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Caratteri mineralogici e petrografici di una calcarenite dalla Cattedrale di Pisa ed evidenze dell'incendio del 1595: il caso della Panchina Livornese

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Corso di Laurea Magistrale in Scienze e Tecnologie Geologiche

Anno Accademico 2018/2019

Candidato: Dario Pancani

Caratteri mineralogici e petrografici di una calcarenite dalla Cattedrale di

Pisa ed evidenze dell’incendio del 1595: il caso della Panchina Livornese

Mineralogical and petrographic evidences of fires at Pisa Cathedral:

the case of Panchina Livornese

Relatore: Simona Raneri

Correlatore: Anna Gioncada

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Sommario

Abstract ... 1 Riassunto ... 2 1. Introduzione ... 3 1.1 Premessa ... 3

1.2 Effetti degli incendi sulle pietre da costruzione ... 3

1. 3 La Cattedrale di Pisa e l’incendio del 1595 ... 9

1.3.1 Caratteri generali ... 9

1.3.2 L’incendio del 1595 ... 11

1.3.3 I litotipi della Cattedrale di Pisa ... 12

1.4 La calcarenite “Panchina”: provenienza e usi ... 14

1.5 Obiettivi della ricerca ... 16

2. Breve inquadramento geologico ... 18

2.1 Storia degli studi ... 18

2.2 La Toscana costiera nel quadro dell’evoluzione dell’Appennino settentrionale ... 19

2.3 Il terrazzo di Livorno o Terrazzo II ... 21

2.4 La Panchina Livornese ... 23

2.4.1 Caratteri generali ... 23

2.4.2 Caratteri litologici e forme di degrado ... 24

3. Materiali e Metodi ... 28

3.1 Studio del litotipo in opera e materiali campionati presso la Cattedrale di Pisa ... 28

3.2 Campionatura del litotipo in affioramento ... 34

3.3 Metodologie analitiche ... 35

3.3.1 Osservazione macroscopica e allo stereo-microscopio ... 35

3.3.2 Analisi petrografica ... 35

3.3.3 Diffrattometria a raggi X (XRD)... 35

3.3.4 Spettroscopia Micro-Raman... 36

3.3.5 Microscopia elettronica a scansione e analisi EDS (FE-SEM) ... 36

3.3.6 Degrado termico artificiale ... 37

3.3.7 Determinazione delle proprietà fisiche ... 37

4. Risultati ... 40

4.1 Caratterizzazione dei materiali della Cattedrale ... 40

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4.1.2 Analisi petrografica in sezione sottile ... 47

4.1.3 Analisi mineralogica ... 53

4.1.4 Spettroscopia micro-Raman ... 55

4.1.5 Caratterizzazione morfologica e composizione chimica mediante FESEM-EDS delle forme di alterazione e degrado su campioni prelevati dalle strutture della Cattedrale ... 56

4.1.5.1 Depositi superficiali ... 56

4.1.5.2 Porzioni interessate da alterazione cromatica ... 63

4.2 Degrado artificiale e caratterizzazione degli effetti della temperatura sul litotipo ... 65

4.2.1 Degrado termico artificiale ... 65

4.2.2 Proprietà fisiche ... 66

4.2.3 Caratterizzazione mediante FESEM-EDS delle modificazioni tessiturali e mineralogiche indotte dal degrado termico ... 70

4.2.3.1 Litotipo naturale ... 71

4.2.3.2 Degrado termico – 300 °C ... 73

4.2.3.3 Degrado termico – 400 °C ... 75

4.2.3.4 Degrado termico – 600 °C ... 77

5. Discussione e Conclusioni ... 80

5.1 La calcarenite dei paramenti murari interni del Duomo di Pisa ... 80

5.2 Evidenze degli effetti dell’incendio del 1595 sulle murature interne ... 80

5.3 Effetti dell’aging termico sulla calcarenite Panchina e confronto con i campioni della Cattedrale ... 81

5.4 Considerazioni conclusive ... 82

Riferimenti bibliografici ... 84

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Abstract

In the last decade, great attention was devoted to evaluate the impact of global changes in monuments, specifically in protecting heritages from natural and anthropogenic hazards. Thus, the in-depth knowledge of conservation history of masonry and its resilience to anthropic risk may support the application of better conservation strategies.

During restoration works carried out at the Pisa Cathedral, some elements related to the first construction phases have been brought to the light, especially at the matroneum. Here, the occurrence of a coarse yellowish calcarenite has been evidenced under the marble covering slabs, attributable to Panchina Livornese (Bossio et al., 1998; Sarti et al., 2017), a geological Fm. used since Etruscan period through southern and costal Tuscany (Lezzerini, 2005; Lezzerini et al., 2018).

The inspection of the matroneum walls evidenced a huge chromatic surface alteration of the lithotype, turning from yellow to deep red, and dark grey coatings. The possibility to sample some specimens from different galleries make it possible to characterize the lithotype and evaluate the possible relation between the alteration forms and the involvement of the structures in the well-known fire occurred in 1595 (Peroni, 1995).

The minero-petrographic analysis of samples, coupled with SEM-EDS and micro-Raman spectroscopy allowed identifying textural and mineralogical elements concerning the effects of fire on the stone surface (Martinho & Dionísio, 2018). The study was complemented by thermal aging tests on fresh stone to validate the proposed hypothesis and evaluate the effects of fires into the aesthetical and physical properties of the stone.

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Riassunto

La tutela del patrimonio culturale nei confronti dei rischi naturali e antropici è un tema di sempre maggiore attualità; in questo contesto, una particolare attenzione è rivolta alla valutazione della resilienza dei monumenti d’importanza storico-artistica rispetto ai cambiamenti globali o a importanti variazioni ambientali anche a scala locale.

I recenti lavori di restauro condotti presso la Cattedrale di Pisa hanno messo in evidenza elementi strutturali riconducibili alle prime fasi di costruzione; tra questi, in corrispondenza delle gallerie dei matronei sono state portate alla luce murature costituite da una calcarenite di colore giallo ocra, presente al di sotto del rivestimento decorativo in lastre di marmo, riconducibile al litotipo Panchina Pleistocenica (Bossio et al., 1998; Sarti et al., 2017), una formazione geologica utilizzata sin dai tempi degli Etruschi in tutta la Toscana costiera e meridionale (Lezzerini, 2005; Lezzerini et al., 2018).

Su alcune delle strutture murarie, comprendenti le mura di sostegno e le arcate dei matronei, le osservazioni preliminari hanno evidenziato la presenza di forme di alterazione costituite da variazioni cromatiche dal rosa al rossastro e da patine di colore nero-grigiastro. Il campionamento presso tali strutture ha consentito di fornire una completa descrizione del litotipo, permettendo inoltre di caratterizzare le diverse forme di alterazione presenti e di valutare il possibile coinvolgimento delle stesse nel famoso incendio avvenuto all’interno del Duomo nel 1595 (Peroni, 1995).

L’analisi minero-petrografica dei campioni, insieme ad indagini in microscopia elettronica a scansione e spettroscopia micro-Raman, ha permesso di identificare nei materiali campionati elementi tessiturali e mineralogici riconducibili agli effetti dell’incendio (Martinho & Dionisio, 2018). Inoltre, test di degrado termico su campioni geologici hanno consentito di validare l’ipotesi proposta e di verificare gli effetti delle sollecitazioni termiche sulle proprietà estetiche e fisiche del litotipo studiato.

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1. Introduzione

1.1 Premessa

Gli incendi rappresentano uno dei concreti scenari di rischio per il Patrimonio culturale. Negli ultimi decenni, diversi sono gli esempi di edifici di rilevanza culturale coinvolti in incendi; tra questi, si segnalano l’incendio di una importante chiesa in Lussemburgo nel 1985, del Teatro la Fenice di Venezia nel 1996, della Cappella della Sindone nel 1997, della biblioteca della Duchessa Anna Amalia di Weimar, in Germania nel 2004, e non da ultimo della Cattedrale di Notre Dame a Parigi nel 2019.

Nel caso dell’edilizia storica in pietra, gli incendi generano processi di degrado irreversibili. Lo studio dell’impatto degli incendi sulle pietre da costruzione rappresenta pertanto un momento diagnostico fondamentale per comprendere l’entità delle modificazioni estetiche e fisico-meccaniche determinate dal fenomeno, che possono inficiare il valore materico e la resistenza statica della struttura.

1.2 Effetti degli incendi sulle pietre da costruzione

Nell’ambito dello studio e della conservazione del patrimonio culturale, la diagnosi delle forme di degrado che interessano gli edifici storici rappresenta un momento fondamentale per la programmazione di adeguati interventi di restauro.

Le variazioni delle condizioni termiche rappresentano uno dei fattori più critici di degrado, sia che esse avvengano velocemente ed improvvisamente, sia che siano graduali, come nel caso delle escursioni termiche stagionali o giornaliere (Andriani & Germinario, 2014). Il degrado termico dei materiali lapidei è influenzato dai parametri termici (conduttività termica, diffusività termica, coefficiente di espansione termica e calore specifico), dalle proprietà petrofisiche (porosità, fabric, etc.) e dalla composizione mineralogica delle pietre. Sebbene il coefficiente di espansione termica di molte rocce sia piuttosto basso, significative variazioni termiche possono dare origine a stress meccanici che generano forme di degrado, distribuiti uniformemente o concentrati in funzione della tessitura e struttura del litotipo, con il conseguente peggioramento dello stato di conservazione della pietra (Andriani & Walsh, 2000; 2010).

Nelle rocce carbonatiche, è necessario considerare il comportamento termico anisotropo dei cristalli di calcite e dolomite che, in caso di aumento della temperatura, mostrano una dilatazione positiva lungo l’asse-c cristallografico, mentre lungo l’asse-a si contraggono e si

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espandono debolmente, rispettivamente. Nel caso di pietre a tessitura granulare quali marmi, le dilatazioni differenziali dei cristalli di calcite portano allo sviluppo di tensioni e compressioni con conseguente disgregazione granulare della pietra, in corrispondenza dei punti di giunzione tripla e lungo i bordi dei grani (Shushakoa et al., 2013). Queste tensioni e compressioni hanno un’ intensità e una distribuzione dipendenti dall’orientazione, dalla taglia e alla morfologia dei cristalli (Royer-Carfagni, 1999; Siegesmund et al., 2000; Zeisig et al., 2002; Weiss et al., 2003; Koch & Siegesmund, 2004; Plevova et al., 2010). Siegesmund (2000) riporta per i cristalli di calcite effetti di dilatazione termica anisotropa, con allungamento parallelamente all’asse c e contrazione perpendicolarmente all’asse c, di circa 0.19% e dello 0.04% rispettivamente, per variazioni termiche dai 20 °C ai 100 °C. Dove l’energia legata allo stress principale e allo strain elastico è alta, il materiale è portato più facilmente alla micro-fratturazione termica (Shushakova et al., 2011); questo porta a un degrado maggiore nei carbonati cristallini e sparitici (Siegesmund et al., 2010). Con l’aumento della porosità legata alla disintegrazione granulare, la pietra è maggiormente suscettibile agli attacchi fisici, chimici e microbiologici (Andriani & Walsh, 2007; Luque et al., 2011). Dagli studi precedenti è emerso inoltre che, nei marmi, l’azione della luce del sole e le variazioni termiche giornaliere, sono sufficienti a causare una disaggregazione dei grani con conseguente peggioramento delle caratteristiche fisico-meccaniche del litotipo (Siegesmund et al., 2010).

Il degrado termico delle pietre, in termini di riduzione della resistenza meccanica e di alterazioni dell’aspetto estetico, può essere legato anche a sollecitazioni termiche quali lo sviluppo di incendi, che determinano esposizioni ad elevate temperature che possono raggiungere svariate centinaia di gradi. Ad alte temperature, il degrado della pietra è determinato non solo dallo sviluppo di stress termici, ma anche dagli effetti legati a trasformazioni mineralogiche. Ad esempio, nel caso di carbonati puri, l’esposizione a temperature oltre i 600 °C (Kilic & Anil, 2006; Galai et al., 2007) porta alla decomposizione della calcite e della dolomite; inoltre, il rilascio di CO2 può innescare ulteriori processi di microfratturazione a causa dell’aumento di volume durante il riscaldamento (Sippel et al., 2007). Gli ossidi di calcio e di magnesio prodotti hanno, rispetto ai carbonati, più bassi volumi molari, più ampie aree superficiali e maggiore porosità (Gunasekaran & Anbalagan, 2007). L’impatto degli incendi sulle opere murarie non è solitamente uniforme: ogni blocco costituente la muratura può essere interessato da sollecitazioni termiche di diversa intensità in diversi intervalli temporali, determinando sulla struttura diversi effetti la cui variabilità riflette la natura stessa dell’evento (McCabe et al., 2007, 2010; Brotons et al., 2013). Pertanto, la comprensione degli effetti determinati da un incendio è legata ad una corretta lettura delle

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strutture, al fine di pianificare corretti interventi di gestione e manutenzione delle stesse (Woodcock, 1997; Watt, 1999).

In tal senso, la ricerca degli effetti di un incendio sulle murature richiede spesso un’analisi diagnostica multi-metodologica, capace di individuare i cambiamenti determinati dall’evento in termini di proprietà estetiche, fisiche e mineralogiche delle pietre coinvolte. La letteratura nel settore offre una interessante revisione degli studi condotti su diversi litotipi utilizzati nell’edilizia storica (Martinho & Dionisio, 2018), evidenziando la valenza dei diversi approcci metodologici utilizzati. Negli ultimi trent’anni sono stati pubblicati più di cinquanta lavori scientifici aventi come obiettivo la valutazione dei cambiamenti delle proprietà fisico-meccaniche ed estetiche di diverse litologie a seguito di degrado termico (Figure 1-2).

Figura 1. Litotipi e principali tecniche utilizzate per la valutazione dei cambiamenti mineralogici e tessiturali legati al degrado termico in pietre da costruzione riportati in letteratura negli anni 1998-2018 (da Martinho & Dionisio, 2018).

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Figura 2. Proprietà fisiche e meccaniche generalmente studiate per la valutazione dei cambiamenti legati a riscaldamento/incendi sulle pietre da costruzione (da Martinho & Dionisio, 2018).

Gli innumerevoli studi condotti su diversi litotipi sottoposti a sollecitazioni termiche hanno evidenziato come, indipendentemente dalla tipologia di pietra coinvolta in un incendio, sia possibile riconoscere alcune forme di alterazione e degrado tipiche e diagnostiche, sebbene alcune di queste si sviluppino prevalentemente in alcuni tipi di rocce.

La terminologia ICOMOS-ISCS (2008) classifica le forme di degrado legati ad incendi in (i) fratture e deformazioni, (ii) perdita di materiale, (iii) distacchi e (iv) modificazione del colore della pietra e depositi superficiali (Figura 3).

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Figura 3. Classificazione e descrizione delle forme di degrado osservabili legati ad incendi, in accordo con ICOMOS-ISCS (2008) (da Martinho E. & Dionisio A., 2018).

Uno dei principali effetti di un incendio è rappresentato dallo sviluppo di fratture. La geometria e la densità delle fratture e lo sviluppo di una porosità secondaria rappresentano i principali fattori di controllo delle modificazioni delle proprietà fisiche delle rocce (Yavuz et al., 2010). Le sollecitazioni termiche determinano lo sviluppo di microfratture nel materiale a seconda della diversa natura dei materiali costituenti (Jansen et al., 1993); si formano microfratture intragranulari quando i minerali subiscono un cambiamento qualitativo o una transizione di fase (Glover et al., 1995), mentre si formano microfratture intergranulari quando si verifica un espansione differenziale a causa di coefficienti di espansione differenti dei vari minerali presenti nella roccia (Jansen et al., 1993). In generale, è stato osservato che l’aumento della temperatura determina un aumento della microporosità (Franzoni, 2013) e della porosità aperta, specialmente tra i 500 °C e i 600 °C.

Relativamente all’alterazione cromatica, in generale il cambiamento di colore è trascurabile a temperature comprese tra 150 °C e 200 °C, indipendentemente dal tipo di roccia (Beck et al., 2016; Vazquez et al., 2016). A temperature maggiori e fino agli 800 °C, indipendentemente dal tipo di roccia, si osserva un ingiallimento o arrossamento della superficie, che non porta

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necessariamente a processi di annerimento (McCabe et al., 2010; Pires et al., 2014; Kompanikova et al., 2014). Al di sopra degli 800 °C, i calcari, le arenarie e i marmi diventano più bianchi (Borg, Hajpal & Torok, 2013; Ozguven & Ozcelik,, 2013).

Alcuni studi condotti su calcari (Hajpal & Torok, 2004; Beck et al., 2016) hanno suggerito che le variazioni cromatiche a seguito di sollecitazioni termiche possono essere legate a processi quali trasformazione della goethite in ematite; formazione di ematite per decomposizione della smectite; incremento dei domini di ematite con l’aumento della temperatura. Inoltre, è stato osservato come le variazioni cromatiche siano concentrate in aree dove dolomite e ematite sono più abbondanti. Nelle arenarie (Hajpal & Torok, 2004), il cambiamento di colore è generalmente attribuito a ossidazione e conversione di minerali di Fe in ematite, trasformazione di glauconite da verde a marrone, e ingiallimento della clorite.

Spesso, le variazioni cromatiche della pietra sono quindi legate a trasformazioni mineralogiche indotte dalle sollecitazioni termiche. Le arenarie con componenti carbonatiche e argillitiche mostrano cambiamenti nella composizione mineralogica già a basse temperature; infatti, a 250 °C -300 °C il cambiamento di colore è legato alla deidratazione dei minerali argillosi contenenti ferro: si passa da marrone a rossastro e questo cambiamento penetra nella roccia fino a 5 cm di profondità (Hajpal, 2002); secondo Chakrabarti et al.,(1996) questo effetto diviene visibile a temperature di almeno 400 °C . Il comportamento delle arenarie è influenzato dalla taglia dei grani, dalla rotondità e dal sorting dei clasti di quarzo, oltre che dalla tipologia e quantità di cemento presente. Il quarzo, i feldspati e le miche non mostrano cambiamenti di fase fino ai 500 °C, mentre i minerali argillosi e i carbonati subiscono trasformazioni mineralogiche o si decompongono. In questo ultimo caso, i prodotti di decomposizione possono portare alla formazione di nuove fasi mineralogiche. La decomposizione termica della calcite in condizioni di elevata umidità può portare alla formazione di portlandite (Ca(OH)2), con conseguente aumento della porosità e spalling (Hajpal, 2002). La formazione di portlandite porta ad un aumento in volume di circa 20%, accompagnato dallo sviluppo di fratture, fessure e caduta di alcune parti (Ortiz et al., 2013).

In relazione alla variazione delle proprietà fisiche, è stato osservato che fra i 150° e i 300 °C la chiusura di pori interconnessi determina una significativa riduzione della porosità e quindi della capacità di assorbimento d’acqua (Yavuz et al., 2010), mentre l’incremento progressivo della temperatura porta all’apertura di sistemi di fratture tali da determinare un significativo aumento dell’assorbimento di acqua capillare già a 400 °C (Martinho E. & Dionisio A., 2018). A ciò si associa una variazione della ruvidità superficiale (Gadelmawla et al., 2002) che

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inizialmente diminuisce, mentre aumenta fino ai 300 °C e diviene importante a 600 °C (Gomez-Heras et al., 2008).

Nonostante le indicazioni generali sopra elencate, una attenta revisione della letteratura dimostra che non è possibile fornire delle linee giuda sempre valide per il riconoscimento degli effetti degli incendi sulle pietre da costruzione, in quanto la variabilità delle proprietà fisico-meccaniche, mineralogiche e tessiturali delle rocce influenza in maniera non lineare la loro suscettibilità alle sollecitazioni termiche. Pertanto, nella maggior parte dei casi, è necessario adattare le strategie di ricerca al caso di studio specifico.

1. 3 La Cattedrale di Pisa e l’incendio del 1595

1.3.1 Caratteri generali

Figura 4. Foto della Cattedrale di Pisa

La Cattedrale di Pisa rappresenta uno degli esempi di architettura medievale di maggiore rilievo nel panorama italiano. I recenti scavi nell’area tra la facciata del Duomo e il Camposanto hanno riportato alla luce alcune strutture di una chiesa, probabilmente del decimo secolo d. C., a conformazione longitudinale, tripartita e conclusa da un’abside (Alberti et al., 2011), in parte nota grazie a precedenti indagini; questa resta la principale testimonianza del complesso episcopale precedente. Nella seconda metà dell’undicesimo secolo dunque la struttura ha subito un radicale cambiamento sia per ciò che riguarda le dimensioni, sia per i materiali utilizzati e questo è legato strettamente al quadro storico ed alle scelte artistico-strutturali del

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tempo (Ascani, 2014). La zona scelta era già utilizzata in epoca longobarda come necropoli e, già nei primi anni dell'XI secolo, fu eretta una chiesa mai terminata che doveva essere intitolata a Santa Maria. La nuova grande chiesa dell’architetto Buscheto, infatti, viene inizialmente chiamata Santa Maria Maggiore fino a quando non viene definitivamente intitolata a Santa Maria Assunta.

Una serie di iscrizioni murarie sulla facciata dell’attuale Cattedrale ci fornisce numerose informazioni circa le circostanze di questa nuova edificazione, la cui fondazione, stando alla data 1063 leggibile su una di esse e riferibile agli anni trascorsi dalla nascita di Cristo, si colloca nel 1064, ovvero poco dopo la nomina vescovile del Lombardo Guido da Pavia, che resse la diocesi pisana dal 1061 al 1076 e fu certo tra i promotori dell’impresa. Ancora più interessante è la lunga epigrafe che sempre sulla facciata celebra l’architetto del nuovo Duomo, Buscheto, sepolto in un sarcofago romano, lodato come superiore ai mitici Ulisse e Dedalo per la perizia tecnica e l’abilità sfoggiata nel trasporto delle enormi colonne di spoglio che tuttora adornano l’edificio (Malafarina, 2007).

Incastonate nella splendida facciata attribuita al magister Rainaldo, due grandi epigrafi scandiscono in versi la progressiva affermazione della potenza pisana nelle acque del Mediterraneo occidentale, nei sessant’anni che separano l’incursione contro i Saraceni di Messina del 1005 dalla grande spedizione a Palermo nel 1064. Uno spazio autonomo fu riservato alla celebrazione dell’impresa di Palermo, così strettamente collegata con la storia della cattedrale non soltanto per la contemporaneità cronologica ma anche per il reperimento di risorse da investire nell’ambiziosissimo progetto grazie al bottino conquistato (Garzella, 2014).

Nel 1092 la chiesa, da semplice Cattedrale, passa ad essere Primaziale, essendo stato conferito il titolo di primate all'arcivescovo Daiberto da papa Urbano II, onorificenza oggi soltanto formale. La cattedrale fu consacrata nel 1118 dal papa Gelasio II, appartenente al ramo pisano dei Gaetani (o Caetani), conti di Terriccio e d'Oriseo.

L’ampliamento del Duomo, o meglio il suo allungamento, avvenuto tra circa il 1140 e il 1180 (Fabiani et al., 1997) ad opera di Rainaldo va verificato direttamente sulla struttura e sul corredo decorativo, ma la sua plausibilità è indirettamente appoggiata da tanti altri esempi in cui le chiese vengono accresciute o “aggiornate” con rielaborazioni del corredo decorativo. Proprio per la loro secolare vitalità gli edifici di culto sono insieme oggetto di cure conservatrici e di sollecitazioni innovatrici, non di rado sotto la spinta di ambizioni politiche che li considerano, oltre che come luoghi di preghiera, autentici pretesti per esprimere potenza e

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prestigio, sedi dunque di liturgie non solo religiose. Il fenomeno è di dimensione europea e investe tutto lo svolgimento dell’arte occidentale (Peroni, 1995).

Si possono ipotizzare le motivazioni con cui una fabbrica già ingente veniva incrementata in lunghezza di circa 16 metri; un tale provvedimento, di cui purtroppo non c’è alcun indizio documentario, non va naturalmente immaginato come un ingrandimento casuale e indeterminato, ma probabilmente ispirato a modelli ben precisi, come le grandi basiliche di Roma, alle cui dimensioni con la nuova misura vicina ai 100 metri ci si voleva approssimare (Peroni, 1995). Nonostante la mancanza di dati precisi proprio sulla cronologia del Duomo, l’allungamento sembra essere contemporaneo alle fasi iniziali di costruzione del Battistero e successivamente della Torre (1173). Le molteplici rispondenze dimensionali riscontrate sulla piazza, a cui abbiamo più sopra accennato, anche se frutto di rischiose speculazioni, suggeriscono una relazione programmata tra l’allungamento e il Battistero, calcolando che la nuova lunghezza del Duomo sarebbe stata pari a quella che sommava il diametro del Battistero stesso con lo spazio intercorrente tra questo e la nuova facciata, mentre la precedente avrebbe costituito una distanza precisamente doppia di quel diametro, del resto eguale alla metà del lato del quadrato circoscritto all’impianto buschetiano (Peroni, 1995).

La monografia sul Duomo di Pisa di Piero Sanpaolesi, che secondo Peroni (1995) resta la massima punta di approfondimento sul contesto architettonico, coglieva nel segno rivendicando i valori della sua coerenza progettuale, riconducibile a Buscheto, convalidando altresì la distinzione di una seconda fase, quella dell’allungamento, riconducibile a Rainaldo (Peroni, 1995).

La vicenda costruttiva del Duomo si protrasse poi con fasi alterne ma sostanziale unità di stile fino al termine del XIV secolo, quando venne aggiunta la cupola, mentre l’evento che condizionò più pesantemente l’assetto dell’edificio, soprattutto all’interno, fu il devastante incendio del 1595, a seguito del quale furono effettuate numerose sostituzioni di opere distrutte e avviato un vasto programma decorativo (Malafarina, 2007).

1.3.2 L’incendio del 1595

L’evento più traumatico, relativamente documentato, fu il rovinoso incendio del 1595. Trasformazioni ingenti erano già avvenute nel XV secolo e soprattutto a partire dal terzo decennio del XVI, che altrimenti non si possono definire se non “ammodernamenti”, nello spirito dell’arte nuova del Rinascimento. L’incendio del 1595 risparmiò alcune delle più complesse trasformazioni precedenti, in particolare quelle dei transetti, che avevano anche inciso sul finestrato in modo da implicare le partiture esterne. Radicale fu invece la

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rielaborazione del coro e della testata orientale, con l’inserimento delle sacrestie, il rifacimento dei soffitti, la decorazione pittorica della cupola. Una fase ulteriore molto importante, settecentesca, interessò l’intero sistema delle pareti perimetrali, su cui si allineavano gli altari, frutto più vistoso della riforma cinquecentesca e delle aggiunte posteriori all’incendio. Fu introdotta una spartizione di lesene, con l’aggiunta negli intervalli residui di grandi tele dedicate all’agiografia dei Santi pisani (Peroni, 1995).

Altri lavori, importanti per il loro impatto sull’architettura, si limitarono a riparazioni o rifacimenti, o a corrispondere in forma più appropriata a particolari funzioni, come le vetrate, o gli arredi lignei. Si noterà tuttavia che, talora non più ricostruibili nel loro originario assetto, risultano variamente “riciclati”, anche in relazione con nuove esigenze liturgiche, e riassorbiti in altro diverso ordine (Peroni, 1995).

Anche nello scorso secolo, pur con l’intento di esplorare la sostanza strutturale del Duomo in parti delicate e problematiche come la cupola, si sono rimossi particolari della decorazione secentesca che vi aveva conseguito una sua fittizia unità. Esigenze liturgiche e pratiche hanno prodotto ulteriori rimaneggiamenti (talora decisamente rovinosi come il gigantesco impianto di riscaldamento installato nei matronei settentrionali) (Peroni, 1995).

1.3.3 I litotipi della Cattedrale di Pisa

Nel corso degli anni sono state avviate diverse ricerche volte a completare il quadro diagnostico dei litotipi presenti nelle strutture murarie del Duomo di Pisa. I saggi raccolti nella monografia sul Duomo di Pisa, curata da Adriano Peroni (Peroni, 1995), forniscono un profilo completo delle vicende architettoniche e degli apparati decorativi dell’edificio dall’epoca della sua fondazione fino ad oggi.

Le fondazioni sono realizzate con elementi lapidei spaccati di piccola pezzatura e più rari frammenti di laterizi allettati su spessi letti di malta di calce. L’alzato è stato costituito in prevalenza da conci poligonali di calcare e marmo di San Giuliano, ciottoli di quarziti e anageniti, e più raramente calcareniti e scisti violacei (Alberti et al., 2011). Le caratteristiche riscontrate sulle murature dell’edificio evidenziano l’impiego di elementi di recupero, del resto facilmente prelevabili dalle strutture pre-esistenti: infatti la raccolta superficiale e il reimpiego di materiali, in edifici più antichi, come marmo, calcare, colonne in granito elbano erano la principale fonte dei materiali da costruzione (Quiros-Castillo, 2005). In alcuni casi la provenienza dei litotipi identificati, da reimpiego o per una nuova produzione, non è di facile interpretazione (Franzini, 1993).

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Una serie di indagini condotte sulle murature esterne sud e nord del monumento hanno permesso di individuare i litotipi presenti, definendo così i caratteri litologici dell’ordine inferiore del Duomo (Fabiani et al., 1997).

In dettaglio, tra i litotipi attestati utilizzati si segnalano (Fabiani et al., 1997; Alberti et al., 2011):

a) Marmo di San Giuliano (“Calcari Ceroidi” Rau & Tongiorgi, 1974): calcari metamorfici (marmi) di varie tonalità dal bianco al grigio medio con vene dolomitiche giallastre. Costante caratteristica la presenza di dolomite, in cristalli di dimensioni maggiori rispetto alla calcite, sia concentrata in vene che diffusa nella massa calcitica. La cava di provenienza probabilmente era quella situata a sud di San Giuliano Terme (PI) e questi marmi appartengono alle formazioni della copertura calcareo-silicea dell’unità metamorfica di S. Maria del Giudice dell’Hettangiano (Giurassico Inf.) (Franzini, 1993). b) Calcari a Rhaetavicula contorta: calcari di colore grigio scuro, grigio chiaro all’alterazione superficiale, con saltuarie intercalazioni marnose di colore giallastro. Presentano strutture sedimentarie e microfacies tipiche del Trias superiore (Retico) in ambiente deposizionale di laguna-piana tidale. La zona di provenienza è alla base dei Monti Pisani (Caprona) o dei Monti d’Oltre Serchio (Avane).

c) Calcari e Argille a Palombini: calcilutiti silicee di colore grigio plumbeo, bruno-giallastri o più raramente grigio chiaro-biancastri per alterazione superficiale, con alternanze di strati di argilliti laminitiche grigio-marroni o nere. Si tratta di wackestone biomicritici con organismi associabili al Cretaceo inferiore che presentano un certo contenuto in quarzo e pirite, responsabile dell’ingiallimento superficiale e con un fitto mosaico di sottili fratture mineralizzate in calcite. Essi sono sedimentati in depositi torbiditici di piana abissale (Decandia & ELter, 1972) e il materiale lavorato proviene probabilmente da affioramenti sulla zona costiera a sud di Livorno.

d) Calcari Selciferi (appartengono a “Calcari selciferi della Val di Lima”, Boccaletti et al., 1969): calcilutititi e calcareniti di colore grigio scuro, grigio chiari per alterazione superficiale, con abbondante selce nera in liste e noduli, tali calcari si trovano con interstrati di marne anch’esse grigio-scure. Si notano strutture sedimentarie (varie parti della sequenza di Bouma) indicative di deposizione in correnti di torbida. In particolare si tratta di wackestones biomicirtici di mare profondo (bacinale) con risedimenti provenienti da piattaforma carbonatica; essi sono datati Giurassico Medio-Superiore e provengono dalle cave situate alla base di Monte Bastione a Vecchiano (PI).

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e) Marmi apuani: caratterizzati da una significativa variabilità in termini di colore, qualità ornamentali e tecnologiche e in termini di resistenza meccanica; in essi il degrado termico porta a una perdita progressiva di coesione. Questi provengono dall’Unità di Massa e/o dall’Unità delle Apuane.

f) Rosso Ammonitico: calcari rossi o rosati, tipicamente nodulari e suddivisi da nette superfici stilolitiche e veli marnosi che contornano i vari noduli calcari di età Giurassico inferiore.

g) Serpentiniti: si tratta di lherzoliti serpentinizzate che corrispondono alle ofioliti del ligure interno del Giurassico Medio.

h) Monzograniti di Monte Capanne: rocce intrusive provenienti dal plutone dell’isola d’Elba, del Miocene Superiore (Ferrara & Tonarini, 1985, 1993); sono chiamate “cote” o “tozze” e sono soggette a scagliatura e disaggregazione superficiale ed a alveolizzazione; un’alterazione dovuta a colature rosse rugginose è attribuita in Franzini, (1993) alla presenza di pirite.

i) Quarziti del Carnico: corrispondenti alle “quarziti verdi” e le “quarziti bianco-rosa” della formazione delle “quarziti di Monte Serra” (Rau & Tongiorgi”, 1974; Graziani, 1984). Queste quarziti sono a grana media, con forte presenta di quarzo e minor quantità di feldspato e di mica, con accessori comuni tormalina e zircone; cemento scarso a quarzo e fillosilicati; provengono dai monti a nord di Crespignano e sono datate al Trias Superiore.

j) Scisti violetti: corrispondono al membro 2 – “scisti violetti”, della “Formazione della Verruca” (Rau & Tongiorgi, 1974) del Trias medio

k) Panchina Livornese: Calcarenite Pleistocenica di colore ocra, molto porosa e contenente frammenti calcarei organogeni (Franzini, 1993; Lezzerini, 2005, Fratini & Rescic 2014).

1.4 La calcarenite “Panchina”: provenienza e usi

Come precedentemente indicato (§ 1.3.3), le varie fasi costruttive del Vecchio e del Nuovo Duomo di Pisa hanno visto un ampio utilizzo di una calcarenite a grana grossolana di colore giallo ocra, che sulla base delle caratteristiche macroscopiche può essere identificata nella “Panchina”, ampiamente utilizzata nell’edilizia civile e religiosa della costa Toscana, da Pisa a sud di Livorno (Franzini, 1993; Lezzerini, 2005; Lezzerini et al., 2018).

La Panchina affiorante prevalentemente lungo il lungomare livornese, indicata infatti come Panchina Livornese, veniva estratta nella zona costiera compresa fra Livorno e Rosignano, fino

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a Castiglioncello (Galoppini et al., 1996; Ciorli & Papi 2002; Sartori 2004). L’alta porosità l’ha resa una pietra facile da lavorare; inoltre, questo materiale mostra una buona resistenza agli agenti atmosferici ma è più sensibile al gelo (Franzini, 1993). Il principale problema legato alla conservazione è legato alla formazione di croste nere a causa dell’inquinamento (Fratini & Rescic, 2014).

Essa fu sfruttata fin dal tempo degli Etruschi che la utilizzavano per la costruzione di capanne (es. a Populonia) e tombe ipogee (località “le Grotte” e “le Fate”, che erano anche siti estrattivi). Successivamente è stata utilizzata nella Lucca romana e longobarda. A Pisa la troviamo nelle murature delle chiese di San Zeno (1029 – XV sec.) (Figura 5), San Frediano (XII sec. – XVII sec.), San Paolo a Ripa d’Arno (conosciuta anche come “duomo vecchio”, 925 ca. – XIV sec.), San Pietro a Grado (terzo quarto del X sec. – seconda metà XII sec.) e San Sisto (1133 – 1730), nelle voltine del loggiato della Torre Pendente (1173 – metà del XIV sec.), nella parte bassa delle mura medievali (XII sec.) (Figura 6). In modo sporadico è stata utilizzata anche nella chiesa di Sant'Andrea Forisportam (XII sec.), all’interno dei Bagni di Nerone (I sec.), della Porta del Leone (XII sec.) e della Porta S. Zeno, nella chiesa di Santa Cristina (VIII sec.), nella chiesa di San Nicola (fine XI sec.) e nella chiesa di San Pierino (XI sec.) (Franceschi, 1991).

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Figura 6. A sinistra le mura di Pisa, a destra un particolare nelle mura di concio di Panchina

1.5 Obiettivi della ricerca

Dal quadro finora esposto appare chiaro come la Cattedrale di Pisa rappresenti un organismo architettonico complesso. Tra gli eventi di maggiore rilievo che hanno interessato la struttura, l’incendio del 1595 rappresenta certamente un importante momento di ricostruzione e modificazione della struttura.I recenti lavori di restauro condotti presso la Cattedrale di Pisa hanno messo in evidenza elementi strutturali riconducibili alle prime fasi di costruzione, alcune delle quali caratterizzate da evidenti forme di alterazione costitute da variazioni cromatiche dal rosa al rossastro e da depositi superficiali di colore nero-grigiastro, in particolare presso le mura di sostegno e le arcate dei matronei. Tuttavia, l’analisi architettonica e strutturale non ha fornito dati oggettivi per la datazione delle strutture portate in luce né chiare evidenze di un loro coinvolgimento nell’incendio sopra citato. L’analisi autoptica delle strutture ha infatti evidenziato la presenza, accanto alle murature interessate da forme di alterazione e degrado, anche di apparati murari dove lo stesso litotipo si esprime nelle sue caratteristiche estetiche e fisiche naturali.

Questo lavoro di tesi è finalizzato allo studio e alla caratterizzazione di alcuni campioni litologicamente riconducibili alla Calcarenite Pleistocenica “Panchina” prelevati in paramenti murari interni del Duomo di Pisa, con il permesso e sotto la supervisione dell’Opera Primaziale Pisana, al fine di comprendere il loro eventuale coinvolgimento nell’incendio del 1595, valutare i possibili effetti dell’evento nelle caratteristiche fisiche e mineralogiche del litotipo coinvolto, e fornire un supporto alla datazione relativa delle strutture murarie indagate. A tale scopo, campioni prelevati in corrispondenza di diverse aree dei matronei e delle coperture sono stati studiati dal punto di vista minero-petrografico e chimico, al fine di ottenere una completa caratterizzazione delle patine di alterazione e verificare la presenza di possibili evidenze di degrado termico; a tale studio sono stati affiancati test di laboratorio sul litotipo prelevato in

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affioramento in campagna al fine di fornire una comparazione sperimentale con gli effetti del degrado delle proprietà fisiche ed estetiche osservate sulle murature della Cattedrale.

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2. Breve inquadramento geologico

2.1 Storia degli studi

Le zone in cui affiora la Calcarenite Panchina (vedere Pleistocene Superiore in Figura 7) sono state studiate inizialmente da Malatesta che nel 1954 ha redatto il foglio 111 di Livorno assieme alle relative Note Illustrative per la Carta Geologica d’Italia; successivamente Giannini nel 1955 ha compilato una carta 1:25.000 per i Monti di Campiglia nella quale è possibile riconoscere il Terrazzo di Livorno e nello stesso anno Segre ha prodotto una Nota sulla idrografia continentale e marina, riportata assieme al foglio 111 di Livorno. Gli studi successivi sono stati effettuati da Barsotti et al., (1974) per le Memorie della Società Geologica Italiana; in questi studi sono state redatte una carta geologica e una morfologica relative alla piana di Livorno allegandole allo studio sul Quaternario Livornese, con particolare riferimento alla stratigrafia ed alle faune delle formazioni del bacino di carenaggio della Torre del Fanale. Cortemiglia et al. (1983) nello studio della Geografia Fisica nella Dinamica del Quaternario, hanno scritto uno studio sulla Geomorfologia della Baia di Baratti e della sua spiaggia, dove è stata rilevata la presenza della Panchina. Malatesta & Zarlenga (1986) hanno descritto i cicli trasgressivi medio pleistocenici sulle coste liguri e tirreniche, dove viene approfondita la stratigrafia relativa ai terrazzi tirrenici. Mazzanti (1987) nel suo articolo “Aspetti geologici,

erosione e subsidenza del Litorale Toscano” analizza le trasgressioni e regressioni avvenute nel

Pleistocene proponendo nuove carte schematiche e sezioni della Toscana Meridionale. La Panchina viene inoltre descritta alla fine degli anni 80’ e gli inizi degli anni 90’ in molteplici lavori che prendono in esame il territorio regionale (Bartoletti et al., 1986; Alioto & Sanesi, 1987; Lazzarotto et al., 1990). Gli studi più recenti sul litotipo sono legati a ricerche inerenti diversi aspetti del Quaternario della Toscana Costiera (Ciampalini et al., 2006, 2007, 2014; Sarti et al., 2005, 2017; Barsotti et al., 2015, 2017; Boschian et al., 2006; Bossio et al., 1981, 1986, 1998, 2008; Dall’Antonia et al., 2005), e soprattutto alla redazione del foglio 284 di Rosignano Marittimo (in attesa di stampa), dove sono riassunte e presentate le caratteristiche principali della formazione (Fm. QCP, Mazzanti, 2016) tenendo conto degli studi precedenti. (Foglio 284 - 1:50.000 Ispra).

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Figura 7. Carta schematica della Toscana costiera (da Sarti et al., 2017)

2.2 La Toscana costiera nel quadro dell’evoluzione dell’Appennino settentrionale

La Toscana Costiera rientra in un tratto della Catena appenninica, sviluppatasi nell’Oligocene Superiore-Miocene Inferiore (28-23 Ma) per effetto della collisione fra il margine Paleoeuropeo e la Microplacca Adria, promontorio nord-orientale Africano, ed entrata in regime di collasso post-collisionale a iniziare dalla fine del Miocene Inferiore (22-16 Ma) (Federici & Mazzanti, 1995; Mazzanti et al., 1981, 1984, 2000; Boschian et al., 2006). Le rocce che costituiscono la catena si sono formate in ambienti paleogeografici differenti tra il Giurassico e l’Oligocene e la catena è costituita da falde che si sono accavallate con polarità orogenetica da Ovest verso Est in direzione dell’avampaese Adriatico. I movimenti verificatisi durante gli eventi pre e sin-collisionali hanno contribuito alla costruzione di un edificio a falde tettoniche di ricoprimento. Nel Neogene e nel Quaternario tale edificio sarà interessato dalla tettonica distensiva post-collisionale, in risposta all’apertura del Bacino Tirrenico ed alla rotazione antioraria del sistema Appenninico. La tettonica estensionale porterà alla formazione di bacini, delimitati da faglie dirette ad alto angolo, che saranno poi riempiti da successioni sedimentarie mio-plioceniche (Carmignani et al., 1994; Molli, 2008).

Relativamente ai sedimenti marini quaternari (Boschian et al., 2006), lo studio del bacino mediterraneo ha consentito di definire le unità stratigrafiche del periodo geologico Pleistocenico. Dal basso in alto si succedono i piani Selinuntiano (costituito dai tre sottopiani

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Santerniano, Emiliano e Siciliano), Crotoniano, Tirreniano e Versiliano (o Flandriano). I primi tre piani vengono comunemente riferiti al Pleistocene inferiore. Gli ultimi due al Pleistocene superiore. Il Crotoniano, invece, rappresenterebbe la terza e ultima oscillazione marina (l'unica codificata con un termine stratigrafico) delle tre che caratterizzano il Pleistocene medio. Sulla Toscana costiera, Il Pleistocene superiore è caratterizzato da una successione di episodi marini trasgressivi, ciascuno dei quali è seguito da una fase continentale (Sarti et al., 2017) (Figura 8).

Figura 8. Stereogrammi rappresentanti alcune tappe fondamentali dello sviluppo geomorfologico dell’area antistante la parte settentrionale del Terrazzo di Livorno e dei Monti Livornesi (Porto Pisano) con formazione di zone umide (lagune, paludi, lame, stagni) (da Mazzanti, 1984, in Barsotti, 1999)

Sulla base di elementi morfologici e paleontologici è stato possibile riconoscere su tutta la Toscana Costiera la presenza di terrazzi del Pleistocene medio (Mazzanti, 1984), ritenuti policiclici (Federici & Mazzanti, 1995) in quanto frequentemente strutturati da più di un ciclo stratigrafico e/o da più di un ciclo erosivo. Tuttavia, quando se ne è indicato il riconoscimento solo su base morfologica, i terrazzi sono stati indicati genericamente come appartenenti al “Terrazzo I”, mentre questi sono stati indicati come appartenenti al “Terrazzo del Pleistocene medio”, quando è stato possibile documentare il riconoscimento cronologico (Boschian et al., 2006).

Un altro gruppo di fasi sedimentarie cicliche trasgressivo-regressive, distribuito su un terrazzo policiclico riferito al Pleistocene superiore (Terrazzo II) da Federici e Mazzanti (1995), era noto ed allora ritenuto molto ben caratterizzato cronologicamente dalle faune senegalesi a

Strombus bubonius del Bacino di carenaggio della Torre del Fanale di Livorno e da quelle della

Baia dei Turchi dell’Isola di Pianosa, oltre che da quella a Conus testudinarius della Buca dei Corvi di Castiglioncello. Nei sedimenti regressivi, in gran parte eolici, che chiudono la

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sedimentazione di questo gruppo di fasi, è stata rinvenuta una malacofauna del Paleolitico Medio che ne garantiscono, da un punto di vista generale, l’attribuzione al Pleistocene superiore.

2.3 Il terrazzo di Livorno o Terrazzo II

Il “Terrazzo di Livorno” o “Terrazzo II” (Federici & Mazzanti, 1995) è un terrazzo policiclico marino sviluppatosi durante il Pleistocene Medio-Superiore (datato MIS -marine isotope stage- 5, tra 130 ka e 80 ka; Federici & Mazzanti, 1995) che giace al di sopra dei depositi del Pleistocene inf./ Pliocene med. Esso è costituito da depositi litorali e di spiaggia, fossiliferi, spesso cementati (calcareniti) e conosciuti come “Panchina” (Federici & Mazzanti 1995) (Figura 9); questa unità marina può essere sostituita localmente da calcareniti di origine eolica.

Figura 9. Schema morfostratigrafico del Pleistocene e dell’Olocene della Toscana Costiera, ottenuto da tutte le formazioni marine e dalle continentali geograficamente più diffuse (altezze esagerate fortemente rispetto alle lunghezze date non in scala) (Boschian et al., 2006)

Lo strato basale del terrazzo è costituito da una calcarenite marina (Panchina I, fig. 10) di costa (spiaggia sottomarina), con un abbondante fauna di molluschi (Barsotti et al., 1974) come ad esempio Strombus bubonius. Questa è connessa all’Eemiano (MIS 5e, 123 ka, Hearty et al., 1986; Federici & Mazzanti 1995; Mauz, 1999) e passa localmente in alto da depositi salmastri a successioni continentali fini contenenti molluschi di acqua dolce (Malatesta, 1942; Barsotti et al., 1974; Zanchetta et al., 2004) rappresentativi di una fauna connessa al MIS 5d (109 ka, Zanchetta et al., 2004). Questi strati sono ricoperti da un layer di calcarenite di ambiente eolico (Panchina II, fig. 10), connesso al MIS 5c (circa 96 ka, Federici & Mazzanti, 1995; Mauz, 1999; Zanchetta et al., 2004).

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Nella parte alta chiudono la successione del Terrazzo di Livorno i limi sabbiosi rossi con noduli di Fe-Mn; questa formazione (“Sabbie di Ardenza”, Lazzarotto et al., 1990; MIS 4 o 3 sulla base di Malatesta 1940; Ciampalini & Sammartino, 2007) è separata dalla Panchina in alcune località (es. Corea, Shangai, Picchianti) da un importante superficie di erosione che segnala l’inizio dell’ultima glaciazione. Questa superficie in alcune località risulta marcata da un sottile livello conglomeratico fortemente pedogenizzato. In altre località (es. Villa S. Giorgio, Zanchetta et al., 2004) la Panchina alla base delle Sabbie di Ardenza presenta numerose cavità di dissoluzione riempite da limi sabbiosi arrossati (Figura 10).

La successione che forma il “Terrazzo di Livorno”, localmente, è in eteropia laterale con la formazione dei “Conglomerati di Rio Maggiore” (Bossio et al., 2008) definiti da Lazzarotto et al. (1990), come suggerito anche da Ciampalini et al. (2006).

Figura 10. Schema dei rapporti stratigrafici fra le unità litostratigrafiche del Terrazzo di Livorno descritte in letteratura. Sono mostrate inoltre le correlazioni con gli stadi isotopici marini (MIS). Ciampalini & Sammartino, 2007

Nella parte più occidentale del terrazzo la Panchina è suddivisa in due livelli distinti separati da sedimenti salmastri e/o continentali, spesso riccamente fossiliferi (Barsotti et al., 1974; Zanchetta et al., 2004).

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Tutte queste formazioni sono disposte ad occidente della dorsale dei Monti Livornesi, formati essenzialmente da Unità Liguri, costituite da ofioliti e alternanze di argilliti e calcari, calcari marnosi, argilliti rosse e verdi, e arenarie del macigno della serie Toscana (Lazzarotto et al., 1990). A partire dalla foce del Rio Ardenza la costa diviene alta e rocciosa e al di sotto delle formazioni del Pleistocene superiore sono presenti le argilliti e calcari del Cretaceo appartenenti alla Formazione di Antignano. Sulla base di studi più recenti, questa semplice stratigrafia si sta dimostrando molto più complessa e articolata (Ciampalini, 2002; Dall’Antonia et al., 2005; Zanchetta et al., 2006; Sarti et al., 2017).

2.4 La Panchina Livornese

2.4.1 Caratteri generali

Questo litotipo era ben noto dagli Etruschi ed è stato cavato dagli affioramenti del litorale dalla Fortezza Vecchia fino al Rio Maroccone di Antignano fino al XVII secolo, quando è stata costruita la città di Livorno (Figure 11-12-13); l'escavazione è continuata più a sud, sempre lungo il litorale al Cavone e al monte Tignoso. Le Calcareniti di Castiglioncello (QCP, sigla formazionale, Lazzarotto et al., 1990; Marroni et al., 2007; Mazzanti, 2016) sono datate al Pleistocene Superiore (Bartoletti et al., 1986) e sono state sempre indicate con il termine "Panchina”, per la facilità con la quale venivano suddivise in lastre, per la relativa resistenza meccanica, ottima presa alle malte e leggerezza che ne costituivano una ottima pietra da costruzione. Questa litofacies si può trovare, sempre lungo il litorale a Quercianella, a Castiglioncello, dove si trova in bella esposizione alla Buca dei Corvi e fino alla Punta Lillatro di Rosignano.

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Figura 11 – Lazzaretti (Accademia Navale) Bagni Fiume. Sulla grande spianata di panchina che si estende da San Jacopo ai Bagni Fiume oggi sorge l’Accademia Navale che occupa un’area destinata a due importanti lazzaretti: S.Jacopo e S. Leopoldo. Queste strutture furono destinate alla quarantena degli equipaggi delle navi provenienti dal Levante e, in particolare, quello di San Leopoldo fu considerato uno dei più vasti e completi d’Europa. (Barsotti, 2015).

Figura 12. Torretta angolare del lazzaretto di San Leopoldo costruita nel ‘700 con blocchi di panchina locale (Barsotti, 2015). Figura 13. Affioramento di Panchina presso la Terrazza Mascagni (Barsotti, 2015).

2.4.2 Caratteri litologici e forme di degrado

Dal punto vi vista litologico, si tratta di una calcarenite, più o meno compatta, a granulometria variabile da qualche decimo di millimetro a qualche millimetro, localmente ricca di frammenti calcarei organogeni (gusci di Lamellibranchi e Gasteropodi, Alghe calcaree, Foraminiferi, ecc.), visibili ad occhio nudo o con la lente (Mazzanti, 2016). A volte sono presenti laminazioni incrociate caratteristiche di una facies di spiaggia emersa e di duna.

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Macroscopicamente, si presenta di colore ocra, ruvida al tatto e molto porosa. La massa volumica apparente è compresa fra 1.64 e 1.71 g/cm3, il coefficiente d’imbibizione d’acqua è prossimo al 20% in peso ed il contenuto in quarzo è variabile dal 3% al 10% in volume (Franzini, 1993).

In condizioni ambientali naturali, la Panchina ha buona resistenza al degrado: non soffre gli sbalzi termici, teme il gelo, solo se intenso, e risente debolmente della dissoluzione da acque piovane battenti. In ambiente cittadino inquinato, la pietra è maggiormente suscettibile al degrado e si riscontrano condizioni di maggiore sofferenza. La dissoluzione da piogge acide, ad esempio, procede piuttosto velocemente, con aumento di ruvidità della superficie esposta o, più frequentemente, con la formazione di un deposito superficiale, di colore marrone scuro, a volte variamente caratterizzato da tonalità rossastre per la presenza di depositi di idrossidi di ferro. La scabrosità della pietra facilita, inoltre, l’accumulo di particolato atmosferico sulla superficie con formazione di depositi più o meno spessi. Quest’effetto diventa particolarmente intenso nelle zone protette dal dilavamento della pioggia battente, per esempio nei sottosquadri, dove sono presenti croste nere, composte di gesso e calcite. Nei casi peggiori, la sovrapposizione dei residui di dissoluzione e di quelli di apporto esterno può generare strati con porzioni caratterizzate da scarsa cementazione che devono essere considerate come veri e propri difetti della pietra. Queste porzioni poco cementate tendono, spontaneamente o per effetto della circolazione d’acqua all’interno della pietra, a ridursi in polvere facilmente asportabile, generando ampie cavità.

Questa calcarenite è più o meno cementata a seconda delle località, e forma un ammasso che da massiccio alla base assume verso l’alto una stratificazione in genere sottile (fino a centimetrica), piano parallela incrociata. Il suo spessore di circa 10 m alla Buca dei Corvi è di 10-15 m a Castiglioncello, si riduce progressivamente verso la parte interna della Piana di Rosignano Solvay – Vada (Mazzanti, 1986).

Le calcareniti di Castiglioncello contengono talora piccole sacche di conglomerati che costituiscono spesso la parte bassa della successione; talora è stato possibile cartografarle singolarmente come Membro dei Conglomerati di Bocca di Chioma (QCP1) (Boschian et al., 2006). Le QCP sono il primo sedimento che sormonta la spianata d'abrasione marina del Terrazzo del Pleistocene superiore che si presenta in un residuo minimo, sotto la paleofalesia della Buca dei Corvi, o nella pianura di Livorno e di Rosignano-Vada. Sono costituite da granuli carbonatici bioclastici e da una frazione non carbonatica che normalmente non supera un terzo del totale. I clasti carbonatici sono costituiti da foraminiferi, da frammenti di alghe calcaree, e da gusci di lamellibranchi, gasteropodi, echinodermi, serpulidi, ecc. I clasti non

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carbonatici sono prevalentemente costituiti da granuli monocristallini o policristallini di quarzo e da granuli di selce; minerali femici provenienti dalle ofioliti sono piuttosto frequenti in alcuni campioni ed assenti in altri; i feldspati sono sempre accessori (Boschian et al., 2006). I granuli non carbonatici non superano le dimensioni della sabbia media; quelli bioclastici possono anche superare le dimensioni della sabbia grossolana. Per quanto riguarda la forma, l’eterogeneità dei granuli è grandissima: benché prevalgano, specialmente fra i carbonatici, gli elementi arrotondati (secondo la scala di arrotondamento dei grani per le particelle in rocce sedimentarie di Powers, 1953) sono presenti anche granuli da subangolosi a molto arrotondati. Il cemento, che costituisce da un quarto a metà della roccia, è calcitico, essenzialmente spatico. La distribuzione non uniforme del cemento carbonatico sia a grande che a piccola scala conferisce alla roccia un aspetto spugnoso e vacuolare a grande scala e poroso a piccola scala.

Questa formazione (QCP, Mazzanti, 2016) comprende due livelli di calcareniti, separate a tratti da una sequenza di piccoli strati di limo, sabbia argillosa e argilla torbosa nera e a tratti, a diretto contatto, ma ancora riconoscibili per la presenza di una netta superficie di separazione ondulata. Talora i due banchi di panchina sono separati da livelli di sabbie e conglomerati. Lo spessore risulta generalmente inferiore ai 5 m. I due episodi calcarenitici rappresentano altrettante variazioni glacioeustatiche marine, alle quali si intercala un episodio continentale. Le QCP, il cui nome formazionale è dovuto alla sezione alla Buca dei Corvi di Castiglioncello, dove la calcarenite della spiaggia fossile contiene specie “calde” di molluschi, costituiscono la maggior parte del Terrazzo di Livorno. Molto significativa per i rapporti stratigrafico-morfologici fra i sedimenti del Terrazzo di Livorno e quelli della Pianura di Pisa è la “Gronda dei Lupi” una lunga scarpata che va dalla Fattoria Suese alla fortezza Vecchia e fino alle Secche della Meloria. Nella “Panchina” (Boschian et al., 2006) sono visibili strutture sedimentarie come lamine piano-parallele, lamine oblique, piste di fossatori e impronte di radici, di solito mascherate ma talvolta messe in risalto dall’inomogeneità della cementazione. La tessitura di questa roccia, il tipo delle laminazioni ed il loro assetto sono caratteristici dei sedimenti di spiaggia sia emersa sia sommersa e, in parte, della duna immediatamente retrostante.

Presso il Fosso delle Grotte (Baia di Baratti), come a Populonia, si può osservare la “Panchina” eolica (Cortemiglia et al., 1983) su alcune pareti delle antiche cave e delle tombe a ipogeo. Questo sedimento arenaceo è risultato fittamente laminato con lamine piane estese anche diversi metri, inclinate da 25° a 30° (+- 10°). Sono state inoltre osservate lamine inclinate verso E-SE ed anche verso SE (Cortemiglia et al., 1983). Qualche misura di inclinazione ha fornito valori compresi fra 40° e 50°, ma si tratta di misure su grandi blocchi leggermente ruotati verso

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valle probabilmente a causa del cedimento di sottostanti Sabbie rosse incoerenti. Tutte le arenarie esaminate sono a grana media con tendenza verso le sabbie fine talvolta verso le sabbie grossolane; le classi modali sono comprese fra i 180 e i 730 micron. Al microscopio queste arenarie risultano ben selezionate, con trascurabile percentuale di matrice e con un 30-35% di cemento spatico e qualche granulo molto arrotondato da 2 mm o poco più. Sono frequenti clasti sostituiti da calcite spatica ed i clasti calcarei costituiscono dal 40 al 50% del totale della roccia.

Diversamente da quanto accade nelle successioni a Livorno e presso la Buca dei Corvi, sono stati identificati, nella falesia della sezione di Baratti, quattro episodi trasgressivi; ogni episodio è rappresentato da un deposito o di battigia o della parte alta di una spiaggia sommersa (Sarti et al., 2005). Similmente alla zona più a nord, gli strati trasgressivi sono impilati tra un silt rossiccio e depositi colluviali sabbiosi alterati. La presenza di una “fauna senegalese” da depositi marini lungo questa falesia non è stata riscontrata, indicando che si tratta probabilmente di una diversa litofacies (Sarti et al., 2017)

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3. Materiali e Metodi

3.1 Studio del litotipo in opera e materiali campionati presso la Cattedrale di Pisa

Per questo lavoro di tesi sono stati prelevati n. 20 campioni identificati litologicamente come Panchina Livornese all’interno della Cattedrale di Pisa; il campionamento è stato condotto con il permesso e sotto la supervisione dell’Opera Primaziale Pisana.

Le aree di campionamento sono state individuate presso i matronei della Cattedrale, dove era riconoscibile il litotipo indagato e dove era possibile prelevarne porzioni senza danneggiare la struttura (Figura 13). Per quest’ultimo motivo i campioni hanno dimensioni ridotte.

Le aree di campionamento scelte rappresentano, nel dettaglio, aree della Cattedrale facenti parte della prima fase costruttiva (comprendente le prime cinque arcate) e aree corrispondenti alla seconda fase costruttiva di ampliamento.

Figura 13. Planimetria dei matronei da Sampaolesi, 1974; in figura sono riportati i punti di campionamento e alcuni dei campioni prelevati, come esempio. Il tratteggio indica la suddivisione proposta tra la prima e la seconda fase

costruttiva.

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 Ambiente 1, lato Sud, prima fase costruttiva (Figura 14). Questo corrisponde al matroneo ed in particolare all’arcata principale al di sopra delle navate a Sud del coro; i campioni sono stati prelevati in corrispondenza di una fessura presente nell’arco rampante. Nel dettaglio sono stati prelevati campioni del litotipo (campioni M3.a-b), presentanti una evidente alterazione cromatica di colore rossastro e alcuni campioni caratterizzati da una evidente patina di colore grigio-nero (campioni M3.c-d).

Figura 14. Ambiente 1 Sud

 Ambiente 2, lato Sud, prima fase costruttiva (Figura 15). Tale area di campionamento si trova all’interno del matroneo meridionale, al di sopra del transetto meridionale, dove è presente una struttura muraria di tamponamento caratterizzata da evidente

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alterazione cromatica, al cui interno è stata scoperta una colonna romana; nella porzione sottostante tale muratura è stato individuato un probabile nucleo murario precedente o successivo alla costruzione della tamponatura, in corrispondenza del quale la pietra non presenta evidenti forme di alterazione e degrado. In quest’area, sono stati prelevati i campioni M1.a-c in corrispondenza della tamponatura muraria, i campioni M1.d-g prelevati all’interno di una fessura nei conci accanto alla colonna romana, e infine i campioni M2.a e M2.b in corrispondenza del nucleo murario non interessato da alterazione cromatica.

Figura 15. Ambiente 2 Sud

 Ambiente 3, lato Sud, prima fase costruttiva (Figura 16). L’area indagata corrisponde alla volta principale presente al di sopra della navatella meridionale fino al limite della facciata originaria. In questo ambiente sono stati prelevati i campioni M4.a, dalla superficie di un concio di Panchina caratterizzato dalla presenza di un deposito superficiale di colore grigio-nero, e M4.b che corrisponde ad una scaglia del deposito sopra descritto. Inoltre, sono stati prelevati i campioni M4.c-e rappresentati da frammenti di roccia degradata sulla superficie dei conci.

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Figura 16. Ambiente 3 Sud

 Ambiente 4, lato Nord, prima fase costruttiva (Figura 17). In questa area è stato prelevato il campione M5 alla base della muratura della parete interna della navata Nord; questo presenta lievi alterazioni cromatiche ma non sono evidenti depositi superficiali.

Figura 17. Ambiente 4 Nord

 Ambiente 4, lato Sud, seconda fase costruttiva (Figura 18). L’area di campionamento fa parte della navatella meridionale, che è un ampliamento della facciata (§ 1.3.2). In particolare è stato prelevato un campione (M6) alla base della muratura della parete

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interna della navata Sud; questo non presenta alterazioni cromatiche né sono evidenti depositi superficiali.

Figura 18. Ambiente 4 Sud

In Tabella 1 sono riportate le principali caratteristiche dei campioni prelevati all’interno della Cattedrale di Pisa.

Sigla

campione Area di prelievo Analisi effettuate Caratteristiche macroscopiche

M1 a, b, c A2 Sud,

superficie della muratura Osservazione macroscopica

Colore ocra-marrone, tessitura granosostenuta, porosità 25%

M1 d

A2 Sud, fessura nella muratura accanto alla colonna

romana

Osservazione macroscopica, analisi allo stereomicroscopio, XRD

Evidente alterazione cromatica da ocra-marrone a rossastro, granosostenuta, porosità 25%

M1 e,g

A2 Sud, fessura nella muratura accanto alla colonna

romana

Osservazione macroscopica Colore ocra-marrone, tessitura granosostenuta, porosità 25%

M1f

A2 Sud, fessura nella muratura accanto alla colonna

romana

Osservazione macroscopica, analisi petrografica

in sezione sottile

Colore ocra-marrone, tessitura granosostenuta, porosità 25%

M2 a A2 Sud, basale della

muratura originale Osservazione macroscopica

Colore ocra-marrone, tessitura granosostenuta, porosità 30%

M2 b A2 Sud, basale della muratura originale

Osservazione macroscopica, analisi petrografica

in sezione sottile

Colore ocra-marrone, tessitura granosostenuta, porosità 30%

M3 a A1 Sud arcata principale

Osservazione macroscopica, analisi petrografica in sezione sottile analisi

FE-SEM, spettroscopia micro-Raman

Evidente alterazione cromatica da ocra-marrone a rossastro,

tessitura

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M3 b A1 Sud arcata principale

Osservazione macroscopica, analisi allo stereomicroscopio, XRD

Evidente alterazione cromatica da ocra-marrone a rossastro,

tessitura

granosostenuta, porosità 25%

M3 c

A1 Sud arcata principale, superficie alterata (non sul contatto

tra i conci)

Osservazione macroscopica, analisi FE-SEM

Deposito superficiale colore nero

M3 d A1 Sud arcata principale crosta (sul contatto tra i conci)

Osservazione macroscopica, analisi FE-SEM

Deposito superficiale colore nero

M4 a A3 Sud arcata principale, superficie alterata

Osservazione macroscopica, analisi allo stereomicroscopio, XRD

Deposito superficiale colore nero su un lato e colore

ocra-marrone, tessitura granosostenuta, porosità 25%

M4 b A3 Sud arcata principale,

crosta nera Osservazione macroscopica

Deposito superficiale colore nero su un lato e sull'altro

lato colore ocra-marrone, tessitura

granosostenuta, porosità 25%

M4 c A3 Sud arcata principale, superficie alterata

Osservazione macroscopica, analisi petrografica

in sezione sottile

Evidente alterazione cromatica da ocra-marrone a rossastro,

tessitura

granosostenuta, porosità 30%

M4 d A3 Sud arcata principale, crosta nera

Osservazione macroscopica, analisi petrografica

in sezione sottile

Colore ocra-marrone, tessitura granosostenuta, porosità 25%

M4 e A3 Sud arcata principale, superficie

alterata Osservazione macroscopica

Colore ocra-marrone, tessitura granosostenuta, porosità 25%

M5 A4 Nord muratura della parete interna della navata Nord

Osservazione macroscopica, analisi allo stereomicroscopio, analisi

petrografica in sezione sottile

Lieve alterazione cromatica da ocra-marrone a rossastro,

tessitura

granosostenuta, porosità 25%

M6 A4 Sud muratura della parete interna della navata Sud

Osservazione macroscopica, analisi allo stereomicroscopio, analisi petrografica in sezione sottile Tessitura granosostenuta, porosità 30%

Tabella 1. Lista dei campioni prelevati, con indicazioni sull’area di prelievo, analisi effettuate e sintetica caratterizzazione macroscopica.

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34

3.2 Campionatura del litotipo in affioramento

Al fine di ottenere campioni rappresentativi del litotipo “Panchina Livornese” sul quale effettuare test di laboratorio per verificare gli effetti del degrado termico indotto dalle alte temperature sulla roccia oggetto di studio, è stato svolto un campionamento in affioramento. A seguito di un attento studio della cartografia e un sopralluogo su tutta la fascia della costa livornese dove la cartografia geologica indica l’affioramento della calcarenite Panchina Pleiostocenica, è stata individuata un’area di campionamento presso il sito di Castiglioncello (Livorno, coordinate 43.401218, 10.404723). Presso l’affioramento individuato sulla linea di costa sono state prelevate n. 5 carote di diametro 2 cm e altezza 4 cm rappresentative del litotipo osservato (Figura 19).

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