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LA PARTECIPAZIONE DEI SOCI ALL'ASSEMBLEA MEDIANTE RAPPRESENTANTE NELLE SOCIETA CON AZIONI QUOTATE NEI MERCATI REGOLAMENTATI

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Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in Consulenza Professionale alle Aziende

TESI DI LAUREA

LA PARTECIPAZIONE DEI SOCI ALL’ASSEMBLEA MEDIANTE RAPPRESENTANTE

NELLE SOCIETÀ CON AZIONI QUOTATE NEI MERCATI REGOLAMENTATI

RELATORE

Prof. Alessandro BENOCCI

CANDIDATO Filippo MARTINELLI

(2)
(3)

I

NDICE

INTRODUZIONE ... 4

C

APITOLO I LA PARTECIPAZIONE DEI SOCI ALL’ASSEMBLEA MEDIANTE RAPPRESENTANTE TRA DIRITTO COMUNE E DIRITTO SPECIALE 1. — Il fenomeno della partecipazione dei soci all’assemblea mediante rappresentante – Premessa— ... 6

2. — Storia della disciplina –– ... 9

2.1 — Dal codice del 1865 fino al codice del 1942 — ... 9

2.2 — La nascita della questione della rappresentanza — ... 14

2.3 — La prima riforma con la legge n. 216 del 1974 — ... 18

2.4 — Cambiamenti introdotti dal D.lgs. n. 58 del 1998, il T.U.F.—... 23

2.5 — Legge n. 262 del 2005 “sul risparmio” — ... 29

3. — La disciplina in diritto comune in materia di società di capitali –– ... 34

3.1 — S.r.l. — ... 34

3.2 — S.p.a. — ... 37

C

APITOLO II LE DELEGHE DI VOTO NELLE SOCIETÀ QUOTATE 1. — Ragioni della specialità della disciplina — ... 50

1.1 — Le S.p.a. quotate nel diritto speciale —... 50

1.2 — La nascita e evoluzione della disciplina delle S.p.a. quotate — ... 51

1.3 — I mercati regolamentati — ... 53

1.4 — La funzione degli investitori professionali nelle società quotate — ... 57

1.5 — Le motivazioni della disciplina speciale per le società quotate — ... 59

1.6 — L’interesse pubblico nei confronti delle S.p.a. quotate — ... 62

1.7 — L’autodisciplina nelle società quotate — ... 65

1.8 — Le società quotate diverse dalle S.p.a. — ... 67

2. — La disciplina delle deleghe di voto nelle società quotate — ... 69

2.1 — Il ruolo della Direttiva n. 36 del 2007 CE — ... 70

2.2. — La disciplina in seguito all’avvento del d.lgs. n. 27/2010 – ... 76

2.3 — La delega di voto secondo la normativa vigente — ... 78

3. — Le deleghe di voto durane la circolazione delle azioni — ... 82

4. — Voto divergente — ... 87

5. — Il conflitto di interessi del rappresentante — ... 89

6. — Il rappresentante designato dalla società — ... 93

(4)

C

APITOLO III

LA SOLLECITAZIONE DI DELEGHE NELLE SOCIETÀ QUOTATE

1. — La disciplina della sollecitazione delle deleghe nelle società quotate — ... 106

1.1 — La sollecitazione di deleghe nell’originario T.u.f. del 1998 —... 107

1.2 — La sollecitazione di deleghe attuale, dopo il d.lgs. n. 27/2010 e successive modifiche del d.lgs. n. 91/2012 — ... 109

2. — L’istituto della raccolta delle deleghe — ... 116

3. — La responsabilità civile del promotore e dell’associazione degli azionisti — ... 118

4. — Modifiche introdotte dal d.l. n. 18/2020 “Cura Italia” — ... 121

CONCLUSIONI ... 124

(5)

I

NTRODUZIONE

Lo svolgimento dell’indagine sulla rappresentanza assembleare nelle società quotate deve

iniziare con un breve excursus storico della normativa di riferimento. Questo percorso ci consentirà di comprendere i temi oggi in discussione.

In seguito, ci soffermeremo sulla disciplina attuale, facendo un focus sulle innovazioni che vi hanno apportato il d.l. n. 58/1998 legge “Draghi” ed il successivo d.lgs. n. 27/2010 emanato in attuazione della Direttiva 36/2007/CE.

Analizzeremo quindi gli istituti della sollecitazione e raccolta di deleghe e del rappresentante designato cercando di comprendere i motivi che hanno portato il legislatore a consentire o imporre, a seconda delle fattispecie, l’utilizzo di tali istituti.

Faremo successivamente un breve cenno alla figura dei consulenti di voto o proxy advisors che hanno recentemente attirato l’attenzione degli investitori istituzionali e del legislatore nazionale. Infine, sarà effettuata una sintetica trattazione riguardante le speciali disposizioni dettate dal legislatore in dipendenza della crisi pandemica provocata dal COVID 19 con una particolare attenzione alla figura del rappresentante designato.

(6)

C

APITOLO I

LA PARTECIPAZIONE DEI SOCI ALL’ASSEMBLEA MEDIANTE RAPPRESENTANTE TRA DIRITTO COMUNE E

DIRITTO SPECIALE

S

OMMARIO: 1. Il fenomeno della partecipazione dei soci all’assemblea mediante rappresentante - Premessa — 2. Storia della disciplina — 2.1 Dal codice del 1865 fino al codice del 1942 — 2.2 La nascita della questione della rappresentanza — 2.3 La prima riforma con la legge n. 216 del 1974 — 2.4 Cambiamenti introdotti dal D.lgs. n. 58 del 1998, il T.U.F. — 2.5 Legge n. 262 del 2005 “sul risparmio”. — 3. La disciplina in diritto comune in materia di società di capitali — 3.1 S.r.l. — 3.2 S.p.a.

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1. — Il fenomeno della partecipazione dei soci all’assemblea mediante rappresentante – Premessa—

La partecipazione dei soci alle vicende societarie delle società di capitali trova massima espressione con il fenomeno della deliberazione, tramite il principio maggioritario. È bene comunque ricordare che tale risultato non si ottiene solo con il metodo assembleare tramite cioè un procedimento collegiale ma sussiste la possibilità di deviare dal modello legale tramite apposita indicazione statutaria laddove, nell’ipotesi delle società a responsabilità limitata, vi è persino la facoltà di disapplicare il metodo collegiale in numerose circostanze.

Nell’ambito delle società per azioni, rimane fermo il metodo assembleare pur se, in progresso di tempo, è stato mutuato dalle società cooperative e dalle società quotate il metodo del voto per corrispondenza (art. 127 T.u.f.). Lo statuto può prevedere anche la possibilità di intervento in assemblea mediante l’ausilio di mezzi di telecomunicazione o, ancora di più, mediante l’espressione del voto in forma elettronica (art. 2370, comma 4°, c.c.). Va notato che l’utilizzo di tecniche diverse dal procedimento collegiale va ad inficiare le caratteristiche insite di tale procedimento, cioè la discussione e il dibattimento che si instaurano nell’assemblea; inoltre il voto per corrispondenza comporta l’immodificabilità delle proposte contenute nell’avviso di convocazione.

Nelle s.r.l. il metodo assembleare è obbligatorio solo per le delibere relative alla modifica dell’atto costitutivo. Resta quindi a discrezione dei soci la possibilità di prevedere nell’atto costitutivo che le loro decisioni siano adottate mediante consultazione scritta o consenso espresso per iscritto: si parla appunto di decisioni dei soci e non di deliberazioni in quanto la parola deliberazione rimane ad indicare l’assemblea svoltasi con metodo collegiale.1

Questa breve premessa ci agevola nel comprendere il contesto in cui si inserisce il fenomeno della rappresentanza in assemblea. È infatti ovvio che la rappresentanza si riferisce alle sole espressioni

1 FERRI G., Deliberazioni assembleari e decisioni dei soci, in Manuele di Diritto Commerciale (Sedicesima

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della volontà dei soci che scaturiscono dal metodo assembleare: di conseguenza essa costituisce una tematica che non concerne le decisioni dai soci prese in modo extra-assembleare.

In seguito, si osserverà che la disciplina della rappresentanza nelle società di capitali varia molto in base al tipo di società cui viene applicata: vedremo una disciplina più semplice e più vicina al diritto comune per le società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, ed una più articolata e specifica per quelle aperte al mercato.

La rappresentanza in assemblea si manifesta con la tecnica del voto per delega, che si identifica come il principale mezzo indiretto di partecipazione assembleare. Questo meccanismo è consentito dall’art. 2372 c.c. salvo che non sia diversamente disposto nello statuto. Nelle società dove vi è una più ristretta base partecipativa, lo strumento della delega di voto segue in modo similare la disciplina della delega privatistica generale, dove il soggetto è libero di scegliere di farsi rappresentare da altra persona e compiere atti giuridici attraverso costui. Al contrario, quando la partecipazione sociale è molto frazionata, la delega di voto acquisisce un significato più complesso e non più solo di derivazione privatistica; da un lato, essa costituisce l’unica modalità con cui i soci possono partecipare all’attività assembleare, garantendo così la democraticità di questo organo, dall’altro può portare ad uno squilibrio di poteri nell’assemblea, attribuendo al delegato – avvantaggiato dalla “apatia razionale” dei soci possessori di piccole partecipazioni – una grande quantità di voti spendibili, facendo ricorso all’incetta di deleghe di voto2.

Si può comunque affermare che la disciplina codicistica della delega per la rappresentanza in assemblea manifesta una non poca diffidenza da parte del legislatore. La norma intende infatti tutelare il socio affinché non possa rilasciare a terzi il potere di rappresentanza in modo inconsapevole al fine di ostacolare comportamenti illeciti molto frequenti nella prassi societaria.3

2CAMPOBASSO G.F., La rappresentanza in assemblea, in Manuale di diritto Commerciale (VII edizione),

a cura di Campobasso M., Utet, 2017, pp 228-231.

3 BERTACCHINI E., CALVOSA L., CARDARELLI M.C., CATERINO D., DE

ANGELIS L., DI BRINA L., DI CECCO G., FORTUNATO S., MARTINA G., PACCHI S., PATRONI GRIFFI U., PIRAS A., RONDINONE N., SCANNICCHIO F., SCOGNAMIGLIO G., TUCCI A., URBANI

(9)

A., VOLPE PUTZOLU G., L’esercizio del voto, in Diritto commerciale, (a cura di De Angelis L.), Cedam, 2020, pp. 351-356 vol. 1

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2. — Storia della disciplina ––

2.1 — Dal codice del 1865 fino al codice del 1942 —

Già nel codice del 1865, il legislatore aveva posto attenzione al problema delle deleghe di voto al fine di consentire la rappresentanza nelle assemblee delle società. Infatti, all’art. 147, consentiva ai soci di farsi rappresentare in assemblea da un qualsiasi soggetto, senza porre particolari limiti di natura né oggettiva né soggettiva. Da questo tipo di disposizione sono però sorti i problemi che avrebbero reso in seguito necessaria una più dettagliata disciplina stante l’eccesiva permissività della norma.4

La disciplina rimase sostanzialmente immutata anche all’interno del codice di commercio del 1882, dove all’art. 160 si legge: “I soci possono farsi rappresentare nelle assemblee generali da mandatarii, soci o non soci. L’esercizio di questo diritto può essere limitato nell’atto costitutivo o nello statuto. Gli amministratori non possono essere mandatarii”. I soci sono dunque liberi di decidere da chi farsi rappresentare – con esclusione degli amministratori – ma è lasciata comunque loro la facoltà di limitare ulteriormente la disposizione con lo statuto o l’atto costitutivo.

Da questo momento, in dottrina iniziarono a crearsi due correnti, assai in contrasto tra loro, ed il cui dibattito si sarebbe protratto a lungo. La prima di esse vedeva di buon occhio la disposizione del codice di commercio perché riteneva che consentisse una più facile partecipazione dei soci alle vicende societarie.5

Invece l’altra corrente individuava consistenti lacune nella disciplina vigente che, a suo avviso, si manifestavano principalmente nei seguenti punti critici: 1) gli amministratori delle società, eludendo il divieto dell’art. 160 tramite soggetti compiacenti, facendo incetta di deleghe, avrebbero potuto facilmente ottenere il voto della maggioranza assembleare; 2) erano consentite deleghe “in bianco” ed addirittura, 3) la delega al portatore. Già in quegli anni, si manifestava infatti la prassi del

4 VIVANTE C., Sul risanamento della società anonima, in Rivista di diritto Commerciale, 1917, I, 66 ss. 5PELLEGRINO G., La nuova disciplina della rappresentanza dell’azionista nelle società quotate: profili

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rastrellamento delle deleghe di voto da parte delle banche che così “spendevano” in assemblea i voti in base ai rapporti più o meno favorevoli con gli amministratori.

Ai propugnatori di questa seconda corrente va sicuramente dato il merito di aver identificato gli elementi sui quali il legislatore si sarebbe successivamente soffermato al fine di porre un freno agli abusi la normativa troppo permissiva consentiva. In particolare, Cesare Vivante aveva già sottolineato che l’attenzione principale non doveva cadere tanto sulla delega di voto in sé, quanto piuttosto sul fenomeno della sollecitazione delle deleghe di voto da parte degli azionisti oppure sul comportamento del delegato (qualora avesse ricevuto precise indicazioni di voto e non le avesse rispettate, ed infine sul voto per corrispondenza, sostanzialmente equiparabile ad una delega di voto a favore di terzo.6 Col codice del 1942, non vi furono però sostanziali mutamenti a quanto disposto dal codice del 1882. All’art. 2372 del codice civile, intitolato “Rappresentanza nell’assemblea”, si riconfermava infatti che il meccanismo della rappresentanza assembleare restava a sostanziale discrezione dei soci al momento della stesura dello statuto o dell’atto costitutivo. La principale novità introdotta fu invece l’obbligatorietà della forma scritta, pena la nullità del voto, con obbligo da parte della società di conservazione della documentazione relativa alle deleghe spese in assemblea. Permane comunque il divieto di affidare la delega agli amministratori ed, in aggiunta, ai dipendenti della società.

Con la nuova disposizione di legge dell’art. 2372 c.c., vengono dunque a formarsi in dottrina varie correnti di pensiero: tra queste, quelle degne di nota, sono principalmente due di essi che stanno, per così dire, agli antipodi. La prima, attribuiva alla delega scritta solo valore di mezzo probatorio in caso di contenzioso ciò che rendeva dunque valido l’utilizzo anche della delega in bianco. Al contrario, per l’altra corrente la forma scritta della delega costituiva requisito imprescindibile per la sua validità. Conseguentemente, la delega in bianco non era ritenuta valida perché incompleta e dunque mancante degli elementi fondamentali per produrre i suoi effetti.7

6Così come VIVANTE anche GATTI S., in La rappresentanza del socio in assemblea, Milano, Giuffrè,

1975, pp. 13 ss.

7 FERRI G., Le società, in Trattato di diritto civile, UTET, Torino, 1971, pp. 448 ss., ed anche ASCARELLI

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Osservando con più attenzione il divieto per i soci di conferire la delega agli amministratori o ai dipendenti della società, di cui all’art. 2372 del c.c., si possono però formulare alcune considerazioni su cui è bene soffermarsi, come anche la dottrina ha fatto.

Non è difficile anzitutto intuire la ratio del legislatore nel porre il divieto di farsi rappresentare dagli amministratori o dai dipendenti della società (che dipendono pur sempre dagli amministratori) dal momento che essa si fonda sull’intento di tutelare l’interesse sociale impedendo che l’organo amministrativo stesso o altre figure a lui riferibili vada in assemblea a votare su questioni riguardanti il proprio operato stante l’evidente conflitto di interessi.

Seguendo questo filo logico, una parte della dottrina sosteneva che – fermo restando il divieto per gli amministratori di raccogliere deleghe di voto – questa disciplina non fosse applicabile al caso in cui un soggetto che fosse stato amministratore, ma anche socio, avrebbe potuto presentarsi in assemblea come mandatario di altri soci. Questa interpretazione riteneva che fosse possibile, per un amministratore munito delle deleghe di altri soci, partecipare all’assemblea, spendendo i voti di quest’ultimi, ma solo qualora anch’egli avesse ricoperto la carica di socio. Ciò conferma che la ratio del legislatore fosse quella di tutelare gli elementi alla base dell’attività assembleare, in quanto fulcro delle discussioni e delle decisioni che poi dettano la direzione dell’organo amministrativo. È quindi vitale che gli amministratori non possano inserirsi in questo meccanismo pena il rischio che, tramite la racconta delle deleghe, essi assumano un potere tale da vanificare quelle che dovrebbero essere le caratteristiche essenziali dell’istituto assembleare. Tutto ciò vale sempre fatto salvo il disposto dall’art. 2373 del c.c. sul conflitto di interessi e dell’art. 2393 c.c. sull’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori.

A sostegno di questa interpretazione, si osserva come tale divieto fosse esteso anche ai dipendenti della società, che chiaramente fanno sempre a capo gli amministratori. In aggiunta, qualcheduno già riteneva che questo divieto includesse in modo implicito anche i sindaci delle società.8

8FERRI G., Le società, in Trattato di diritto civile, cit., pp. 446 ss., come anche GATTI S., in La

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Inoltre, l’art 2372 c.c. enuncia la possibilità per i soci di disporre nell’atto costitutivo ulteriori limitazioni alla disciplina della rappresentanza per cui parte della dottrina riteneva addirittura che si potessero porre limiti statutari alla disciplina fino al punto di poter privare il socio del diritto a farsi rappresentare in assemblea.9

Stante questa corrente di dottrina ben si comprende come il legislatore nel codice del ’42 non si sia curato molto di arginare gli abusi usualmente perpetrati tramite l’utilizzo delle deleghe ma abbia invece lasciato all’autonomia statutaria la possibilità di inserire limiti atti ad arginarli.10

Visto il tipo di normativa del ’42, è anche facile comprendere come la dottrina fosse presto tornata a rimarcare le carenze che già erano presenti col primo codice di commercio. Si sottolineava infatti, come non fosse concretamente stato posto alcun rimedio al problema delle incette di deleghe da parte dei soggetti “forti” in assemblea oppure del voto divergente che si ha quando un socio delega due diversi rappresentanti dando loro indicazioni di voto contrastanti oppure conservava il diritto di voto su una parte delle azioni per poterlo spendere personalmente in assemblea. Rimanevano quindi numerosi elementi a denotavano una disciplina ancora sufficientemente “matura”.11

In questo contesto è opportuno fare cenno di un elemento strettamente legato al concetto di incetta di deleghe: ci si riferisce ad un certo tipo di condotta, in passato molto comune nel rapporto tra banche ed imprese medio-grandi. Infatti, nonostante nel 1936 la legge bancaria avesse imposto tra di esse una netta separazione, le banche, avevano continuato a ricoprire una notevole influenza nella vita assembleare delle seconde perché, la formulazione del 2372 c.c. non impediva che esse rastrellassero le deleghe di voto degli azionisti che erano depositari dei titoli presso di loro, in modo da spenderne il voto in previi accordi con gli amministratori. Era anzi prassi comune delle banche inserire clausole nei contratti di deposito titoli in amministrazione, clausole che consentivano loro di recarsi senz’altro a votare nelle assemblee senza necessità di altra specifica autorizzazione. Addirittura, accadeva

9SENA G., Il voto nell’assemblea delle società per azioni, Milano, Giuffrè, 1961, 308.

10GRAZIANI A., Possono le banche rappresentare gli azionisti nelle assemblee delle società?, in Banca

Borsa e Titoli di Credito, Giuffrè, 1956, n.1, p 530.

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spesso che, in prossimità di assemblee importanti, esse facessero incetta di deleghe di voto persino presso soci non depositari12. Questo comportamento era certamente dovuto al fatto che gli amministratori, quando occorreva ricorrere al credito, avrebbero certamente preferito richiederlo agli istituti bancari che loro avessero dato il voto13. In sostanza, vi era una specie di accordo tra le banche e gli amministratori, talvolta a discapito degli interessi della società stessa. È intuibile come questo comportamento degli istituti bancari andasse a vantaggio del gruppo di comando (di cui gli amministratori sono espressione), ma a danno della minoranza assembleare, che si trovava praticamente esclusa da ogni possibilità di intervento.14 Nasceva ancor più l’esigenza di trovare una disciplina che andasse a tutelare anche le minoranze dell’assemblea.

Nella vigenza del testo originario dell’art. 2372 c.c. formava anche oggetto di dibattito la possibilità che i sindaci delle società potessero essere delegati a rappresentare i soci in assemblea. La parte prevalente della dottrina sosteneva che questo non era possibile perché, pur non essendo amministratori, essi ritenevano comunque portatori di un conflitto di interesse nei confronti della società. In analogia a quanto disposto dall’art 2373 del c.c., che vieta ai soci in conflitto di interesse di votare in assemblea, si riteneva che anche i sindaci non potessero votare in assemblea. Ciò non costituiva un problema di rappresentanza in sé per sé, ma per un conflitto di interessi nell’espressione del voto.15

Un altro tema di discussione era la possibilità per le società di scegliere un rappresentante degli azionisti. Ipotesi questa, invero non molto dissimile da quella della possibilità di delega a un dipendente della società, quindi facente capo agli amministratori. La dottrina prevalente, per analogia

12GRAZIANI A., Possono le banche rappresentare gli azionisti nelle assemblee delle società?, in Banca

Borsa e Titoli di Credito, Giuffrè, 1956, n.1, p 558. Come anche ASCARELLI T., Rappresentanza

assembleare, in Problemi giuridici, Giuffrè, Milano, 1959, vol. 2°, p 549

13VELLA F., Limiti alla rappresentanza azionaria e il rapporto Banca-Impresa, in Banca impresa e

Società, Mulino, 1994, I, p. 311

14BUTTARO L., In tema di rappresentanza degli azionisti da parte di banche, in Banca Borsa Titoli di

Credito, Giuffrè, 1967, I, p. 480

15FOSCHINI M., Conferimento ai sindaci della rappresentanza degli azionisti in assemblea, in Rivista di

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all’art 2372 c.c. (sul divieto agli amministratori ed ai loro dipendenti), riteneva non possibile la nomina di un rappresentante da parte della società, poiché riteneva che questo caso fosse – in sostanza – un éscamotage per aggirare il divieto imposto dal legislatore. Di diverso avviso, invece, era la giurisprudenza, che si limitava a considerare la sussistenza divieti alla rappresentanza solo nei casi tassativamente previsti nell’art 2372 c.c.16.

2.2 — La nascita della questione della rappresentanza —

Nel perdurante vigore del codice del ‘42, nella letteratura giuridica si fece sempre più forte la richiesta di un intervento del legislatore per delineare una rinnovata e più dettagliata disciplina in tema di deleghe di voto17.

Uno dei principali promotori dell’intervento fu sicuramente Ascarelli, secondo il quale si doveva disporre una più puntuale disciplina della rappresentanza. A suo avviso occorreva disciplinare in modo più dettagliato l’istituto elencando precise modalità di conferimento della delega e suo contenuto: nome del delegato, eventuale delegato sostituto, istruzioni di voto. Questo cambiamento avrebbe anche consentito di individuare ipotesi di responsabilità dei delegati qualora non si fossero attenuti alle indicazioni inserite nella delega in modo così da circoscrivere anche la libertà.

In tale modo sarebbero divenute illegittime sia le deleghe conferite per più assemblee che quelle, rilasciate in modo generico senza tutte le informazioni necessarie. Ascarelli sosteneva inoltre, che l’azionista dovesse essere maggiormente informato sui fatti: ad esempio, prima del conferimento della delega, avrebbe dovuto conoscere i punti all’ordine del giorno e la posizione del delegato.18 Partendo da questi presupposti, egli confidava di dare maggior peso all’esercizio del voto dei piccoli azionisti, proponendo in aggiunta una disciplina della sollecitazione delle deleghe di voto più

16Tribunale di Roma, sentenza del 13/03/1956, in Banca Borsa Titoli di Credito, Giuffrè, 1956, II, p. 243 17OPPO G., Prospettive di riforma e tutela della società per azioni, in Rivista delle Società, Giuffrè, 1961, p.

351

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dettagliata, non solo dando più informazione al piccolo azionista ma permettendogli anche di verificare in seguito la modalità e l’esito della votazione.19

Sulla necessità di una disciplina in positivo della rappresentanza nelle deleghe di voto, la dottrina era pressoché unanime, ma non era così sulle altre questioni. Per quanto riguarda la sollecitazione delle deleghe di voto invece, vi erano opinioni discordanti. Ferri, ad esempio, sostenitore della separazione netta tra proprietà e controllo, soprattutto nelle società a capitale diffuso verso il pubblico e quindi con capitale polverizzato, considerava l’assenteismo dei soci come un elemento negativo ma intrinseco a queste grandi società.20 Non rieneva pertanto necessaria una disciplina della sollecitazione delle deleghe per arginare questo fenomeno verso i piccoli azionisti, che vedeva piuttosto come un elemento da doversi accettare nelle società a capitale diffuso presso il pubblico.21 Anche in Italia, verso la fine degli anni ’50, la dottrina si veniva sempre più rendendo conto di un problema che si sarebbe protratto fino ai giorni odierni. Già si osservava come la maggioranza del capitale di queste grandi società fosse quasi sempre concentrata nelle mani di tantissimi piccoli azionisti mentre invece i soci di controllo erano titolari di partecipazioni più piccole, appunto denominati “azionisti imprenditori”. In aggiunta a questo elemento, si notava già come i piccoli azionisti fossero completamente disinteressati alla vita e alla gestione della società, ma solamente interessati al ritorno del loro investimento, quindi detti “azionisti risparmiatori”. Era quindi comprensibile come una parte della dottrina considerasse del tutto inutile un tentativo da parte del legislatore di rendere più partecipe il piccolo azionista risparmiatore, poiché quasi sempre disinteressato alla governance societaria.

19Per capire questo tipo di esigenza ci basta pensare al tipo di condotta tenuta dalle banche nei confronti dei

piccoli azionisti depositari dei titoli.

20FERRI G., Potere e responsabilità nell’evoluzione della società per azioni, in Rivista delle Società,

Giuffrè, 1956, p. 35 e ss., come anche in La tutela dell’azionista in una prospettiva di riforma, in Rivista

delle Società, Giuffrè, 1961, p. 186.

21Dello stesso avviso anche PELLEGRINO G., La nuova disciplina della rappresentanza dell’azionista nelle società quotate: profili organizzativi, Milano, Giuffrè, 2002, p. 13

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Con la dottrina sostanzialmente divisa in questi due grandi filoni di pensiero, furono ipotizzate soluzioni diverse tra loro per la convivenza tra azionisti “imprenditori” e “risparmiatori”, come tali, caratterizzati da interessi completamente opposti. Una parte della dottrina auspicava la nascita di un soggetto di natura pubblicistica, che si facesse garante nella sorveglianza delle società di grandi dimensioni. L’altra parte della dottrina sosteneva che la soluzione migliore sarebbe stata la creazione di una particolare categoria di azioni, senza diritto di voto, ma con dei privilegi dal punto di vista patrimoniale: si parla di quelle che poi sarebbero diventate le “azioni di risparmio”.

I sostenitori della prima corrente di pensiero pensavano che un soggetto pubblico che svolgesse controlli sulle vicende societarie avrebbe dato maggiori garanzie agli azionisti risparmiatori rispetto a strumenti giuridici che pure consentissero un maggior loro intervento nella vita societaria. Questo tipo di intervento nasceva dall’osservazione di quanto avvenuto negli USA dove la SEC “Security and Exchange Commission” svolgeva questo tipo di controllo sulle società quotate.

I portatori dell’altra corrente di pensiero sostenevano invece che, con le azioni di risparmio, si sarebbero evitati i problemi nella partecipazione alla vita assembleare, tracciando anche la composizione della compagine sociale delle grandi società. In aggiunta proponevano di introdurre un un numero massimo di deleghe conferibili al rappresentante, in misura indicativamente pari a 10, pensando così di introdurre un nuovo incentivo alla partecipazione all’assemblea.

Ribattendo a quanto sostenuto da Ferri, Ascarelli sosteneva che l’istituzione di un organo pubblico di controllo sulle società di grandi dimensioni non garantisse la tutela di un interesse privato come quello dei piccoli azionisti ed inoltre, che una categoria di azioni priva di diritti amministrativi non comportasse una naturale maggior garanzia sui relativi diritti patrimoniali.22 Oltre a ciò, Ascarelli sosteneva che un limite al numero di deleghe conferibili al rappresentante non avrebbe costituito una maggiore tutela per i piccoli azionisti ma piuttosto un rafforzamento della posizione dei gruppi di

22ASCARELLI T., Disciplina delle società per azioni e legge antimonopolistica, in Problemi giuridici,

Giuffrè, Milano, 1959, II, pp. 901 ss., ed anche in Considerazioni in tema di società e personalità giuridica, in Saggi di Diritto Commerciale, Giuffrè, Milano, 1955, pp. 216 e ss.

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controllo, vista la dispersione di deleghe di voto a soggetti diversi, le quali sarebbero state ininfluenti in assemblea.

Guardando oltre le divisioni in dottrina, era pensiero comune la necessità da parte del legislatore di disporre una nuova normativa che risolvesse le esigenze delle grandi società quotate, o comunque che fanno ricorso al pubblico risparmio.

Si susseguirono negli anni vari progetti di riforma, come quello di De Gregorio del 1966, e pure quello De Gennaro-Visentini del 1967, che sfociarono in un nulla di fatto.

Nel 1973 fu alfine esaminato il progetto di riforma ad opera di Gaetano Marchetti. Il fulcro di esso consisteva, in primo luogo, nel divieto assoluto per gli azionisti di rilasciare deleghe di voto agli istituti bancari; questo divieto si reggeva sull’auspicio del funzionamento delle azioni di risparmio, in modo da lasciare i soci imprenditori liberi di dedicarsi alle questioni societarie, senza essere ostacolati dall’assenteismo costante dei piccoli azionisti nelle assemblee delle società quotate. In secondo luogo, veniva proposto appositamente per le società quotate l’inserimento dell’assemblea in terza convocazione, sempre nella logica di evitare il non raggiungimento dei quorum assembleari causato dal disinteresse degli azionisti ordinari.23

A seguito dei tanti rilievi sollevati dalla dottrina, la riforma finì per toccare pochi punti rispetto all’ampio dibattito che l’aveva preceduta. Ciò fu dovuto all’esigenza di avere in tempi brevi una nuova disciplina che ovviamente non trattasse solo il tema della rappresentanza nelle società quotate. Da notare che, a sostegno di questi tesi, la riforma fu emanata dapprima addirittura nella forma di un decreto-legge e solo in seguito convertita in legge ordinaria (n. 216/’74)24.

23FERRI G., Le società, in Trattato di diritto civile, UTET, Torino, 1971, vol. II, p 449.

24COTTINO G., La Commissione per la società e la borsa: luci ed ombre della mini-riforma, in

Giurisprudenza Commerciale, 1974, vol. I, p. 439. come anche FERRI G., La filosofia della minoranza della società per azioni, in Rivista di diritto Commerciale, Giuffrè, 1975, vol. I, p. 209.

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2.3 — La prima riforma con la legge n. 216 del 1974 —

La riforma disciplinata dalla legge n. 216 del 1974 finì per affrontare un’ampia gamma di questioni delle quali la disciplina delle deleghe di voto costituiva solo un aspetto.

Finalmente però il legislatore prendeva atto della costante assenza dei piccoli e medi azionisti alla vita assembleare della società. Essi infatti, detti azionisti risparmiatori, dimostravano costantemente un comportamento molto più simile a quello degli obbligazionisti, interessati al valore della propria partecipazione o alla remunerazione dell’investimento in un breve lasso di tempo, piuttosto che al controllo e alla partecipazione alle vita sociale. La dottrina aveva infatti mostrato come i piccoli azionisti, singolarmente considerati, percepissero, a ragion veduta, di essere ininfluenti nelle decisioni assembleari. Ne derivava che essi avevano un comportamento da “free-rider”, cioè si astenevano dal partecipare all’assemblea nella speranza che qualche altro azionista curasse indirettamente i loro interessi.25

Ebbene, come suggerito dalla dottrina, il legislatore introdusse anzitutto la categoria delle azioni di risparmio che, a fronte dell’eliminazione dei diritti amministrativi e quindi di partecipazione e voto in assemblea, forniva dei privilegi nell’ambito dei diritti patrimoniali. Con la legge n. 216 del 1974 venne anche istituita la CONSOB organismo che avrebbe dovuto garantire la sorveglianza sulle società quotate e sul mercato finanziario.

L’elemento chiave della riforma del ’74 in tema di rappresentanza assembleare era costituito dalla modifica dell’art. 2372 del c.c.. Di esso rimanevano immutati i punti base cioè la necessità della forma scritta per il rilascio della procura e di derogare alla disciplina della rappresentanza, se così disposto nello statuto.26 Di contro, il legislatore inseriva nuovi vincoli per potersi avvalere della rappresentanza

25LATCHAM F.C., La partecipazione degli azionisti americani alla vita della società, in Rivista delle Società, Giuffrè, 1958.

26Anche su questo punto vi erano discussioni in dottrina, come accaduto in altre nazioni, il diritto alla

rappresentanza può essere considerato elemento imprescindibile dei diritti amministrativi in capo al socio. Così BIANCA M.C., La rappresentanza dell’azionista nelle società a capitale diffuso, Cedam, Padova, 2003, p. 93. Si segnalava che qualsiasi divieto statutario potesse essere aggirato tramite una tempestiva cessione della partecipazione ad un soggetto compiacente in modo da poter intervenire ugualmente in

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in assemblea. In primo luogo, si specificava che la delega di voto veniva rilasciata solo per le singole assemblee, con valenza anche per la seconda convocazione e, dove previsto, anche per la terza convocazione.27 La ragione da cui nasceva questo divieto, derivava dall’intenzione di rendere più consapevole il socio riguardo alle materie all’ordine del giorno per le quali si conferiva la delega di voto. In relazione questa disposizione, parte della dottrina sostenne che, anche in mancanza di un’indicazione esplicita, non fosse possibile per il socio conferire la delega prima della pubblicazione dell’avviso della prima convocazione dell’assemblea, altrimenti gli sarebbe stato impossibile conoscere le materie all’ordine del giorno.28

Altro obbiettivo del legislatore era quello di porre fine al frequente ricorso delle deleghe in bianco. Non solo dunque, era stato inserito l’obbligo di indicare nella procura il nome del rappresentante, ma anche quello dell’eventuale sostituto. Purtroppo, anche se era stato inserito questo nuovo vincolo, il novellato art. 2372 del c.c., non riusciva a contrastare le elusioni che si manifestavano nella prassi, anche se in assemblea venivano presentate deleghe già compilate.29

Inoltre, con la riforma del ’74 il legislatore confermava, ed estendeva ulteriormente i limiti soggettivi per il conferimento delle deleghe. Non erano infatti solo confermati i divieti di suo conferimento ad amministratori e dipendenti della società ma il divieto operava anche per sindaci, andando così a chiudere una questione già dibattuta in dottrina.30 In aggiunta, il divieto si estendeva anche agli amministratori, ai dipendenti e ai sindaci delle società controllate.31

assemblea, in questo senso JAEGER P.G., La nuova disciplina della rappresentanza azionaria, in

Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè, 1974, vol. I, p. 560.

27Riguardo alla terza convocazione dell’assemblea, vi era chi sosteneva che questo elemento avrebbe potuto

aumentare il potere dei gruppi di controllo, in questo senso ENRIQUES L., Sub commento all’art 2369. –

Seconda convocazione e convocazioni successive, La nuova disciplina dei diritti degli azionisti, in Nuove leggi civili commentate, Commentario (a cura di Guerrieri G.), p. 550.

28SACCHI R., Assemblea. L’intervento e il voto nell’assemblea di S.p.a. Profili procedimentali, in Trattato

delle società per azioni, diretto da Colombo G.E. e Portale G.B., Utet, 1994, vol. III, p. 391.

29SBISÀ G., Sub art 2372 c.c., Il nuovo diritto societario: art. 2325-2409, Commentario (diretto da Cottino

G., Bonfante G., Cagnasso O., Montalenti P.), Zanichelli, 2004, p. 662.

30PELLEGRINO G., cit., p. 18.

31Anche qui parte della dottrina lamentò che questa disposizione non scongiurasse il rischio del

rastrellamento delle deleghe di voto, ma lo rendesse solo più difficile e costoso, su tutti SANTINI G., I

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Altro elemento inserito dal legislatore era il divieto per gli istituti bancari di raccogliere le deleghe di voto degli azionisti, e quindi di poterli rappresentare in assemblea. Ciò era sicuramente dovuto al tipo di condotta che in passato aveva caratterizzato le banche nei confronti dei piccoli azionisti, depositari e non. Questo fenomeno, però, non giustificava da parte del legislatore l’imposizione di un divieto assoluto. Parte della dottrina sosteneva che sarebbe stato più corretto inserire una disciplina declinata in positivo, che regolasse questo fenomeno. Sebbene il comportamento delle banche sconfinasse molto spesso negli abusi, il rilascio delle deleghe dei piccoli-medi azionisti alle banche era l’unica modalità con cui questi esercitavano una partecipazione alla vita assembleare. Quindi questo tipo di vincolo poteva addirittura avvantaggiare i gruppi di controllo, a discapito dei piccoli-medi azionisti.32

Terminate le novità della disciplina della rappresentanza attinenti alla sfera qualitativa, il legislatore ha introdotto importanti novità anche sull’aspetto quantitativo del rilascio delle deleghe di voto. Il rappresentante delegato non poteva rappresentare più di 10 soci oppure, nel caso di società quotate in borsa, 50 soci (se la società aveva un capitale sociale non superiore a 10 miliardi), 100 soci (se il capitale sociale era compreso tra i 10 e i 50 miliardi) o 200 soci (se superiore ai 50 miliardi). Di fronte a questi nuovi limiti quantitativi, la dottrina evidenziò come essi non fossero in grado di tutelare il caso in cui la società fosse costituita da un capitale elevato, ma con un numero di azioni ridotto, dando così un elevato peso in assemblea anche a pochi soci, senza necessariamente essere ostacolati dall’eccessivo numero di deleghe affidato al singolo rappresentate. Secondo la dottrina, necessitava introdurre dei limiti quantitativi che tenessero conto del rapporto tra capitale e numero di azioni.33 Per evitare gli abusi che avvenivano nella prassi, i limiti testé citati venivano estesi al caso della girata di azioni per procura.34

32Come sottolineato da SACCHI R., cit., p.402

33 Su tutti, JAEGER P.G., cit., La nuova disciplina della rappresentanza, p. 573. 34Come indicato da JAEGER P.G., cit., p. 573 oppure SACCHI R., cit., p. 408.

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L’intento del legislatore nel disporre questi nuovi limiti consisteva, come è facile presumere, nel tentativo di arginare il diffuso fenomeno dell’incetta delle deleghe di voto dei medi e piccoli azionisti. Per questo motivo, a livello sanzionatorio, in caso di inottemperanza dei limiti sia qualitativi che quantitativi, la nuova normativa provocava la nullità dei voti spesi dal delegato in assemblea.35 Quello che balza subito agli occhi, osservando l’intervento normativo della legge n. 216/74, è un netto ripensamento dell’inquadramento della rappresentanza assembleare da parte del legislatore. Se quello del 42’ lasciava sostanzialmente all’autonomia statutaria la libertà di applicare il meccanismo della delega e quindi a quasi totale discrezione dei soci, così non era più nel 1974.36 La nuova legge lasciava intendere un atteggiamento di diffidenza nei confronti della rappresentanza; i numerosi vincoli imposti, anche se non completamente efficaci, erano finalizzati a disincentivare l’impiego di massa delle deleghe di voto. A livello generale, il legislatore del tempo accettava il fatto che, nelle società di grandi dimensioni con capitale polverizzato, i soci medio-piccoli fossero fisiologicamente disinteressati a qualsiasi forma di intervento in assemblea, cioè la cosiddetta “apatia razionale dei soci”, e non si preoccupava di individuare strumenti più idonei per correggere il fenomeno. Il legislatore, quindi, non metteva in pratica nessun mezzo per rafforzare la democrazia societaria, di conseguenza, lasciando le decisioni assembleari saldamente in mano ai gruppi di comando: in sostanza, aveva seguito maggiormente la strada indicata da Ferri che non quella di Ascarelli.

Non ci volle molto tempo prima che la dottrina iniziasse a sollevare dubbi riguardanti la nuova impostazione normativa dell’art 2372 c.c., visto che essa tendeva a limitare notevolmente le deleghe e quindi la possibilità degli azionisti medio-piccoli di partecipare all’assemblea. A prescindere da questa considerazione, la dottrina non si dedicò particolarmente alla questione della rappresentanza perché l’attenzione era piuttosto catturata dal rapido sviluppo dei mercati finanziari, ambito in cui la

35GATTI S., cit., p. 90.

36FERRI G., La filosofia della minoranza della società per azioni, in Rivista di diritto Commerciale,

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legge n. 216/74 interveniva invece cin maggior ampiezza cercando, anche attraverso la creazione della CONSOB, di dare maggior trasparenza nelle vicende delle società quotate.37

Del resto, poco dopo l’introduzione della riforma, durante gli anni ’80, si assistette ad un repentino e consistente boom economico-finanziario dovuto all’espansione dei mercati finanziari, spinto dalle riforme del sistema creditizio e dalle privatizzazioni delle imprese. Questo meccanismo ebbe come effetto il ricorso in massa all’approvvigionamento di capitale di rischio presso il pubblico.38 Ma fu proprio in questo contesto di espansione che la dottrina tornò a ripensare il ruolo del piccolo-medio azionista nelle assemblee delle società quotate richiedendo un intervento del legislatore che agevolasse la partecipazione all’assemblea anche per quei soci che personalmente non sarebbero stati in grado di recarvisi.39 L’insieme di questi fattori comportò un netto cambiamento nella visione dei meccanismi della vita sociale che comportò una focalizzazione dell’attenzione della dottrina sulla corporate governance rispetto al mercato mobiliare in generale. La dottrina si rese conto infatti che non sarebbe bastata un’attenta regolamentazione del mercato mobiliare per costruire una disciplina adatta a tutelare i risparmiatori direttamente possessori dei titoli partecipativi, (quindi i piccoli azionisti)40.

Anche dall’analisi dei report che Banca d’Italia e CONSOB redigevano annualmente, si evinceva come queste due istituzioni, su richiesta delle società quotate, richiedessero al legislatore una normativa che riuscisse ad implementare il coinvolgimento dei piccoli azionisti nel mercato finanziario, anche conferendo loro diritti che li tutelassero in modo adeguato. Fu così che i giuristi,

37MARCHETTI P., La costituzione di una disciplina organica del mercato mobiliare, in Giurisprudenza

Commerciale, Giuffrè, 1985, vol. I, p. 243. Per una ricostruzione più approfondita del lavoro compiuto si

veda BIANCA M.C., cit., p. 98.

38Da ricordare che con la legge n.77/1983 fu aumentato il potere di sorveglianza della CONSOB

estendendolo al mercato dei valori mobiliari e sui fondi di investimento.

39BIANCA M., cit., p. 120.

40Su questa linea, molti autori come MARCHETTI P., “Corporate Governance” e disciplina societaria

vigente, in Rivista delle Società, Giuffrè, 1996, vol. I, p. 418, oppure COSTI R., Privatizzazione e diritto

delle società per azioni, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè, 1995, vol. I. p. 77., come anche JAEGER P.G., Privatizzazioni: “Public Companies”: problemi societari, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè, 1995, vol. I, p. 5.

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nell’ambito dello studio del governo societario, si concentrarono nuovamente sui fenomeni attinenti alle deleghe di voto, in particolare, sugli strumenti della sollecitazione e raccolta delle deleghe. In quel periodo era infatti, convinzione della dottrina prevalente che la sollecitazione delle deleghe e la loro raccolta (in sostanza tutti i mezzi che uniscono gli azionisti di minoranza) fosse il sistema di rendere partecipi alla vita dell’assemblea i piccoli azionisti, i quali avrebbero così scelto come delegato il rappresentante che più tutelava i loro interessi.41

2.4 — Cambiamenti introdotti dal D.lgs. n. 58 del 1998, il T.U.F.—

All’esito di tutto tale interesse per la questione, l’introduzione del T.U.F. comportò una netta riforma della disciplina della delega di voto in assemblea. La nuova disciplina si concentra negli art. 136-144 della suddetta legge. In prima battuta, si nota come il legislatore, disponendo la rimozione di tutti i limiti quantitativi al rilascio delle deleghe, oltre a vietare qualsiasi disposizione statutaria che elimini o limiti la possibilità di utilizzo di esse, torni a sostenere una linea che tende a favorirne l’utilizzo. Sebbene si concedesse molta libertà nella disciplina della rappresentanza e nella raccolta deleghe, questa non era però incondizionata ma limitata da un obbligo di trasparenza nei confronti degli azionisti: in pratica, a questi ultimi dovevano essere fornite le informazioni necessarie per far sì che venisse espresso in assemblea, seppure per procura, un voto consapevole senza lasciare dubbi sulle questioni all’ordine del giorno.

Ben si comprende come il legislatore andasse a combattere l’assenteismo e “l’apatia razionale” dei soci “risparmiatori” che, in conseguenza alla scarsa informazione sulle vicende societarie, li induce solitamente a non svolgere nessun ruolo attivo in assemblea.42 Il sistema attraverso il quale il legislatore imponeva ora di informare gli azionisti si suddivide in due meccanismi posti

41A favore di questa linea di pensiero, GAMBINO A., Governo societario e mercati mobiliari, in

Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè, 1997, vol. I, p. 797. oppure JAEGER P.G.-MARCHETTI P.,

Corporate Governance, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè, 1997, vol. I, p. 62. In senso critico invece

MASERA R., Note in tema di nuove regole per le imprese quotate, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè, 1997, vol. I, p. 807.

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rispettivamente in materia di sollecitazione e raccolta di deleghe che erano poi quelli attraverso i quali i piccoli azionisti avevano maggiormente partecipato all’assemblea; il legislatore, attraverso una loro più compiuta regolamentazione intendeva ora fornire una maggiore informazione ai soci. È curioso peraltro che la disciplina della sollecitazione o della raccolta di deleghe di voto sia tipica dell’ordinamento italiano mentre in nessun’altro stato al mondo si trovi una disciplina dai contenuti simili. Ad esempio, negli Stati Uniti, in materia di Proxy voting, si dispone l’informazione dei soci molto dettagliata già nel rilascio della delega di voto in generale.43

Date queste premesse, possiamo affermare che il legislatore, col T.U.F., tramite la nuova disciplina introdotta, ha cercato di rafforzare i meccanismi della “democrazia societaria”, consentendo agli azionisti medio-piccoli di intervenire in assemblea in modo consapevole e informato. Oltre a questo, è consentito loro di indirizzare il voto in modo da tutelare maggiormente i loro interessi, cosa che non è facile in società a capitale polverizzato. In pratica, con queste tecniche, il legislatore era riuscito a portare in assemblea – anche se a causa degli elevati costi, solo in via mediata – una partecipazione attiva dei piccoli azionisti.

Va comunque rimarcato che, la nuova disciplina del 1998, non risolse tute le problematiche concernenti le deleghe di voto. È bene ricordare, quando si parla di deleghe di voto, che nella maggior parte dei casi, ci si afferisce a società di grandi dimensioni con azionariato diffusissimo e frammentato. Inoltre, una più attiva partecipazione alla vita assembleare, comportava due possibili effetti inversamente proporzionali: mentre da una parte, avrebbe potuto rafforzare il controllo societario, dall’altra avrebbe potuto comportare una maggiore contendibilità del controllo sul mercato.

43ANGELICI C., Le “minoranze” nel decreto 58/1998: tutela e poteri, in Assemblea degli azionisti e nuove

regole del governo societario, in Rivista di diritto Commerciale, Giuffrè, 1999, vol.1, p. 13, oppure

MONTALENTI P., “Corporate governance”: la tutela delle minoranze nella riforma delle società quotate, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè, 1998, vol. 1, p. 332. Per un paragone tra la disciplina italiana delle deleghe di voto e quella statunitense del Proxy voting vedere PELLEGRINO G., cit., p. 27.

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Come già preannunciato, il legislatore si era preoccupato molto della disciplina della sollecitazione delle deleghe, che come noto negli anni passati, si prestava molto al rischio di abusi da parte di soggetti “forti”. In particolare, la nuova normativa cercava di stabilire una maggiore trasparenza all’interno di questa procedura imponendo adempimenti atti a fornire la massima chiarezza possibile, oltre all’esplicitazione degli interessi dei soggetti che promuovevano la sollecitazione. Questo doveva, in teoria, consentire al destinatario della sollecitazione, soprattutto nel caso dei piccoli azionisti, la possibilità di conferire una delega di voto dopo aver ottenuto una base di informazioni idonea a formare una propria volontà. Ripensando a quanto accaduto in passato, il legislatore ritenne che, senza una disciplina della sollecitazione chiara, gli istituti bancari avrebbero potuto continuare ad esercitare una notevole influenza nelle assemblee. In conseguenza a questo aspetto venne inserita nel T.u.f. una disposizione che stabiliva il divieto per essi di promuovere sollecitazioni di deleghe per conto proprio, obbligandoli comunque al ricorso di un intermediario. Restava quindi lecita la sollecitazione effettuata dalle banche ma solo qualora l’iniziativa fosse promossa da un soggetto terzo e la banca non fosse stata la committente. A conferma di quanto premesso, si osserva come il 4° comma dell’art. 144 del T.u.f. disponesse che: “Nei casi in cui la legge preveda forme di controllo sulle partecipazioni al capitale delle società, copia del prospetto e del modulo di delega deve essere inviata alle autorità di vigilanza competenti prima della sollecitazione e della raccolta delle deleghe di voto. Le autorità vietano la sollecitazione e la raccolta delle deleghe quando pregiudicano il perseguimento delle finalità inerenti ai controlli sulle partecipazioni al capitale”. Di conseguenza si osservava come la CONSOB potesse intervenire sulle sollecitazioni effettuate dagli istituti bancari, fino anche a vietarli.44

Possiamo constatare che la strada portata avanti dal legislatore era quella di rafforzare le dinamiche della “democrazia societaria”, rendendo il piccolo azionista in grado di tutelare i propri interessi ed i propri diritti. In conseguenza a questa ratio, il T.U.F. disponeva una sollecitazione di deleghe diversa

44MASERA R., Note in tema di nuove regole per le imprese quotate, in Giurisprudenza Commerciale,

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per ogni singola assemblea e con precise regole, in modo da rendere il procedimento più trasparente. Perciò si scelse di tutelare il piccolo azionista con una disciplina più trasparente sulla sollecitazione che, in un certo senso, si affiancava allo strumento delle offerte pubbliche di acquisto. Un’altra strada percorribile sarebbe stata quella di rendere più agevole la contendibilità del controllo, magari creando un presupposto che facilitasse le scalate ostili. Forse la soluzione proposta si basava principalmente sul fatto che il piccolo azionista non fosse particolarmente interessato al controllo della società, piuttosto egli preferiva, attraverso una maggior informazione, esprimere una delega di voto consapevole, affidandosi ad un altro socio che intendesse acquisire il controllo, ma che indirettamente tutelasse anche gli interessi del delegante.

Altra novità inserita nel testo unico è stata la previsione di un quorum di azioni da possedere, pari all’1%, per promuovere una sollecitazione di deleghe (che poteva essere ridotto dalla CONSOB per società ad elevata capitalizzazione e ad azionariato particolarmente diffuso). Questo elemento consentiva ai sindaci e agli amministratori, che fossero stati titolari di una partecipazione sufficiente, di procedere ad una sollecitazione di deleghe di voto, in quanto azionisti. Rimaneva comunque fermo il divieto per gli amministratori o sindaci di promuovere la sollecitazione o essere destinatari di deleghe. Andando a guardare i casi concreti degli assetti societari italiani, ci saremmo potuti accorgere che questo limite quantitativo all’utilizzo della sollecitazione non è che fosse un grande ostacolo di per sé, ciò è dovuto al fatto che, nelle grandi imprese italiane, gli amministratori sono sempre espressione degli azionisti di riferimento che costituiscono il gruppo di controllo della società. In conseguenza a questo elemento non è che vi fosse una qualche utilità nell’impedire agli amministratori che fossero anche azionisti, di essere i committenti di una sollecitazione di deleghe. Questa innovazione si pone in contrapposizione con quanto avvenuto fino alla legge del 1974 nell’art. 2372 del c.c., dove il legislatore non aveva fatto altro che accumulare divieti su divieti sulla tipologia

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del rappresentante a cui era possibile rilasciare la delega.45 Quindi, in definitiva, era concesso all’amministratore, che fosse stato azionista di rilievo, promuovere la sollecitazione.

Si può riassumere, in sostanza, che il ruolo degli amministratori all’interno della sollecitazione di deleghe era assai ristretto. Ciò veniva confermato anche dalla totale assenza di cenni riguardanti l’attribuzione delle spese derivanti dall’attività di sollecitazione delle deleghe. Il T.u.f. infatti, senza fare distinzioni tra i soggetti, attribuiva le spese di volta in volta al committente che effettuava la sollecitazione. Nel pensiero giuridico vi fu chi considerò la scelta di trattare tutti i promotori di sollecitazione allo stesso modo come un rischio che tendesse ad ostacolare questo tipo di intervento in assemblea. Di fatto, questa par condicio tra i soggetti committenti, poteva generare una situazione di vantaggio per i soggetti esterni alla società, ma comunque legati da rapporti di vario interesse col gruppo di controllo, in modo anche da poter relegare all’esterno i costi derivanti dalla sollecitazione. Su questo aspetto si ipotizzava che potessero sempre svolgere un ruolo determinante gli istituti di credito.46

Facendo un rapido confronto con la disciplina statunitense in tema di sollecitazione di deleghe, si osserva che fosse prassi ordinaria la raccolta delle deleghe di voto da parte degli amministratori a nome della società. Inoltre, raramente si verificano iniziative di sollecitazione da parte di soggetti che non siano appartenenti al gruppo di controllo o ad esso riconducibili. Riguardo le spese della sollecitazione, diversamente dal nostro sistema legislativo, la disposizione statunitense prevedeva due casi distinti: nel caso che la sollecitazione fosse proposta da soggetti esterni “insurgents”, i quali si sarebbero fatti totalmente carico delle spese di sollecitazione (salvo diversa decisione assunta tramite delibera assembleare in seguito), oppure l’altro caso, cioè nell’ipotesi che la sollecitazione fosse promossa da soggetti interni “incumbents”, le spese sarebbero state a carico della società, ritenendo la sollecitazione promossa nell’interesse comune dei soci.

45JAEGER P.G.-MARCHETTI P., Corporate Governance, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè, 1997,

vol. I, p. 634.

46PERNA R., Public company e democrazia societaria, Voto per delega e governo delle imprese nel

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Il legislatore, inoltre, nel neonato T.u.f. inserisce una nuova disposizione riguardante i piccoli azionisti. L’art. 141 del testo unico disponeva la possibilità per gli azionisti, che singolarmente non avessero una partecipazione superiore allo 0,1 % del capitale sociale, di formare associazioni che potessero tutelare i loro interessi. Tra queste agevolazioni consentite dal legislatore vi era la possibilità della raccolta delle deleghe di voto in modo semplificato. Differentemente dalla sollecitazione della delega, (che è promossa su singole discussioni all’ordine del giorno dell’assemblea, dove l’azionista ha la scelta di aderire alla proposta, se d’accordo col promotore, oppure, diversamente, non sottoscrivere la delega del promotore se non ritenuta nei suoi interessi) nella raccolta di deleghe delle associazioni di azionisti il contenuto è più generale, infatti viene rilasciata non su un solo punto dell’ordine del giorno, ma interamente su tutte le materie per cui l’assemblea è convocata. La raccolta di deleghe, col modello che viene presentato agli azionisti, non svolge solo una funzione di mezzo attraverso il quale facilitare l’intervento in assemblea dei piccoli azionisti, ma suggerisce anche le indicazioni di voto che tutelino maggiormente i membri dell’associazione. Questa dinamica della raccolta è avvalorata in base a quanto disposto anche all’art. 141, 4° comma del T.U.F., «L'associazione vota, anche in modo divergente, in conformità delle indicazioni espresse da ciascun associato nel modulo di delega. L'associato non è tenuto a conferire la delega». Di conseguenza è possibile, per le associazioni, esercitare in modo divergente i voti delegati degli associati, in base a cosa indicato da questi ultimi. Tale impostazione conferma il ruolo disinteressato della raccolta di deleghe, diversamente dalla sollecitazione, dove è solo possibile rilasciare la delega con indicazione di voto univoca. Oltre a ciò, la raccolta di deleghe di voto è valutata dal legislatore come un elemento da tutelare, principio confermato anche nel fatto che, nel momento della raccolta delle deleghe, l’associazione non deve soddisfare i requisiti minimi di cui all’art. 139 del T.u.f.. Nella raccolta di deleghe rimanevano alla libertà statutaria, in quanto non disciplinati dalla normativa, alcuni temi: come il funzionamento di queste associazioni, a quale soggetto facessero a capo le spese e i meccanismi per stabilire gli orientamenti di voto da proporre

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agli azionisti associati.47 La raccolta di deleghe si mostrava quindi un tema ancora acerbo, non ancora ben disciplinato dal legislatore.

Come per la sollecitazione delle deleghe – dove il committente deve fare in modo che i soci destinatari della sollecitazione abbiano tutte le informazioni chiare e puntuali, in modo da poter esprime un’indicazione di voto chiara e consapevole – lo stesso doveva avvenire da parte dell’associazione degli azionisti nei confronti degli associati nella raccolta. Nel caso che l’associazione optasse per una vera e propria proposta di votazione, sebbene la normativa non disponesse un obbligo di diffusione del prospetto (come invece avveniva nella sollecitazione), la dottrina sosteneva che l’associazione dovesse informare gli associati e argomentare riguardo le ragioni della proposta di voto. Ciò avrebbe dovuto rendere gli associati informati e consapevoli sul tema e le conseguenze della propria indicazione di voto, quindi scegliere se aderire alla raccolta o meno.48 Rimane fermo che l’indicazione di voto espressa dagli associati fosse vincolante per le associazioni, che quindi si comportavano come rappresentato e rappresentante.

2.5 — Legge n. 262 del 2005 “sul risparmio” —

Il legislatore è tornato di nuovo a regolare la materia con la L. n. 262 del 2005, detta anche “legge sul risparmio” con la quale sono state toccate anche altre materie tra cui: la corporate governance, la revisione contabile, l’intermediazione mobiliare ed anche il diritto sanzionatorio. La nuova norma ha anche interessato la regolamentazione dei mercati finanziari e degli intermediari in modo da favorire una maggior tutela del risparmiatore.49 Quindi la legge sul risparmio ha rielaborato alcune normative

47TORINO R., L’istituzionalizzazione delle minoranze azionarie. Le associazioni di azionisti in Francia e Italia, in Rivista delle Società, Giuffrè, 1998, vol. II-III, p. 603 e ss.

48CARDARELLI M.C., Le deleghe di voto, in Intermediari finanziari, mercati, società quotate, a cura di

Patroni Griffi A. – Sandulli M. – Santore V., Giappichelli, Torino, 1999, p. 921 e ss.

49 Per una più approfondita indagine sulla legge del risparmio vedere, SPAVENTA L., La legge sulla tutela del risparmio: passi avanti, errori e illusioni, in Analisi giuridica dell’Economia, il Mulino, 2006, pp. 11-22.,

COSTI R., Concorrenza e stabilità nel mercato bancario, in Analisi giuridica dell’Economia, il Mulino, 2006, pp. 111-116, VELLA F., La riforma della vigilanza, tanto rumore per nulla, in Analisi giuridica

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che interessavano l’intermediazione finanziaria, già disciplinata precedentemente dal T.u.f., introducendo modifiche alle disposizioni per le società con azioni quotate in mercati regolamentati in Italia o società italiane quotate in mercati facenti parte dei paesi UE. Queste riforme inserite con la legge sul risparmio, come già accennato, andavano a toccare gli obbiettivi e le responsabilità dei sistemi di controllo interno, degli organi a cui compete l’amministrazione della società e inoltre, dei soggetti incaricati della sorveglianza sull’efficienza e adeguatezza dei sistemi di controllo interno con l’intenzione di accrescere la tutela degli investitori, soprattutto di piccole dimensioni.

L’obbiettivo del legislatore, nella novellazione della disciplina, era costituito dall’intento di rendere più presenti le minoranze azionarie all’interno delle dinamiche societarie. Ciò sarebbe dovuto avvenire anche attraverso l’ausilio della CONSOB che, tramite le disposizioni contenute nel Regolamento degli Emittenti, avrebbe disciplinato in modo più approfondito la condotta da tenere da parte dei soggetti che intendono promuovere la sollecitazione delle deleghe di voto nelle società quotate, in relazione ai punti contenuti nell’ordine del giorno delle varie assemblee. Gli elementi sopracitati avrebbero così implementato la trasparenza e l’efficacia dei controlli aumentando le tutele del piccolo azionista.

Malgrado l’impegno speso dal legislatore nel predisporre una disciplina dettagliata sulle materie sopracitate, è però parso a molti che permanessero delle criticità circa l’efficacia dell’impianto normativo nell’arginare i fenomeni degli abusi o pratiche scorrette, oltre a non tutelare a sufficienza i risparmiatori. Un esempio è costituito dal nuovo art. 5 della L. n. 262 del 2005, che introduceva l’art 126-bis nel T.u.f. riguardante le materie all’ordine del giorno, dove al 1° comma si leggeva: «I soci che, anche congiuntamente, rappresentino almeno un quarantesimo del capitale sociale possono chiedere, entro cinque giorni dalla pubblicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea, l’integrazione dell’elenco delle materie da trattare, indicando nella domanda gli ulteriori argomenti

normativa: prime riflessioni sulla nuova legge di risparmio (l.n. 262 del 2005), in Banca Borsa e Titoli di Credito, Giuffrè, 2006, vol. I, pp. 125-180.

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da essi proposti.». L’inserimento di questa disposizione, come da tempo richiesto dalla dottrina50, svolge un ruolo determinante, visto che la fissazione dell’ordine del giorno, soprattutto nelle società ad azionariato diffuso, ricopre una notevole importanza nel governo societario. In particolare, la dottrina sosteneva che il potere degli amministratori di disporre l’ordine del giorno avrebbe comportato una naturale esclusione dell’assemblea, relegandola ad una semplice ratificatrice delle proposte già ideate dall’organo amministrativo.51 La ragione alla base di questo tipo di intervento è quella di cercare di rafforzare il dialogo tra gli amministratori e l’assemblea, cercando di coinvolgere anche le minoranze qualificate. Si cerca, tramite questa modalità di intervento sull’ordine del giorno, di portare all’attenzione di tutti gli azionisti e degli amministratori anche altre tematiche a cui altrimenti non sarebbe dato spazio. Al netto delle considerazioni sui risultati ottenuti nel riscontro della pratica, va comunque menzionato il fatto che il legislatore, tramite questa disposizione, ha anticipato quello che poi sarebbe stato l’intervento dell’UE tramite l’art. 6 della Direttiva 2007/36/CE. In sostanza la Direttiva europea richiedeva un intervento volto a rafforzare la partecipazione degli azionisti alle vicende societarie, tramite l’inserimento della possibilità per le minoranze qualificate di integrare i punti all’ordine del giorno ed anche di suggerire indicazioni sui temi trattati.

Per comprende al meglio le innovazioni introdotte dalla “legge sul risparmio” occorre ricordare il contesto all’interno del quale il legislatore si è trovato ad operare ed in particolare, gli eventi che si erano verificati nel passato con i numerosi scandali finanziari: come i casi nazionali di Cirio e Parmalat, dei titoli argentini, oppure ancora i casi di Enron e WorldCom.52

50Come ABBADESSA P., Nuove regole in tema di procedimento assembleare e tutela delle minoranze, in

Rivista delle Società, Giuffrè, 2006, vol. I, pp. 170-180, oppure MONTALENTI P., “Corporate

governance”: la tutela delle minoranze nella riforma delle società quotate, in Giurisprudenza Commerciale,

Giuffrè, 1998, vol. 1, p. 340.

51TUCCI A., Modifiche del diritto societario e nuove forme di tutela delle minoranze, in La nuova legge sul

risparmio. Profili societari, assetti istituzionali e tutela degli investitori, a cura di Capriglione F., Padova,

Cedam, 2006, p. 73.

52ONADO M., I risparmiatori e la Cirio: ovvero, pelati alla meta. Storie di ordinaria spoliazione di

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Senza andare ad analizzare a fondo i punti della Legge n. 262 del 2005, si può osservare abbastanza facilmente che l’intervento operato dal legislatore per scongiurare il ripetersi di certi tipi di abusi economico-finanziari, era focalizzato quasi esclusivamente sull’inasprimento della disciplina sanzionatoria, anziché su di una riforma che rendesse più organica e strutturale la disciplina delle società che fanno ricorso al pubblico risparmio.

Nel complesso è comunque logico, che all’interno di una disciplina, ci sia una parte dedicata alle sanzioni quale deterrente nei confronti di certi tipi di condotte. Ma questo non esclude la necessità di avere una normativa che entri nel merito e descriva, sia nella forma che nella sostanza, una disciplina capace di regolare i meccanismi delle società quotate. È per questo motivo che il legislatore si è trovato a intervenire in seguito per coprire i vuoti lasciati dalla legge, che è stato emanato il d.lgs. n. 303 del 2006 che ha modificato e coordinato alcuni aspetti sia della disciplina del T.U.F. che del T.U.B..

Come già indicato precedentemente, in seguito ai vari scandali finanziari succedutisi fin dai primi anni duemila, si era evidenziato, soprattutto nei confronti degli intermediari finanziari, come fosse necessario un maggior coinvolgimento degli azionisti nelle vicende societarie. Infatti, a seguito delle crisi finanziare, si osservava una frattura tra i piccoli investitori e le società finanziare. Poiché i piccoli investitori-risparmiatori chiedevano forme di tutela più efficienti per poter tutelare i loro interessi, tre parvero i criteri di intervento necessari: 1) un miglioramento della posizione del piccolo azionista, in modo che fosse in grado di esercitare i propri diritti, soprattutto quello di voto; 2) una maggiore tutela dal fenomeno detto “empty voters” (pratica comune, soprattutto negli investitori istituzionali, dove a causa di varie circostanze il soggetto che esercita il diritto voto in assemblea non è, allo stesso tempo, titolare della partecipazione azionaria)53; 3) una maggiore stabilità dell’attivismo degli investitori istituzionali. Non a caso saranno questi gli elementi che successivamente sarebbero stati oggetto di

CHIARUTTINI S., Parmalat, un caso di trasferimento di rischio industriale e di credito sui risparmiatori:

cause e rimedi, in Analisi giuridica dell’Economia, il Mulino, 2010, pp. 367-382.

53Hu H. - Black B., The New Vote Buying: Empty Voting and Hidden (Morphable) Ownership, 2006, vol.

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regolamentazione da parte della nuova Direttiva UE 36/2007 CE, dettata in materia di diritti appartenenti agli azionisti di società quotate in mercati regolamentati.

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