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Alla scoperta della resilienza urbana

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Academic year: 2021

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Alla riscoperta della resilienza urbana di Michele Talia

Un impianto teorico ancora in formazione

Non diversamente da quanto solitamente si afferma a proposito del principio di sostenibilità, anche la nozione di resilienza appare debolmente connotata sotto il profilo epistemologico, se non altro per la tendenza di entrambi questi concetti a incoraggiare lo sviluppo di una molteplicità di nessi causali i cui meccanismi generativi non sono stati ancora analizzati in modo approfondito. Sebbene sia fatto originariamente risalire allo studio dei materiali e alla loro resistenza nei confronti delle sollecitazioni esterne, il significato di resilienza ha infatti finito per subire una notevole estensione all’intero complesso delle scienze umane (psicologia, economia, scienze ambientali, ecc.). Ne consegue che la difficoltà di pervenire a una definizione rigorosa e univoca può costituire un serio limite alla validità euristica dei postulati che si riferiscono alla resilienza, tanto che nell’uso più frequente quest’ultima tende piuttosto ad assumere la natura indeterminata di un principio etico o, in alternativa, di un termine omni-esplicativo applicabile ai contesti più diversi.

Per quanto riguarda poi le discipline che s’interessano più specificamente degli insediamenti umani, sia la resilienza, sia la sostenibilità tendono in molti casi ad alludere all’“ipotesi neomaltusiana di un graduale e non lontano esaurimento delle risorse non rinnovabili” (Livi Bacci, 2015, pag. 70), ed è in questa chiave che deve intendersi l’urgenza con cui viene sempre più spesso accolto il richiamo alla necessità di proporre il modello di una città resiliente.

Ma a quest’ultimo proposito non possiamo fare a meno di evidenziare come l’esame dei processi di urbanizzazione che sono tuttora in atto ci restituisca un quadro ben più articolato. Si pensi ad esempio che durante oltre diecimila anni di storia la resilienza delle forme urbane ha disegnato una singolare oscillazione parabolica, frutto di un lento e progressivo avvicinamento a una condizione di virtuoso adattamento all’ambiente, per poi procedere a un rapido abbandono dei principi e delle buone pratiche che si erano faticosamente sedimentate nel corso del tempo. Ne deriva la necessità di osservare con maggiore attenzione il rapporto che tende a stabilirsi tra la popolazione e il suo territorio, nella convinzione che è proprio il governo di questa complessa interazione a offrire risposte concrete alle principali criticità ambientali, ponendo le premesse per l’affermazione di un nuovo ciclo economico.

E’ questo il caso del rapporto che tende a stabilirsi tra il consumo delle risorse naturali, che si traduce in un’impronta ecologica più o meno ampia, e lo Human Development Index (HDI) stimato dalle Nazioni Unite, che costituisce una proxy accettabile della qualità della vita nelle diverse realtà nazionali. Il confronto tra questi due indicatori mette efficacemente in risalto la circostanza per cui il raggiungimento di soddisfacenti livelli di sviluppo umano è spesso avvenuto a detrimento delle dotazioni di capitale naturale (cfr. fig. 1), con prevedibili conseguenze negative relativamente alla emissione di gas serra (Mancuso & Morabito, 2012, pag. 4), e con l’effetto di spostare continuamente in avanti il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità fissati a livello internazionale.

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Anche se il divorzio tra uomo e natura si è manifestato con particolare evidenza solo negli ultimi decenni, il punto di svolta viene solitamente individuato nella rivoluzione industriale e nella esplosione demografica che ne è conseguita, ma in questo contributo non cercheremo di approfondire le ragioni e le conseguenze di questo dissidio, sulle quali esiste peraltro una amplissima bibliografia. Proveremo al contrario ad evidenziare come, nella fase più recente che si è aperta dopo la crisi scatenata nel 2008 dalla insolvenza della banca statunitense Lehman Brothers, si possano finalmente rintracciare le condizioni per un autentico cambio di paradigma, e più in particolare per il ritorno a un atteggiamento più responsabile nei confronti del rapporto che è opportuno stabilire tra città e natura.

In occasione di una breve ma illuminante riflessione Ralph Dahrendorf ci ha infatti ricordato che la situazione che si è determinata dopo la crisi economica mondiale (ma questo dovrebbe accadere anche in quei Paesi che, come l’Italia, non ne sono ancora usciti), oltre a comportare un peggioramento generalizzato delle condizioni sociali e di reddito di larghi strati della popolazione, può offrire l’occasione per un diffuso mutamento del modo di pensare alle strategie di superamento della recessione. Rifiutando le suggestioni offerte dai teorici della decrescita felice, il pensatore tedesco pone in risalto la cruciale importanza ormai assunta dalla dimensione temporale delle scelte pubbliche e private che arrivano a compimento in questa particolare congiuntura. Laddove all’origine del crollo dei mercati molti hanno scorto una tendenza perniciosa del capitalismo avanzato di debito a privilegiare comportamenti orientati al breve e al brevissimo termine, si sostiene qui la tesi che un nuovo rapporto con il tempo, e dunque con la durata delle strategie e delle decisioni, può essere in grado di guidare l’azione dei soggetti ed attori del cambiamento verso prospettive temporali meno ravvicinate e raccordabili con obiettivi più ambiziosi e di lungo periodo (Dahrendorf, 2015, pagg. 22-23).

Le condizioni per un effettivo cambio di passo

E’ altresì evidente che quanto più le trasformazioni in oggetto si caratterizzeranno per il loro carattere strutturale, tanto più l’affermazione di questo differente modo di pensare potrà rivelarsi decisivo. Si pensi ad esempio alle politiche adottate per contrastare gli effetti più negativi del cambiamento climatico che sono al centro del contributo di Francesco Musco in questa stessa sezione del testo, la cui implementazione e i benefici che ne possono derivare travalicano ampiamente la durata dei cicli elettorali, chiamando dunque in causa una maturazione della cultura di impresa e del personale politico e amministrativo che non sembra ancora in gestazione.

Certo, è sempre possibile pensare (ma non augurarsi) che eventi particolarmente traumatici e legati al riscaldamento del pianeta ci costringeranno ad accelerare questa rivoluzione culturale (Giddens, 2015), ma credo convenga tentare una strada differente e puntare alla adozione di misure immediatamente fattibili, e comunque efficaci senza aspettare di trovarsi in condizioni di acuta emergenza. Muoversi in questa direzione appare in ogni caso congruente con le indicazioni che provengono da uno studio più attento dei contesti insediativi in cui operiamo, nei quali i grandi progetti di trasformazione hanno lasciato da tempo il campo ad alterazioni assai più contenute, ma continue. Queste ultime tendono a sostituire a quella grande transizione urbana cui avevamo assistito nella fase più espansiva del nostro Paese un processo più lento e incrementale che, per essere governato in qualche modo, presuppone l’avvicendamento del piano di tradizione con le molteplici fattispecie del metabolismo urbanistico (Lanzani, 2014, pag. 63).

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A fronte di questo mutamento di prospettiva le politiche che si prefiggono di migliorare la capacità di adattamento della struttura insediativa al climate change devono far leva sulla adozione di processi di trasformazione sostenibili e versatili, che integrino la grande e la piccola scala innescando micro-cambiamenti tali da attivare un profondo rinnovamento delle città e dei territori.

Anche se questa nuova stagione urbanistica è ancora al centro di una riflessione teorica preliminare (Talia, a cura, 2016), e che si sta peraltro sviluppando in assenza di adeguati riscontri operativi, si può già ipotizzare che questo modus operandi dovrebbe implicare minori percentuali di rischio per i soggetti e attori delle trasformazioni. Inoltre ciò dovrebbe consentire la contaminazione di strategie e tattiche allo scopo di favorire l’osservazione e il monitoraggio dei risultati prodotti da azioni esplorative e a “bassa intensità” prima di impegnare le istituzioni di governo in interventi più onerosi e a lungo termine. Allo stesso tempo si può auspicare che un approccio di questo tipo comporti la ricerca di nuove regole di convivenza tra il sistema di pianificazione tuttora vigente - la cui “rottamazione” appare troppo onerosa e in fondo persino rischiosa - e un intero ventaglio di politiche urbane e di interventi specifici, che possono fornire utili riscontri già nel breve periodo (Pfeifer, 2013). Soprattutto in relazione al tentativo di accentuare la resilienza dei sistemi insediativi maggiormente esposti al climate change, è necessario assicurare che tale approccio incrementale non si traduca nella rinuncia a concepire obiettivi ambiziosi e scenari di lungo periodo, ma sia legata al soddisfacimento di alcune pre-condizioni:

- fare in modo che si realizzi un’adeguata comprensione delle dinamiche degli ecosistemi e del paesaggio, saggiando altresì i limiti di utilizzo delle risorse ed elaborando meccanismi atti a interiorizzare le sollecitazioni degli stakeholders e la valutazione dei rischi ecologico-ambientali negli strumenti di gestione della città;

- ottenere una marcata reversibilità delle trasformazioni urbane programmate, vale a dire la possibilità di analizzare ex ante il miglior utilizzo del suolo al fine di evitarne lo spreco, e di concepire – in primo luogo nella città esistente - modalità alternative d’uso, legate a una domanda rinnovata che prenda atto dei cambiamenti radicali avvenuti rispettivamente nei sistemi produttivi, nell’accesso ai servizi e alle nuove tecnologie, nei luoghi dello scambio e della socializzazione;

- garantire la promozione di politiche urbane alle scale macro, meso e micro, e di piani adattativi capaci di rispondere ai bisogni insorgenti dell’economia e della comunità urbana con cui incidere sulla formazione e attuazione delle scelte pubbliche, sulle tecniche di piano, sul rapporto esistente tra godimento della proprietà privata e impiego dei beni comuni, su un ruolo più attivo dei cittadini che possono rendere open source la descrizione della condizione urbana e la ricerca di strategie atte a influire concretamente sulla sua trasformazione.

Il superamento dei vincoli di mercato

Pur se conseguite in larga misura, le pre-condizioni che abbiamo appena elencato non saranno in grado di assicurare il successo delle politiche di rigenerazione urbana se non sapremo associarle ad una capacità inedita, almeno nella nostra cultura di piano, di inglobare nelle nostre visioni una corretta percezione del limite

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(ambientale, socio-demografico e culturale) del pianeta, al quale ci stiamo pericolosamente avvicinando.

La prima sfida che non si può fare a meno di raccogliere è di natura tecnologica, e riguarda la possibilità di reinterpretare tali vincoli riducendo da un lato l’impronta ecologica della popolazione mondiale attraverso una razionalizzazione dei modelli insediativi, e dall’altro mantenendo in sostanziale equilibrio la produzione e il consumo delle risorse energetiche. Ma vi è un secondo, impegnativo confronto che è necessario stabilire tra la possibilità di sostenere gli ingenti investimenti che si renderanno necessari per adattare la nostra struttura urbana alla transizione climatica che è alle porte, e la capacità di operare al tempo stesso cambiamenti significativi nelle regole di mercato senza i quali tali politiche di rigenerazione non sarebbero proponibili.

Facciamo riferimento a tale proposito non solo alla creazione di un ingente stock di “valori condivisi” (Talia, 2015; Porter & Kramer, 2011) – in virtù del quale l’imprenditore è chiamato a generare valore tanto per l’azienda, quanto per i territori in cui essa opera – ma anche alla ricerca di una soddisfacente integrazione tra il sistema delle conoscenze, i valori socio-culturali e i processi identitari che sono localmente presenti. Nonostante il clima diffuso d’incertezza che ha penalizzato negli ultimi anni gli investimenti e il riposizionamento anche delle imprese più innovative, non si può negare che un numero crescente di aziende si sta avvicinando a nuovi modelli di business in virtù dei quali il ruolo dell’impresa non si esaurisce nella produzione di beni o servizi e nella conseguente estrazione di plusvalenze, ma prevede in aggiunta la generazione di un più ampio valore sociale. Si fa riferimento in particolare alla attitudine di ogni impresa di operare come un sistema aperto, che interagendo con una molteplicità di individui e di gruppi di interesse è in grado di produrre nuova ricchezza condivisa o, detto in altri termini, di creare contemporaneamente valore economico e valore sociale (Michelini & Fiorentino, 2011). Soprattutto nelle aree in cui le piattaforme produttive sono caratterizzate da una marcata presenza delle reti d’impresa, la transizione verso questo nuovo paradigma punta ad una riconfigurazione di prodotti e mercati, e al ridisegno della catena del valore in forme assolutamente non conflittuali nei confronti delle esigenze manifestate dalle comunità locali. Da questa nuova impostazione è possibile attendersi importanti esternalità positive, che spaziano dalla creazione di scenari territoriali in cui la competitività territoriale può andare di pari passo con quella imprenditoriale, alla promozione di un milieu culturale ampiamente condiviso il cui rafforzamento passa attraverso la capacità della responsabilità d’impresa di giocare un ruolo identitario (cfr. fig. 2).

Gli obiettivi che abbiamo appena elencato non sono certamente a portata di mano, e presuppongono un profondo e diffuso cambiamento nel modo di pensare del personale di governo e nei criteri impiegati per la valutazione delle priorità, ma non possiamo dimenticare che i prossimi anni coincideranno molto probabilmente con l’ulteriore accentuazione di quella grande trasformazione dei mercati, delle tecnologie della produzione, della organizzazione del lavoro e della società urbana che è stata etichettata con il termine di economia della conoscenza (Bonomi, 2013, pag. 157).

Lo scenario che si sta delineando è quello di una formazione socio-economica e territoriale in rapido mutamento, in cui una nuova produzione cognitiva sembra destinata a sostituirsi ai cicli produttivi più tradizionali, con effetti ancora difficilmente prevedibili per l’assetto del territorio e delle istituzioni che dovranno occuparsi di funzioni strategiche quali la generazione e la circolazione delle conoscenze, ma che difficilmente potrà fare a meno di alterare profondamente i paesaggi urbani della contemporaneità.

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La progressiva affermazione di un modello di produzione ispirato alla green economy - che può essere definita alla stregua di un sistema capitalistico sostanzialmente diverso da quello che ha finora sospinto lo sviluppo dell’industria, se non altro in virtù della sua capacità di incorporare i limiti ambientali nel processo di accumulazione (Bonomi, 2013, pag. 184) – non solo presuppone il graduale smantellamento dei capisaldi di una manifattura non più compatibile con le sfide della sostenibilità, ma si affida in larga misura alla facoltà degli individui di elaborare idee creative utilizzando la struttura relazionale che il contesto è già in grado di offrire, o che potrà essere ottenuta con una molteplicità di micro-interventi tra loro coerenti. Secondo una definizione ormai largamente condivisa (Mancuso & Morabito, 2012, pag. 3), così come il superamento della brown economy può nascere da una sapiente integrazione delle tre dimensioni concorrenti dell’economia, della società e dell’ambiente ispirata al principio della sostenibilità, lo sviluppo dell’economia verde dovrà basarsi sulla valorizzazione del capitale economico (investimenti e ricavi), del capitale naturale (risorse primarie e impatti ambientali) e del capitale sociale (lavoro e benessere).

Almeno fino ad ora la capacità di penetrazione della green economy nel mercato mondiale non è stata del tutto soddisfacente, ma le prospettive di rafforzamento della produzione di beni e servizi di elevata valenza ambientale appaiono senza dubbio positive non solo per quanto riguarda il decollo di nuovi settori strategici (eco-innovazione, risparmio energetico, prevenzione del rischio), ma anche con riferimento alla adozione di innovazioni di processo in alcuni settori maturi (edilizia, trattamento dei rifiuti, produzioni agricole di qualità, trasporti pubblici).

La prospettiva indicata presuppone il concorso di consistenti investimenti pubblici e soprattutto privati a favore della ricerca scientifica, dell’ammodernamento della fabbrica urbana e dell’avanzamento degli standards tecnologici; ciò al duplice scopo di operare una riduzione significativa delle emissioni e di aumentare le occasioni di mercato per le aziende che offrono prodotti funzionali a questa modernizzazione. E tuttavia non conviene sottovalutare il peso che potrà essere esercitato dal ripensamento dei sistemi insediativi e del patrimonio edilizio esistente, con indicazioni strategiche e soluzioni urbanistiche meglio indirizzate che si prefiggano di favorire la diffusione e il radicamento di questo nuovo paradigma in una organizzazione spaziale che è stata lungamente congeniale ad un differente modello di sviluppo che oggi non è più sostenibile.

Di nuovo il riferimento alle tattiche urbanistiche compiuto in precedenza si rileva pertinente, non solo in quanto tale approccio si propone di assicurare la fattibilità delle politiche pubbliche in una stagione caratterizzata da una cronica penuria di risorse finanziarie, ma anche in relazione alla sua propensione a consentire una coesistenza pacifica del governo del territorio con politiche pubbliche che tenderanno sempre di più a fondare la propria legittimazione su di una continua attività di valutazione e di monitoraggio con cui verificare il raggiungimento o meno degli obiettivi prefissati. Nel contemplare la possibilità che le scelte di piano non riguardino solamente l’inibizione o l’autorizzazione a tempo indeterminato delle azioni trasformative, queste nuove pratiche offrono l’opportunità di innescare processi di trasformazione temporanei e reversibili (Talia, 2016b), grazie ai quali la resilienza delle strutture urbane sarà in grado di attivare processi profondi e condivisi di rinnovamento delle città e dei territori in risposta ai cambiamenti globali.

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Riferimenti bibliografici

Bishop P., Williams L. (2012), The temporary city, Routledge, Londra.

Bonomi, A. (2013), Il capitalismo in-finito. Indagine sui territori della crisi, Einaudi, Torino. Dahrendorf, R. (2015), Dopo la crisi, Laterza, Bari.

Giddens, A. (2015), La politica del cambiamento climatico, Il Saggiatore, Milano.

Lanzani, A. (2014), “Per una politica nazionale delle città e del territorio”, in A.G. Calafati (a cura), Città tra sviluppo e declino, Donzelli, Roma, pagg. 49-73.

Livi Bacci, M. (2015), Il pianeta stretto, Il Mulino, Bologna.

Mancuso, E. e Morabito, R. (2012) “La green economy nel panorama delle strategie internazionali”, EAI, vol. 58, n. 1, pagg. 3-9.

Michelini, L. e Fiorentino, D. (2011), “Nuovi modelli di business per la creazione di valore condiviso: il social e l’inclusive business”, ImpresaProgetto, n. 1, pagg. 1-20.

Pfeifer, L. (2013), The Planner’s Guide to Tactical Urbanism, Montreal, pagg. 1-63.

Porter, M.E. e Kramer , M.R. (2011), “Creating Shared Value”, Harvard Business Review, vol. 89, n. 1/2, pagg. 62-77.

Talia, M. (2015), “Le mille facce della rigenerazione urbana”, in R. D’Onofrio e M. Talia, a cura, La rigenerazione urbana alla prova, Angeli, Milano.

Talia, M., a cura (2016a), Un nuovo ciclo della pianificazione urbanistica tra tattica e strategia, Planum Publisher, Milano.

Talia, M. (2016b), Tattica. Il contributo dell’urbanistica tattica alla nascita di un nuovo linguaggio tecnico, in corso di pubblicazione.

United Nations Environment Programme - UNEP (2011), Towards a Green economy: Pathways to Sustainable Development and Poverty Eradication.

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