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Storie di famiglia. I da Fino tra Bergamo e la montagna dal XII al XVI secolo

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STORIE DI FAMIGLIA

I da Fino tra Bergamo e la montagna dal XII al XVI secolo

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Introduzione: gli amici degli amici Abbreviazioni

1. I cacciatori del vescovo 2. Un notaio intraprendente 3. La guerra degli arcipreti 4. Una pieve «di famiglia» 5. I capibastone

6. Vaso di coccio tra vasi di ferro 7. Alemanio Fino e Wikipedia 8. Bibliografia delle opere citate

05 11 12 32 52 66 84 104 115 127

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Negli ultimi 30-40 anni alcuni concetti importati dall'antropologia e dalla sociologia si sono fatti strada nella disciplina storica. Uno di questi concetti è quello di mediatore, broker in inglese. Esso era al centro di un libro, scritto da un antropologo sociale, che ha avuto molto successo presso gli storici, pubblicato nel 1974 con il titolo Friends of friends, cioè,

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in italiano, «Gli amici degli amici» . I mediatori, scrive Giovanni Levi, uno studioso dell'età moderna,

«non controllano le risorse di primo livello, quelle che riguardano la terra, il lavoro, l'educazione ecc. sono piuttosto in relazione di clientela con coloro che le posseggono. Controllano invece un secondo livello di risorse, quello delle relazioni sociali e dei canali di comunicazione fra realtà spesso economicamente, socialmente, culturalmente non direttamente compatibili. Da una parte la massa dei contadini, dall'altra il mondo alfabetizzato dei nobili, dei mercanti, dei funzionari all'esterno: autoconsumo e mercato, contadini e potere feudale, comunità locale e fisco, religiosità contadina e alte gerarchie ecclesiastiche, sono

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tutte coppie di realtà che generano in varie forme figure di mediatori» .

Detto in altri termini, il potere, l'influenza, il prestigio, non derivano necessariamente o solamente dal possesso delle risorse, cioè dal fatto di avere molto denaro, o molta terra, o molta cultura, o molti posti di lavoro da distribuire. In tutte le società e in tutti i tempi, il potere, il prestigio e l'influenza possono derivare anche dal fatto di avere le conoscenze giuste, di avere cioè rapporti più o meno stretti con chi ha molto denaro, molta terra, molta cultura, molti posti di lavoro da distribuire. Chi ha queste relazioni, o riesce in qualche modo a procurarsele, può manipolarle strategicamente per ottenere vantaggi personali. E questo non tanto perché può ottenere favori per sé, ma soprattutto perché può ottenere favori per altri. Se riesco a mettere in comunicazione una persona che ha bisogno di qualcosa – denaro, un lavoro, un appoggio politico, una raccomandazione ecc. – con chi quel qualcosa è in grado di darglielo, quella persona sarà in debito con me. In futuro, anche a distanza di anni, potrò chiedere di saldare il debito, ottenendo da lei quello che voglio. Avrò, insomma, una qualche forma di potere su quella persona, anche perché,

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J. BOISSEVAIN, Friends of Friends. Networks, Manipulators and Coalitions, Oxford 1974, in particolare pp. 147-169.

2 G. LEVI, Centro e periferia di uno Stato assoluto: tre saggi su Piemonte e Liguria in

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una volta saldato il debito, essa continuerà a compiacermi sapendo che io ho conoscenze importanti che le potranno essere utili. Il meccanismo non è affatto difficile da capire: è alla base dei tanti scandali a base di favori politici e appalti pilotati che riempiono le pagine dei nostri giornali.

Gli antropologi chiamano questi personaggi dotati di una vasta rete di relazioni, e capaci di sfruttarla per ottenere influenza e potere, appunto mediatori, perché si specializzano nel fare da intermediari, nel mettere in contatto persone con esigenze e bisogni diversi. I mediatori sono particolarmente importanti, e dunque particolarmente influenti, quando si tratta di mettere in relazione due mondi dalle caratteristiche sociali, economiche o culturali molto diverse. Per esempio, per fare un caso di attualità, quando le organizzazioni militari e civili dei paesi occidentali devono entrare in contatto con società, come quella irachena o quella afgana, che sono strutturate secondo principi diversi dalle loro. In situazioni come queste, le persone che, in un certo senso, hanno un piede in entrambi i mondi, che comprendono e sanno interpretare entrambi i contesti, e quindi possono agevolare il rapporto, diventano preziose e molto ricercate. Dunque possono sfruttare la loro posizione per acquisire visibilità sociale e anche qualche forma di ritorno economico.

Importare nello studio della storia categorie che appartengono a un'altra disciplina, come l'antropologia, che non solo si occupa di contesti diversi, ma soprattutto utilizza fonti molto diverse, e si basa su un metodo significativamente differente, è un'operazione che comporta molti rischi, e va sempre condotta con grande cautela. Nonostante ciò, quello di mediatore mi sembra un concetto capace di dare un contributo determinante alla comprensione della vicenda plurisecolare dei da Fino,

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che presenta alcuni aspetti piuttosto enigmatici . Nella generale carenza di documentazione medievale sulla Val Seriana superiore, è possibile tracciare la storia di questa famiglia, nelle sue linee essenziali, in maniera praticamente ininterrotta dal XII al XVI secolo. Se poi ci concentriamo su una porzione specifica della Val Seriana superiore, la Val Borlezza, riscontriamo che gran parte dei (non molti) documenti del XIII e XIV secolo riguardano in qualche modo, direttamente o indirettamente, come attori principali o magari solo come testimoni, i da

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Uno studio storico nel quale si trova un uso molto accorto e fecondo del concetto di mediatore è M. DELLA MISERICORDIA, La «coda» dei gentiluomini. Fazioni,

mediazione politica, clientelismo nello stato territoriale: il caso della montagna lombarda durante il dominio sforzesco (XV secolo), in Guelfi e ghibellini nell'Italia del Rinascimento, a cura di M. GENTILE, Roma 2005, pp. 275-390.

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Fino. Anche volendo, insomma, non si può studiare la storia della Val Borlezza prescindendo dai da Fino. Dal notaio Raimondo che alla metà del Duecento gestiva la curia di Cerete per conto del vescovo di Bergamo, allo Iacobo da Fino protagonista del primo esplodere delle lotte di fazione alla fine del XIII secolo, dai tanti membri della famiglia che si succedettero nella dignità di arciprete della pieve di Clusone nel corso del Trecento, all'Alamannino capo delle masnade guelfe che si è meritato un posto nella cronaca di Castello Castelli, in ogni momento, se si cerca di seguire il filo dell'evoluzione sociale e politica di questo angolo della Bergamasca, si inciampa in qualche da Fino.

Tutto questo non desterebbe grande meraviglia se i da Fino fossero una famiglia di grandi proprietari terrieri, magari titolari di diritti signorili sui contadini della zona, o di ricchi mercanti capaci di mobilitare grosse somme di denaro. È scontato, infatti, che la documentazione medievale riguardante i ceti sociali più elevati, che detenevano il potere politico, o quello economico, o, spesso, entrambi, ha avuto molte più chance di conservazione rispetto a quella relativa alla vasta massa anonima dei coltivatori, degli artigiani, dei piccoli trafficanti locali. Il fatto è che non si riesce a capire quale fosse la base materiale della visibilità dei da Fino, o meglio della loro onnipresenza, dell'influenza di cui essi sembrano godere in questa area della montagna bergamasca.

In nessun periodo della sua storia la famiglia esercitò alcun tipo di potere signorile sulla popolazione locale. Per quanto riguarda il patrimonio terriero, i da Fino, a partire almeno dalla metà del Duecento, controllavano in effetti tutta o quasi la terra della località di origine, Fino appunto, e anche una parte in apparenza non irrilevante della terra di Onore, ed erano presenti, sebbene in modo più limitato, anche a Castione. Questo è tutto. Nei secoli del Medioevo i possessi della parentela rimasero sempre concentrati in un'area ristretta, e la famiglia non fece alcun tentativo di espansione fondiaria al di fuori della Val Borlezza. Fino almeno alla seconda metà del Quattrocento, essa non si dedicò ad attività mercantili di un certo livello, e non si impegnò neppure in attività imprenditoriali di altro tipo, legate magari all'allevamento, o allo sfruttamento del bosco, o alla siderurgia, che pure in Val Seriana superiore non era assente. Prima degli ultimi decenni del XV secolo, tra i da Fino ci furono parecchi notai, ma nessun giudice o esperto di diritto. Si tratta di un'osservazione importante, perché le professioni giuridiche erano allo stesso tempo uno status symbol e uno strumento di ascesa sociale, segnalavano l'appartenenza a un livello sociale elevato, ma anche l'ambizione di arrivare ad appartenere a un tale livello sociale.

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I da Fino, però, erano dei mediatori. Fin dal XII secolo, cioè, essi si specializzarono nel mettere in comunicazione due mondi che, all'epoca, erano significativamente diversi: la città di Bergamo e la società rurale della Val Seriana superiore. I da Fino avevano radici profonde in valle, e una fitta trama di rapporti di parentela, di amicizia, economici li legava a un gran numero di persone e gruppi familiari appartenenti alle comunità locali. Ma la loro specificità è che essi avevano anche contatti di vario genere con la città, con i poteri che vi avevano sede – il vescovo e il Comune cittadino – , con le famiglie che gravitavano intorno a questi poteri. Grazie all'estensione e all'articolazione della loro rete di relazioni, i da Fino potevano svolgere una funzione di intermediari tra i due mondi, tra la città di Bergamo e questo pezzetto di montagna bergamasca.

La storia, però, a differenza dell'antropologia, è la scienza del cambiamento, e il tempo è la coordinata fondamentale lungo la quale si muove lo storico. Quello che stupisce dei da Fino è che essi seppero mantenere questo ruolo di mediatori per un tempo lunghissimo, dalla seconda metà del XII secolo ai primi decenni del XV. In questi tre secoli il mondo, o meglio, come abbiamo detto, i mondi nei quali la famiglia viveva, cambiarono moltissimo, furono investiti da una serie di trasformazioni economiche, sociali e politiche. I da Fino poterono mantenere il loro ruolo di mediatori, e la loro influenza, solo perché riuscirono, di volta in volta, a cambiare, e ad adattare la loro azione ai mutamenti del contesto che li circondava. A uno storico, in effetti, non interessa tanto la constatazione che la vicenda dei da Fino si può leggere attraverso la categoria della mediazione, ma piuttosto capire in che cosa consisteva praticamente questa mediazione, e, soprattutto, come essa cambiò nel corso del tempo.

In questo libro seguiremo da vicino la storia dei da Fino, e quindi della Val Borlezza, dal XII al XVI secolo, e vedremo come il segreto del loro successo fu la loro capacità di adattarsi, di generazione in generazione, ai mutamenti sociali e politici, mantenendosi però fedeli sempre allo stesso modello di azione, quello appunto incentrato sulla mediazione tra gli interessi cittadini e le istanze della società locale. Li vedremo quindi muoversi nell'ambiente dei piccoli vassalli vescovili del XII secolo, poi, nel Duecento, infilarsi nell'affare degli appalti delle curie vescovili, capire al volo i vantaggi che potevano derivare dal prendere partito a favore di una delle fazioni che dalla fine di quel secolo si contesero il potere in città, i guelfi guidati dai Bonghi e dai Rivola e i ghibellini seguaci dei Suardi, riuscire in qualche modo a trasformare i benefici dell'ente ecclesiastico più importante della zona, la pieve di

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Clusone, in un patrimonio di famiglia, poi, nella seconda metà del Trecento, accreditarsi come capi delle bande armate montanare di fede guelfa. Il tutto dedicando sempre molte energie al mantenimento e all'espansione di un'ampia rete di relazioni, che includeva allo stesso tempo gli abitanti delle comunità locali, di ogni condizione sociale, e i protagonisti della vita politica ed economica della città, esponenti dell'antica nobiltà o uomini d'affari in ascesa. Vedremo anche, però, come il meccanismo che aveva consentito ai da Fino di mantenere così a lungo la loro posizione, fondato allo stesso tempo su una continua metamorfosi e sulla tenace fedeltà a un unico modello di azione, si inceppò nel corso del Quattrocento, quando, nell'ambito della più ampia compagine politica dello Stato di Venezia, i rapporti tra la città di Bergamo e la montagna divennero sempre meno stretti.

C'è in effetti un elemento che forse gli antropologi non hanno messo adeguatamente in luce. Il ruolo di mediatore ha, per così dire, un lato oscuro, che è rappresentato da una forte dose di ambiguità. Il mediatore, infatti, in quanto ponte tra mondi diversi, rischia di essere percepito come estraneo da entrambi i mondi. La sua azione, cioè, è necessariamente caratterizzata da una doppiezza che può suscitare un vivo sentimento di ostilità. La scomoda ambiguità dei da Fino divenne sempre più evidente quando essi, probabilmente negli anni '70 del Trecento, ottennero la concessione del diritto di cittadinanza, pur continuando a risiedere in

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valle: entrarono a far parte, cioè, della categoria dei cives extra civitatem . Questa condizione giuridica li rendeva irrimediabilmente estranei ai vicini – così venivano chiamati nelle fonti dell'epoca i membri delle comunità rurali – dei Comuni nei quali risiedevano. Allo stesso tempo, però, i da Fino restavano pur sempre dei montanari, non vivevano in città, e quindi non erano percepiti come veri cives dagli altri cittadini. Non erano, come si suol dire, né carne né pesce.

Man mano che, nel corso del Quattrocento, il loro prestigio e il loro potere andavano sbiadendo, essi si aggrapparono allo status di cittadini come all'ultimo baluardo della propria superiorità rispetto agli altri valligiani. E questo fu il loro errore, perché proprio questa condizione fu l'ostacolo insormontabile che impedì loro di integrarsi nelle comunità in cui vivevano, e di essere ammessi allo sfruttamento delle risorse che queste comunità controllavano ormai in piena autonomia, in particolare i

4 A. POLONI, «Ista familia de Fine audacissima presumptuosa et litigiosa ac

rixosa». La lite tra la comunità di Onore e i da Fino nella Val Seriana superiore degli anni '60 del Quattrocento, Clusone, Comune di Fino del Monte, 2009.

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beni comunali. Prima che potessero rendersene conto, i da Fino da privilegiati si trovarono ad essere emarginati. La loro diversità, tanto orgogliosamente esibita, da fattore di distinzione divenne causa di esclusione.

I da Fino, che si erano tante volte adeguati ai cambiamenti del contesto in cui vivevano, non furono in grado di adattarsi alla trasformazione cruciale, quella che, con lo spostamento definitivo del potere lontano dalla città, rese superfluo il loro ruolo di mediatori. Come spesso accade, essi continuarono a ragionare e a leggere il mondo secondo gli schemi che avevano appreso dai loro padri e dai loro antenati, e che in effetti avevano funzionato per secoli, ma che il mutamento della realtà aveva ormai reso obsoleti, inadeguati. Altre famiglie, più flessibili, più dinamiche, o semplicemente più fortunate, presero il loro posto al centro della storia di questo piccolo pezzetto di montagna bergamasca.

Gli ultimi anni della parabola dei da Fino, almeno di quella che seguiremo da qui in avanti, ci aiutano a capire quanto sia difficile, in realtà, leggere il cambiamento, quanto sia complicato per le persone interpretare i tanti segnali, grandi o piccoli, che i tempi stanno per cambiare. Per lo storico, spesso più a suo agio nel raccontare le vicende di coloro i quali quei mutamenti li hanno colti al volo, fiutati, spesso prodotti, in una parola, dei vincitori, la trasformazione dei da Fino da vincitori in perdenti costituisce dunque anche un'occasione per riflettere sul proprio mestiere.

Ringrazio l’amministrazione comunale e la Pro Loco di Fino del Monte, che hanno commissionato e sostenuto finanziariamente le ricerche che sono alla base di questo volume.

Alcune persone a me molto care hanno dato un contributo importante al libro. Giovanni, come sempre, mi ha dato suggerimenti preziosi per rendere più leggibile e completo il testo. Viola e Stefano hanno curato l’editing con competenza e con passione. A loro va quindi un ringraziamento speciale.

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ACBg: Archivio Capitolare di Bergamo (conservato nell'Archivio Storico Diocesano di Bergamo)

Pergamene: Sezione pergamenacea ASBg: Archivio di Stato di Bergamo Notarile: Atti dei notai cessati

AVBg: Archivio della Mensa Vescovile di Bergamo (conservato nell'Archivio Storico Diocesano di Bergamo)

Rotulum: Rotulum Episcopatus Bergomi

Diplomata: Diplomata seu Iura Episcopatus Bergomi BCAM: Biblioteca Civica Angelo Mai di Bergamo

MIA: Archivio del Consorzio della Misericordia Maggiore di Bergamo

Ardesio: G. BARACHETTI, Possedimenti del vescovo di Bergamo nella valle di Ardesio. Documenti dei secc. XI-XV, in «Bergomum», LXXIII (1980)

Castione: Archivio storico del Comune di Castione della Presolana (Bg) Instrumenti: Serie 4, Instrumenti

Liti: Serie 15, Liti

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1. Negli anni '40 del XII secolo i vicini di Ardesio entrarono in contrasto con Gregorio, vescovo di Bergamo, signore della maggior parte di loro. Della maggior parte, e non di tutti, perché a questa data più signori si spartivano il dominio su questo angolo dell'alta Val

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Seriana . Il monastero di Santa Giulia di Brescia vantava diritti su un piccolo nucleo fondiario e sulle famiglie che lo coltivavano, e una casata di Bergamo, i Moizoni, esercitava poteri signorili – che probabilmente le erano stati concessi in feudo molto tempo prima dal vescovato stesso –

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su un gruppo di rustici . Situazioni del genere erano molto comuni nella Bergamasca dei decenni centrali del XII secolo. In ogni caso, Gregorio rivendicava ora lo sfruttamento esclusivo del monte Secco e degli altri monti che circondavano Ardesio e i villaggi limitrofi. Su quei monti, oltre ai pascoli, c'era qualcos'altro che gli interessava: ricche vene di ferro. Gli uomini di Ardesio, tuttavia, sostenevano di avere sempre avuto libero accesso alle risorse delle loro montagne, senza che i predecessori di Gregorio imponessero loro alcuna restrizione. Nel 1145 le due parti, per risolvere la vertenza, scelsero concordemente di

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ricorrere a un arbitrato dei consoli di Bergamo .

Il lettore si starà chiedendo che cosa abbia a che fare questa vicenda con la storia dei da Fino. Il fatto è che è proprio in questa occasione che compare per la prima volta nelle fonti un personaggio accompagnato dall'indicazione di provenienza «da Fino», anche se non si può dimostrare che si tratti proprio di un antenato della nostra parentela. I

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vicini di Ardesio, infatti, presentarono tre testimoni a proprio favore: Rulio da Clusone, Rastello da Gavazzo e Martinus Lazaronis de Fine. I tre testimoniarono

«di sapere e di avere visto per più di quarant'anni che i vicini di Ardesio scavavano e gestivano le vene di ferro in Cornello Bagitene e Cornello

1 Proprio sulla situazione di Ardesio si veda F. MENANT, Les chartes de franchise de

l'Italie communale. Un tour d'horizon et quelques études de cas, in Pur une anthropologie du prélèvement seigneurial dans les campagnes médiévales (XIe-XIVe siècles). Réalités et représentations paysannes, Paris 2004, pp. 239-270.

2 Rustici è il termine che usano gli storici per indicare i contadini soggetti a una

signoria rurale.

3 Ardesio, pp. 8-9.

4 Nelle fonti medievali il termine vicini era utilizzato per indicare i membri delle

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Grabiasca, e ovunque venissero scoperte, e facevano il carbone in comune» .

I testimoni dovevano essere stati piuttosto convincenti, perché i consoli di Bergamo riconobbero ai vicini di Ardesio il pieno diritto di sfruttare le vene di ferro. Tuttavia, essi posero paletti ben precisi all'utilizzo delle risorse dei monti. Innanzitutto, venivano esplicitamente salvaguardate le battute di caccia del vescovo e del suo seguito «in foresto», cioè nei boschi destinati a riserva signorile. Dal giorno di Sant'Alessandro a quello di San Martino, cioè dal 26 agosto all'11 novembre – la stagione di caccia corrispondeva quasi perfettamente a quella attuale – i vicini non potevano produrre carbone nella riserva senza il permesso del vescovo. Il carbone era indispensabile per alimentare i forni per la lavorazione del ferro, ma l'operazione disturbava gravemente l'attività venatoria del signore. Gli uomini di Ardesio, inoltre, non potevano portare le loro pecore e capre né fare il fieno sul monte Secco dal primo giugno al giorno di San Lorenzo (10 agosto): in pratica, nella stagione dell'alpeggio lo sfruttamento degli alti pascoli era riservato al vescovo.

Come vedremo in seguito, la questione della caccia ha un rilievo particolare nella storia dei da Fino. Al momento, però, quello che ci interessa, in questa controversia, è la scelta dei testimoni. Nessuno di loro sembra abitare ad Ardesio. Uno è di Clusone, un altro è di Gavazzo – un'area che corrispondeva più o meno all'attuale San Lorenzo di Rovetta, nei pressi del quale esiste in effetti ancora oggi una località chiamata Valle Gavazzo – il terzo è detto appunto da Fino. Perché i vicini di Ardesio scelsero, per testimoniare a loro favore, proprio questi tre uomini, che non appartenevano alla loro comunità? E, soprattutto, come facevano i tre, che in apparenza non avevano nulla a che fare con Ardesio, a conoscere così in profondità e a essere in grado di descrivere così dettagliatamente le consuetudini di questi rustici e il loro rapporto con l'ambiente circostante?

Il nostro documento non ci aiuta a chiarire questi dubbi. L'unica cosa che possiamo dire è che tutti i testimoni provenivano da località soggette alla signoria del vescovo. Non doveva tuttavia trattarsi di rustici come tutti gli altri. L'ipotesi più probabile, a mio parere, è che

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Non saprei identificare il Cornello Bagitene, mentre Grabiasca è un toponimo tutt'ora esistente per indicare una località poco a sud di Fiumenero. Per un'analisi delle caratteristiche naturalistiche ed insediative di quest'area si veda M. BONACORSI,

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fossero uomini che avevano svolto al servizio del vescovo qualche mansione che li aveva portati a farsi conoscere dagli abitanti di Ardesio, ma anche ad essere particolarmente informati sui fatti.

Il signore, infatti, era attorniato da varie figure che lo aiutavano a gestire il suo patrimonio, a sorvegliare i coltivatori, ma anche a mantenere uno stile di vita consono alla sua posizione sociale. La principale tra queste figure era quella del gastaldo, vero e proprio rappresentante in loco del vescovo, che riscuoteva censi e tributi vari, controllava che i contadini svolgessero i servizi obbligatori (le corvèes), aveva compiti di polizia e amministrava la bassa giustizia, giudicava cioè sulle controversie che coinvolgevano i rustici, con l'esclusione dei reati di sangue. L'entourage vescovile era poi composto da altri addetti, canevarii che si occupavano della raccolta dei canoni versati in natura (soprattutto cereali), guardie campestri, guardaboschi, guardacaccia ecc. A un livello un po' più basso c'erano poi tutti coloro che soddisfacevano le esigenze quotidiane del signore quando questi soggiornava sulle sue terre: i maniscalchi, che avevano un ruolo di grande importanza in una società che attribuiva grandissimo valore pratico ma anche simbolico al cavallo, e poi i cuochi, i fornai, i sarti ecc. Un tipo del tutto speciale di servizio era quello prestato dagli homines de masnada e dagli scutiferi, o scudieri, generalmente a cavallo, che costituivano il seguito armato del signore.

Tutti questi personaggi che consentivano il funzionamento della signoria del vescovo nella Val Seriana superiore erano reclutati dai villaggi del circondario. Essi inoltre erano tutti ricompensati attraverso la concessione di terre, la cui estensione variava ovviamente a seconda della qualità del servizio: essere uno scudiero, che viveva a stretto contatto con il signore, era ben diverso che essere un cuoco. Tali terre, comunque, erano sempre concesse in feudo, cioè attraverso un rituale di investitura in tutto simile a quello al quale si sottoponevano i vassalli aristocratici, e dietro prestazione di un giuramento di fedeltà al vescovo. Quando sentiamo parlare di feudi e vassalli, pensiamo subito alla nobiltà e alla cultura cavalleresca. In realtà, nel XII secolo i villaggi della Val Seriana brulicavano di vassalli che provenivano da semplici famiglie contadine. Per distinguerli dai «veri» vassalli, quelli che popolano la nostra immagine del Medioevo, gli storici li definiscono «vassalli condizionali», poiché il godimento della terra che avevano ricevuto in feudo era per loro «condizionato» allo svolgimento di un

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preciso servizio . Per i vassalli nobili, ovviamente, non era così: essi erano legati al signore da un generico impegno di fedeltà, e la terra ottenuta in feudo era a loro piena e quasi incondizionata disposizione.

Il motivo principale per il quale i vescovi preferivano pagare le persone al loro servizio attraverso la concessione di terre, invece che con un normale salario, è presto detto: nella Val Seriana superiore del XII secolo non circolava molto denaro, mentre di terra ce n'era in abbondanza. L'economia locale era in gran parte fondata sull'autoconsumo, i contadini ricorrevano il meno possibile al mercato, gran parte dei canoni d'affitto erano pagati in natura attraverso il versamento di una parte del raccolto, e quindi anche il vescovo poteva avere qualche difficoltà a reperire i soldi per pagare i tanti uomini che lavoravano per lui a vario titolo. Ma c'è anche un altro elemento da considerare. Il rapporto tra un vassallo, anche se non nobile, anche se un semplice cuoco, e il suo signore è davvero qualcosa di diverso dalla relazione tra un salariato e il suo datore di lavoro. Il giuramento di fedeltà istituiva tra il vescovo e il piccolo vassallo un legame personale di grande forza. Gli uomini del vescovo garantivano al loro signore una forte presa sulla società locale, gli consentivano di estendere il suo controllo sulla vita dei villaggi, ed erano pronti a mobilitarsi, anche prendendo le armi, in caso di scontri con altri signori.

Bisogna anche dire che il servizio svolto costituiva per questi uomini un importante fattore di promozione sociale. Innanzitutto, le tenute concesse in feudo erano in genere più estese e di migliore qualità rispetto a quelle normalmente date in affitto ai coltivatori. Oltre agli appezzamenti, inoltre, i membri dell'entourage signorile ricevevano

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spesso in feudo anche altri diritti, come quello di trattenere le decime che avrebbero dovuto versare per le proprie terre, o di riscuotere quelle dovute dalle terre altrui. Ma era in sé la vicinanza al signore, cioè il rapporto personale con il potere, che dava a questi uomini una visibilità particolare, e li elevava al di sopra degli altri abitanti dei villaggi. Tanto più che spesso essi venivano reclutati dalle famiglie contadine più

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Sui vassalli condizionali in Lombardia si veda F. MENANT, Gli scudieri

(«scutiferi»), vassalli rurali nell'Italia del Nord nel XII secolo, in ID., Lombardia feudale. Studi sull'aristocrazia padana nei secoli X-XII, Milano 1992, pp. 277-194; ID., Campagnes lombardes au Moyen Âge. L'économie et la société rurales dans la ragion de Bergame, de Crémone et de Brescia du Xe au XIIIe siècle, Rome 1993, in particolare pp.

674-719.

7 La decima è la quota del raccolto che proprietari e coltivatori devono versare alla

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agiate. Questo è vero soprattutto per il livello più alto dei dipendenti del vescovo, quello composto dagli scudieri, dai gastaldi e in genere dagli addetti alla gestione e alla sorveglianza del patrimonio vescovile. I gastaldi, del resto, che incarnavano il potere signorile, e avevano un incarico di grande responsabilità, venivano spesso scelti tra gli uomini di masnada e gli scudieri che avevano già prestato servizio nel seguito

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armato del signore .

Mi sembra plausibile che i tre testimoni del 1145, Rulio da Clusone, Rastello da Gavazzo e Martino Lazaronis da Fino, provenissero proprio da questo ambiente, quello dell'entourage vescovile, e che si fossero trovati in più occasioni a sorvegliare sul corretto adempimento dei servizi dovuti al vescovo, a riscuotere canoni e imposizioni varie, a dirimere controversie, magari ad accompagnare il loro signore nelle battute di caccia e nelle visite ad Ardesio e nei villaggi vicini. Ciò giustificherebbe il fatto che si presumeva che i tre fossero ben informati sugli equilibri locali. Ma, soprattutto, questo ruolo ne farebbe in qualche modo personaggi di spicco, conosciuti e stimati, e la loro posizione di prestigio spiegherebbe in maniera convincente perché i vicini di Ardesio pensarono che essi sarebbero risultati particolarmente credibili agli occhi dei consoli di Bergamo.

2. I tre affermarono di avere assistito personalmente ai fatti in questione per più di quarant'anni: dovevano perciò essere almeno sulla sessantina. Martino Lazaronis da Fino era nato quindi presumibilmente intorno al 1080. Naturalmente la semplice indicazione della provenienza dalla località di Fino non è di per sé sufficiente per collegare questo personaggio a quella che, nel Tre-Quattrocento, era definita la parentela dei da Fino, un esteso gruppo familiare cementato da legami di tipo agnatizio, cioè di discendenza maschile.

Il gruppo familiare al quale apparteneva Martino Lazaronis, comunque, continuò a risiedere a Fino nei decenni successivi al 1145. Nel maggio del 1188 Forziano, gastaldo vescovile, in presenza del vescovo Lanfranco, investì Pietro de Via Cava, Teutaldo de casa Lazaronis, Martino Olderati e Teutaldo Moronis de Valle, «del luogo di Fino, a loro nome e a nome e per conto del Comune del detto luogo e di tutti i vicini e degli uomini del detto luogo», di due aree montuose che

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non sono riuscita a localizzare, un «monte Mufatello» e un altro «monte»

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del quale, nella carta piuttosto danneggiata, non si legge bene il nome . A questa altezza cronologica il termine «casa» mantiene ancora un significato piuttosto ambiguo. Esso può certamente voler dire casato,

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stirpe ; ma può essere anche un sinonimo di «casale», ovvero tenuta,

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complesso fondiario . I due significati, del resto, si sovrappongono, poiché spesso una tenuta, composta da numerosi appezzamenti di terra, veniva nel tempo suddivisa tra i discendenti di colui che l'aveva presa in concessione, e dunque coloro che occupavano un'unica «casa» discendevano da uno stesso antenato. Qualunque significato vogliamo attribuire all'espressione «de casa Lazaronis», non è certo azzardato istituire un collegamento con il Martino Lazaronis da Fino del 1145.

Nel 1188, dunque, i vicini di Fino si erano già costituiti in Comune. Gli uomini che essi scelsero per rappresentarli di fronte al vescovo dovevano certo godere di una certa visibilità a livello locale. Teutaldo de casa Lazaronis, in effetti, se accettiamo la sua discendenza da Martino, apparteneva a una famiglia che probabilmente aveva svolto incarichi di responsabilità al servizio del vescovo. Per quanto riguarda gli altri delegati dei vicini di Fino, Martino Olderati apparteneva verosimilmente a un ramo – gli Olderati o Oldrati, appunto – della potente consorteria signorile dei da Solto, che esercitava diritti

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patrimoniali e signorili di varia natura in Val Borlezza . Anche altri da Solto, del resto, negli anni che stiamo considerando sembrano risiedere in quest'area: nel 1179, per esempio, è attestato un Lanfranco figlio del fu Albertino da Rovetta da Solto, e due anni dopo un Ruggero da

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Rovetta figlio del fu Onfredo da Solto . Teutaldo Moronis de Valle, invece, potrebbe essere ricondotto a un gruppo familiare, i Moroni, che dai primissimi anni del Duecento appaiono radicati non a Fino, ma a Onore e Songavazzo.

Due anni più tardi, nel 1190, un terreno situato a Rovetta è detto

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confinare da un lato con «terra dei figli di Tencredi da Fino» ; a questa data, quindi, Tencredi era già morto, e i suoi beni erano stati ereditati dai figli. Tencredi – o Tancredi, le due grafie sono intercambiabili – è il

9 AVBg, Rotulum, c. 103v.

10 Ardesio, p. 93 (1179), «de casa Moizonis». 11 Per esempio AVBg, Rotulum, c. 101v. 12

Sui da Solto si veda MENANT, Campagnes lombardes cit., pp. 644-646, e la genealogia a p. 644.

13 AVBg, Rotulum, c. 102v. 14 AVBg, Rotulum, c. 88v.

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primo personaggio che possiamo inserire con sicurezza nell'albero genealogico dei «nostri» da Fino. Egli era infatti il padre del notaio Ardengo, padre a sua volta del notaio Raimondo, conduttore della curia di Cerete negli anni '50 del Duecento, il primo membro della famiglia

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per il quale disponiamo di una documentazione piuttosto consistente . A partire almeno dalla generazione del notaio Ardengo, vissuto a cavallo tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo, la designazione «de Fine» perse il significato di indicazione di provenienza, per acquisire la funzione di un vero e proprio cognome. Già nel 1190, come mostra il documento che stiamo analizzando, questo gruppo familiare tendeva ad essere individuato dalla sola denominazione «da Fino», senza altra precisazione. Allo stato attuale, invece, non abbiamo alcuna prova che gli «autentici» da Fino siano i discendenti della casa Lazaronis, anche se il collegamento con il Martino Lazaronis del 1145 sarebbe

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suggestivo . È vero comunque che, tra coloro che rappresentarono i vicini da Fino di fronte al vescovo nel 1188, l'unico che eventualmente potrebbe essere ricondotto alla nostra parentela è Teutaldo de casa Lazaronis, dal momento che gli altri personaggi paiono appartenere a famiglie che non si radicarono nel territorio di Fino, e che a partire dall'inizio del Duecento sono attestate altrove.

Abbiamo toccato, in realtà, un problema cruciale. Che vogliamo accettare o meno l'ipotesi, del resto non suffragata da pezze d'appoggio documentarie, che i da Fino discendano dalla casa Lazaronis, quello che è certo è che nel 1188 vivevano sul territorio di Fino vari gruppi familiari. A partire dai primi decenni del Duecento, tuttavia, non ci sono più notizie di altre famiglie residenti in questa località oltre alla parentela che portava ormai stabilmente il cognome «da Fino». In seguito qualche altro nucleo familiare, in vario modo legato ai da Fino, si trasferirà sul territorio, ma senza mutare sostanzialmente la compattezza dell'insediamento parentale. Uno dei punti oscuri della storia che stiamo raccontando è dunque questo: che fine hanno fatto le altre famiglie che vivevano a Fino?

Purtroppo non ci sono documenti che ci aiutino a rispondere a

15 Cfr. cap. 2.

16 In realtà, nel documento del 1188 il nome del personaggio indicato come de casa

Lazaronis è abbreviato in Teut. Data l'ambiguità della scrittura del notaio e la cattiva

conservazione della carta, l'abbreviazione si potrebbe anche leggere Tenc., e pensare a una corrispondenza con il Tencredi da Fino del 1190. Si è scelta l'altra interpretazione perché più prudente, e perché nel Rotulum il nome Tencredi non è mai abbreviato Tenc., mentre il nome Teutaldo è spesso abbreviato Teut.

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questa domanda. Eppure, è evidente, si tratta di una questione fondamentale per la piena comprensione della vicenda dei da Fino. Resta il fatto che per qualche motivo, nei decenni a cavallo tra XII e XIII secolo, gli altri gruppi familiari abbandonarono le terre che occupavano nel territorio di Fino, e che tali terre si concentrarono man mano nelle mani dei discendenti di Tancredi da Fino.

Dobbiamo tenere presente, del resto, che ci troviamo in un contesto molto diverso da quello del tardo Medioevo, quando le comunità della Val Seriana superiore avevano ormai confini geografici e sociali rigidamente definiti, ed esistevano norme severe per scoraggiare la circolazione incontrollata degli uomini e i trasferimenti da un Comune

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all'altro . Nel XII secolo l'organizzazione comunitaria era molto meno stringente, il quadro insediativo assai meno stabile, le persone si spostavano con una certa facilità. Non era infrequente che un uomo avesse in concessione dal vescovo, che era il proprietario della maggior

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parte delle terre, appezzamenti posti in località diverse . In questo contesto così mobile e fluido capita di perdere le tracce di un gruppo familiare in un determinato luogo, per vederlo magari ricomparire altrove: è il caso, probabilmente, della famiglia del Teutaldo Moroni de Valle che rappresentò i vicini di Fino nel 1188.

Come si è detto, dall'inizio del Duecento i Moroni appaiono radicati a Onore e, soprattutto, a Songavazzo. Ancora nei primi decenni del Trecento, nel territorio di Songavazzo è attestato un complesso

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fondiario denominato «ronchi dei Moroni» . Nel Medioevo con ronco si intendeva un terreno incolto coperto dalla vegetazione spontanea, ancora da dissodare e preparare per la coltivazione. Songavazzo era sorto come centro geminato di Gavazzo, un villaggio che, come si è detto, si trovava più o meno in corrispondenza dell'attuale S. Lorenzo di

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Rovetta . A un certo punto, probabilmente intorno alla metà del XII secolo, le terre di Gavazzo cominciarono a essere troppo affollate. Il vescovo allora, che era il signore e il proprietario di tutta la zona, cercò

17 POLONI, «Ista familia de Fine» cit.

18 Su queste tematiche si veda almeno F. PANERO, Terre in concessione e mobilità

contadina: le campagne fra Po, Sesia e Dora Baltea (secc. XII e XIII), Bologna 1984.

19 AVBg, Diplomata, n. 84. Cfr. anche cap. 4.

20 Del problema dei centri geminati in territorio bergamasco si è occupato

recentemente A. SETTIA in un intervento, dal titolo Insediamenti geminati nella

Bergamasca altomedievale, presentato in occasione della Giornata di studi Bergamo e la montagna nel Medioevo. Il territorio orobico fra città e poteri locali, tenutasi a Bergamo il

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di favorire lo spostamento di alcune famiglie di Gavazzo un po' più in alto, nel territorio che prese appunto il nome di Songavazzo («sopra Gavazzo» o «Gavazzo di sopra»), dove c'era molta terra libera, ancora coperta da piante e erbacce, ancora interamente da sfruttare. Nei decenni successivi l'episcopato incoraggiò il trasferimento a Songavazzo di altre famiglie di coltivatori dei villaggi della zona, dando loro la terra a condizioni di favore, in cambio cioè di affitti poco più che simbolici. È verosimile quindi che la famiglia di Teutaldo Moroni fosse tra i colonizzatori attirati dal vescovo a Songavazzo tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo con la concessione di ampie estensioni di terra incolta (ronchi).

Tuttavia, anche accettando che l'abbandono di Fino da parte degli altri gruppi familiari possa essere avvenuto senza rotture drammatiche, non è pensabile che un fenomeno di questo genere non sia stato in qualche modo favorito da pressioni esercitate dai da Fino. Non si può non vedere una qualche strategia nel fatto che in pochi decenni questa famiglia si ritrovò a occupare praticamente tutte le terre del territorio di Fino. È possibile che in realtà questo processo fosse già in corso negli ultimi decenni del XII secolo: questo spiegherebbe perché nel 1190 Tancredi e i suoi figli fossero indicati semplicemente come «da Fino», come se a quella data il legame tra questo gruppo familiare e la località fosse già molto stretto, quasi esclusivo.

3. Non abbiamo poi altre notizie su Fino e i suoi abitanti fino al 1211. Quell'anno il vescovo Lanfranco diede in feudo ad Acerbo da Fino la «terra venattia che giace nel territorio di Onore in nove luoghi, terra che i suoi avi e i suoi antenati (sui mayores sive antecesores) tenevano in feudo dall'episcopato», e per la quale Acerbo si impegnava a pagare 20

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soldi e un formaggio all'anno . Acerbo non è collocabile con precisione nell'albero genealogico della nostra parentela, ma quasi sicuramente ne faceva parte, perché, come si è detto, nel secondo decennio del Duecento la denominazione «da Fino» sembra ormai essersi fissata come cognome di questo gruppo familiare. Il problema non è tanto nell'identificazione del personaggio, quanto nell'interpretazione del documento, che risulta piuttosto enigmatico.

Per inquadrare correttamente queste righe così poco chiare, è necessario dire due parole sulla fonte dalla quale esse provengono, che è

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la stessa dalla quale abbiamo tratto le notizie su Teutaldo de casa Lazaronis e Tancredi da Fino. Nel 1258 un notaio al servizio del vescovo di Bergamo prese nota di tutti i documenti che riuscì a reperire che attestassero i diritti – fondiari, signorili e di qualsiasi altro genere – che l'episcopato esercitava nel Bergamasco. Il risultato di questo lavoro è un registro pergamenaceo di più di cento carte, il cosiddetto Rotulum episcopatus Bergomi, oggi conservato presso l'Archivio della Mensa Vescovile di Bergamo. Si tratta di uno strumento di ricerca prezioso, perché contiene brevi riassunti di molti atti del XII e addirittura dell'XI secolo. L'unico problema è che non tutti i riassunti sono perfettamente comprensibili. È probabile che alcuni documenti risultassero difficilmente intelligibili anche per il notaio al quale era stato affidato il compito di raccogliere queste notizie, e del resto, data la fatica dell'impresa, possiamo capirlo se per alcune carte pensò che non valesse la pena perderci troppo tempo. Fatto sta che alcuni riferimenti appaiono piuttosto criptici, e le grafie dei nomi delle persone citate non sembrano sempre pienamente attendibili.

Per cercare di capire qualcosa di più, può essere utile confrontare le informazioni su Acerbo – sempre che si chiamasse veramente Acerbo, e non fosse un errore del notaio – con altri documenti citati sempre all'interno del Rotulum. Nel 1147 Baroncello di Cerete e il figlio Ottone restituirono al vescovo tutto ciò che avevano ricevuto nel territorio di

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Cerete «officium cazarie vel venadriam» . Ma il documento più utile per noi è di quasi un secolo successivo. Nell'agosto del 1241 Andrea del fu Ferrando di Romano di Alberto da Castione prestò giuramento di fedeltà al vescovo Enrico da Sesso «come fecero gli altri uomini districtabiles [cioè soggetti al districtus, al potere giudiziario del

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vescovo] e cacciatori (venatores) della Val di Larna» . Egli inoltre mostrò al vescovo «il feudo che egli e i suoi fratelli Zambono, Salvodeo e Domenico tenevano dall'episcopato per venaria», indicando 10 appezzamenti di terra con i loro confini, tutti posti nel territorio di

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Castione .

Andrea e i suoi fratelli di Castione erano vassalli del vescovo, dal quale avevano ricevuto terra in feudo, o, più probabilmente, erano i loro antenati ad avere ricevuto il feudo da un predecessore di Enrico. Così almeno farebbe pensare il fatto che nel documento si indichi, oltre al

22 AVBg, Rotulum, c. 84r.

23 Val di Larna è l'antico nome della Val Borlezza. 24 AVBg, Rotulum, c. 93r.

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nome del padre dei quattro, come usava di solito, anche quello del nonno e del bisnonno, come se ci fosse il bisogno di individuare con precisione la linea di discendenza maschile nella quale i fratelli si inserivano. Questi uomini di Castione rientrano con tutta evidenza nella categoria dei vassalli condizionali. Essi infatti, e i loro avi, detenevano il feudo in cambio di un servizio, che è indicato con l'espressione per venaria, che potremmo tradurre, grosso modo, con «per il servizio della caccia». Nello stesso documento, infatti, si specifica che essi avevano prestato il giuramento di fedeltà al vescovo, come tutti coloro che erano soggetti alla signoria vescovile, ma con una formula particolare, un po' diversa da quella pronunciata dagli altri, riservata a coloro che, in Val Borlezza, oltre ad essere districtabiles erano anche venatores. «Per il servizio della caccia» è del resto la traduzione che si può dare all'espressione «officium cazarie vel venadriam» che abbiamo trovato nel documento del 1147 riguardante Baroncello di Cerete e il figlio Ottone.

A questo punto conviene ricordarci di quanto abbiamo visto riguardo alla lite tra i vicini di Ardesio e il vescovo nel 1145. Il signore teneva a tal punto alle sue battute di caccia da pretendere che fossero esplicitamente tutelate dalla sentenza dei consoli di Bergamo, ancora prima dei suoi diritti sui pascoli di alta montagna, che pure erano molto più redditizi. Il fatto è che la caccia, intorno alla metà del XII secolo, era ben altro che un mezzo per procurarsi del cibo. Essa era ormai divenuta

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il passatempo aristocratico per eccellenza . Il signore andava a caccia accompagnato da uno stuolo di uomini a cavallo, ai quali si aggiungevano anche un buon numero di uomini a piedi, battitori e facchini. In questo senso, la caccia era una scoperta metafora del combattimento militare, al quale prendevano parte, al fianco del signore, i milites, i cavalieri, e i più umili pedites, oggi diremmo i fanti. Bisogna ricordare infatti che i nobili del Medioevo costruivano la propria identità sociale e culturale sull'appartenenza alla militia, al ceto cavalleresco, il loro immaginario e il loro linguaggio erano incentrati sulla guerra, e più precisamente sul combattimento a cavallo. Il signore non poteva andare a caccia da solo, o accompagnato soltanto da qualche servo: anche in occasione di questo gioco alla guerra che era la caccia egli doveva essere attorniato da un seguito di cavalieri,

25 Sulla caccia nel Medioevo si veda H. ZUG-TUCCI, La caccia da bene comune a

privilegio, in Economia naturale, economia monetaria, a c. di R. ROMANO e U. TUCCI

(Storia d'Italia Einaudi. Annali, 6), Torino 1983, pp. 399-445; P. GALLONI, Storia e

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oltre che da un congruo numero di uomini a piedi. Notiamo, tra l'altro, che il fatto che il signore fosse un vescovo non faceva una grande differenza. I vescovi provenivano in genere da famiglie della nobiltà, ed erano intrisi anch'essi di cultura cavalleresca.

È probabile dunque che questo fosse il servizio che Baroncello di Cerete e suo figlio e gli antenati di Andrea di Castione dovevano svolgere: cacciare nella riserva signorile per rifornire la mensa del vescovo, e, quando questi l'avesse richiesto, accompagnarlo nelle battute di caccia, verosimilmente a cavallo. Il feudo di Andrea e dei suoi fratelli, infatti, sembra di estensione e qualità notevoli. Esso è costituito da una casa nel villaggio di Castione, circondata da un sedimen, cioè da un podere composto da campi e probabilmente da altre strutture per il lavoro agricolo. Si aggiungevano poi altri nove appezzamenti di terra, sparsi per il territorio di Castione ad altitudini diverse, in modo da permettere un utilizzo ottimale delle risorse legate all'agricoltura di montagna, che si fondava appunto sullo sfruttamento delle potenzialità produttive dei terreni posti a quote differenti. Un feudo di questo tipo consentiva una certa agiatezza, compatibile con un tipo di servizio, quello appunto legato alla caccia, che era senz'altro prestigioso e costituiva un elemento di distinzione sociale per chi lo prestava. La dotazione fondiaria era anzi probabilmente sufficiente per permettersi un cavallo per accompagnare il signore nell'attività venatoria. Bisogna dire, infatti, che il mantenimento di un cavallo era molto oneroso, non era affatto alla portata di tutti, tanto da diventare un fattore capace di determinare le gerarchie sociali. È proprio per questo che il cavallo, specie se di razza pregiata e adatto al combattimento, era un vero e proprio status symbol, più di una costosa macchina sportiva oggi. Ed è per questo che l'idea di nobiltà era nel Medioevo strettamente connessa al combattimento a cavallo.

Ovviamente questo non significa che Andrea di Castione, o Baroncello di Cerete e suo figlio, fossero nobili. Per le battute di caccia era sufficiente un ronzino, non serviva un cavallo da combattimento. Il vescovo, inoltre, poteva privarli del loro feudo in qualsiasi momento, qualora non avesse più avuto bisogno del loro servizio, o non li reputasse più adatti a svolgerlo. Deve essere successo proprio questo a Baroncello e al figlio Ottone: nel 1147 i due, per qualche motivo, furono costretti a restituire le terre. La posizione sociale di questi vassalli condizionali, che li collocava un po' al di sopra della massa dei rustici, era strettamente legata alla benevolenza del signore, cosa che non era altrettanto vera per i vassalli nobili, i quali, oltre a possedere spesso

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una buona base allodiale, cioè di terre in piena proprietà, non potevano essere privati dei loro feudi se non in casi particolari, rigidamente definiti dal diritto feudale. I feudi dei vassalli condizionali, a differenza dei feudi «onorevoli» dei vassalli nobili, in linea di principio non erano ereditari. Nella pratica, però, lo erano praticamente sempre: come si è detto, era stato probabilmente un antenato di Andrea e dei suoi fratelli, il nonno o il bisnonno, a ricevere il feudo per venaria, tanto più che negli anni '40 del Duecento questo uso era ormai tramontato.

Per inciso, è interessante notare che il nonno di Andrea da Castione è quasi certamente da identificare con il Romano console di Castione che rappresentava il Comune quando, nel 1219, i vicini incorsero nelle ire del vescovo Giovanni Tornielli per aver redatto uno statuto non rispettoso delle prerogative del signore e per aver osato eleggersi un

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podestà senza il suo permesso . In queste zone, l'ambiente dei vassalli vescovili coincideva con lo strato superiore della società locale, dal quale gli abitanti dei villaggi sceglievano i propri consoli e gli altri ufficiali comunali. La posizione di questi uomini poteva farsi in certi momenti piuttosto ambigua. Proprio grazie al servizio prestato al vescovo essi maturavano quell'autorevolezza e quella credibilità che li rendeva adatti a guidare i loro vicini anche quando tentavano di conquistarsi margini di autonomia più ampi rispetto allo stesso potere vescovile.

Con le idee un po' più chiare, possiamo allora tornare ad Acerbo da Fino. Nonostante la scarsa precisione del notaio che curò la redazione del Rotulum, mi pare plausibile che la «terra venattia» tenuta in feudo da Acerbo non fosse altro che un feudo «per venariam» come quello dei fratelli di Castione. Infatti il feudo dei da Fino pare avere caratteristiche simili a quelle della tenuta descritta da Andrea, essendo costituito, pare di capire, da nove appezzamenti posti in località diverse all'interno del territorio di Onore («terra venattia che giace nel territorio di Onore in nove luoghi»), probabilmente sempre seguendo la logica della differenziazione delle altitudini. È detto esplicitamente che erano stati gli antenati di Acerbo ad aver ricevuto queste terre in feudo. Il documento del 1211, in effetti, si presenta come un riscatto. Acerbo cioè scambiò il servizio dovuto per il feudo con il pagamento di un censo annuale, pari a 10 soldi e un formaggio.

L'attività degli avi di Acerbo ci riporta dunque allo stesso ambiente che avevamo intravisto con Martino e Teutaldo Lazaronis. È il mondo

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della signoria vescovile, nella quale alcune famiglie contadine riuscivano a distinguersi dalle altre grazie al servizio prestato direttamente al signore, grazie cioè alla vicinanza fisica al potere e alla relazione personale con chi quel potere lo incarnava.

4. Chi erano, insomma, gli antenati del gruppo familiare che, dal Duecento, sarà noto come «da Fino»? Come abbiamo visto, le notizie sono scarse e frammentarie, eppure un quadro, anche se piuttosto impressionistico, è possibile tracciarlo. Gli avi dei da Fino erano probabilmente contadini come tutti gli altri, che coltivavano le terre del vescovo nella Val Seriana superiore. Tuttavia, essi avevano trovato uno strumento di promozione sociale nel servizio prestato al vescovo signore. È possibile anche che si trattasse, almeno per alcuni di loro, di un servizio di particolare responsabilità e prestigio, come sembra suggerire il dovere/privilegio di cui godevano gli antenati di Acerbo da Fino, di accompagnare il vescovo nelle sue battute di caccia. Gli avi dei da Fino erano vassalli condizionali, o se preferiamo vassalli contadini, come per la verità ce n'erano tanti nei villaggi soggetti alla signoria del vescovo. Questa condizione li innalzava comunque in qualche modo al di sopra della massa dei rustici, perché le terre concesse in feudo in cambio dei servizi erano sempre più estese e meglio distribuite rispetto alle normali tenute contadine, e perché la vicinanza al signore li metteva in particolare luce. Abbiamo visto il caso di Romano da Castione, il nonno di Andrea e dei suoi fratelli, che era stato insieme vassallo del vescovo e console del Comune di Castione. In considerazione di ciò, non è impossibile che tra gli avi di Acerbo, che appartenevano allo stesso vivace mondo della piccola feudalità vescovile, ci fosse quel Teutaldo de casa Lazaronis che aveva guidato il Comune di Fino nei suoi rapporti con il signore.

Gli antenati dei da Fino appartenevano insomma all'élite della società rurale. Sembra inoltre che essi avessero terra in concessione dal vescovato in diversi villaggi della zona. Sappiamo, ovviamente, che essi erano particolarmente presenti a Fino, ma troviamo un riferimento a terra dei figli di Tancredi da Fino a Rovetta, e gli appezzamenti tenuti in feudo dagli antenati di Acerbo si trovavano nel territorio di Onore.

Al tempo di Acerbo da Fino, tuttavia, nei primi decenni del Duecento, il mondo che abbiamo descritto, quello dei vassalli rustici e dei feudi condizionali, era già al tramonto. Con l'atto del 1211 Acerbo riscattò il servizio che i suoi antenati erano tenuti a svolgere per conto del vescovo. Egli, cioè, non avrebbe più cacciato per il signore, né lo

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avrebbe affiancato nelle sue battute di caccia. Poteva tenersi le terre che i suoi avi avevano avuto in feudo, pagando un canone annuo piuttosto modesto, anche se non insignificante, pari a 10 soldi, cioè mezza lira. In sostanza, il feudo condizionale era trasformato in un semplice affitto, anche se si manteneva tanto la terminologia quanto la ritualità feudale, e Acerbo aveva dovuto comunque prestare il giuramento di fedeltà al vescovo. Tale giuramento, del resto, non aveva più quel significato speciale che aveva avuto nel XII secolo, quando poneva chi lo pronunciava un po' al di sopra della massa dei rustici. Ora il vescovo pretendeva il giuramento di fedeltà da tutti gli abitanti dei villaggi sottoposti alla sua giurisdizione: ne abbiamo una testimonianza anche nel Rotulum, che ci informa che nel 1228 tutti gli uomini dei Comuni della Val Borlezza e della Conca della Presolana

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prestarono giuramento al signore . Giuramenti di fedeltà erano sempre più spesso richiesti anche ai contadini che semplicemente avevano in affitto terra di proprietà del vescovato.

Gli storici si sono interrogati sul significato di questa

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generalizzazione delle relazioni feudali . Ne hanno concluso che, probabilmente, essa era una risposta al doppio attacco al quale erano sottoposti i poteri signorili, da parte dei Comuni rurali, che rivendicavano spazi di autonomia sempre più ampi, da un lato, e da parte della città, che pretendeva di estendere il proprio controllo su tutto il territorio che considerava il proprio contado, dall'altro. Vincolare gli uomini e le comunità con un impegno di fedeltà, che creava un legame personale diretto di ogni singolo individuo con il signore, era per il vescovo un modo per tenerli stretti a sé. Per i contadini, del resto, questa relazione personale significava pur sempre protezione e rifugio, proprio mentre, nel XIII secolo, una potente crescita demografica, la penetrazione sempre più profonda del denaro e del mercato, l'invadenza della città, delle sue istituzioni, dei suoi imprenditori travolgevano il vecchio mondo e ne mettevano a repentaglio gli equilibri sociali.

Fatto sta che, quando tutti erano vassalli del vescovo, essere vassalli del vescovo non significava più molto. Il servizio prestato al signore non era più un segno e un vettore di distinzione sociale. Tanto più che, in fondo, il vescovo non ne aveva più bisogno. I tempi stavano cambiando, la città si gonfiava di uomini, il mercato cittadino

27 AVBg, Rotulum, c. 86r.

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acquistava a buon prezzo i cereali e gli altri prodotti che l'episcopato ricavava dalle sue proprietà, l'uso del denaro era ormai generalizzato, mentre, a causa della vivace crescita demografica, la terra cominciava a scarseggiare: il vescovo preferiva ormai pagare le persone al suo servizio con un semplice salario, piuttosto che con una concessione fondiaria. Così furono molti quelli che, come Acerbo da Fino, pur tenendosi le terre in feudo, scambiarono il servizio dovuto con un canone in denaro. Man mano che procedeva il XIII secolo, i vassalli condizionali andarono scomparendo. Per la nostra zona, gran parte di quelli che rimanevano furono liquidati nel 1241. Nell'agosto di quell'anno il vescovo Enrico da Sesso permise a numerosi vassalli, maniscalchi, cuochi, cacciatori, uomini addetti al trasporto del

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legname, mugnai, di riscattare i loro feudi condizionali . Molti di questi vassalli, è da credere, non svolgevano più da tempo il loro servizio: un gruppo familiare che deteneva un esteso feudo a Cerete per l'«officium»

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di maniscalco risiedeva in realtà, chissà da quanto, a Cremona . Tra questi atti, datati tutti all'agosto del 1241, rientra anche quello relativo ad Andrea di Castione e ai suoi fratelli. Anche se il documento non lo specifica, è probabile che l'ordine, che essi ricevettero dal vescovo, di «manifestare il loro feudo», cioè di indicare le terre che tenevano dall'episcopato, preludesse al riscatto, per un censo annuo in denaro, del servizio di caccia da loro dovuto.

5. Quello che ci interessa notare, per la nostra storia, è che man mano che ci si avvicinava alla metà del Duecento il fatto di essere vassalli del vescovo non bastava più, di per sé, per dirsi e sentirsi parte delle élites di villaggio, dei livelli più alti della società rurale. È probabile che molti vassalli condizionali perdessero quel po' di prestigio che era stato garantito loro da questo ruolo, e fossero semplicemente ricacciati nella massa dei rustici. I tempi nuovi richiedevano strategie nuove, producevano élites nuove e nuove gerarchie sociali. Qualche discendente degli antichi vassalli condizionali riuscì comunque ad adattarsi al cambiamento e a mantenere, o addirittura a rafforzare, la posizione raggiunta. Fu precisamente il caso dei da Fino. Possiamo dire, anzi, che la vera epoca d'oro dei da Fino cominciò proprio quando tramontò il mondo dei vassalli condizionali, nel quale pure essi avevano avuto una parte non disprezzabile. In effetti, anche se è possibile

29 AVBg, Rotulum, cc. 92r, 94v, 96r. 30 Ibidem, c. 96r.

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tracciare la genealogia della casata almeno dagli ultimi decenni del XII secolo, nell'ipotesi più cauta, per molti versi il vero fondatore delle fortune familiari fu il notaio Ardengo, attivo nei primi anni del Duecento, padre del notaio Raimondo, del quale parleremo diffusamente nel prossimo capitolo. Ardengo fu il primo da Fino a svolgere la professione notarile, che rimarrà nei secoli successivi uno degli strumenti dell'eminenza della parentela. Fu anche il primo per il quale «da Fino» aveva ormai perso qualsiasi significato di indicazione di provenienza per assumere il valore di un vero e proprio cognome. Ma, soprattutto, Ardengo fu senz'altro il nome più utilizzato dai da Fino nel corso del Trecento, e ancora alla fine del Quattrocento questa scelta onomastica, come anche il nome Raimondo, segnalava immediatamente l'appartenenza alla parentela. Questo fa pensare che molte generazioni di da Fino guardarono proprio ad Ardengo, e al figlio Raimondo, come ai veri capostipiti della longeva schiatta insediata in questo angolo del territorio bergamasco.

Acerbo da Fino stava, per così dire, in equilibrio tra il vecchio e il nuovo mondo. Lo stesso giorno in cui riscattò il servizio di caccia dovuto dai suoi antenati, egli concluse un altro accordo con il vescovo Lanfranco. Quest'ultimo gli concesse in locazione perpetua tutte le decime che spettavano all'episcopato nei territori di Fino, Rovetta, Onore e Songavazzo, per 20 soldi all'anno, il doppio di quanto dovuto dal

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da Fino per le terre che teneva in feudo ad Onore . Questo tipo di contratto annuncia i tempi nuovi che si aprivano all'inizio del Duecento. In precedenza, le decime erano state trattate più o meno alla stregua delle terre. Esse erano cioè state concesse in feudo alle grandi famiglie di vassalli nobili del vescovo, come i da Solto, che ne disponevano senza rendere conto a nessuno. Oppure, in molte occasioni, anche i vassalli condizionali avevano ricevuto in feudo le decime sui loro appezzamenti, o su quelli di altri coltivatori. La forma tipica delle gestione delle decime nel Duecento fu, invece, l'affitto, o, se vogliamo esprimerci con un termine che sarà utilizzato solo più tardi, l'appalto a un imprenditore locale o cittadino. L'affittuario, cioè, pagava al vescovo una certa somma, in anticipo o a rate, e poteva intascare tutte le decime che riusciva a riscuotere. Questa tipologia di contratti si fondava su due presupposti: il bisogno di denaro del vescovo, che doveva far fronte alla fiscalità cittadina, sempre più pesante, e alla necessità, come abbiamo detto, di pagare salariati e professionisti che avevano ormai sostituito i

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vassalli condizionali; l'esistenza di un gruppo piuttosto ampio di imprenditori, sia locali che di provenienza cittadina, che disponevano di denaro da investire, erano alla ricerca di buoni affari e avevano la capacità organizzativa per gestire la riscossione.

Alcuni elementi, tuttavia, fanno dell'accordo stipulato da Acerbo con il vescovo una specie di ibrido, che certo prefigura le nuove forme contrattuali, ma rimaneva in qualche modo legato al vecchio mondo. Innanzitutto, la locazione era perpetua, durava cioè per tutta la vita dell'affittuario, mentre nel pieno Duecento gli appalti delle decime avevano sempre la durata di pochi anni, cinque, sette, al massimo dieci: questo consentiva al vescovo di ricontrattare le condizioni a ogni nuova investitura, per adeguarle all'inflazione, alle mutate circostanze politiche ed economiche, alla disponibilità dell'imprenditore. Il canone annuo fissato, inoltre, pari a 20 soldi, cioè a 1 lira, sembra stranamente basso per l'affitto delle decime di un'area così ampia, comprendente Fino, Rovetta, Onore, Songavazzo, Tede e Campello. A titolo puramente indicativo, possiamo dire che nel 1250 Raimondo da Fino e il canonico Enrico furono investiti per 4 anni della decima spettante al capitolo di

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Bergamo nelle località di Gavazzo e Cerete per 12 lire all'anno . Certo erano passati molti anni dal 1211. Ma già nel 1229 Zanino del fu Giovanni di Gavazzo, che abitava a Rovetta, ricevette in locazione per tre anni dai canonici la riscossione della decima che competeva al

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capitolo nella sola località di Gavazzo per 10 lire all'anno .

È possibile che il vescovo facesse ad Acerbo un prezzo di favore. Il contratto del 1211, che fu stipulato lo stesso giorno della reinvestitura del da Fino del feudo tenuto dai suoi antenati, era ancora impregnato dell'atmosfera e del linguaggio feudali, era pur sempre concluso tra un vassallo, discendente di vassalli, e il suo signore, e quindi non è forse del tutto corretto cercarvi una logica puramente economica. Una logica puramente economica, al contrario, pare ispirare le locazioni del 1229 e del 1250. Ma, probabilmente, la vera spiegazione del prezzo molto basso della concessione del 1211 è un'altra. Il documento che stiamo analizzando, nell'indicare l'oggetto della locazione, specifica che si tratta delle decime «che ha l'episcopato» a Fino, Rovetta, Onore, Songavazzo, Tede e Campello, «che ora sono date in pace (que nunc

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dantur in pace)» . Ovvero, se preferiamo una traduzione meno

32 ACBg, Pergamene, n. 1539; cfr. cap. 2. 33 Ibidem, n. 1535.

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letterale, «le decime che in questo momento l'episcopato riscuote senza contestazioni».

La verità, infatti, è che il vescovo riusciva a mettere le mani su una quota minoritaria delle decime che in teoria gli sarebbero spettate nel territorio, e per i motivi che abbiamo già indicato, cioè perché esse erano state concesse in feudo a vassalli nobili e rustici, che ne disponevano liberamente. Questa situazione provocava conflitti e controversie, che spiegano quell'oscuro «che ora sono date in pace». Insomma, è probabile che le decime acquisite da Acerbo nel 1211 non fossero poi gran cosa, ed ecco giustificato il prezzo modesto della locazione. Solo quattro anni più tardi, del resto, nel 1216, il vescovo Giovanni Tornielli acquistò da Mazzucchello da Lovere, insieme a molti altri diritti di varia natura che quello esercitava in Val Borlezza, forse in conseguenza di qualche vecchia concessione feudale dell'episcopato ai suoi antenati, anche «la decima che il detto Mazzucchello aveva o teneva oltre il torrente Gera

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verso Fino» . È chiaro che Acerbo, ammesso che nel 1216 fosse ancora vivo, non poteva rivendicare alcun diritto su queste decime, perché non rientravano tra quelle che alla data del 1211 spettavano senza contestazioni dall'episcopato. Nel 1225, infine, il vescovo concluse una permuta con la chiesa di San Giorgio di Ardesio, cedendo questi stessi diritti di decima che aveva acquistato da Mazzucchello, in primo luogo la decima di Fino, in cambio delle decime che la chiesa di San Giorgio

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riscuoteva sulle argentiere e le miniere di rame di Ardesio .

Anche in questo senso, possiamo dire che Acerbo si trovava proprio in un punto di passaggio tra il vecchio e il nuovo. La locazione della riscossione delle decime era una forma contrattuale nuova. Ma la situazione sulla quale si inseriva, caratterizzata dalla complicata sovrapposizione di poteri signorili in concorrenza, dall'intreccio inestricabile di diritti in competizione, quella era tipica del vecchio mondo del XII secolo. Già negli ultimi decenni di quel secolo i vescovi di Bergamo cominciarono una faticosa e non sempre coerente campagna di recupero di terre, diritti, poteri che erano finiti nelle mani di potenti famiglie di vassalli. Quest'opera conobbe una forte accelerazione nei primi decenni del Duecento. Verso la metà del XIII secolo il vescovo era ormai l'unico signore dell'Altopiano di Clusone, della Val Borlezza e della Conca della Presolana. Peccato che ormai il suo potere fosse sempre più duramente contestato dalle comunità rurali e dal Comune

35 AVBg, Rotulum c. 101r. 36 Ardesio, pp. 32-34.

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cittadino, e quella signoria così perfetta e compatta non sarebbe sopravvissuta, tra mille difficoltà, che qualche decennio. Fu questa l'epoca del notaio Raimondo da Fino, che sarà protagonista del prossimo capitolo.

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