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Studio di alcuni parametri clinici come possibili indicatori di effetto per una popolazione di lavoratori della sanita esposti a stress lavoro-correlato

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI MEDICINA CLINICA E SPERIMENTALE

DIPARTIMENTO DI PATOLOGIA CHIRURGICA,MEDICA,MOLECOLARE E DELL’AREA CRITICA DIPARTIMENTO DI RICERCA TRASLAZIONALE E DELLE NUOVE TECNOLOGIE IN MEDICINA E

CHIRURGIA

Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Clinica e della Salute

STUDIO DI ALCUNI PARAMETRI CLINICI COME

INDICATORI DI EFFETTO PER UNA POPOLAZIONE

DI LAVORATORI DELLA SANITÀ ESPOSTI A STRESS

LAVORO-CORRELATO.

RELATORE

Chiar.mo Prof. Ciro Basile Fasolo

CONTRORELATORE

Chiar.mo Prof. Alfonso Cristaudo

CANDIDATO

Sergio Maio

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INDICE

INTRODUZIONE ... 4

CAPITOLO 1: STRESS ... 10

1.1 Evoluzione del concetto di stress... 10

1.2 Hanse Selye, l’attuale concezione di stress... 12

1.3 Stress e fisiologia ... 18

1.4 Aspetti psicologici dello stress ... 21

CAPITOLO 2: STRESS LAVORO CORRELATO... 24

2.1 Cenni storici: ... 26

2.2 Il Concetto di rischio da stress lavoro correlato ... 27

2.3 Approcci e modelli sullo stress lavorativo... 29

2.4 Risorse personali positive ... 37

2.5 Differenze individuali ... 39

2.6 Stress Strain, Burnout e Mobbing ... 40

CAPITOLO 3: STRESS E DISTURBI CARDIOVASCOLARI ... 46

3.1 Fattori di rischio per malattia cardiovascolare ... 47

3.3 La risposta cardiovascolare allo stress ... 48

3.5 Lo studio di Framinghan ... 50

CAPITOLO 4: METODOLOGIA DELLA RICERCA ... 54

4.1Ipotesi di ricerca ... 54

4.2 Disegno di ricerca ... 54

4. 3 Descrizione dei partecipanti ... 56

4.4 Strumenti ... 65

4.5 Analisi dei dati ... 73

CAPITOLO 5: RISULTATI ... 74

5.1 Caratteristiche dello stress lavoro-correlato ... 74

5.2 Parametri clinici del campione ... 79

5.3 Fasce a rischio ... 88

5.4 Tabelle di contingenza ... 102

CAPITOLO 6: DISCUSSIONE E CONCLUSIONI ... 106

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RIASSUNTO

Il presente lavoro è il risultato dell’esperienza maturata dal gruppo di lavoro multidisciplinare di valutazione del rischio stress lavoro-correlato della U.O. Medicina Preventiva del Lavoro dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana.

In particolare, l’obiettivo dell’elaborato è stato quello di individuare una metodologia di lavoro idonea alla gestione di uno dei rischi lavorativi, definiti come emergenti e a carattere complesso, per una migliore pianificazione della sorveglianza sanitaria. Nel rispetto delle norme vigenti in materia, si è provveduto a raccogliere un insieme di dati clinici e demografici oggettivi, secondo un disegno longitudinale, effettuando, successivamente, un’analisi comparativa rispetto ai questionari di inquadramento delle percezioni soggettive dei lavoratori rispetto ai livelli di stress.

La combinazione di questi approcci prevede la collaborazione di uno psicologo all’interno del team di medicina del lavoro, con lo scopo di migliorare l’accuratezza della valutazione e l’appropriatezza nella gestione del rischio stress, trattandosi, per definizione, di un fenomeno che investe l’individuo sia a livello fisico che psicosociale. La gestione dello stress lavoro correlato così definita, permette di individuare aree di intervento preventivo essenziali alla riduzione dell’incidenza di patologie ad eziologia professionale; l’indagine ha visto coinvolti più di 400 operatori dell’area medico-sanitaria attualmente considerata fra le più colpite dall’incidenza di tali patologie.

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PAROLE CHIAVE:

Stress, Stress Lavoro-Correlato, Patologie cardiovascolari, Job Content Questionnaire, parametri clinici.

INTRODUZIONE

Le moderne tecnologie, l’industrializzazione e i notevoli cambiamenti organizzativi, hanno determinato, a livello lavorativo, la riduzione di alcune malattie fisiche ma il prospettarsi di nuove patologie stress-correlate che trovano nei lavori d’ufficio e in concetti di efficienza, talvolta male applicati, terreno di cultura fertile per il proliferare di condizioni di disagio lavorativo (Cesana et al., 2006).

Negli ultimi decenni in tutti i settori lavorativi si è verificata una crescente

convinzione che l’esperienza dello stress sul lavoro ha delle conseguenze indesiderate per la salute e la sicurezza degli individui, nonché per la salute delle organizzazioni (ISPESL, 2002).

La definizione di stress è nata nel mondo della fisica dei materiali e dell’ingegneria delle costruzioni, per intendere la tensione o lo sforzo a cui viene sottoposto un materiale rigido in condizioni di sollecitazione. Da questo mondo si prende anche in prestito la parola “strain” che consiste nella riformazione geometrica di un materiale, determinata dall’applicazione di una forza, e utilizzata nel mondo della psicologia come una conseguenza negativa dello stress (Pozzi, 2008).

L’Accordo Quadro Europeo dell’8Ottobre 2004 recepito in Italia dall’ Accordo Interconfederale del 09 giugno 2008, pone l’attenzione sullo stress come possibile fattore di rischio sui luoghi di lavoro, così ne precisa la definizione e rimarca la necessità di un percorso specifico di valutazione/gestione del rischio stress lavoro correlato pienamente integrato nel generale processo di valutazione dei rischi.

Lo stress lavoro-correlato, secondo l’art. 2 dell’Accordo Quadro Europeo del 2008, “è una condizione che può essere accompagnata da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale ed è conseguenza del fatto che taluni individui non si sentono in grado di corrispondere alle richieste o alle aspettative riposte in loro. L’individuo è in grado di sostenere un’esposizione di breve durata della tensione, che può essere

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considerata positiva, ma ha maggiori difficoltà a sostenere un’esposizione prolungata a una pressione intensa. […] Lo stress lavoro-correlato può essere causato da fattori come il contenuto del lavoro, l’eventuale inadeguatezza della gestione

dell’organizzazione, carenza nella comunicazione, inappropriati luoghi di lavoro, difficoltà nella gestione degli orari”. Esso può potenzialmente colpire in qualunque luogo di lavoro e qualunque lavoratore a prescindere dalle dimensioni dell’azienda, dal campo di attività, dal tipo di contratto o di rapporto di lavoro. Sempre nell’ Accordo Quadro Europeo del 2008 l’alto tasso di assenteismo, l’elevata rotazione del personale, frequenti conflitti interpersonali e le lamentele da parte dei lavoratori sono alcuni dei segnali che possono denotare la presenza di un problema stress lavoro-correlato e impone l’intervento immediato per ridurlo o eliminarlo; obbligatoria è la prevenzione in tutti gli ambienti lavorativi.

Altre attenzioni normative allo stress lavoro correlato si trovano nel D.lgs. 81/08, “Testo Unico Salute e Sicurezza sul Lavoro”, il quale nell’art. 28 precisa la necessità della valutazione di “tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori ivi

compresi quelli riguardanti i gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’Accordo Europeo dell’08/10/2004”

La valutazione del rischio da stress da lavoro-correlato, o stress psicosociale, non è una novità nell’ordinamento in quanto di essa già si trovava traccia evidente nell’art. 8 D.lgs. 626/94, e successivamente riviste nel D.lgs. 195/2003, in materia di formazione del Responsabile del Servizio Protezione e Prevenzione, laddove si prevedeva, per l’ottenimento della qualifica, l’acquisizione anche di conoscenze in materia di stress psicosociale. Ancor prima, il rischio stress da lavoro poteva e doveva costituire oggetto di idonea valutazione a seguito del D.lgs. 626/94 che obbligava il datore di lavoro a valutare “tutti i rischi sul lavoro” e ancor prima in forza dell’art. 2087 del Codice Civile che ha come oggetto “la Tutela delle condizioni di lavoro” recita che “L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare

l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. In giurisprudenza ben noti sono i casi di malattia professionale di stress lavorativo, di fenomeni di mobbing, straining e burnout e in genere di stress emotivo o psicologico, quale concausa di infortuni sul lavoro e di malattie professionali. Con il Testo Unico si prende coscienza

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dello stress come rischio lavorativo e della necessità di considerarlo un autonomo elemento di valutazione ai fini della sicurezza sul lavoro, visto che le conseguenze non sono di poco conto. Dal 2008 in avanti, infatti, il documento di valutazione dei rischi considera anche le fonti di rischio da stress lavoro-correlato rinvenibili nella organizzazione del lavoro al pari dei rischi per l’introduzione di modifiche ai cicli di lavoro, nuovi macchinari, collaborazioni con imprese esterne e così via. Dunque al verificarsi di un evento quale infortunio o malattia professionale riconducibile a stress, in sede di procedimento giudiziario, si procederà anche a verificare

l’adeguatezza della valutazione del rischio di stress compiuta dal datore di lavoro nel documento di valutazione dei rischi (ex art.17 TU), e, laddove, si accerterà che tale valutazione non sia stata accurata e sufficiente, il datore di lavoro potrà essere condannato del reato di aver omesso di eseguire la valutazione dei rischi, così come previsto dal D.lgs. 81/2008. L’inadeguata o insufficiente valutazione del rischio è equiparabile alla omessa valutazione.

La valutazione dello stress come rischio sui luoghi di lavoro

Le principali figure coinvolte nella valutazione dello stress come rischio sui luoghi di lavoro sono: il datore di lavoro, il responsabile del servizio di prevenzione e

protezione, il medico competente e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Il datore di lavoro è il soggetto responsabile del rapporto di lavoro con il lavoratore e dell’assetto organizzativo in cui esso opera, inoltre esercita i poteri decisionali e di spesa. È, dunque, responsabile di tutti gli aspetti legati all’unità operativa e alla gestione generale dell’impresa.

Il datore di lavoro ha l’obbligo di valutare tutti i rischi e di esplicitarli nel Documento di Valutazione dei Rischi (DVR). Un altro obbligo è quello di designare il

Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) anche se, talvolta, può assumere personalmente questo ruolo.

Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP) è una persona

designata dal datore di lavoro che possiede capacità e requisiti professionali specifici e necessari per la valutazione e la prevenzione dei rischi sul posto di lavoro. Esso si occupa anche di coordinare il Servizio di Prevenzione e Protezione dai rischi.

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Il servizio di prevenzione e protezione dai rischi (SPP) è composto da persone dotate di specifiche capacità e requisiti professionali, e da sistemi e mezzi esterni o interni all'organizzazione necessari per l'attività di prevenzione e protezione dai rischi professionali per i lavoratori. I principali compiti di cui si occupa sono:

• l'individuazione dei fattori di rischio,

• la valutazione dei rischi e l'individuazione delle misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro,

• l’elaborazione di misure preventive e protettive e di sistemi di controllo di tali misure,

• la predisposizione di programmi di informazione e formazione dei lavoratori, • la partecipazione alle consultazioni in materia di tutela della salute e sicurezza

sul lavoro,

• organizzazione di riunioni periodiche per una attiva e informata partecipazione dei lavoratori.

La legge disciplina che l’SPP deve obbligatoriamente essere interno all’azienda o all’unità produttiva, tuttavia, quando il personale interno non ha requisiti adeguati rispetto alla natura dei rischi, è obbligo del datore di lavoro di avvalersi di persone o servizi esterni all’azienda.

Il medico competente (MC) è un medico in possesso dei requisiti elencati all’art. 38 del D.lgs. 81/08 che collabora con il datore di lavoro nella valutazione dei rischi ed è nominato dallo stesso per effettuare la sorveglianza sanitaria e per gli altri compiti che riguardano la salute e la sicurezza (espresse nel dettaglio nell’art 39-42 del D.lgs. 81/08). La nomina del medico competente è obbligatoria solo quando i rischi presenti in azienda o nell’unità produttiva e legati alle mansioni svolte rendono necessaria la sorveglianza sanitaria sui lavoratori. Non è una figura presente in tutte le aziende. Il medico competente è fondamentale per la sorveglianza sanitaria, ossia la visita medica corredata dei necessari accertamenti strumentali e specialistici, che costituisce il momento principale per la valutazione dell'idoneità alla mansione specifica dei lavoratori esposti a rischi professionali. Nasce per la tutela del lavoratore e deve essere fatta solo nei casi in cui è prevista dalla legge e dal Piano Sanitario contenuto nel Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) della sede di lavoro. Il Medico

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Competente effettua le visite tese al rilascio del giudizio di idoneità alla mansione specifica che esponga a rischio (es. movimentazione manuale dei carichi).

Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) è la persona incaricata a

rappresentare i lavoratori per quanto concerne gli aspetti della salute e della sicurezza durante il lavoro. Egli può accedere ai luoghi di lavoro ed è consultato

preventivamente per ciò che riguarda la valutazione dei rischi, l’individuazione, programmazione, realizzazione e verifica della prevenzione, la designazione del RSPP e del medico competente, l’attività di prevenzione incendi, di primo soccorso e di evacuazione dei luoghi, e la formazione. Se non viene designato, le sue funzioni sono svolte dal Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale (RLST). Inoltre, in particolari contesti produttivi (es. porti, impianti siderurgici) caratterizzati dalla

compresenza di più aziende o cantieri, sono nominati i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza di sito produttivo.

Tutto il lavoro di valutazione e le eventuali misure preventive dei rischi stress lavoro-correlato, vengono verbalizzate nel Documento di valutazione dei rischi (DVR), ovvero una relazione firmata dal datore di lavoro. Secondo quanto stabilito dall’art. 28 del D.lgs. 81/08, il documento debba essere firmato da tutte le figure coinvolte in questo lavoro ma per i soli fini di certificazione della data; la titolarità e la

responsabilità della valutazione sono di esclusiva competenza del datore di lavoro.

Ruolo e competenze dello psicologo.

Nella valutazione del rischio stress lavoro correlato, pur in presenza di una vasta letteratura di matrice psicologica, il ruolo dello psicologo è un tema non ancora completamente definito, come mostra la più recente letteratura nazionale (Magnavita, 2009; Fraccaroli & Balducci, 2011; Magnani & Majer, 2011). Nelle linee guida per la valutazione dello stress lavoro-correlato a livello normativo, emanate nel D.lgs. 81/2008, non compare esplicitamente la figura dello psicologo ma viene specificato che, nel caso ci fosse necessità, alla valutazione deve collaborare personale “in possesso delle conoscenze professionali necessarie” (art. 31 D.lgs. 81/08) Lo psicologo, tuttavia, può sia entrare a far parte del Servizio Prevenzione e Protezione in qualità di responsabile o addetto, previo corso abilitante secondo le

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norme in materia, sia collaborare come esperto esterno all’azienda e/o al servizio di prevenzione e protezione dai rischi.

Relativamente alle attività, dalla lettura dei testi normativi al momento vigenti, si evince che, trattandosi di valutazioni di aspetti organizzativi, la competenza dello psicologo può applicarsi, su richiesta del datore di lavoro:

1. Nella valutazione del rischio stress lavoro-correlato, in collaborazione con le figure designate alla valutazione stessa (RSPP, addetti SPP, MC, altri);

2. Nella formazione dei valutatori che utilizzino metodologie e strumenti semplici;

3. Alla progettazione e gestione degli interventi correttivi a seguito dei risultati della “valutazione preliminare” obbligatoria.

Maggiormente necessario è l’intervento dello psicologo quando a fronte del monitoraggio degli interventi correttivi, si richiede, in base al metodo utilizzato, la “valutazione approfondita” sulle famiglie di fattori previste dal documento della Commissione consultiva. Infatti, si tratta qui di valutare la percezione soggettiva dei lavoratori attraverso strumenti quali questionari, interviste semi strutturate e Focus Group. Il poter ricondurre questi ultimi a specifiche attività riservate è al momento argomento in via di approfondimento (Fraccaroli & Balducci, 2011). Altra possibilità di collaborazione dello psicologo, questa volta con un preciso richiamo alle competenze specifiche in ambito diagnostico, nasce dalla possibile valutazione dei casi di singoli lavoratori che, nell’ambito della sorveglianza sanitaria, facciano richiesta al Medico competente per il rischio Stress Lavoro-Correlato, ai sensi dell’art.41 del D.lgs. 81/08. È, infatti previsto, ai fini del riconoscimento da parte dell’INAIL, che questi soggetti vengano valutati mediante la somministrazione di test psicodiagnostici quali questionari di personalità, test proiettivi e scale di valutazione dei sintomi psichiatrici.

Lo psicologo è anche la figura più competente per l’organizzazione di attività di formazione e informazione dei lavoratori in materia di Stress Lavoro-Correlato previste dagli art. 36 e 37 del D.lgs. 81/08.

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CAPITOLO 1: STRESS

Nel corso del tempo in concomitanza con l’evolversi della specie umana lo stress è stato sempre radicato nella vita di ciascun individuo dai tempi più remoti fino ai giorni odierni. Certo sono cambiate le modalità le forme e le situazioni in cui può emergere e scaturire; mentre i nostri antenati erano intenti a vivere una situazione stressante perché diventati l’obbiettivo dello spuntino pomeridiano di un leone o perché in preda a carestie e disgrazie, noi “uomini moderni” invece possiamo andare in contro a stress perché è imminente la scadenza del pagamento della bolletta della luce e non abbiamo le finanze necessarie per farlo o perché abbiamo appena litigato con il vicino di casa troppo chiassoso.

Quello che è mutato da un punto di vista ambientale non lo è affatto da un punto di vista dell’individuo. Le nostre risposte stressanti, adattive o patologiche che siano, sono rimaste sempre le stesse e ci hanno permesso di sopravvivere e mandare avanti la specie.

Perché lo stress nella sua forma fisiologica non è altro che un qualcosa di estremamente utile e adattivo, lo stress è vita. Non può e non deve essere evitato, ma lo si può affrontare in modo efficace per trarne vantaggio dalla conoscenza dei suoi meccanismi.

1.1 Evoluzione del concetto di stress

Il termine inglese stress deriva da quello latino “strictus” che significa stretto, compresso. Prima di essere introdotto nel lessico scientifico è stato per molto tempo impiegato nel linguaggio anglosassone variando il suo significato nel corso del tempo. Nel XVII Secolo, in riferimento alla vita delle persone, connotava una condizione di difficoltà, avversità, affiliazione. Successivamente, nei secoli XVIII e XIX indicava forza, pressione, tensione, sforzo, quali condizioni di sollecitazione cui veniva sottoposto un materiale rigido. In questa accezione, la parola iniziò ad essere frequentemente utilizzato nel campo della lavorazione dei materiali e venne cosi ad appartenere per lo più al lessico ingegneristico.

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A tale scopo Hinkie (1973), nel suo elaborato storico del termine “stress”, si è riferito all’esperienza di Robert Hooke, fisico del XVII secolo che si dedicò allo studio di quelle strutture architettoniche, come ad esempio i ponti, progettate in modo tale da poter sopportare enormi carichi e resistere alle forti sollecitazioni dei venti, dei terremoti e di altri fenomeni naturali. Hooke indicò come “load” il peso sulla struttura, con “stress” l’area sulla quale viene esercitata la pressione e con “strain” la deformazione subita dalla struttura determinata dall’insieme tra il “load” e lo “stress”. L’analisi di Hooke, riferita quasi esclusivamente alla fisica dei materiali, successivamente influenzò in maniera determinane l’elaborazione di modelli teorici dello stress nell’ambito della fisiologia, psicologia e delle neuroscienze. A lungo, infatti, è sopravvissuta l’idea che lo stress fosse un carico o una forza esterna su un sistema psicobiologico.

Lazarus (1984) si riferisce a questo fenomeno fisico come una metafora: cosi come tra le proprietà dei metalli può essere annoverata la resistenza alla deformazione, cosi nelle persone può essere individuata la capacità di reagire più o meno adeguatamente agli eventi stressanti. Anche Hinkle (1977) si riferisce al termine “stress” per la definizione di uno stato di tensione o di resistenza che si oppone a forze esterne agenti su oggetti o persone.

L’introduzione della parola nell’ambito scientifico e nello specifico in psicologia e medicina è dovuta a Walter Cannon che identificò nel “livello critico di stress” il massimo livello di stimolazione sopportabile dai meccanismi di compenso fisiologici (1935, 1963).

Canon si occupo inizialmente degli aspetti psiconeurendocrini dello stress e, nello specifico, studiò lo stato di attivazione della midollare del surrene. Egli definì il concetto di “reazione di allarme come modello di risposta tipico caratterizzato da liberazione di adrenalina, aumento della frequenza cardiaca, aumento della frequenza e ampiezza respiratoria, ridistribuzione della circolazione sanguigna volta a migliorare l’irrorazione e quindi l’ossigenazione dei muscoli scheletrici e liberazione in essa di glucosio a partire dalla conversione del glicogeno operata dal fegato.

Sempre Cannon (1914, 1929) sostiene che alcune condizioni come il dolore, la fame, la paura o la rabbia sono da considerare fattori elicitanti uno schema di attivazione fisiologico ed endocrino che procede in modo relativamente uniforme.

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di energia” di Duffy ed una rielaborazione più raffinata del concetto di stress da parte di Selye.

Il contributo di Duffy (1972) consiste principalmente nell’integrazione degli aspetti comportamentali, associati alla ”reazione di allarme”, e nell’avere concepito quindi l’attivazione come uno stato di mobilitazione completa dell’organismo.

Egli osservò infatti che le variazioni di alcune funzioni fisiologiche, come l’elettromiogramma, la respirazione, l’attività elettrodermica, la temperatura cutanea periferica e l’elettroencefalogramma, in risposta a una stimolazione-stimolo, si associavano a risposte comportamentali di avvicinamento o di allontanamento.

L’utilizzo del termine stress si deve al fisiologo canadese di origine austriaca Hans Selye.

1.2 Hanse Selye, l’attuale concezione di stress

Selye che, studente di medicina presso l’Università di Praga, nell’ascoltare le lezioni di clinica medica di Von Jaksch, si accorse che nella descrizione clinica della maggior parte delle malattie venivano tralasciati o tenuti in scarsa considerazione alcuni sintomi aspecifici presenti nella maggior parte delle sindromi morbose, quali febbre e senso di malessere generale, disturbi della cenestesia, perdita dell’appetito dolori muscolari ed articolari, astenia, diminuzione della libido, perdita dell’interesse e della concentrazione. Tali sintomi, proprio perché presenti nella fase iniziale di quasi tutte le malattie, erano probabilmente ritenuti troppo generici ed aspecifici per essere al tempo presi in considerazione. Dieci anni più tardi Selye si era trasferito a lavorare all’università ed ospedale McGill di Montreal ed era coinvolto in un progetto di ricerca sugli ormoni sessuali che prevedeva, tra l’altro, l’iniezione di estratto ovarico e di placenta nei ratti. Mentre lavorava al suo progetto si accorse che gli animali da esperimento presentavano sempre una reazione contraddistinta da ingrossamento della corteccia surrenale, riduzione del volume del timo, della milza e dei gangli linfatici e di tutti gli altri tessuti linfoidi del corpo con presenza di ulcere gastriche e duodenali. Decise allora di cambiare la sostanza e di iniettare, e, probabilmente in modo del tutto casuale scelse la formalina, una sostanza chimica presenti in qualsiasi laboratorio di ricerca comparato in quanto utilizzata per la conservazione dei tessuti, organi o interi

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organismi animali. Ancora una volta ma in maniera ancor più marcata, fu riscontrata, dopo l’iniezione della formalina, la stessa risposta. Selye ebbe perciò il pregio ad attribuire queste alterazioni ad un’attivazione aspecifica dell’asse ipotalamo-ipofisi-cortico surrene (fig.1), suggerendo come nelle fasi iniziali di ogni malattia siano presenti sintomi generali ed aspecifici attivati dal sistema nervoso centrale e vegetativo, con conseguente attivazione della corteccia surrenale e relativa produzione di ormoni e interessamento dei linfonodi e delle mucose gastrica e duodenale. Questo insieme di reazioni fu denominato da Selye: “General Adaptation Syndrome” GAS; (“Sindrome Generale di Adattamento”).

➢ Sindrome perché “le sue manifestazioni individuali sono coordinate e interdipendenti una all’altra”

➢ Generale perché prodotta da agenti che hanno un effetto generalizzato sull’individuo

➢ Di Adattamento perché stimola una reazione di difesa.

Figure 1: - Schema che illustra il funzionamento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene per il rilascio dei glucocorticoidi in risposta ad uno stimolo stressante e dei meccanismi di controllo e rilascio della risposta.

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14 Figura 1- Schema che illustra il funzionamento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene per il rilascio dei glucocorticoidi in risposta ad uno stimolo stressante e dei meccanismi di controllo e rilascio della risposta.

Proseguendo nelle sue ricerche, Selye giunse alla conclusione che in effetti questa reazione o sindrome generale ed aspecifica, poteva essere provocata dalle poi svariate cause e non solo da fenomeni morbosi quali le malattie organiche. Ad esempio, anche il lavoro pesante, la fatica prolungata, l’eccesso di caldo o di freddo potevano indurre nell’organismo sempre la stessa reazione: aumento del volume ed attivazione della corteccia surrenale, diminuzione del timo, ingrossamento o, in alcuni casi, diminuzione del volume dei linfonodi, ulcerazioni gastro-duodenali, oltre che altri sintomi più specifici di qualunque malattia.

Lo stress non è quindi da considerare di per sé una malattia ma una reazione aspecifica dell’organismo nei confronti di qualsiasi agente stressante, definito con il termine “stressor”. (Di Nuovo e coll. 2000).

Già Selye sottolineò che il termine stress descrive una risposta che è di per sé adattiva in quanto potenzialmente in grado di permettere all’organismo, posto di fonte ai problemi, di attivare sia risorse fisiologiche che psicologiche nel tentativo di affrontare la situazione per poi cercare di ristabilire l’equilibrio omeostatico dell’individuo appena ciò risulterà possibile e vantaggioso.

Selye descrisse due modelli distinti e contrastanti di stress, in base agli effetti che questi produceva ad ogni livello sull’organismo e definì con la parola “eustress” l’effetto piacevole, desiderabile ed adattivo dello stress, con la parola “distress” l’effetto disasdattativo, dannoso, spiacevole di questo (Selye 1970, 1974).

Infine suggerì come la reazione di stress potesse essere anche attivata direttamente dagli stimoli emozionali, che, a loro volta, non sono innescati da qualunque stimolo ma solo da quelli che riescono a penetrare una sorta di filtro, ovvero la “valutazione cognitiva” (Pancheri, 1984). Perciò i propri fattori cognitivi i pensieri le sensazioni e le emozioni sono anch’essi fonte di stress. E questo vale soprattutto per l’uomo nel quale ricordi, fantasie, rapporti interpersonali, rappresentano la parte predominante della

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sua attività psichica.

Selye impiegò il termine stress per indicare l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene e sostenne che si trattasse di una reazione aspecifica, uguale di fronte a stimoli diversi, comunque sempre adattiva e difensiva in quanto utile all’organismo e solo successivamente e se protratta cronicamente nel tempo dannosa, quindi potenzialmente patogena.

Descrisse lo sviluppo della GAS articolata in tre fasi consecutive:

Figure 2: Sindrome generale d’adattamento (GAS)

➢ Allarme: È la fase iniziale della reazione di stress in cui l’organismo chiama a raccolta tutte le sue risorse disponibili per l’azione immediata, soprattutto secernendo ormoni in grado di provocare opportuni cambiamenti in determinate funzioni organiche. In questa fase avviene un’intensa produzione di adrenalina (catecolamine) e una rapida accelerazione del ritmo cardiaco.

1. L’organismo percepisce, a livello consapevole o inconsapevole, un fattore di stress, stressor, ossia qualcosa di inaspettato, nuovo o insolito, in grado di rappresentare una difficoltà o un potenziale pericolo. Il fattore di stress può essere di natura psicologica (accesa discussione, improvvisa preoccupazione ecc.), fisica (ondata di freddo violento, trauma, ecc.) o biologica (infezione,

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intossicazione alimentare, disfunzione metabolica ecc.). Qualunque sia la causa, il processo biochimico della reazione da stress è il medesimo. 2. L’ipotalamo provoca nell’organismo una serie di cambiamenti chimici ed

elettrici. L’ipotalamo è una minuscola ma importantissima area dell’encefalo che controlla la maggior parte delle funzioni organiche involontarie

(temperatura corporea, frequenza cardiaca, bilancio idrico, respirazione, pressione sanguinea ecc.) ed è strettamente collegato col funzionamento del sistema endocrino, a cui è anche connesso strutturalmente costituendo la neuroipofisi (sistema neuroendocrino) e immunitario. Il suo compito è la conservazione dell’omeostasi (o equilibrio funzionale); per esempio, fa sì che si sudi quando fa caldo o, viceversa, si rabbrividisca quando fa freddo. In presenza di un fattore di stress, l’ipotalamo interviene tentando di conservare lo stato di normalità dell’organismo, agendo direttamente sul sistema nervoso autonomo e sull’apparato endocrino.

L’azione dell’ipotalamo produce tre effetti immediati:

1. secrezione di ormoni specifici, cortisolo e, adrenalina e noradrenalina (prodotte in quantità dieci volte superiore del normale);

2. sempre tramite il sistema nervoso simpatico, stimolazione di numerosi organi (sistema vascolare, muscolatura liscia, varie ghiandole ecc.) e inibizione della motilità e secrezione dell'apparato digestivo; 3. produzione di beta endorfine, gli antidolorifici propri dell’organismo

che consentono, tramite l’innalzamento della soglia del dolore, di resistere a tensioni emotive, traumi fisici.

3. La secrezione di ormoni combinata con la stimolazione del sistema simpatico provoca numerose ulteriori reazioni organiche. L’effetto è un aumento del metabolismo: il cuore accelera i propri battiti, la pressione sanguinea s’innalza, la sudorazione aumenta, si ha un incremento della funzione respiratoria, le pupille si dilatano, la bocca si insecchisce , i peli cutanei si rizzano. Sono i sintomi che, accompagnati dalla sensazione di vuoto allo stomaco, proviamo quando ci sentiamo “stressati” come, ad esempio, prima di una prova impegnativa (esame, esibizione, ecc.).

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➢ Resistenza: La durata di ogni reazione da stress dipende soprattutto da questa fase che dura finché risulta necessaria una speciale prontezza e capacità d’azione, secondo percezioni basate, in gran parte, su fattori psicologici. È la fase in cui ci si adegua, bene o male, alle nuove circostanze e, in pratica, finché si percepisce il fattore di stress, l’organismo resiste. In questa fase assume un ruolo fondamentale l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (asse HPA) nella quale viene messo in atto un complesso programma sia biologico che comportamentale che sostiene la risposta allo stressor. L’evento fondamentale è la sovrapproduzione di cortisolo che ha, come conseguenza, la soppressione delle difese immunitarie. Il conseguente indebolimento o la temporanea inefficacia delle funzioni immunitarie non sono preoccupanti se durano per brevi periodi, ma diventano un serio problema in caso di stress cronico: la prolungata riduzione delle capacità difensive moltiplica la probabilità di contrarre malattie Molte persone restano imprigionate in questa fase, caratterizzata da un ritmo cardiaco accelerato e da muscoli scheletrici tesi, anche dopo aver superato le difficoltà contingenti (aumento del tono muscolare): sono i cosiddetti “iper-reattivi”, i quali spesso lamentano l’incapacità di rilassarsi dopo un impegno importante.

➢ Esaurimento: Quando il “pericolo” viene percepito come superato o quando l’energia da stress comincia a scarseggiare, inizia la fase conclusiva della risposta da stress che ha l’obiettivo di assicurare all’organismo il necessario periodo di riposo. Di solito, se la fase di resistenza termina prima che tutte le risorse di energia da stress siano state consumate, la successiva fase di esaurimento è sentita come un sensibile calo d’energia spesso associata a un profondo sollievo o piacevole torpore (come dopo un emozionante avvenimento sportivo). Se invece, la precedente fase di resistenza è durata per molto tempo, possono derivarne lunghi e debilitanti periodi di esaurimento, visto che l’organismo tende a restare in questa fase finché ne sente la necessità. Dal punto di vista biochimico, l’inizio della fase di esaurimento è caratterizzato da una rapida diminuzione degli ormoni surrenalici (le catecolamine adrenalina e noradrenalina e, in particolare, il glucocorticoide cortisolo) nonché delle riserve energetiche. La conseguenza è un’azione depressiva che inverte i processi organici delle reazioni da stress per riportare l’organismo alla funzionalità normale. L’effetto stimolante del sistema nervoso simpatico viene sostituito da quello calmante del

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parasimpatico. Grazie all’azione di quest’ultimo, si ripristina il normale afflusso sanguineo nell’apparato digerente, nel cervello e a livello cutaneo.

Panchieri (1993) sottolinea l’importanza del contributo di Selye e lo giustifica in base a tre motivi: in primo luogo, in campo biologico, è stata analizzata per la prima volta scientificamente, una reazione tra stimoli ambientali e reazione interna dell’organismo. In secondo luogo, Selye ha precisato che la risposta di stress è aspecifica, cioè uniforme di fronte a stimoli (fisici, biologici, psicosociali).

In terzo luogo, egli ha messo in evidenza l’aspetto più importante dello stress: anche se, in alcuni casi è potenzialmente patogeno, esso è una reazione fondamentale perché adattativa e difensiva per l’organismo. In aggiunta Selye ha sostenuto che lo stress non può essere evitato in quanto costituisce l’essenza stessa della vita. La completa libertà dallo stress è la morte. Contrariamente a quanto si pensa di solito, noi non dobbiamo, e in realtà non possiamo evitare lo stress, ma possiamo incontrarlo in modo efficace, e trarne vantaggio imparando dai suoi meccanismi ed adottando la nostra filosofia dell’esistenza ad esso” (Selye 1973).

1.3 Stress e fisiologia

Quali sono le strutture coinvolte nella risposta emotiva e di stress?

Damasio (1944) descrive con queste parole la funzione principale adattiva del cervello: “la funzione fondamentale del cervello è quella di essere ben informato su ciò che sta succedendo in lui e nell’ambiente che circonda l’organismo, in modo da consentire gli accomodamenti tra organismo e ambiente necessari alla sopravvivenza.

Le principali strutture coinvolte nella risposta emotiva e adattiva dell’organismo sono: Il sistema limbico, il sistema reticolare attivante ascendente e il sistema nervoso autonomo.

➢ Sistema limbico: Termine introdotto da Broca per indicare quella parte della corteccia filogeneticamente primitiva, e comune a tutti i mammiferi, disposta ad anello attorno al tronco dell’encefalo e al margine mediale degli emisferi cerebrali. Papez (1937) ipotizzò che il circuito neuronale costituito dal lobo limbico fosse la

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base neuroanatomica dei processi motivazionali ed emotivi. Paul MacLean (1949) ampliò il concetto di sistema limbico includendo altre strutture: l’area settale, alcune parti dell’ipotalamo, il nucleo accumbes, l’area orbitofrontae e infine l’ippocampo e l’amigdala. Mentre il primo è coinvolto nei processi di memoria e apprendimento, la seconda ha un ruolo molto rilevante nel riconoscere gli stimoli significativi a carattere di minaccia o pericolo. In particolare il nucleo centrale dell’amigdala è responsabile dello sviluppo delle risposte emozionali condizionate, permette una modificazione della plasticità neuronale tra stimoli differenti, neutri e incondizionati. Le sue principali efferenze sono dirette all’ipotalamo. Quest’ultimo controlla tra l’altro le risposte neuroendocrine: liberando dal nucleo paraventricolare CRH (ormone rilasciante la corticotropina) in direzione dell’adenoipofisi, la quale a sua volta rilascia ACTH (adenocorticotropina) sulla porzione corticale delle ghiandole surrenali dove attiva la secrezione dei glucocorticoidi.

➢ Sistema reticolare attivante ascendente (ARAS): Alcune cellule del sistema nervoso centrale sono specializzate nella modulazione del livello di eccitazione corticale. L’ARAS è attivato da stimolazioni sensoriali ed eccita a livello corticale vari centri deputati all’elaborazione dell’informazione. Questi circuiti sembrano costituire la base neuroanatomica di alcune delle funzioni attentive.

➢ Sistema nervoso autonomo: Il sistema nervoso autonomo lavora in stretta collaborazione con il sistema endocrino e con il sistema che controlla il comportamento per mantenere l'omeostasi corporea. Le informazioni sensoriali dai recettori somato-sensoriali e viscerali vanno ai centri di controllo omeostatico nell'ipotalamo e nel midollo allungato. Questi centri monitorano e regolano funzioni importanti, come la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa, la regolazione della temperatura e il bilancio idrico. L'ipotalamo stesso contiene neuroni che rilevano l'osmolarità, e i termorecettori che rilevano la temperatura corporea. L'uscita efferente dell'ipotalamo e dal tronco encefalico dà origine a risposte autonome, a risposte endocrine e a risposte comportamentali, come per esempio bere, mangiare, vestirsi o spogliarsi per regolare la temperatura corporea. Comunque, la maggior parte degli organi interni è sottoposta a un controllo antagonista, in cui una delle branche autonomo è eccitatoria e l'altra è inibitoria. Per esempio, l'innervazione simpatica aumenta la frequenza cardiaca, mentre la stimolazione parasimpatica la diminuisce; di

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conseguenza, la frequenza cardiaca può essere regolata da modifiche del perso relativo del controllo simpatico e di quello parasimpatico. In generale, tutte le vie del sistema nervoso autonomo, sia simpatiche che parasimpatiche sono costituite da due neuroni posti in serie. Il primo neurone è detto neurone pregangliare, origina nel sistema nervoso centrale e proietta un ganglio autonomo situato all'esterno del sistema nervoso centrale. Qui il neurone pregangliare fa sinapsi con il secondo neurone della via, il neurone postgangliare, che ha il corpo cellulare nel ganglio e proietta il suo assone verso il tessuto bersaglio. La divergenza è una caratteristica importante delle vie autonome; infatti, ogni neurone pregangliare dalla divisione autonoma fa sinapsi nel ganglio in media con otto o nove neuroni postgangliari. Ogni neurone postgangliare a sua volta innerva differenti bersagli; in questo modo un singolo segnale originato nel SNC può influenzare più cellule bersaglio.

I neuroni autonomi postgangliari sia simpatici sia parasimpatici secernono ➢ acetilcolina (ACh) su recettori colinergici nicotinici localizzati sui neuroni

postgangliari; La maggior parte dei neuroni simpatici rilascia noradrenalina sui recettori adrenergici delle cellule bersaglio; I neuroni parasimpatici rilasciano ACh sui recettori colinergici delle cellule bersaglio.

Il sistema simpatico controlla funzioni utili soprattutto nelle situazioni di stress e di emergenza. Il sistema parasimpatico è dominante durante il riposo e la digestione.

Il contributo di Mason fu quello di sviluppare l’idea già formulata da Selye circa l’esistenza di un primo mediatore, un tramite di natura biochimica tra gli stimoli e la reazione fisiologica ed endocrina di stress. Data la constatazione empirica che stimoli di natura psicosociale (interazioni con carattere di minaccia, pericolo per l’incolumità fisica o per la vita della persona, ecc.), cui si associa una reazione emozionale, attivano il sistema HPA, Mason intuì che la risposta biologica di stress fosse mediata da un’attivazione emozionale. Egli verificò (Mason 1971) che indipendentemente dalla natura dello stimolo (fisico, psicosociale, intrapsichico), la risposta fisiologica ed endocrina di stress è innescato solo se lo stress induce una reazione emozionale. Mason individuò nel sistema limbico la sede anatomofisiologica di mediazione emotiva e coordinamento della reazione non solo biologica ma anche comportamentale di stress. Rispetto a Selye, Mason suggerì la possibilità di una relativa specificità nella risposta di stress osservando come la relazione, sia ei primati che degli uomini, non fosse sempre

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identica alla presentazione degli stressor. Egli precisò che gli individui rispondono a stimoli di natura psicosociale secondo uno schema di attivazione multimodale la cui configurazione è specifica e personalizzata (Mason, 1975). Nell’ambito della psicofisiologia diverse ricerche avevano già___0 dimostrato un’elevata variabilità di risposta di attivazione neurovegetativa tra diversi individui sottoposti agli stessi stressor e dall’altra, una bassa variabilità nella risposta di stress dello stesso individuo a stressor differenti. (Lazarus e coll., 1963).

1.4 Aspetti psicologici dello stress

La risposta allo stress è diversa da persona a persona: stimoli dotati dello stesso potere stressante non provocano necessariamente la stessa reazione in individui diversi, cosi come condizioni stressanti di varia entità possono indurre la medesima risposta in persone diverse. È possibile così che uno stress ben tollerato da alcuni individui possa, in altri, diventare patogeno e provocare disturbi o malattie di vario genere; può verificarsi però anche il contrario, e cioè che l’effetto di uno stimolo di elevato potere stressante per alcuni, da altri possa essere ben tollerato grazie ad una maggiore resistenza “costituzionale” e/o all’acquisizione di adeguate tecniche di autocontrollo non repressivo (Mc Ewen, Steller, 1993).

La nocività di uno stimolo stressante non dipende quindi solo dalla sua intensità e durata di applicazione ma anche da fattori individuali quali i tratti di personalità con le relative influenze di tipo genetico, condizionamenti di tipo ambientale e familiare oltre a fattori quali lo stato nutrizionale le condizioni di salute, il tipo di interazione sociale, lo stato occupazionale. (Smith e Selye).

La teoria transazionale dello stress (Lazarus & Folkman, 1984) propone un approccio di tipo psicologico in cui l’impatto degli stressor esterni è mediato dalla capacità dell’individuo di valutare quanto un determinato evento sia stressogeno (primary appraisal) in relazione alle risorse necessarie che l’individuo deve investire per gestire tale evento (secondary appraisal).

Due sono i fattori in grado di determinare la potenza e la durata della risposta allo stress: il primo è relativo allo stimolo stressante (stressor); il secondo è legato al tipo di

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percezione individuale, fattore che spesso risulta essere il principale responsabile dell’attribuzione della connotazione di pericolosità.

La risposta dell’organismo quindi è modulabile è quindi sempre multimodale, coinvolgendo vari meccanismi sia a livello fisiologico che comportamentale. I fattori di personalità sono in grado di modificare anche la durata della risposta e sono responsabili di quella che è la reazione oggettivabile sia a livello fisiologico che comportamentale, all’evento stressante.

Come già sottolineato il pattern di reattività e l’eventuale successivo disturbo psicofisiologico sia almeno in parte determinato dal tipo di processo impiegato dal soggetto per fronteggiare una situazione carica emozionalmente, ovvero, in ultima analisi dal livello di “coping” e dall’atteggiamento nei confronti della situazione stimolo. (Ursin 1978).

L’atteggiamento la programmazione, progettazione ed attuazione di ogni azione che il soggetto voglia eventualmente intraprendere per fronteggiare o evitare la “situazione-problema”. Nell’uomo sarà di primaria importanza il modello sociale e familiare di riferimento.

La forza d’impeto degli eventi potenzialmente pericolosi per l’individuo (stressor) è in gran parte dipendente dalla nostra percezione della presenza dello stress medesimo, lo stato generale delle nostre condizioni psicofisiche in quel momento, dai fattori di condizionamento e/o apprendimento ai quali siamo sottoposti e ai relativi meccanismi di coping utilizzati.

L’approccio di Antonovsky presentato nel suo libro innovativo, "La salute, lo stress e coping" (1987), è quello di indagare come le risorse psicologiche, sociali e culturali possono essere utilizzate con successo nel resistere alla malattia. Antonovsky ha mostrato come un "senso di coerenza", o un determinato modo di dare un senso al mondo, è un fattore importante nel determinare come una persona gestisce lo stress positivamente senza ripercussioni sulla salute.

Il coping è una modalità cognitivo - comportamentale con la quale un individuo affronta lo stress e l'evento traumatico; più in generale indica la capacità di affrontare i problemi e le loro conseguenze sul piano emozionale.

Rappresenta la modalità di adattamento propria di ciascun soggetto di fronte ad un evento negativo stressante; ciascun individuo presenta uno specifico e peculiare "stile

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di coping".

Lo stile di coping si possono riassumere in diversi quadri: • Spirito Combattivo:

Atteggiamento di ottimismo e fiducia nelle proprie capacità di risolvere i problemi. • Atteggiamento Fatalistico:

Tendenza alla passività ed all'assenza di opposizione nei confronti delle difficoltà. • Negazione - Evitamento:

Tendenza a minimizzare l'entità e la gravità del problema; atteggiamento di relativa indifferenza.

• Preoccupazione Ansiosa:

Reazione di allarme ansioso nei confronti dei problemi, elevati livelli di ansia con ripercussioni significative sulla qualità della vita.

• Disperazione:

Sensazione di sconfitta, angosce di morte, vissuti depressivi.

Endler e Parker a partire dagli studi di Lazarus e Folkman hanno individuato tre tipologie di coping prevalenti: 1. Coping centrato sul compito: Si caratterizza per il tentativo di ricercare in maniera attiva e diretta la soluzione più adeguata alla risoluzione della situazione problematica; 2. Coping centrato sulle emozioni: Si caratterizza per la forte reazione a livello emotivo di fronte alla situazione problematica e per la difficoltà a contenere e gestire i propri stai emotivi; 3. Coping centrato sull’evitamento: Si caratterizza per il tentativo di evitare la situazione critica sia a livello cognitivo che comportamentale (Endler & Parker,1990).

Tra gli approcci di tipo psicologico troviamo gli studi sui modelli transazionali e i meccanismi di omeostasi che regolano pressioni ambientali e risposte individuali; afferiscono a questa prospettiva i modelli interazionali di adattamento persona - ambiente (Caplan & Harrison, 1993).

L’approccio si mostra utile come estensione delle teorie basate sul grado di adattamento tra l’individuo e il contesto nel quale è inserito. In questo senso l’esperienza di stress è un “punto di vista individuale”, stimoli diversi possono condurre

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alla stessa esperienza di stress e viceversa stimoli uguali possono condurre a diverse esperienze di stress. Nello stesso alveo si colloca anche il lavoro di McGrath (1970) che definisce lo stress come “a substantial unbalance between environmental demand and the response capability of the focal system” (p.17). L’idea di fondo è che lo stress abbia a che fare con le percezioni dell’intensità delle richieste che provengono dall’ambiente e con quanto l’individuo pensa di padroneggiare le risorse necessarie per rispondere a queste richieste. Un gap tra queste percezioni e richieste porta l’individuo sopra la soglia di stress e lo conduce alla reazione stressogena (Clancy & McVicar, 2002). Alcuni autori (Ferrara-Cariota & La Barbera, 2006) sostengono sia utile guardare al fenomeno da una prospettiva strettamente psicosociale che “focalizzi l’attenzione sulla duplice natura del fenomeno (individuale e sociale, soggettiva ed oggettiva) sulla stretta interdipendenza tra i diversi aspetti della questione (fonti di stress, risorse individuali e sociali) e sulle possibilità applicative che restano indubbiamente il nodo centrale e l'obiettivo imprescindibile della ricerca sociale”. In conclusione, nonostante la rilevante mole di ricerche sul tema non esiste ancora un chiaro accordo circa una univoca definizione del concetto di stress.

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PREMESSA: La nozione di salute da proteggere sul lavoro, i rischi che essa corre

nell'ambiente di lavoro e la valutazione di questi ultimi sono tre temi che hanno ricevuto, nel decreto legislativo n. 81/2008 come rivisto dal decreto n. 106/2009, una significativa rivisitazione, dando a tutti i datori di lavoro qualche certezza in più sulla sicurezza ma imponendo anche nuove azioni da progettare e da realizzare. L'ampia nozione di salute (stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un'assenza di malattia o d’infermità) formalmente assunta nel nostro sistema normativo per la prima volta attraverso il decreto n. 106 (art. 4, co. 1, lett. o), richiede, implicitamente, al datore di lavoro pubblico ed al suo staff (in particolare al Servizio di prevenzione) e a tutta la restante organizzazione, di orientare attività, competenze e strumenti per la sicurezza sul lavoro in modo innovativo. L’approvazione del D.Lgs. 81/08 in materia di sicurezza negli ambienti di lavoro, introduce l’obbligo di valutazione dello stress lavoro correlato in tutte le aziende secondo i contenuti dell’Accordo Interconfederale per il recepimento dell’accordo quadro europeo sullo stress lavoro-correlato concluso l’8 ottobre 2004 tra UNICE/UEAPME, CEEP E CES – 9 giugno 2008. Di conseguenza, il problema dello stress lavoro-correlato richiede, secondo l’accordo, un'analisi sull'eventuale inadeguatezza nella gestione dell'organizzazione e dei processi di lavoro (in particolare: disciplina dell'orario di lavoro, grado d’autonomia, corrispondenza tra le competenze dei lavoratori ed i requisiti professionali richiesti, carichi di lavoro), delle condizioni di lavoro e ambientali (esposizione a comportamenti illeciti, rumore, calore, sostanze pericolose ecc.), della comunicazione (ad esempio, incertezza in ordine alle prestazioni richieste, alle prospettive di impiego o ai possibili cambiamenti) e dei fattori soggettivi (come tensioni emotive e sociali, sensazione di non poter far fronte alla situazione, percezione di mancanza di attenzione nei propri confronti). L'Accordo fornisce, così, parecchie idee per affrontare, anche in ambito pubblico, una problematica che, al di là di banalizzazioni spesso affioranti quando si discute di questi temi, rappresenta un fenomeno sociale di vaste dimensioni sociali visto che l'European Foundation for the Improvement of Living & Working Conditions, già nel 2007, segnalava che la fenomenologia in esame è da considerare tra le cause più comuni di malattia per oltre 40 milioni di lavoratori con particolari punte in talune amministrazioni pubbliche

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europee. Hans-Horst Konkolewsky, direttore dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro ha dichiarato: “Nell’UE, lo stress legato all’attività lavorativa è il secondo problema di salute più diffuso sul posto di lavoro, dopo il mal di schiena, che colpisce quasi un terzo dei lavoratori dell’UE con un costo introduzione annuale di almeno 20 miliardi di euro. Esistono però delle soluzioni. L’obiettivo è di aumentare la conoscenza delle dimensioni del problema e delle sue cause e soprattutto, di indicare le possibili soluzioni”. (European Agency for Safety and Health at Work, 2002).

2.1 Cenni storici:

La concezione del lavoro e la sua collocazione all’interno della vita di ogni persona, nello svolgere le sue attività quotidiane è mutata, nel corso dei secoli, al variare della cultura di cui ha fatto parte.

Difatti il lavoro, specialmente quello di tipo manuale, nel corso dei secoli era svolto essenzialmente dalle classi sociali più povere e svantaggiate e per lo più da schiavi, alle persone di rango elevato ai vertici della piramide spettavano le attività di coordinamento e gestione.

Nel 1700 il lavoro cominciò a diventare un’attività sempre più diffusa tra i rappresentanti di tutte le classi sociali e gradualmente si avviò un cambiamento nell’immaginario sociale rappresentando il lavoro come un’attività dignitosa ed orientata al raggiungimento di un obiettivo, che può essere la realizzazione di un bene o la creazione di un servizio. Le successive trasformazioni avvenute negli ultimi secoli, hanno visto divenire il lavoro, non solo un’attività necessaria per vivere, in quanto consente l’indipendenza economica, ma anche un mezzo di affermazione nel sociale, che assegna uno status e che riveste il valore di un rituale che contrassegna il vero passaggio all’età adulta. In seguito a questi cambiamenti, è aumentato il peso dell’identità lavorativa sull’identità personale e ciò ha portato, negli ultimi anni, a dedicare al lavoro sempre maggiori spazi che, spinti all’eccesso, hanno generato ricadute negative sulla vita psico-sociale e sulla salute fisica. Il malessere sociale che nasce dall’eccessivo tempo riservato al lavoro è stato descritto, negli ultimi anni, nei termini di “burnout”, di “sindrome da stress lavorativo”, ma soprattutto di

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“lavoro-27

dipendenza” o “work addiction”. Il cambiamento storico del pensiero sul lavoro ha trasformato il lavoro, soprattutto nel mondo occidentale, in uno strumento essenziale sia per integrarsi ed essere apprezzati a livello sociale che per raggiungere l’indipendenza economica.

2.2

Il Concetto di rischio da stress lavoro correlato

“Reazioni fisiche ed emotive dannose che si manifestano quando le richieste lavorative non sono commisurate alle capacità risorse o esigenze del lavoratore” (National Institute for Occupational Safety and Health, NIOSH 1999)

Lo stress lavorativo deriva dall’ interazione tra fattori inerenti l’organizzazione del lavoro (tipologia, ambiente, carichi, orari, ruolo, responsabilità, sicurezza, relazioni interpersonali e gerarchiche), dalle caratteristiche psico-fisiche del lavoratore (personalità, attitudini, competenze, motivazioni, comportamenti, salute) e socio-demografiche (condizioni economiche, relazioni, situazione familiare, integrazione sociale). Quando l’interazione tra questi fattori risulta squilibrata, si genera una condizione di “strain”, ovvero il lavoratore stressato “non ce la fa più” a svolgere adeguatamente il proprio lavoro con conseguenze che si ripercuotono non solo sull’azienda per la quale il soggetto lavora, ma anche e soprattutto sul lavoratore stesso, che diviene più esposto all’insorgenza di patologie di varia natura. Di

conseguenza possiamo dire che entrano a far parte del concetto di rischio stress lavoro correlato, elementi di natura soggettiva, ovvero relativi a come il soggetto reagisce alle situazioni stressanti; elementi oggettivi relativi cioè alla mansione specifica che il lavoratore svolge ed infine elementi relativi al clima aziendale.

È altrettanto importante rilevare la percezione soggettiva dei lavoratori, mediante interviste strutturate o semistrutturate e compilazione di questionari standardizzati o laddove possibile compilati ad hoc. E’ necessario altresì analizzare lo strain della persona, che si può manifestare in diversi modi variamente associati tra loro cioè con sintomi e segni fisici (ad esempio cefalea, insonnia, disturbi digestivi e

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memorizzare, facilità a compiere errori, ecc.), emozionali (per esempio tristezza, depressione, ansia, nervosismo, perdita di entusiasmo, di fiducia e di autostima, ridotta motivazione e insoddisfazione lavorativa) e comportamentali (aumento di alcool e fumo, scarsa cura di sé, bassa produttività, assenze frequenti, conflitti familiari, ecc.). Alcuni di questi aspetti possono essere studiati valutando parametri fisiologici che si alterano in condizioni di stress ad esempio: rilascio di

catecolammine, cortisolo, frequenza cardiaca, pressione arteriosa, livelli di vigilanza, sonno, ecc. È chiaro che non potranno esserci delle regole generali e valide per ogni caso ma ogni contesto lavorativo e ogni persona ha caratteristiche proprie, pertanto l’intervento di cura si adeguerà alla tipologia di persona e di azienda. Il professionista della salute dovrà mantenere un rapporto di fiducia con il lavoratore o con la direzione del personale che svolge funzioni di gestione delle risorse umane. (Cassetto 2009)

Parlando di stress sul lavoro possiamo distinguere due grandi ambiti:

- Stress associato al contesto di lavoro: comprende i flussi informativi, il ruolo, l’evoluzione e lo sviluppo di carriera, il livello di autonomia decisionale, i rapporti interpersonali e le problematiche connesse all’interfaccia casa-lavoro.

-Stress associato al contenuto del lavoro: comprende le problematiche connesse all’ambiente di lavoro quali i rischi tradizionali (regolamentati per legge) intesi come rischi infortunistici, fisici, chimici, biologici, ergonomici ma anche problematiche legate alla pianificazione dei compiti, ai carichi e ritmi di lavoro ed all’orario di lavoro.

La tabella che segue riassume le categorie di potenziale rischio lavorativo

comprendenti le caratteristiche dell’impiego, dell’organizzazione e degli ambienti di lavoro.

CONTESTO LAVORATIVO

CATEGORIA: Condizioni di definizione del rischio

1. FUNZIONE E CULTURA ORGANIZZATIVA: Scarsa comunicazione, livelli bassi per la risoluzione dei problemi e lo sviluppo personale, mancanza di definizione degli obiettivi organizzativi.

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ruolo, responsabilità di altre persone.

3. EVOLUZIONE DELLA CARRIERA: Incertezza o fase di stasi per la carriera, promozione insufficiente o eccessiva, retribuzione bassa, insicurezza

dell‘impiego, scarso valore sociale attribuito al lavoro.

4. AUTONOMIA DECISIONALE/CONTROLLO: Partecipazione ridotta al processo decisionale, mancanza di controllo sul lavoro (il controllo in particolare nella forma di partecipazione rappresenta anche una questione organizzativa e contestuale di più alto respiro).

5. RAPPORTI INTERPERSONALI SUL LAVORO: Isolamento fisico o sociale, rapporti con i superiori, conflitto interpersonale, mancanza di supporto sociale. 6. INTERFACCIA CASA/LAVORO: Richieste contrastanti tra casa e lavoro,

scarso appoggio in ambito domestico, problemi di doppia carriera.

CONTENUTO DEL LAVORO

CATEGORIA: Condizioni di definizione del rischio

7. AMBIENTE DI LAVORO ED ATTREZZATURE DI LAVORO: Problemi inerenti l’affidabilità, la disponibilità, l’idoneità, la manutenzione o la riparazione di strutture ed attrezzature di lavoro.

8. PIANIFICAZIONE DEI COMPITI: Monotonia, cicli di lavoro brevi, lavoro frammentato o inutile, sottoutilizzo delle capacità, incertezza elevata. 9. CARICO DI LAVORO/RITMO DI LAVORO: Carico di lavoro eccessivo o

ridotto, mancanza di controllo sul ritmo, livelli elevati di pressione in relazione al tempo.

10. ORARIO DI LAVORO Lavoro a turni, orari di lavoro senza flessibilità, orari imprevedibili, orari di lavoro lunghi.

Le caratteristiche stressanti del lavoro (Hacker, 1991; Hacker et altri 1983)

2.3 Approcci e modelli sullo stress lavorativo.

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Tra i modelli che dedicano specifica attenzione allo studio delle condizioni che

possono causare stress lavorativo un posto di grande rilievo è certamente occupato dal modello presentato da Robert Karasek nel 1979 e ulteriormente sviluppato insieme a Theorell nel 1990. Si tratta di uno tra i modelli più famosi e più utilizzati nella ricerca sullo stress lavorativo che si colloca, per precisazione dello stesso autore, tra gli approcci basati sullo stimolo, in opposizione agli approcci relazionali che enfatizzano la componente soggettiva della relazione tra persona e ambiente.

L’assunto su cui si fonda presuppone che il comportamento è, generato dal contesto sociale e dalle costrizioni che questo attua sull’individuo.

Come specifica lo stesso autore, il modello non misura direttamente lo stress,

identificabile con uno stato di squilibrio interno non direttamente rilevabile, ma offre una chiave di lettura del job strain, ovvero di quella pressione esercitata dal lavoro, che, se non trasformata in energia rilasciata si trasforma in strain. Viene, dunque, mostrato come la combinazione di determinate caratteristiche del lavoro sia correlata con indicatori di stress quali sintomi di strain psico-fisico e malattie cardiovascolari. Il modello proposto da Karasek afferma che “psychological strain results not from a single aspect of the work environment, but from the joint effects of the demands of a work situation and the range of decision-making freedom (discretion) available to the worker facing those demands” (Karasek, 1979, p. 287). Alla base del processo di stress viene dunque posta attenzione alla relazione che si instaura tra domanda lavorativa e livello di autonomia (controllo) e il focus viene centrato, su come il controllo o la discrezionalità nel lavoro possono moderare gli effetti della domanda sullo stato di salute, con particolare attenzione al sistema cardiovascolare (Jones, Flethcer, 1996).

Karasek mette al centro del modello due variabili considerate indipendenti e poste su assi ortogonali:

1. La percezione dei lavoratori rispetto ai compiti che sono richiesti (job demand) 2. Le percezioni relative alla libertà decisionale e al grado di controllo (decision

latitude). Questa dimensione è composta da: la skill discretion e la decision authority; la prima si riferisce alla possibilità di variare il proprio compito e all’opportunità di valorizzare le proprie competenze; la seconda identifica il livello di controllo dell’individuo sulla programmazione ed organizzazione del

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lavoro (Karasek, 1979).

Le combinazioni tra l’alta o bassa domanda e l’alto o basso controllo danno luogo a quattro diversi tipi di esperienze psicosociali di lavoro (Fig. 2):

1. Lavori ad alto strain (high strain): ad un alto livello di domanda corrisponde un basso livello di controllo. In questo caso si crea nel lavoratore una elevata tensione psicologica che si può manifestare con sintomi quali l’ansia, la depressione, l’esaurimento e vari disturbi psicosomatici.

2. Lavori attivi (active): ad un altro grado di controllo e discrezionalità da parte dell’individuo sulla propria attività corrisponde un elevato grado di domanda psicologica. Questo contesto lavorativo implica un alto grado di responsabilità ed è caratterizzato dalla possibilità di apprendere nuove competenze e di esprimere le proprie capacità.

3. Lavori a bassa domanda e alto controllo (low strain): ad una domanda psicologica poco pressante corrisponde un alto controllo. Situazioni lavorative ottimali. L’individuo può gestire in autonomia la sua attività lavorativa e perciò si considerano soddisfatti della loro professione. Questo tipo di lavori non procurano tensione psicologica agli individui e tendono a proteggere il lavoratore da qualsiasi tipo di rischio psicofisico.

4. Lavori passivi (passive): ad una bassa domanda corrisponde un altrettanto basso controllo. Lavori le cui mansioni non incentivano le capacità

individuali e per i quali si registrano marcati livelli di insoddisfazione. Essi non creano stress o tensione psicologica, ma non promuovono

l’apprendimento e di conseguenza favoriscono l’impoverimento delle abilità lavorative.

In sintesi, secondo l’autore, “la tensione appare quando le esigenze di lavoro sono elevate e la discrezionalità di decisione è debole” (Karasek, 1979, p.287) dunque il livello di stress si innalza quando esiste una elevata richiesta lavorativa associata alla percezione di un basso grado di controllo.

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Nel 1985 Karasek ha completato il suo modello pubblicando una versione base del Job Content Questionnaire (JCQ) ossia un questionario di 49 item che indaga le due variabili ampliamente discusse e definisce il lavoro valutato in una delle quattro esperienze psicosociali sul lavoro considerate nel modello. Il modello di Karasek è fortemente applicativo perché finalizzato alla messa in atto di interventi job re-design (riprogettazione) dei compiti lavorativi e anche perché si avvale dello strumento d’indagine che si mantiene tuttora valido e che ha delle ottime proprietà psicometriche (Levi, 2000).

Il modello proposto da Karasek (1979) è stato revisionato da Johnson & Hall (1988) i quali hanno aggiunto una terza dimensione: la “work place social support” o “social network”; creando così il modello “Domanda-Controllo-Supporto” (Johnson & Hall, 1988). La dimensione “supporto sociale” si riferisce a tutti i livelli di interazione sociale disponibili sul lavoro da parte di colleghi e superiori ed è importante in quanto viene utilizzato, nella gestione dello stress correlato al lavoro, come “moderatore” in relazione a eventuali effetti nocivi sulla salute di richieste psicologiche eccessive (Theorell, 1997).

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In accordo con questo modello il più elevato rischio di malattie cardiovascolari è stato rilevato, da Johnson & Hall (1988), nei gruppi connotati da una elevata domanda lavorativa, una bassa possibilità decisionale e un basso supporto sociale da parte di colleghi e capi.

MODELLO SQUILIBRIO FORZA-RICOMPENSA (Effort-Reward Imbalance) (Siegrist, 1996).

Il modello ERI è complementare a quello di Karasek, mentre quest’ultimo si concentra sul contenuto del lavoro, Siegrist focalizza la propria attenzione sugli aspetti contrattuali del rapporto di lavoro. A tal proposito è fondamentale il principio di reciprocità sociale, per il quale gli individui investono energie e risorse in attività dalle quali presumono di ottenere un rendiconto. La reciprocità è rispettata se il ritorno che si ottiene è percepito come adeguato. Secondo l’autore, la mancanza di reciprocità ha effetti negativi sui processi psicofisiologici di autoregolazione poiché impedisce la soddisfazione dei bisogni personali fondamentali (come il bisogno di appartenenza e di self-efficacy). In ambito lavorativo, la persona utilizza le proprie energie psicofisiche in cambio di una retribuzione, dell’opportunità di avanzamento di carriera e di un aumento dell’autostima.

Tali ricompense, secondo il modello ERI, vanno a stimolare alcune aree cerebrali coinvolte nella regolazione emotiva, suscitando emozioni positive. Al contrario la mancanza di ricompense e gratificazione, genera stress e emozioni negative. Di conseguenza, la condizione di squilibrio tra sforzo e ricompensa è una condizione di rischio per lo stress lavoro-correlato. In alcune situazioni, i lavoratori hanno la possibilità di ripristinare un equilibrio tra sforzo e ricompensa (ad es. cambiando lavoro o riducendo lo sforzo). Ci sono tuttavia situazioni lavorative, che espongono la persona a una condizione di stress cronico perché non le offrono la possibilità di riequilibrare il rapporto tra sforzo e ricompensa.

Tra queste situazioni vi sono le condizioni di

- “dipendenza” in cui i costi del permanere nella situazione di squilibrio sono notevolmente inferiori rispetto a quelli cui si andrebbe incontro cercando di modificare la situazione (es. rischio di essere licenziati e rimanere disoccupati). Questa è la

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