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complementari e dimensioni solidali di uno stesso fenomeno, l’emigrazione e l’immigrazione rinviano reciprocamente l’una all’altra» e comportano implicazioni di ogni specie (Sayad, 2002, p. 169). La sua critica si sofferma sul riduzionismo con cui, attra-verso il linguaggio dell’economia, si è soliti valutare i “costi” e i “benefici” dell’immigrazione, definita come “semplice sposta-mento di forza lavoro”. Vi sono invece questioni etiche e politi-che, fra le quali la fondamentale responsabilità della colonizzazio-ne. Altrettanto radicale è la critica alla nozione di integrazione come risulta in modo esemplare da alcune interviste riportate da Sayad (2002): «Vorrebbero che fossimo francesi, ma allo stesso tempo ci viene fatto capire che non riusciremo mai a raggiungerli. È questo che chiamano integrazione» (p. 352);

Allora, qui che cosa sei? Sei solo una busta paga, per mesi. Senza busta paga non sei accettato, non hanno fiducia in te. Le buste paga so-no fatte per questo: gli devi dimostrare che lavori, che hai lavorato per loro. Senza quelle, sospettano che tu abbia vissuto alle loro spalle (p. 66). La riflessione sull’immigrazione rinvia, dunque, al “pensiero di stato”: pensare l’immigrazione significa pensare lo stato. È lo sta-to che pensa se stesso pensando l’immigrazione

perché l’immigrazione rappresenta il limite dello stato nazionale, quel limite che mostra ciò che esso intrinsecamente è, la sua verità fon-damentale. Lo stato, per sua stessa natura, discrimina e così si dota preven-tivamente di tutti i criteri appropriati, necessari per procedere alla discrimi-nazione, senza la quale non esiste stato nazionale (Sayad, 2002, p. 368).

Tali presupposti, queste idee dominanti hanno determinato nelle società europee modelli di inserimento delle minoranze e dei migranti in parte differenti ma tutti caratterizzati da un ricono-scimento solo parziale dei diritti dei non cittadini o dei cittadini di serie B. Per quanto concerne l’Italia, in particolare, si può affer-mare che la partecipazione degli immigrati alla vita della società e al mercato del lavoro italiani presenta in larga misura i caratteri di quella che è stata definita da Vittorio Cotesta (1992) come

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inclu-sione subordinata: i migranti sono accettati nei luoghi di lavoro sulla base dell’idea che il ruolo a essi destinato sia quello di occupare i posti a cui gli italiani non ambiscono più, con il corollario implici-to che, qualora si rendano disponibili occupazioni più interessan-ti, gli italiani abbiano un indiscutibile diritto di priorità. Tale mo-dello di inserimento è stato altrimenti definito da Maurizio Am-brosini (2001) come “integrazione subalterna”.

Un’attenzione particolare meritano allora le riflessioni di Tzvetan Todorov (2009) secondo il quale la «paura dei barbari è ciò che rischia di renderci barbari» (p. 16). L’unica strada perse-guibile è quella della ricerca del dialogo a partire da ciò che acco-muna gli uomini e i loro bisogni a prescindere dalle specifiche ap-partenenze culturali. La definizione stessa del barbaro presuppo-ne un forte etnocentrismo che vede presuppo-nell’alterità una minaccia e una forma di inferiorità. La barbarie consiste nel non riconoscere l’umanità degli altri, mentre la civiltà è precisamente la capacità di vedere gli altri come altri e ammettere allo stesso tempo che sono umani come noi. Superare la diffidenza legata al pregiudizio nega-tivo implica uno sforzo conoscinega-tivo, una mente interculturale e un atteggiamento ermeneutico.

Nel mondo di oggi e di domani – sostiene Todorov (2009) – gli in-contri fra individui e comunità appartenenti a culture differenti sono destinati a diventare sempre più frequenti; i loro partecipanti sono i soli a poter impedire che si trasformino in altrettanti conflitti (p. 22).

Poiché ogni essere umano appartiene simultaneamente a di-verse culture, la possibilità di una loro coesistenza pacifica non può essere messa in discussione. E, tuttavia, ciò è accaduto e con-tinua ad accadere ogni volta che si passa dal piano individuale a quello collettivo reificando le culture e interpretando i sistemi cul-turali come blocchi monolitici, puri, statici, impenetrabili e im-modificabili. In realtà, come afferma lucidamente Marco Aime (2016), oggi sempre più spesso quando si dice cultura, si pensa razza (pp. 43-67).

Todorov offre gli strumenti per decostruire una tale errata in-terpretazione e propone una complessa analisi dell’attuale

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situa-zione prendendo in considerasitua-zione le nozioni di barbarie e civiltà, riflettendo sulle identità collettive e sull’identità europea e criti-cando in modo argomentato le semplificazioni proposte da Hun-tington e dai suoi seguaci. Le tesi di HunHun-tington, infatti, hanno avuto una grande diffusione e hanno influenzato alcune scelte po-litiche (si pensi, per fare un esempio, alla dottrina Bush nel campo delle relazioni internazionali). Il successo delle tesi di Huntington si spiega grazie al fatto che il suo libro propone una spiegazione semplice e semplicistica della complessità del mondo internazio-nale. Sostanzialmente, secondo Huntington (2000) il benessere degli occidentali (nordamericani ed europei dell’ovest) è minaccia-to e propone un rimedio contro quesminaccia-to male.

La sopravvivenza dell’Occidente dipende dalla volontà degli Stati Uniti di confermare la propria identità occidentale; gli occidentali devo-no unire le proprie forze per rindevo-novarla e proteggerla dalle sfide prove-nienti dalle società non occidentali (pp. 14-15).

Dopo la caduta del muro di Berlino, secondo Huntington, non sono più blocchi ideologici e politici ad affrontarsi, ma aree culturali, gruppi di paesi appartenenti alla stessa civiltà. Sarebbero otto gruppi: civiltà cinese, giapponese, indù, musulmana, ortodossa, occiden-tale, latinoamericana e (forse) africana. Le relazioni tra loro consistono in rivalità che sfociano inevitabilmente in uno scontro; il più grande pe-ricolo per noi, occidentali, proviene dunque dalle altre civiltà. Concre-tamente, la minaccia s’incarna soprattutto in due specifiche tradizioni, la Cina e l’islam (Todorov, 2009, p. 123).

Come è evidente anche a una lettura superficiale e poco atten-ta gli otto gruppi vengono di volatten-ta in volatten-ta individuati con criteri diversi: la lingua, la religione, la geografia. Si tratta di una analisi semplicistica e pericolosa, ma funzionale a una politica aggressiva e imperialista. Tutte le civiltà, tutti i sistemi culturali, tutte le per-sone sono in costante cambiamento e trasformazione, non ri-mangono mai uguali a se stessi, ogni individuo è portatore di cul-ture molteplici. Al contrario Huntington

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procede come se fosse possibile identificare una volta per tutte il nucleo duro, o l’essenza, di ogni civiltà, che avrebbe il sacro compito di non tradire mai; lo stesso numero di civiltà è immutato da sempre. Tut-tavia, è sufficiente dare un rapido sguardo alla storia del mondo per constatare che le cose non stanno così: la civiltà occidentale, anche supponendo che una simile generalizzazione abbia un senso, si è pro-fondamente trasformata fra l’anno zero, l’anno mille e l’anno duemila. Sappiamo poi che la rappresentazione che decide di dare di sé è il risul-tato di aspre lotte tra gruppi di potere e di compromessi che cambiano da una generazione all’altra (Todorov, 2009, p. 124).

Particolarmente utili paiono, nella prospettiva del dialogo in-terculturale, le considerazioni svolte da Todorov sul tema dell’identità. Secondo l’autore, infatti, ognuno di noi possiede non una ma numerose identità culturali che si sovrappongono e si in-tersecano. Ogni individuo è di per sé pluriculturale.

L’identità individuale deriva dall’incontro di molteplici identità col-lettive in seno a una sola e medesima persona: ciascuna delle nostre numerose appartenenze contribuisce alla formazione dell’essere unico che siamo. Gli uomini non sono né tutti simili, né interamente diversi; ciascuno di essi, essendo in sé plurale, condivide i suoi tratti costitutivi con gruppi molto diversi tra loro, ma li combina a modo suo. La coabi-tazione delle differenti appartenenze culturali in ciascuno di noi non pone di per sé alcun problema, cosa che, a sua volta, dovrebbe suscitare ammirazione: come un giocoliere, maneggiamo questa pluralità con la massima facilità (Todorov, 2009, pp. 77-78).

Ciascuno di noi ridefinisce continuamente gli equilibri delle differenti appartenenze. L’identità individuale è il frutto dell’incrocio tra diverse identità collettive così come non esistono culture pure e culture mescolate. Tutte le culture sono miste, ibri-de, meticciate perché i contatti tra gruppi umani risalgono alle o-rigini della specie e lasciano sempre dei segni o delle tracce. Defi-nire, cogliere e insistere sull’identità – come ha sostenuto France-sco Remotti (2010) – è pericoloso e conduce a quella che è stata da lui definita come “ossessione identitaria”.

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La tesi che si vuole sostenere […] è che identità – specialmente nell’uso che se ne fa negli ambiti sociale, politico, individuale, a livello di senso comune, oltreché scientifico – è una parola avvelenata. Il veleno contenuto in questa parola così nitida e bella, così fiduciosamente con-divisa, di impiego pressoché universale, può essere poco oppure tanto, impercettibile e quasi innocuo in un caso oppure pieno di conseguenze nefaste in un altro. Ma anche quando esso è impercettibile, la tossicità è presente in numerose idee che la parola contiene e, accumulandosi, può manifestarsi alla lunga, in maniera inattesa e imprevista. Perché e in che senso identità è una parola avvelenata? Semplicemente perché promette

ciò che non c’è; perché ci illude su ciò che non siamo; perché fa passare

per reale ciò che invece è una finzione o, al massimo, un’aspirazione. Diciamo allora che l’identità è un mito, un grande mito del nostro tempo (Remotti, 2010, pp. XI-XII).

Il pericolo consiste nel considerare l’identità come sostanza, una sorta di nucleo stabile e permanente che deve essere difeso per impedire che venga modificato e, di conseguenza, infettato. Se l’identità è essenza, sostanza, allora deve essere difesa e affer-mata nella sua integrità, nella sua purezza e ciò condurrà inevita-bilmente a scontri e guerre in nome di qualcosa che non esiste ma che è interpretato come reale. Le identità possono quindi diventa-re pericolose, sanguinose e mortali così come può diventadiventa-re peri-colosa la reificazione della diversità:

la diversità non è una proprietà oggettiva, di per sé connaturata alla struttura di una certa cultura, bensì è una qualità percepita di natura re-lativa e interattiva. Non si è intrinsecamente diversi, ma si è diversi agli occhi di qualcun altro e rispetto a un qualche punto di vista. La diversità non è una entità ma una relazione (Anolli, 2006, p. 20).

Una delle condizioni che determinano l’irruzione della violen-za è la riduzione dell’identità molteplice all’identità unica (Sen, 2008). Prima di uccidere il mio vicino perché è un tutsi, devo dimenticare tutte le sue altre appartenenze: a una professione, a un’età, a un ambien-te sociale, a un paese – o all’umanità. La violenza esercitata in nome

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dell’identità non è meno forte, perché i gruppi che la praticano si consi-derano, a torto o a ragione, vittime di altri gruppi, minacciati nella loro stessa esistenza o in quella dei loro parenti (Todorov, 2009, p. 93).

Le culture e le identità pure, dunque, non esistono e non ri-mangono mai uguali a se stesse, sono un’invenzione. Un’altra ca-ratteristica delle culture, infatti, è che sono in costante trasforma-zione, si modificano e cambiano più o meno rapidamente e per molteplici ragioni. Dal momento che ciascuna cultura ne incorpo-ra altre o con altre si interseca i suoi diversi elementi formano un instabile equilibrio. Accanto alle tensioni interne vi sono i contatti con l’esterno (con culture vicine e lontane) a loro volta «promoto-ri di cambiamenti. P«promoto-rima di influenzare le altre culture del mondo, la cultura europea aveva già assorbito le influenze egizie, mesopo-tamiche, persiane, indiane, islamiche, cinesi…» (Todorov, 2009, p. 80). Le culture hanno quindi due caratteristiche che non pos-sono essere tralasciate: la pluralità e la variabilità. L’identità instabi-le delinstabi-le culture non deve tuttavia indurci a rinunciare compinstabi-leta- completa-mente alla nozione di cultura. Si può riconoscere «la necessità di parlare delle culture senza cadere negli ostacoli del “culturali-smo”, o deduzione di tutti i tratti dell’individuo a partire dalla sua appartenenza culturale, come faceva il razzismo in passato» (To-dorov, 2009, p. 81).

Non va dimenticato in ogni caso che la cultura è una costru-zione poiché si basa sulla memoria collettiva del gruppo che ne è portatore e la memoria è in sé stessa costruzione, cioè selezione degli avvenimenti del passato e loro gerarchizzazione secondo un ordine che gli viene assegnato dai suoi stessi membri. Ogni co-munità umana – attraverso l’azione di determinati gruppi di pote-re – seleziona alcuni avvenimenti e ne tralascia altri: tanto la me-moria quanto l’oblio sono elementi costitutivi dell’identità.

L’essere umano nasce sempre all’interno di un sistema cultu-rale ma ciò non significa che sia destinato a rimanere prigioniero di esso. Le culture esistono ma non sono né immutabili né im-permeabili ed è illegittimo incatenare l’individuo al suo gruppo e alla sua cultura d’origine negando all’essere umano la capacità di

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autonomia, che rappresenta una delle sue principali caratteristi-che. Ogni individuo, infatti, ridefinisce continuamente e in modo originale il proprio rapporto con la sua cultura di origine in virtù dell’educazione (formale, non formale e informale), dell’ambiente (naturale, storico e sociale) e delle caratteristiche individuali. Al-cune condizioni esteriori possono, tuttavia, modificare positiva-mente o negativapositiva-mente il rapporto di un individuo con il proprio sistema culturale di origine.

La questione della convivenza sia a livello locale (nelle società multiculturali) sia a livello globale richiede dunque un forte impe-gno educativo che chiama in causa fortemente la categoria del dialogo. Per evitare, tuttavia, di declinare tale categoria in senso retorico sono necessarie alcune precisazioni. Le relazioni intercul-turali necessitano di alcuni requisiti di fondo che possono essere meglio definiti come condizioni di possibilità. Il dialogo per defi-nirsi tale deve configurarsi come una relazione fra “pari” o meglio deve essere una relazione fra soggetti che sono in grado di far va-lere la propria soggettività, le proprie esigenze, i propri interessi, i propri bisogni e i propri diritti. Molto spesso, però, le minoranze (in modo particolare quelle immigrate) vivono, come si è accen-nato, una situazione che è stata definita di “inclusione subordina-ta” (Cotesta, 1992) o di “integrazione subalterna” (Ambrosini, 2001) che di fatto determina una condizione di “cittadinanza rela-tiva”. Vi è, quindi, tra autoctoni e migranti una radicale asimme-tria di potere che mina alla radice la possibilità stessa di un dialo-go autentico. Per essere realmente efficace, il dialodialo-go

deve rispondere ad una duplice esigenza. Da una lato riconoscere la differenza delle voci impegnate nello scambio, senza prestabilire che una delle due costituisca la norma e l’altra rappresenti una deviazione, o un’arretratezza, o una cattiva volontà. Se non si è disposti a mettere in discussione le proprie convinzioni e le proprie certezze, a porsi provvi-soriamente nella prospettiva dell’altro – a rischio di constatare che, in quest’ottica, costui abbia ragione –, il dialogo non può avvenire (Todo-rov, 2009, p. 265).

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Dall’altro lato il dialogo non può raggiungere nessun risultato se coloro che vi partecipano non accettano una quadro formale comune condiviso per la loro discussione, se non si accordano sugli argomenti consentiti e sulla possibilità di ricercare insieme giustizia e verità.

I rapporti fra individui, come le relazioni fra gruppi, attraverso un atteggiamento di “comprensione dialogica” possono entrare in contatto alla pari, senza che uno dei due debba necessariamente prevalere. È auspicabile un dialogo in cui nessuno dei due abbia l’ultima parola, in cui nessuna delle due parti riduca l’altra al ruolo di oggetto. Il dialogo consente di rileggere la propria cultura de-strutturandola alla luce di quanto si raccoglie dalla voce dell’altro (Todorov, 1992).

La convivenza, quindi, non è né facile né scontata e richiede un forte impegno pedagogico e politico come aveva intuito Ale-xander Langer già negli anni Novanta del secolo scorso.

La convivenza è una difficile arte che deve essere praticata quotidianamente e costantemente per arrivare a essere la normali-tà e non più l’eccezione e a tali questioni Langer dedica il famoso “Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica” (Langer, 2011, pp. 365-375).

Per rendere possibile il passaggio da una condizione di con-flittualità a una di convivenza inter-etnica sono necessarie persone coraggiose, capaci di collocarsi volontariamente al confine tra le appartenenze e di promuovere la conoscenza reciproca, il dialogo, la cooperazione, di favorire la sensibilizzazione e la mediazione fra gruppi differenti; si tratta di quelli che Langer ha definito co-me “traditori della compattezza etnica”, persone cioè che si im-pegnano nell’esplorazione e nel superamento dei confini e che sono in grado di essere critici anche nei confronti del proprio gruppo di riferimento, che però non si devono mai trasformare in transfughi, non devono cioè perdere credibilità presso la propria comunità. Langer intravede in questi “traditori della compattezza etnica” il primo strumento di convivenza. In una certa misura «siamo tutti traditori delle nostre identità originarie. E il gesto del-la rottura con un’appartenenza che diviene gabbia spesso si rivedel-la

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una necessità, talvolta si prospetta come una scelta rischiosa ma nobile» (Lerner, 2007, p. 184).

2. L’educazione interculturale come proposta alternativa

L’orientamento interculturale nel contesto educativo ha l’obiettivo di definire un progetto intenzionale di promozione del dialogo e del confronto culturale rivolto a tutti, autoctoni e stra-nieri. In questo modo, le diversità (culturali, di genere, di classe sociale, biografiche, di orientamento politico, sessuale ecc.) di-vengono un punto di vista privilegiato dei processi educativi, of-frendo l’opportunità a ciascuno di svilupparsi a partire da ciò che è. La scuola rappresenta e ha rappresentato il luogo privilegiato di costruzione del dialogo interculturale e, tuttavia, da sola non è sufficiente. Lo straordinario lavoro svolto ormai da molto tempo da dirigenti scolastici, insegnanti, educatori, operatori sociali, as-sociazioni del terzo settore deve avere l’ambizione di costruire una nuova e più corretta narrazione che decostruisca quelle “nar-razioni tossiche” 3 che hanno determinato un clima di paura e che hanno reso normale considerare gli altri meno umani e, quindi, con meno diritti.

3 La definizione di “narrazione tossica” alla quale si fa riferimento in que-sto teque-sto è stata coniata dal collettivo Wu Ming: «Per diventare “narrazione tossica”, una storia deve essere raccontata sempre dallo stesso punto di vista, nello stesso modo e con le stesse parole, omettendo sempre gli stessi dettagli, rimuovendo gli stessi elementi di contesto e complessità. È sempre narrazione tossica la storia che gli oppressori raccontano agli oppressi per giustificare l’oppressione, che gli sfruttatori raccontano agli sfruttati per giustificare lo sfruttamento, che i ricchi raccontano ai poveri per giustificare la ricchezza. Una narrazione tossica non si limita a giustificare l’esistente, ma è anche diversiva, cioè sposta l’attenzione su un presunto pericolo incarnato dal “nemico pubbli-co” di turno. E il nemico pubblico di turno, guarda caso, è sempre un oppres-so, uno sfruttato, un discriminato, un povero» (www.wumingfoundation.com/ giap/?p=13512) [ultima data di consultazione 25/10/2019].

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Le narrazioni dominanti, infatti, sono talmente pervasive e potenti da richiedere un intervento più diffuso (Nanni & Fucec-chi, 2018). Oggi la proposta interculturale deve aumentare il pro-prio raggio di azione, incidere nella società e nella politica attra-verso un cambio di strategia. Non si possono gestire le questioni poste dalle migrazioni solo attraverso le politiche migratorie: sono le politiche sociali, le politiche educative, le politiche abitative tout court, l’accesso ai diritti per tutti e per tutte che sono chiamati in causa. È in gioco la stessa tenuta democratica dei paesi europei. Non va dimenticato, se si vogliono evitare mistificazioni, che molto spesso la questione dell’inferiorizzazione dell’altro è colle-gata alla dimensione sociale ed economica. In questo senso va colto l’invito di Hans Magnus Enzensberger (1993) a considera-re i percorsi di inserimento sociale di migranti e rifugiati ponendo attenzione in primo luogo alla loro dimensione socio-economica:

Quanto più elevata è la qualifica degli immigrati, tanto minori sono i pregiudizi nutriti nei loro riguardi. L’astrofisico indiano, il grande ar-chitetto cinese, il Premio Nobel sudafricano sono benvenuti in tutto il mondo. Dei ricchi in questo contesto non si parla del resto mai: nessu-no mette in dubbio la loro libertà di movimento. Per gli uomini d’affari di Hong Kong l’acquisto di un passaporto britannico non è certo un problema. Anche il diritto di cittadinanza svizzera per gli immigrati di qualsivoglia Paese di origine, è solo una questione di prezzo. Nessuno se l’è mai presa per il colore della pelle del sultano del Brunei. Dove il conto in banca è a posto, l’odio per gli stranieri svanisce come per mi-racolo. La palma in questo senso spetta ai trafficanti di droga e di armi, nonché ai banchieri che riciclano il loro denaro. È gente che non cono-sce più razze ed è superiore a ogni nazionalismo. Presumibilmente sono gli unici al mondo ad essere alieni da ogni pregiudizio. Gli stranieri so-no tanto più stranieri quanto più soso-no poveri (p. 26).

Oggi, a più di 40 anni dalla trasformazione dell’Italia in Paese di immigrazione, è necessario assumere uno sguardo diverso, in-terpretando i soggetti di origine straniera non più come portatori di bisogni, ma come portatori di diritti. La dimensione centrale oggi è rappresentata dal dialogo interculturale, ma come si è detto

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il dialogo richiede delle condizioni di possibilità, ossia una condi-zione di simmetria relazionale attualmente inesistente, e cioè la possibilità di esprimere la propria soggettività, le proprie esigenze, i propri bisogni, i propri interessi e i propri diritti alla pari.

L’intercultura, se non vuole farsi retorica, è un compito essen-zialmente politico, intrecciata come è con i conflitti culturali, le differenze socio-economiche, la gestione della diversità, i diritti dei migranti, lo sviluppo democratico e la promozione dell’uguaglianza dei diritti tra tutti i cittadini. C’è dialogo intercul-turale se c’è una simmetria di fatto tra migranti e non: oggi vi è una condizione di cittadinanza relativa dei soggetti della migra-zione che vivono sulla loro pelle processi di “integramigra-zione subal-terna”. Questa condizione mina alla radice la nozione di dialogo, rendendo evidente che occorre superare sia una visione “misera-bilista” sia una visione “utilitaristica” della migrazione, cioè due visioni riduzioniste che oscillano tra il paternalismo e il funziona-lismo economicistico e che tendono a ridurre i migranti all’interno di categorie predefinite dalle società di accoglienza. Deve essere, dunque, superata una visione gerarchica, assimila-zionista e asimmetrica per assumere una prospettiva di co-educazione aperta alla presenza diretta delle culture migranti, i-naugurando un percorso innovativo di “educazione dialogica” che si costruisce insieme, attraverso relazioni fondate su basi di uguaglianza, reciprocità e responsabilità. Ciò sarà possibile attra-verso alcuni interventi finalizzati a:

- valorizzare il patrimonio linguistico-culturale di cui i migranti sono portatori, dando cittadinanza al plurilinguismo come risor-sa, sostenendo e facendo crescere l’associazionismo delle comunità migranti come agente della mediazione intercul-turale e superando una concezione che interpreta le cultu-re e le identità come delle cultu-realtà statiche, da una parte, o folkloristiche, dall’altra. Troppo spesso, infatti, una malin-tesa educazione interculturale è condizionata da una vi-sione folklorizzante, essenzialista e relativistica di esalta-zione della differenza culturale in quanto tale, anziché da

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una visione costruttivista della diversità culturale – la di-versità culturale può essere concepita solo in termini di identità (ibride e mutevoli) costruite socialmente attraver-so l’interazione attraver-sociale e non in quanto naturalmente ine-renti (inevitabili e immutabili) a una persona o a un grup-po – e dalla ricerca di cittadinanza e coesione sociale. Il fi-losofo Kenan Malik ha ben evidenziato i rischi di una vi-sione essenzialista della cultura e dell’identità:

Multiculturalisti e alfieri dello scontro di civiltà condividono i presupposti di fondo sulla natura della cultura, dell’identità e della differenza. Entrambi considerano le divisioni sociali prin-cipali come frutto di una matrice culturale o di civiltà. Entram-bi vedono le culture, o le civiltà, come entità omogenee. En-trambi insistono sull’importanza cruciale dell’identità culturale e sulla preservazione di questa identità. Entrambi percepiscono come irrisolvibili i conflitti che emergono da valori non nego-ziabili (Malik, 2016, p. 86);

- dare visibilità anche ai bisogni formativi e culturali dei migranti e non solo ai bisogni di primo livello (accoglienza), rimettendo al centro il tema della mediazione interculturale come pro-spettiva che tiene conto anche del ruolo delle cosiddette “seconde generazioni” dell’immigrazione, considerando decisiva la questione dell’orientamento scolastico, forma-tivo e professionale di queste “seconde generazioni” che rappresentano non solo un nodo cruciale del fenomeno migratorio, ma anche una sfida per la coesione sociale e un fattore di trasformazione della società italiana. Occu-parsi di “seconde generazioni” vuol dire innanzitutto in-terrogarsi a fondo su come si stia riconfigurando la com-posizione sociale di un Paese, come l’Italia, da sempre ca-ratterizzato da una profonda eterogeneità, all’interno della quale le identificazioni regionali, cittadine e locali hanno avuto un ruolo molto importante. È con le “seconde ge-nerazioni” che vengono alla ribalta alcuni nodi fondamen-tali per l’integrazione sociale che venivano occultati o

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po-sposti finché si trattava di immigrati di prima generazione, di cui si poteva immaginare in una prima fase un rientro in patria. Nell’ambito delle popolazioni immigrate, pro-prio la nascita e la socializzazione delle “seconde genera-zioni” rappresenta un momento decisivo per la presa di coscienza del proprio status di minoranze ormai insediate in un contesto diverso da quello della società d’origine. Con esse, sorgono esigenze di definizione, rielaborazione e trasmissione del patrimonio culturale, nonché dei mo-delli di educazione familiare. Pertanto, questi giovani vi-vono una condizione di “doppia identità” o di “doppia appartenenza” e occorre evitare che questa si trasformi in una “doppia assenza” (Sayad, 2002). I giovani delle “se-conde generazioni” sono dei “mediatori culturali natura-li”, ma occorre che vi siano le condizioni per un loro so-stegno ed empowerment nella scuola, nell’associazionismo e nella società a partire dal riconoscimento giuridico della cittadinanza italiana superando l’obsoleta legislazione fondata sul diritto di sangue;

- incrementare le reti tra scuole, centri di educazione degli adulti, cen-tri educativi ed associazioni intese come spazi di relazione che favori-scono la riflessione critica sulle prassi educative attuate e l’elaborazione e realizzazione di attività interculturali che non si rivolgono solo ai migranti e alle “seconde generazioni”, ma a tutta la popolazione in una vera e propria prospetti-va interculturale, ripensando in primo luogo la scuola e l’educazione come un luoghi privilegiati di mediazione in-terculturale. La scuola è uno degli elementi chiave di un processo di inte(g)razione che passa attraverso il successo scolastico dei figli degli immigrati, l’inserimento lavorativo e sociale delle famiglie, nonché il “posto” dato alla diffe-renza culturale nella nostra società. Per facilitare il passag-gio da una situazione di multiculturalità, con la semplice convivenza fra diverse culture, a un’autentica situazione di inte(g)razione, accettazione e scambio, la scuola deve promuovere l’incontro e favorire situazioni di conoscenza

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degli altri. L’approccio interculturale è un modo indispen-sabile per rispettare e valorizzare la diversità alla ricerca di valori comuni che permettano di vivere insieme. Tale vi-sione nuova delle relazioni tra le persone che fanno rife-rimento a diverse culture dovrebbe modificare e trasfor-mare la struttura stessa dell’organizzazione scolastica e di-dattica, i metodi di insegnamento e di formazione, i me-todi di valutazione, le relazioni tra insegnanti, alunni e fa-miglie nella scuola e nell’extrascuola, la prospettiva con cui guardare ai saperi e alle discipline. L’educazione inter-culturale è uno degli strumenti indispensabili per affronta-re la sfida della società multiculturale attraverso la costru-zione di percorsi di riconoscimento del pluralismo e della diversità nella reciprocità. In sostanza, è ormai evidente che oggi è impossibile parlare di inte(g)razione se essa non viene sempre più consapevolmente stimolata con l’obiettivo di dare vita a una nuova normalità – una nor-malità interculturale – con cui le scuole, le istituzioni e la società italiana tutta devono confrontarsi, mettendo in di-scussione i metodi e i saperi stessi con cui si affronta la questione del rapporto con gli oltre cinque milioni di cit-tadini migranti che oggi vivono, lavorano, studiano, cre-scono e invecchiano nel nostro Paese.

L’educazione interculturale richiede un impegno costante che ha luogo nella scuola e nella società a tutti i livelli nel quadro di processi di lifelong learning dei soggetti e delle comunità.

Tale approccio non è né naturale né scontato e, al contrario, rappresenta un progetto educativo intenzionale e un processo che deve essere consapevolmente portato avanti giorno dopo giorno e che richiede attenzione e competenza da parte di tutti i prota-gonisti dell’incontro.

L’educazione interculturale si inscrive nel solco della grande tradi-zione della pedagogia democratica italiana ed ha tra i suoi principali o-biettivi la giustizia sociale e l’uguaglianza delle opportunità indipenden-temente dalle storie e dalle origini di ognuno. Le strategie interculturali

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evitano di separare gli individui in mondi culturali autonomi ed imper-meabili, promuovendo invece il confronto, il dialogo ed anche la reci-proca trasformazione, per rendere possibile la convivenza ed affrontare, con gli strumenti della pedagogia, i conflitti che ne possono derivare (Fiorucci, Pinto Minerva & Portera, 2017, p. 618).

Una prospettiva e una competenza interculturale rappresenta-no l’indispensabile bagaglio di risorse per un’educazione adeguata ai tempi, capace di formare persone consapevoli di vivere in un mondo globale e complesso, dove l’incontro con le differenze è ormai la norma.

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