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Per una pedagogia fenomenologico-esistenziale (seconda edizione)

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Academic year: 2021

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L’educazione come esperienza vissuta

Percorsi teorici e campi d’azione

a cura di

Antonio Erbetta

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© Ibis, Como – Pavia 2011 www.ibisedizioni.it I edizione: settembre 2011 ISBN 978-88-7164-367-0

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9 Premessa

11 Introduzione di Antonio Erbetta

19 Antonio Erbetta, L’educazione in quanto esistenza

55 Silvano Calvetto, Tra umanesimo critico e decostruzionismo formativo.

Problematicismo, fenomenologia, esistenzialismo

95 Elena Madrussan, Per una pedagogia fenomenologico-esistenziale

125 Grazia Massara, Abitare la scuola. Dalla possibilità originaria alla

doman-da di senso

151 Gianluca Giachery, Esperienze vissute ed esistenze incarnate. Per una critica

sociale dell’educazione

185 Antonio Erbetta, In ultimo, a mo’ di protrettico 189 Gli Autori

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Elena Madrussan

Per una pedagogia fenomenologico-esistenziale

Il più delle volte non è da un paradosso ma da un’ovvietà che scaturisce una rivelazione.

Émile M. Cioran

La situazione educativa

Ciò che, nell’orizzonte fenomenologico-esistenziale, si dice

educa-zione è certamente esperienza soggettiva del limite.

Un’affermazione, questa, la quale, alludendo agli aspetti fondativi di ciò che quotidianamente si dispiega nell’esistenza, pensa l’educa-zione come esperienza concreta e problematica del soggetto nel mon-do. Infatti, esperire il mondo ed educarsi in e ad esso paiono stabilire tra loro una relazione rispetto alla quale l’educazione è, insieme, nell’esperienza e al di là di essa, in ciò che accade e nel suo supera-mento. Essa consiste, in effetti, nell’impegno quotidiano e progettua-le di torsione di ciò che pare già dato nel possibiprogettua-le, dove l’esperienza vissuta del soggetto si fa vera e propria chiave di senso dell’esistenza. A volerci soffermare su quel che correntemente è considerato come ‘esperienza soggettiva’, basterà poco per notare come ‘ciò che accade’ si situi già in un luogo ampio e ambiguo al tempo stesso. Infatti, ciò che accade a me accade sempre nel mondo, poiché l’espe-rienza è sempre espel’espe-rienza soggettiva – anche quando essa sia collet-tiva – ed è sempre esperienza situata, ossia collocata in quell’ambito specifico che Sartre, a suo tempo, ha descritto così:

La mia posizione in mezzo al mondo, definita dal rapporto di utensilità o di avversità delle realtà che mi circondano con la mia fattità, cioè la scoperta dei pericoli che corro nel mondo, degli ostacoli che posso incontrarvi, degli aiuti che possono venirmi offerti, alla luce di un

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annullamento radicale di me stesso […], ecco quello che chiamiamo

situazione1.

Vi è, dunque, un’incidenza del mondo sul soggetto – fatti, azioni condotte da altri, paradigmi d’ambiente e di condizione sociale – totalmente indipendente e separata dalla propria volontà soggettiva. Una considerazione, questa, che, nella sua indiscutibilità, parrebbe destinare il soggetto o all’arrendevolezza blanda di chi nient’altro può se non disporsi ad accogliere, per così dire, ‘la vita come viene’, oppu-re, al contrario, a farne un discutibile rappresentante di quel delirio egoico per il quale la propria vera partita la si giocherebbe sempre altrove. Invece, sostiene Sartre, e noi con lui, la vita è sempre situa-zione, e, come tale, è esposta alla precarietà del contingente. Questo, allora, il primo limite, inesorabile e decisivo, di un’educazione che si dispiega nell’esistenza.

Per altro verso è indubbio, allo stesso modo, che la situazione così definita è vissuta come tale – e quindi anche descritta – sempre dal soggetto incarnato che la vive. In questa chiave, rivela il filosofo fran-cese, essa non è né oggettiva, come apparentemente sembrerebbe, né soggettiva, perché dal soggetto essa è vissuta ma non creata; sicché essa, più propriamente “è le cose stesse e me-stesso tra le cose”2.

La sottigliezza argomentativa di Sartre pone fin da subito un pun-to di non ripun-torno: il mondo come è sarebbe tale anche senza il sog-getto che lo osserva, ma in questo caso esso non sarebbe descritto così come è descritto; quindi, il soggetto che osserva il mondo è il solo depositario responsabile di vedere e vivere il mondo così come egli stesso lo descrive.

Strettissimo, dunque, il rapporto tra soggetto e mondo, tra l’esi-stenza soggettiva e il suo dispiegamento nell’al di là di sé. Nel con-tempo, tuttavia, è anche amplissimo lo spazio di possibile resistenza all’assunzione consapevole di simile responsabilità. Eppure, accoglie-re l’offerta del mondo come la miglioaccoglie-re o l’unica possibile significa tradire il dato originario ed essenziale: il soggetto è nel mondo per progettarvisi, non certo per sopravvivergli.

1

Cfr. J.-P. Sartre, L’être et le néant (1943), trad. it. L’essere e il nulla, Milano, Il Sag-giatore, 1970, p. 659.

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Se è vero, allora, “che l’uomo esiste innanzitutto, si trova, sorge nel mondo, e che si definisce dopo”3, è altrettanto vero che “l’uomo è

soltanto, non solo quale si concepisce dopo l’esistenza e quale si vuo-le dopo questo slancio verso l’esistere: l’uomo non è altro che ciò che si fa”4. Dunque il soggetto non solo esiste e si immagina nella propria

esistenza, ma è chiamato a farsi, ossia a fare – e non solo a concepire o a osservare – ciò che è. In tal senso, quindi, Sartre precisava:

L’uomo è, dapprima, un progetto che vive se stesso soggettivamente, invece di essere muschio, putridume o cavolfiore; niente esiste prima di questo progetto; niente esiste nel cielo intelligibile; l’uomo sarà innanzi-tutto quello che avrà progettato di essere5.

Si vede bene, insomma, che accomodarsi nell’ovvietà del mondo corrisponde alla sostanziale insufficienza di sapersi nel mondo, men-tre farsi significa precisamente incidere sulla situazione, muoverla, cambiarla, orientarla. Il dinamismo della situazione esistenziale, allo-ra, è tale per cui il soggetto è chiamato da sempre e per sempre a fare i conti per un verso con la gettatezza originaria6, per la quale egli si

trova ob-jectus nel mondo, e per altro verso a muoversi in quel mon-do orientanmon-do questa stessa condizione originaria attraverso il farsi soggettivo. Così, proprio nel farsi, il soggetto si educa, poiché solo nella contingenza della situazione egli può trovare le risorse per deci-dere di sé al di là del fatto.

3 Cfr. J.-P. Sartre, L’existentialisme est un humanisme (1946), trad. it.

L’esistenziali-smo è un umaniL’esistenziali-smo, Milano, Mursia, 1978, p. 50.

4 Ivi, pp. 50-51. 5 Ivi, p. 51.

6 La connotazione progettuale dell’esistenza è, heideggerianamente, derivata proprio dalla “gettatezza originaria” (Geworfenheit), la quale fa dell’uomo, innanzi-tutto, un ente propriamente gettato nel mondo. Un soggetto che, per altro verso, Pie-tro Piovani chiama “un volente non volutosi” (P. Piovani, Principi di una filosofia

del-la morale, Napoli, Morano, 1972). Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), trad. it. Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1976. Per le implicazioni formative

dell’“essere-per-la-morte” che consegue alla condizione originaria dell’uomo, si vedano almeno: A. Erbetta, La cosa che muore, Torino, Thélème, 2000; S. Bondanza, L’educazione

all’impossibile autentico. A proposito dello “Sein-zum-Tode” di Martin Heidegger, in

AA.VV. (a cura di A. Erbetta), In forma di tragedia, Torino, Utet Libreria, 2004, pp. 71-95.

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Di qui, dunque, il sospetto che il luogo più proprio dell’educazio-ne sia, contemporadell’educazio-neamente, dentro e fuori l’esperienza, giacché non v’è possibilità di fare se non nell’esperienza del mondo e nella situa-zione, e dove, al di là dell’apparenza, il senso del fare medesimo deb-ba trovare spazio al di fuori del mero gesto esperienziale. Vale a dire che tra il soggetto e la sua esperienza, tra l’io e la sua esistenza, c’è una relazione doppia: l’azione effettiva sull’esperienza – il fare esperienza, appunto – è conseguenza di qualche cosa d’altro che muove quel fare, che lo caratterizza così per come esso in effetti risulterà nell’esperien-za. È l’al di là del fatto, quindi, a dare senso al fatto stesso, dove l’accadere del gesto intenzionale non è altro che il compimento nel mondo dell’intenzionalità di senso soggettiva. Ed è ancora questo stes-so superamento – al di là – del mero fatto a costituire lo spazio origi-nario dell’educazione.

Sicché il soggetto è sempre – condizionato – nel mondo, ma in un mondo che egli conosce e fa proprio soltanto nell’atto di trascender-lo, cioè superando la banalità del suo essere come semplice accadere per far accadere la presenza soggettiva in esso. E dove il far accadere implica una precisa scelta soggettiva, lucidamente consapevole della situazione e in essa intenzionalmente presente.

Il problema, allora, è: che cosa diventa l’educazione in questo nuovo luogo?

Se il primo limite del soggetto è la situazione poiché essa circo-scrive lo spazio di manovra definendo le sue possibilità reali, è tut-tavia in questo stesso limite che si impone al soggetto la domanda di ulteriorità. Come una condizione che chiede di essere smentita, la situazione insinua, nel soggetto che la vive, una domanda essenzia-le: quale forma ha la relazione tra me stesso e le cose stesse? Ovvero: qual è il movente originario della propria azione in situazione? Qui, com’è quasi ovvio, non si va in cerca delle ragioni specifiche e razio-nali le quali, di volta in volta, attengono per l’appunto alla situazio-nalità e alle convenienze del caso. Si va, invece, in cerca di quell’ele-mento originario – che precede le diverse connotazioni situazionali – rispetto al quale ogni soggetto è liberamente in-situazione, in ragione di ciò che gli occorre ma anche in funzione di ciò che egli è

prima.

Proprio l’elemento originario, che nominiamo fin da ora come la propria forma, riguarda non a caso il tratto soggettivo che pertiene ad

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ogni situazione, ossia quell’in-sé – per dirla ancora con Sartre – che ciascuno di noi mette in gioco nell’esistere.

S’è detto che l’esperienza non può essere oggettiva, poiché dipen-de dal soggetto che la vive. Quindi, vivere un’esperienza, anche quando ci s’illude di subirla soltanto, significa attingere al suo signi-ficato per me. Non v’è dubbio, infatti, che il soggetto, qualunque con-notazione assuma la situazione, e qualsiasi sia il suo pregresso esi-stenziale, esiste nell’ambito di un proprio modo di significare ciò che accade e di porsi rispetto ad esso. Ora: da dove viene tale significato se non da ciò che egli è nel mondo, da ciò che egli vuole diventare e dai modi con i quali si dispone ad esistere, e se non proprio da quel-la capacità soggettiva che si confronta solo e sempre con l’occasione interpretativa che la situazione gli offre?

Eccolo, dunque, il limite più profondo, luogo precipuo di scoper-ta della propria forma: il limite che vuole essere violato, che richiede di educare la situazione per educarsi all’esistenza. Ciò significa che è soltanto il soggetto – il soggetto che intende agire liberamente in una situazione (a lui) data – a poter cogliere un senso ulteriore, ma è anche soltanto quel medesimo soggetto che, per incidere nel plesso di situazioni nelle quali è coinvolto, è chiamato a varcare il proprio limi-te soggettivo di risposta ad un’esigenza, per ridescrivere, invece, il proprio agire in un orizzonte più vasto di progettualità esistenziale. Vale a dire che non è possibile corrispondere ad una richiesta di sen-so se non nell’ordine del superamento del già dato, così come non ci si sottrae dall’oggettività di una situazione se non orientandola sog-gettivamente7.

Che cosa significa per me questo fatto? Lo leggo e lo interpreto nel quadro complessivo della mia vita, o lo circoscrivo nella sporadicità di un frammento di mondo che vive in me insieme a molti altri? E nel primo caso, quali riflessi questa esperienza ha sul mio passato, sul mio presente e sul mio futuro? Che cosa essa implica o non implica?

7 Per Piero Bertolini, allievo di Enzo Paci e padre della pedagogia fenomenolo-gica italiana, una delle istanze essenziali dell’educazione starebbe proprio nel supe-ramento del già dato come “avventura”. A questo riguardo si rimanda soprattutto a P. Bertolini, Fenomenologia dell’avventura: oltre il già-dato, in Id., Pedagogia

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E ancora: se implica qualche cosa, come posso fare a meno di rilan-ciare nel mondo e nella mia esistenza proprio le sue implicazioni così per come io intendo orientarle?

Com’è evidente, se non tutto, certamente molto di ciò che ciascu-no può liberamente attribuire ad una esperienza rivela ben di più di ciò che ciascuno è e diventa di quanto l’atto di risposta ad uno sti-molo esperienziale lasci credere. Nello spazio nel quale il soggetto

riflette in sé l’esperienza che sta vivendo sembra compiersi tutto ciò

che comincia a dare senso al fare esperienza. Se non altro perché in quel momento – il momento in cui l’esperienza si fa vissuto – si fa strada la consapevolezza che esistere è confrontarsi con il proprio limite costi-tutivo, il limite che siamo, del quale cominciamo a conoscere gli oscuri contorni, e rispetto al quale tentiamo inesorabilmente di ripensarci.

Ecco: l’educazione si rivela come esperienza del mondo in quan-to esperienza del limite, dove il vissuquan-to fenomenologico è il nodo di possibilità di senso, e l’esistenza è il suo sterminato confine. E la con-sapevolezza di tale scarto tra il limite e il suo superamento corrispon-de esattamente allo spazio nel quale prencorrispon-de corpo la fatica disvelante della propria forma.

La negazione educativa

Forse su quel limite è bene sostare ancora. Se non altro perché proprio nell’esperienza del limite come soglia che lega il dinamismo tra possibile e impossibile e tra visibile e invisibile pare annidarsi un nodo cruciale8. Lì, infatti, stretto nell’angusta linea di confine, sta

for-se ciò che il soggetto intuisce come sotteso alle cofor-se del mondo, quan-do è sensibile la percezione di una realtà che non riesce mai ad essere esaustiva, completa e limpida; e quando proprio quella insuffisance si fa luogo topico di un possibile svelamento.

8 L’allusione, e quindi il rinvio, riguarda qui il volume di M. Merleau-Ponty, Le

visible et l’invisible (1964), trad. it. Il visibile e l’invisibile, Milano, Bompiani, 1993. Un

testo noto soprattutto per la serrata critica a Sartre a proposito del problema del negativo.

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Sebbene, esistenzialisticamente, simile osservazione si legittimi senza alcuno stupore nell’impossibilità umana di cogliere la totalità, vale a dire nella parzialità tragica che fa dell’uomo, in primis, un esi-stente mancante9, tuttavia la sua implicazione primaria per il

sogget-to che ‘si fa’, precede, ancora una volta, qualunque formulazione teo-rica per radicarsi nell’esperienza concreta, disilludendo, per ciò stes-so, qualunque deriva consolatoria.

Posto, infatti, che l’esperienza soggettiva impone lo spaesamento radicale dell’affermazione husserliana per la quale “l’obiettività in se stessa non è esperibile”10, resta il problema cogente di rinvenire nelle

cose del mondo ciò che in esse si nasconde.

Insomma: che cosa sono le cose del mondo alle quali il soggetto si relaziona facendosi? Che cosa sono davvero nella mia esperienza ‘casa’, ‘albero’, ‘libro’? Ossia, sartreanamente, com’è connotata la relazione tra me e il mondo?

Enzo Paci, filosofo italiano acutamente impegnato a scovare le tracce di senso di fenomenologia ed esistenzialismo, nel suo Diario

fenomenologico ha voluto esemplificare tale relazione attraverso la

pro-9 L’espressione “esistente mancante” ha una precisa connotazione, descritta da Sartre ne L’essere e il nulla: “la realtà umana è il proprio superamento verso ciò che le manca, si supera verso l’essere particolare che sarebbe se fosse ciò che è. La realtà umana non è qualcosa che esista subito, per mancare poi di questo o di quello: esiste subito come mancanza, ed in unione sintetica immediata con ciò di cui manca. Così […] la realtà umana si percepisce come essere incompleto nella sua venuta all’esi-stenza” (Ivi, p. 135, passim). Il celebre esempio relativo a tale condizione merita, dunque, di essere riportato: “una mancanza presuppone una trinità: quello che man-ca o manman-cante, quello a cui manman-ca ciò che manman-ca o esistente, ed una totalità che è stata disgregata dalla mancanza e che sarebbe ristabilita dalla sintesi del mancante e dell’esistente: il mancato. L’essere che si offre all’intuizione della realtà umana è sem-pre quello a cui manca, o esistente. Per esempio, se dico che la luna non è piena e che le manca un quarto, formulo questo giudizio in base a un’intuizione piena di una luna crescente” (Ivi, pp. 131-132). Sicché il soggetto – l’esistente – gettato nel mon-do sperimenta la sua stessa esistenza come assenza di totalità, ossia come parzialità. Simile intuizione decisiva, tuttavia, abita la quotidianità: “che la realtà umana sia mancanza – aggiunge Sartre – basterebbe a provarlo l’esistenza del desiderio come fatto umano” (Ivi, p. 132).

10 Cfr. E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale

Phänomenologie (1954), trad. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascen-dentale, Milano, Il Saggiatore, 1961, p. 157.

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pria esperienza riflessiva. Così, le ‘cose’ nella semplice presenza mate-riale che le caratterizza innanzitutto, si rivelano, nello spazio attenti-vo che egli dedica loro, non più quali ‘semplici cose’ ma piuttosto come occasioni di relazione tra l’io e il mondo, e, ancor meglio, come occasioni di riflessione su quella medesima relazione. Paci, infatti, scriveva:

Non posso negare quello che c’è, non posso negare il mondo nel quale vivo. Eppure dico di no. Non accetto l’impenetrabilità, l’opacità delle cose11.

In tal senso soffermarsi sulla non inequivocabilità del fenomeno, ma considerare, al contrario, la sua costitutiva ambiguità, significa porsi, per l’appunto, la domanda sul limite. Non soltanto, quindi, su quel limite soggettivo che impedisce a chiunque di conoscere tutto, ma anche sul limite inteso come linea di confine, la quale, separando il soggetto dal fenomeno che egli stesso esperisce, tuttavia gli offre l’interrogativo inerente l’impenetrabilità: l’“opacità delle cose”, laddo-ve ad essa laddo-venga negato un rassegnato giudizio d’impotenza, può dire

qualcosa. Pronunciare il “no” cui Paci si riferisce consiste, allora, nel

primo tentativo di cogliere più a fondo quella relazione io-mondo rispetto alla quale il soggetto fa e si fa, ovvero significa interrogare ‘il cono d’ombra’12che sempre accompagna l’esperienza.

11 Cfr. E. Paci, Diario fenomenologico (1961), Milano, Bompiani, 1973, pp. 41-42. 12 Infatti il cono d’ombra, lungi dall’essere un’appendice inutile della presenza soggettiva, è, al contrario, al centro del percorso educativo in quanto spazio di custo-dia e di scoperta di sé. A questo riguardo è decisiva la riflessione di Aldo Giorgio Gargani, che sottolinea con estrema lucidità come l’ambiguità del linguaggio rischi troppo spesso di tradire il senso dell’evento: “nell’istante in cui parliamo della nostra persona essa sembra sfuggirci in quanto, anziché apparire come l’unità coesa e inte-grata che ordinariamente crediamo, essa manifesta un campo di tensioni e di incoe-renze che rivelano il carattere paradossale della nostra esistenza. […] Il linguaggio ordinario è impotente a restituire la paradossalità di questa condizione esistenziale, e precisamente perché esso non riesce a farsi carico della nostra realtà mai accaduta che è ineffabile, indicibile e che si manifesta attraverso i buchi, le lacune e gli abissi che si aprono nel corpo del testo nel quale la scrittura ci racconta. In questa scrittura in effetti noi siamo e poi anche non siamo, ed è questa l’ambiguità che sfugge al lin-guaggio ordinario denotativo il quale non afferra il cono d’ombra che l’irrealtà del

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Così l’opacità chiede luce, non necessariamente per rischiararsi, ma per farsi essa stessa oggetto d’esplorazione più profonda e per cor-rispondere alla domanda di senso di ogni situation. L’intuizione del dubbio sull’ovvio diviene ora possibilità di comprensione, e l’ovvio medesimo appare equivoco e celante come, per l’appunto, un giudi-zio ‘già dato’, e quindi consolidato, ma non ‘già vissuto’. Tant’è vero che:

Dire di no è, fenomenologicamente, “porre tra parentesi”, esercitare l’epoché, la sospensione del giudizio13.

Si tratta, dunque, di una negazione che non funge da annichilen-te esercizio di fuga, quanto piuttosto da ingaggio di una nuova parti-ta esplorativa. Laddove, infatti, il “porre tra parentesi” venisse inteso come rinuncia al giudizio, lì esso sarebbe tradito in duplice senso: per un verso come espediente – peraltro troppo facilmente smascherabi-le – per non pronunciare il (pre)giudizio; per altro verso come cervel-lotica ipotesi di sottrazione del soggetto dall’esistenzialità.

Sicché, a partire dall’esigenza di comprendere la propria relazione con il mondo attraverso la propria esperienza del mondo, il soggetto si trova a fare i conti con l’automatismo definitorio per il quale ciò che egli esperisce è, in fin dei conti, non solo già presente a prescin-dere da sé, ma anche e per lo più – e qui sta lo scivolamento genera-lizzante e falsificante – già conosciuto. Eppure, quando si ravvisa l’inci-denza di questo medesimo meccanismo nella comprensione della

nostro essere proietta su ciò che siamo e su ciò che siamo diventati, sottraendo la nostra persona alle sue astrazioni, alle sue idealizzazioni proiettive e agli arbìtri della volontà, in cui ci illudiamo che la nostra realtà consista, e restituendola al gioco tra sfere chiare e oscure nelle quali per la verità la nostra esistenza trascorre e si declina. È questa condizione indivisa di essere e non essere, di sogno e di veglia, di zone illu-minate e di recessi oscuri della nostra coscienza che va al di là del linguaggio ordina-rio, il quale uncina soltanto fatti opachi, sordi e muti, che costituiscono la pelle indu-rita della nostra persona, ma sotto la quale scorre la nostra esistenza alla ricerca del suo sogno oscuro. Ed è questo sogno oscuro lo scenario possibile ed eventuale di quella trasformazione di noi stessi che può culminare in una nuova nascita”. Cfr. A.G. Gargani, Il testo del tempo, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 3-4, passim. Proprio al “cono d’ombra” Gargani ha dedicato l’ultimo capitolo del volume (pp. 91-138).

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propria esperienza, delle proprie convinzioni, o delle proprie rappre-sentazioni, il risultato che ne viene è lo stupito spostamento d’atten-zione su ciò che, da ovvio che era, diviene nuovo, e pertanto vuoto di senso. In questa chiave, infatti, ciò che pare comune e che esiste nel-la quotidianità esperienziale secondo l’ordine delnel-la scontatezza del suo essere com’è, viene fenomenologicamente riconquistato al dub-bio rispetto alla banalità del suo apparire.

Cosa c’è di nuovo – o di celato, o di significante – in un albero?

Tutto ciò che tocco, che guardo, che odo, tutte le cose e gli esseri viven-ti, le piante, gli animali, gli uomini, sono come sospese, in attesa. Le sen-to, le guardo, con stupore infinito. Non soltanto come se fosse la prima volta che le vedo. È un’esperienza più forte, più profonda. L’albero non vive più nell’aria, si è cristallizzato, e con l’albero tutto. Attende. Esiste nell’attesa. Non ha più un significato ovvio, quotidiano. Il suo significa-to devo darglielo io14.

Configuratasi come occasione radicale di sollecitazione riflessiva, l’epoché fenomenologica traduce l’esigenza educativa di scovare sem-pre un nuovo senso attraverso la comsem-prensione – la ‘sem-presa’ sulle cose. In questa chiave, continua Paci,

Il mondo è là: è stato creato, si diceva. Il mondo è là e finora io credevo che fosse naturale, che fosse ovvio il suo essere là. Ora so che il suo esse-re là è oscuro, enigmatico, coperto. Il mio no è il no ad un mondo senza significato per me, anche se ha avuto significato per altri […] Ma questi significati sono cristallizzati, dormono. Devo risvegliarli. Per risvegliarli devo dire di no a tutto ciò che dorme, che è oscuro, nascosto. Devo risve-gliare me stesso, diventare sveglio come finora non sono mai stato15.

Il “no” fenomenologico, allora, diviene felice strumento di ‘veglia’ educativa ed esistenziale, riconducendo la sua necessità proprio a quella relazione tra soggetto e mondo tanto cara a Sartre e rispetto alla quale, ora, s’intravede una concreta possibilità di ulteriorità16. Di

14 Ibidem. 15 Ibidem.

16 Il medesimo stupore, non a caso, sorprendeva Sartre quando scoprì la feno-menologia di Husserl come la possibilità più autentica d’interrogazione del

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fenome-una possibilità, infatti, si tratta, giacché il rifiuto epokale, negando non già le cose, ma il loro significato corrente, nega anche quel limi-te riflessivo, elimi-terodiretto e insinuanlimi-te, in virtù del quale la relazione tra soggetto e mondo sarebbe ricondotta ad alcune categorie ‘obietti-ve’ di comprensione dei fenomeni e di ‘educazione alla vita’.

È vero: lo spaesamento indotto dalla “messa tra parentesi” del giu-dizio diffuso implica inquietudine ed incertezza. Ma sono esse sole che possono dire dell’ambiguità dell’uomo e della sua medesima ten-sione a farsi. Infatti, sottolinea ancora Paci:

Ciò che era là, il mondo che era già là, è ora davanti a me: non più un mondo già fatto ma da fare. È diventato un compito, un fine che dà significato alla vita, alla mia vita e a quella degli altri. L’epoché mi ha fat-to scoprire una vita che va al di là di ciò che ho già vissufat-to, una vita che continuamente si supera, che sempre si trascende trasformando il già fatto in un compito, in un significato di verità. Questa vita nella quale davvero vivo è la vita intenzionale17.

Di qui l’idea che sia proprio l’intenzionalità come sovraesposizio-ne del soggetto sovraesposizio-nel mondo a dare forma visibile – e relazionabile – alla soggettività stessa: il “già fatto”, sorpreso come “da fare”, diviene “com-pito”. Il compito, cioè, di dare forma – contorni, contenuti, significati – al proprio vissuto soggettivo, relazionandosi continuamente a quel-lo stesso modo di dare forma. In altre parole, l’educazione propria di quella “vita che continuamente si supera” – simmeliana prima che paciana18– è data, allora, non solo dal movimento d’azione e di

rifles-no. Simone de Beauvoir racconta così l’episodio decisivo: “Raymond Aron trascor-reva l’anno all’Istituto Francese di Berlino, e, mentre preparava una tesi di storia, studiava Husserl. Quando venne a Parigi ne parlò a Sartre. Passammo insieme una serata al Bec de Graz, in Rue Montparnasse; ordinammo la specialità del locale: il cocktail all’albicocca. Aron indicò il suo bicchiere: ‘Vedi, mio piccolo compagno, se sei fenomenologo, puoi parlare di questo cocktail, ed è filosofia!’ Sartre impallidì, o quasi, dall’emozione; era esattamente ciò che desiderava da anni: parlare delle cose come le si toccano, e che questo fosse filosofia”. Cfr. S. de Beauvoir, La force de l’âge (1960), trad. it. L’età forte, Torino, Einaudi, 1995, p. 117.

17 Cfr. E. Paci, Diario fenomenologico, cit., p. 43.

18 Così, infatti, scrive Simmel: “La vita immediatamente vissuta è appunto l’unità tra essere-formato e aspirare-oltre, è fluire oltre la forma in generale, cosa che nel sin-golo momento si presenta come infrangersi della forma di volta in volta attuale – la vita è appunto sempre più-vita rispetto a ciò che ha spazio nella forma di volta in

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sione sull’esperienza, ma anche dalla direzione intenzionale che caratte-rizza, motiva e investe di significato tale movimento19. Tanto da fare

dell’Erlebnis, appunto, il nucleo essenziale dell’esistenza20.

volta ad essa data, da essa stessa sviluppata. […] Noi pensiamo, sentiamo, vogliamo, questo e quello – si tratta di contenuti ben circoscritti, di qualcosa di logico che solo ora si è realizzato, qualcosa di pienamente definito o definibile in linea di principio. Eppure, vivendolo, vi è ancora dell’altro: l’ineffabile, l’indefinibile che avvertiamo in ogni vita in quanto tale. Essa è più di qualsiasi contenuto che si possa indicare, vibra oltre qualsiasi contenuto; non lo possiede e lo considera solo dall’interno, com’è nel-la natura dei dati contenutistici logici, ma anche dall’esterno, da ciò che è al di là di esso. Noi siamo in questo contenuto e nel contempo ne siamo fuori; accogliendo questo contenuto – e null’altro che possa essere indicato – nella forma della vita, noi abbiamo eo ipso più di questo stesso contenuto. Con ciò si è indicata la dimensione verso la quale la vita si trascende, se non è solo più-vita, bensì più-che-vita”. Cfr. G. Simmel, Lebensanschauung (1918), trad. it. Intuizione della vita, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1997, p. 18, passim. Per ciò che attiene alla testimonianza più esplicitamente pedagogica di G. Simmel si veda: G. Simmel, Schulpädagogik (1922), trad. it. L’educazione in quanto vita (a cura di A. Erbetta), Torino, Il Segnalibro, 1995. 19 Piero Bertolini, definiva, nel suo L’esistere pedagogico, i fondamenti fenomeno-logici della pedagogia come scienza. A partire dal fatto che “l’esperienza educativa […] presenta contemporaneamente il carattere della intenzionalità e dunque della volontarietà e quello dell’autonomia di senso in quanto storicamente e concretamente costituita sulla base di indicazioni emergenti dalla sua stessa struttura e dunque sul-la base dei significati originari che sul-la caratterizzano” (Ivi, p. 162, passim), essa si potrà orientare in una direzione piuttosto che in un’altra, corrispondendo contempora-neamente e non in maniera scissa a tale duplice istanza preliminare. Così, afferma più avanti Bertolini, “si tratta di leggere e analizzare l’esperienza educativa (sempre considerata nei suoi molteplici singoli eventi) per tentare di cogliervi i possibili sensi o meglio le direzioni intenzionali originarie, quelle per le quali l’esperienza educativa stessa si è dispiegata nel tempo attraverso la molteplicità degli eventi educativi, indi-pendentemente dal loro specifico contenuto” (Ivi, p. 166). Per approfondire il signi-ficato e la prospettiva ermeneutica delle direzioni intenzionali originarie dell’espe-rienza educativa individuate da Bertolini e tese, appunto, a sottolineare la valenza etica del progetto esistenziale, si rimanda a P. Bertolini, L’esistere pedagogico, Firenze, La Nuova Italia, 1988, pp. 173-200.

20 Dell’esperienza vissuta (Erlebnis), pur nella vasta e articolata letteratura filoso-fica che ne analizza il senso e le implicazioni nelle direzioni di ricerca più diverse, è offerta una semplice ma completa definizione nel “Piccolo dizionario fenomenologi-co” che chiude Funzione delle scienze e significato dell’uomo di Enzo Paci. Un dizionario che, nelle esplicite intenzioni dell’Autore, non va letto quale strumento teoretico, ma che intende suggerire “le operazioni che deve compiere il fenomenologo per capire e trasformare se stesso, gli altri e il mondo” (p. 467). Un dizionario ‘metodologico’, dunque, che rinvia chiaramente alla direzione educativa della riflessione paciana. Qui, appunto, l’Erlebnis è “ogni esperienza in quanto ‘vissuta’, in quanto presente e

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L’epoché, in questo ambito, costituisce esattamente quel primo fat-tore disvelante grazie al quale gettare luce nuova sull’impenetrabilità dell’esperienza – un’impenetrabilità che pericolosamente sfiora tal-volta l’anomia –, laddove essa possa ‘tener desti’, insieme, l’attenzio-ne sull’accadimento e sull’io che lo vive. Così, l’esercizio epokale diviene ponte, relazione feconda e contingente che trasforma la bana-lità del fatto in significatività del vissuto.

L’impegno, allora, non è di poco conto, né per la faticosa veglia che esso costantemente implica, né per la tensione all’ulteriorità e al futuro cui esso è vincolato, né, ancor più, per il suo significato for-mativo come direzione di senso del proprio essere-nel-mondo. Infatti, se, come affermava Husserl, “l’epoché ‘trascendentale’ va intesa – occorre badare a ciò – come un atteggiamento abituale a cui ci si deve decidere una volta per tutte”21, è, di conseguenza, decisivo

compren-dere come tale modalità di relazionarsi al mondo e a se stessi svii da ogni possibile tecnica dell’“atto transitorio che può essere ripetuto ma che rimane isolato e casuale”22per farsi, invece, vera e propria scelta

esistenziale: atteggiamento di vita, appunto.

Di qui la sua radicalità formativa, in virtù della quale l’ambiguità che necessariamente lega soggetto e (esperienza del) mondo viene assunta come irrevocabile condizione d’esistenza. Una condizione che – grazie all’attività fungente dell’epoché – inerisce alla coscienza

diretta nelle varie modalità del sentire, del percepire, dell’intendere” (p. 471). Essa, dunque, va intesa nella correlazione di tutte e tre le modalità indicate. Cfr. E. Paci,

Funzione delle scienze e significato dell’uomo, Milano, Il Saggiatore, 1963.

A proposito, invece, dell’Erlebnis come situazione esistenziale nella quale scovare il senso profondo della propria forma, e quindi a proposito di quella educazione che Antonio Erbetta ha definito come “esperienza vissuta dell’uomo in quanto cultura” si rinvia, su tutti a: A. Erbetta, Il paradigma della forma, Roma, Anicia, 1992; Id.,

Luo-ghi di crisi, Torino, Il Segnalibro, 1994. In questa chiave, infatti, “la formazione come

realizzazione di una propria forma quale che sia, diventa il compito pedagogico dell’uomo che intenda così realizzare pienamente il suo destino”. Poiché “destinato a realizzare se stesso in quanto cultura, l’uomo si dà nel processo del suo farsi autono-mo e responsabile. Processo che, a partire dalla datità di una condizione naturale – ciò che semplicemente lo costituisce come rousseauiano homme de la nature et de la

verité – potrà soltanto riflettersi nella faculté maîtresse della sua libertà di cultura

vissu-ta come orizzonte di vivissu-ta”. Cfr. A. Erbetvissu-ta, Il paradigma della forma, cit., pp. 32 e 33. 21 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee…, cit., p. 178.

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formativa del soggetto in ordine al significato di verità dell’ambiguità medesima.

L’epoché, infatti, non serve a garantire la visione obiettiva dell’oggetto, quanto piuttosto a conoscerne la parzialità della perce-zione soggettiva, occultata dal concetto diffuso e silenziosamente condiviso di ‘oggetto’ in ragione del quale esso è ciò che è, e starebbe quindi al soggetto attivarsi per comprenderne la totalità ‘obiettiva’. Laddove, invece, l’oggetto ‘così com’è’ è sempre, per un verso, cono-sciuto dalla soggettività e, per altro verso, descritto ‘oggettivamente’ dalle scienze23. Allo stesso modo, precisava Paci,

C’è dunque una distinzione, all’inizio, tra ciò che si presenta a noi indi-rettamente e ciò che noi viviamo diindi-rettamente. Indiretto è ciò che non viene vissuto da noi in carne ed ossa, ciò che non è leibhaft. È ciò che vie-ne accolto o accettato per procura, per testimonianza d’altri, o come risultato di un’attività che non è la nostra. Invece ciò che è da noi vissu-to direttamente è indiscutibile e quindi vivo. Le esperienze che cono-sciamo per procura non sono vissute24.

Così, il bicchiere di birra che nel Roquentin di Sartre – il perso-naggio che forse più di tutti, nella letteratura europea novecentesca, ricalca l’inesorabile scoperta dell’assurdità di un mondo privo di sen-so – produce l’esperienza cenestetica della nausea, si rivela tale sen-solo

dopo, alla fine del romanzo. Ma il suo significato originario, celato

dalla dimestichezza con la banalità delle cose del mondo, a quel pun-to ha rivelapun-to al protagonista de La nausée due questioni capitali che erano inimmaginabili – o, al massimo, intese ‘per procura’ – all’inizio

23 Scienze, tuttavia, che, secondo l’Husserl più noto, occultano l’esperienza diret-ta del mondo dirotdiret-tando il senso soggettivo della cosa nell’ambito del senso oggetti-vo, e cessando, per ciò stesso, di denotare significativamente ed autenticamente l’esperienza. La Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, infatti, si apre con un capitolo dedicato proprio a “La crisi delle scienze quale espressione della cri-si radicale di vita dell’umanità europea” (pp. 33-47), avendo come oggetto d’indagi-ne principalmente la psicologia, ma sottopod’indagi-nendo in realtà “a una critica seria e peraltro estremamente necessaria la scientificità di tutte le scienze, senza pertanto rinunciare al primo senso della loro scientificità, quel senso che è inattaccabile data la legittimità delle sue operazioni metodiche”. Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze

europee…, cit., p. 35.

24

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della storia. La prima attiene allo stupore incoercibile e universale che “le piccole cose di cattivo gusto” di Guido Gozzano sanno suscitare, con sgomento, nella nostra comunissima vita – quelle stesse cose che facevano sussurrare a Albert Camus che “ogni volta che m’è sembra-to di sentire il senso profondo del mondo, è sempre stata la sua sem-plicità a sconvolgermi”25; la seconda riguarda proprio il fatto che

simile stupore non deriva dall’ingenuo affacciarsi al mondo del bam-bino che, per benevola inesperienza, ‘non sa’, ma che esso, al contra-rio, è il risultato in fieri di un percorso intenzionale, di una veglia fati-cosa, dell’esigenza – molto paciana – di “vedere e sentire” come eser-cizio disvelante26.

A cosa serve, infatti, stupirsi del mondo? Se l’educazione è davve-ro “esperienza vissuta”, quello stupore certifica l’appdavve-rossimazione al nucleo di senso originario, il quale, da occultato e tradito, viene rico-nosciuto e lasciato emergere al suo senso di verità.

Così, infatti, Roquentin:

c’era un povero diavolo che s’era sbagliato di mondo. Esisteva, come gli altri, nel mondo dei giardini pubblici, delle bettole, delle città commer-ciali e voleva persuadersi che viveva altrove, dietro la tela dei quadri, con i dogi del Tintoretto, con i gravi fiorentini di Bozzoli, dietro le pagine dei libri, con Fabrizio del Dongo e Julien Sorel, dietro i dischi fonografici, con i lunghi lamenti secchi del jazz. E poi, dopo aver fatto ben bene l’imbecille, ha capito, ha aperto gli occhi, e ha visto che c’era stato uno sbaglio: era in una bettola, per l’appunto, davanti ad un bic-chiere di birra tiepida. È rimasto accasciato sul sedile, ed ha pensato: sono un imbecille27.

25 Cfr. A. Camus, L’Envers et l’Endroit (1937), trad. it. Il rovescio e il diritto, in Id.

Opere, Milano, Bompiani, 1992, p. 29.

26 A proposito del suo relazionismo, infatti, Paci scriveva: “Una filosofia relazio-nistica non è soltanto un modo di pensare, ma un modo di vedere (proprio nel sen-so husserliano, nel sensen-so ‘eidetico’), e di sentire. Ed una filosen-sofia così concepita, nel momento stesso nel quale si pone come fenomenologia, si pone anche come peda-gogia e come paideia, come autoeducazione della vita”. Cfr. E. Paci, Il nulla e il

pro-blema dell’uomo (1950), Milano, Bompiani, 1988, p. 132. Per una lettura

pedagogi-ca del relazionismo paciano, anche rispetto alle sue implipedagogi-cazioni con la pedagogia fenomenologica, ci permettiamo di rinviare a E. Madrussan, Il relazionismo come

pai-deia, Trento, Erickson, 2005.

27 Cfr. J.-P. Sartre, La nausée (1948), trad. it. La nausea, Torino, Einaudi, 1990, p. 234.

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Non tragga in inganno, a maggior ragione, la citazione sartreana: se oggi il “povero diavolo” in questione s’intrattiene più facilmente con tutt’altri tipi d’intellettualità, forse meno raffinati, propri di quel-la modernità che Luigi Pintor ha a suo tempo efficacemente associa-to ad “un individuo [la società moderna] che ha per modello l’obe-sità”28, tuttavia il nodo essenziale del discorso non muta affatto. Qui,

di converso, è lo strazio indotto dalla scoperta dell’inutilità ad essere irriso, laddove, invece, è proprio l’inutilità del risultato, rispetto all’attesa meccanica e causalistica che fa dell’effetto il certificato di garanzia del proprio operato, a costituire la sorpresa di un nuovo orizzonte di senso. In altre parole, la conquista dell’‘imbecillità’ di Roquentin si rivela nodo sciolto (provocatorio), raggiunto il quale il protagonista, finalmente, ‘sente di esistere’29.

Così, la consapevolezza della propria esistenza, dura e spigolosa, può cominciare proprio attraverso la resistenza del mondo. Una resi-stenza sentita e vista in virtù di quell’atteggiamento esistenziale che fa del soggetto una tensione attentiva situata su una linea di confine.

Al di là della percezione

Niente è più difficile che il sapere esattamente quello che noi vediamo30.

Con quest’affermazione Maurice Merleau-Ponty focalizzava, insieme al problema essenziale della fenomenologia della percezione, il luogo originario della relazione tra soggetto e mondo. Egli, cioè, individuava nella percezione proprio quel ponte tra ‘io’ e ‘altro’ che, unendo, evidenzia la matrice costitutiva della separatezza. In questa

28 Cfr. L. Pintor, Il nespolo, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 79. 29 Cfr. J.-P. Sartre, La nausea, cit., p. 238.

30 Cfr. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception (1945), trad. it.

Fenome-nologia della percezione, Milano, Il Saggiatore, 1972, p. 102. Per una attenta lettura del

pensiero merleau-pontyano come filosofia dell’educazione si veda D. Calabrò,

L’infanzia della filosofia, Torino, Utet Libreria, 2002. Sulla corporeità come luogo

topico dell’esistenza vanno segnalati, nel panorama italiano e pur nella diversa pro-spettiva ermeneutica, almeno: P. Prini, Il corpo che siamo, Torino, Sei, 1991; U. Galimberti, Il corpo (1983), Milano, Feltrinelli, 2000.

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chiave, la soglia sulla quale il soggetto sta rivela, insieme al limite del-la propria presenza – il “corpo-proprio” –, soprattutto l’imprescindi-bilità di tutto ciò che circonda il soggetto stesso.

A dare ascolto a Merleau-Ponty, infatti, “il corpo è il nostro mez-zo generale per avere un mondo”31. Ma questa semplice

considera-zione è già il risultato di un esercizio sospensivo e indagatore di ciò che comunemente viviamo come ‘dato di fatto’ trascurando l’esigen-za di considerarne le implicazioni di senso profonde32.

Ripercorren-do parte del lungo percorso fenomenologico del filosofo francese, infatti, il primo elemento rivelativo è dato dal fatto inesorabile che ogni percezione – cioè ogni primordiale esperienza del mondo – è sempre percezione “di qualcosa”:

io osservo gli oggetti esterni con il mio corpo, li maneggio, li ispeziono, ne faccio il giro, ma, per ciò che lo riguarda, non osservo il corpo stesso: per poterlo fare, sarebbe necessario disporre di un secondo corpo che a sua volta non sarebbe osservabile33.

Con ciò, estremizzando la considerazione del corpo-oggetto, mero strumento di percezione, Merleau-Ponty giunge ad evidenziar-ne il paradosso:

In quanto vede e tocca il mondo, il mio corpo non può quindi essere visto né toccato. Esso non è mai un oggetto, non è mai “completamente costituito”, proprio perché è ciò grazie a cui vi sono degli oggetti. Non è né tangibile né visibile nella misura in cui è corpo che vede e che tocca. Non è quindi un oggetto esterno qualsiasi, che avrebbe semplicemente la peculiarità di essere sempre là. Se è permanente, lo è di una perma-nenza assoluta che serve da sfondo alla permaperma-nenza relativa degli ogget-ti suscetogget-tibili di eclissi, degli autenogget-tici oggetogget-ti. […] Non solo il mio cor-po non è un caso particolare della permanenza nel mondo degli oggetti esterni, ma la seconda non è comprensibile se non per mezzo della

pri-31 Ivi, p. 202.

32 L’Husserl de La crisi delle scienze europee, infatti, indicava nell’epoché esattamen-te il metodo necessario per rendere il soggetto fenomeno, in virtù proprio dell’esigen-za di “tornare alle cose stesse”. Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee…, cit., con particolare attenzione al primo capitolo della Terza Parte, pp. 133-215.

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ma; non solo la prospettiva del mio corpo non è un caso particolare di quella degli oggetti, ma la presentazione prospettica degli oggetti non è comprensibile se non per mezzo della resistenza del mio corpo a ogni variazione prospettica34.

In altre parole, è sempre il soggetto-corpo a rappresentare l’oggetto-mondo, e a circostanziarne la percezione in virtù del proprio modo (possibilità) di percepire. Si tratta, quindi, di ciò che anche Sartre intendeva riferendosi alla situazione e alla dialettica tra “in sé” e “per sé”.

In questo senso, allora, è decisivo, per un verso, rinvenire nell’esperienza percettiva il luogo primario di simile condizione esi-stenziale; ma tale esperienza è, per altro verso, fondativa anche di un’ulteriore imprescindibilità, in virtù della quale, appunto, il sog-getto-corpo è anche oggetto percettivo. Lo è, per esempio, quando esso viene a sua volta percepito da un soggetto-corpo altro da sé: quel “secondo corpo” di cui “sarebbe necessario disporre”35.

La questione non è da poco: io guardo, parlo, tocco un altro sog-getto: egli è, in quel momento, il mio ‘oggetto percettivo’. Quando compio questa banale operazione, io sono quel corpo-proprio che, in virtù del suo guardare, ‘rende presente’ l’oggetto-altro. Eppure, nello stesso momento, il ‘mio’ oggetto-altro è a sua volta un soggetto-cor-po: un corpo-proprio per il quale io sono un ‘oggetto percettivo’. Il corpo proprio in quel momento è, insieme, soggetto e oggetto; e ugualmente è per l’altro.

Al di là delle peculiari conseguenze filosofiche e psicologiche di tale prospettiva, ve ne sono di prettamente formative rispetto alle qua-li tanto l’esperienza educativa quanto l’idea di educazione vanno riconsiderate. Di qui, infatti, la relazione con l’altro – esperienza fon-damentale del mondo – diviene essenziale nodo di senso36. La

sepa-34 Ivi, pp. 143-144, passim.

35 Sulla complessa questione che riguarda la corporeità come matrice della rela-zione intersoggettiva si vedano: AA.VV. (a cura di A. Erbetta), Il corpo spesso, Torino, Utet Libreria, 2001; AA.VV. (a cura di L. Balduzzi), Voci del corpo, Milano-Firenze, La Nuova Italia (Rcs), 2002; AA.VV. (a cura di A. Mariani), Corpo e modernità, Mila-no, Unicopli, 2004.

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intenzional-ratezza in virtù della quale ‘io’ e ‘altro’ esistono nell’impossibilità radicale di cogliere se stessi a prescindere dal loro sguardo reciproco, è tale soltanto nella distanza assoluta dei corpi. Sicché il corpo-pro-prio è, insieme, ciò che circoscrive il soggetto separandolo dal mon-do, ciò che consente al soggetto di entrare in relazione col monmon-do, e

anche ciò che lo sottopone all’osservazione del mondo. È ciò,

insom-ma, che lo fa esistere in quanto soggetto-corpo.

La relazione, allora, è bidirezionale: non è soltanto l’io che si pre-dispone autarchicamente alla relazione verso il mondo, ma esso è anche il bersaglio dell’intenzione relazionale altrui37. In tal maniera si

comprende tanto la necessità della separatezza, quanto la necessità della relazione: l’una non sussiste senza l’altra38.

mente essere educativa, e quindi quando essa, come afferma Bertolini, si dispone fenomenologicamente a farsi “relazione-reciproca”: “secondo questa direzione intenzionale originaria, l’esperienza educativa esige sempre un continuo ed equili-brato movimento di andata e ritorno tra tutti i fattori che vi sono coinvolti, a partire naturalmente dai suoi due principali protagonisti, ovvero dall’educatore e dall’edu-cando. In questo senso ci pare indispensabile adottare la dizione relazione-reciproca nella quale l’attributo entri a far parte costitutiva del sostantivo”. Cfr. P. Bertolini,

L’esistere pedagogico, cit., p. 177.

37 A proposito della notissima affermazione sartreana secondo la quale “l’enfer c’est les Autres” (J.-P. Sartre, Huis clos, Paris, Gallimard, 1947, p. 92), affermazione in virtù della quale è stato possibile cogliere la radicale ed autentica spietatezza del senso della relazione intersoggettiva, si rinvia a A. Ceroni, L’alterità in Sartre, Milano, Marzorati, 1974. È possibile, tuttavia, individuare una sintesi essenziale del proble-ma nella lucida analisi che Tortolone ha condotto sul pensiero di Sartre: “La presen-za d’altro non rafforpresen-za per me l’oggettività del mondo, ma la fa fuggire, la depoten-zia; la presenza dello sguardo d’altri non è conoscenza, proiezione o amplificazione d’esistenza; è, e non deriva da me: è la dimensione del mio disagio, di esistere come oggetto nel mondo. Tutto ciò implica la dimensione del nulla sullo sfondo, come differenza e diversità nella reciproca negazione”. Cfr. G.M. Tortolone, Invito al

pen-siero di Sartre, Milano, Mursia, 1993, p. 106.

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Scriveva, infatti, Husserl: “L’altro, per il suo senso costitutivo, rinvia a me stes-so; l’altro è rispecchiamento di me stesso e tuttavia esso non è propriamente un rispecchiamento, un analogo di me stesso, né addirittura un analogo in senso comu-ne. L’ego è quindi, dapprima, delimitato nel suo essere proprio e nei suoi momenti costitutivi, non solo per quel che riguarda i vissuti, ma anche per le unità di valore che sono da lui inseparabili; così riguardato e articolato, esso deve dar luogo al pro-blema della possibilità per il mio ego di costituire, al di dentro della sua appartenen-za, qualcosa di veramente estraneo, in una attività che ha per titolo ‘esperienza dell’estraneo’”. Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane (1950), trad. it. Meditazioni

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È l’altro, in effetti, a definire, descrivere, vedere e sentire il sog-getto. E tale rapporto di reciprocità costituisce forse il risultato prin-cipale e la consegna più significativa dell’esercizio epokale.

Che cosa significa, infatti, alla luce dell’educazione come espe-rienza vissuta, pensare la relazione come sostanziale dislocazione di sé nell’altro? In che modo l’altro contribuisce a fare il mio vissuto? Come partecipa e condiziona, l’altro, la situazione?

L’incompletezza originaria del soggetto, facendo il suo limite costitutivo, fa anche il limite della relazione. Lungi dal trovare nell’altro il completamento perfetto del proprio sé – quella comple-mentarietà geometrica che farebbe della relazione educativa la più felice e retorica delle esperienze –, il soggetto, di converso, vede e sente nella propria ambiguità originaria l’ambiguità di ogni esperien-za esistenziale, compresa quella dell’alterità.

Sicché l’altro, in quanto specchio e in quanto interlocutore del soggetto, diviene vero e proprio luogo d’approdo: l’altro capo di quel ‘ponte’ tra soggetto e mondo che, grazie alla fenomenologia della per-cezione, è la relazione. In questa chiave l’altro cessa di essere sempli-cemente oggetto strumentale di conoscenza, pura separatezza da me, ma diventa, invece, soggetto d’attenzione, luogo di comune apparte-nenza al medesimo mondo e al medesimo problema esistenziale. Husserl, non a caso, lo chiamava alter ego, indicando con questo ter-mine un mio “analogo”, che, tuttavia, io posso vedere e sentire solo in quanto altro39.

La ricorrenza della relazione intersoggettiva nell’esperienza mon-dana diviene, così, fenomenologicamente, il fondamento della “comunità intermonadica”40, ma non solo: diviene, in chiave

formati-va, la radice esperienziale dell’intreccio tra soggetto e mondo. Un intreccio nel quale prendono forma sia l’altro che il soggetto non è, sia l’alterità – l’estraneità – che il soggetto è e di cui ancora non sa. Vale a dire che nella relazione intersoggettiva prende forma soprat-tutto quell’oscurità che investe le cose del mondo e, con esse, ogni soggetto; quel “cono d’ombra” celante che l’educazione vorrebbe ten-tare di svelare.

39 Cfr. E. Husserl, Cartesianische meditationen, cit., pp. 127 e sgg. 40 Ivi, pp. 139-166.

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In altre parole, se l’altro – straordinario specchio di sé e interlocu-tore diretto – mi rivela, allora egli mi educa poiché mi dà forma, a prescindere dalla mia consapevolezza soggettiva o dalla sua intenzio-ne esplicita. Senza l’altro, insomma, non c’è educaziointenzio-ne, perché non c’è possibilità di articolare la propria coscienza come soggettiva, né, tanto meno, la possibilità di scoprire ciò che si è. In effetti,

Un incontro non ha uno scopo solo per l’uno e per l’altro. Lo scopo tra-scende chi s’incontra. È nel senso del rapporto. Vivono ambedue per il

significato. Sono se stessi, e davvero se stessi, se nessuno dei due è

soltan-to se stesso41.

Sicché l’educazione come scoperta di un senso sempre nuovo e come traccia della propria forma originaria, torna ad interrogare il limite costitutivo. Se non altro perché la soggettività, come affermava Husserl, non esiste se non nell’intersoggettività42, e perché la

situa-zione può farsi vissuto e progetto soltanto alla luce di questa consa-pevolezza profonda.

Di qui l’idea che la relazione tra soggetto e mondo – quella rela-zione che, facendo la situarela-zione, fa l’esistenza – corrisponda alla tra-ma di senso dei vissuti: ciò che intreccia esperienze e mondi diversi, riflessioni e consapevolezze nuove. Se, dunque, l’esercizio dell’epoché – come ponte tra realtà e ulteriorità – rischiara il vissuto, la relazione – come nodo di congiunzione della molteplicità dei vissuti – raccor-da tra loro le possibilità di senso, descrivendo, con ciò, il profilo for-mativo dell’esistenza soggettiva. Laddove se per alterità s’intende tut-to ciò che non è ‘proprio’, la relazione va intesa nell’ampio spettro esperienziale che vede il soggetto alle prese con quello che Husserl chiamava “il mondo alla mano”43.

Per questo Paci potrà affermare, facendone il luogo topico della sua riflessione, che il soggetto è propriamente un “nodo di

relazio-41 Cfr. E. Paci, Diario fenomenologico, cit., p. 23.

42 “La soggettività è ciò che è, cioè un io costitutivamente fungente, soltanto nell’intersoggettività”. Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee…, cit., p. 199.

43 Cfr. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen

Phi-losophie (1950-1952), trad. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenome-nologica, Torino, Einaudi, 1976, Libro I, pp. 57-67.

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ni”44, vale a dire un punto d’intersecazione di infinite trame

espe-rienziali e di intersoggettività, le quali, attraversando il soggetto, lo fanno “nodo”, ossia nucleo di raccolta di senso e di forma.

Tornano, allora, a parlare di noi – di ciò che noi siamo e di ciò che possiamo diventare – anche gli oggetti della quotidianità, la sorpresa di un incontro, la familiarità di un paesaggio.

Qualcosa del genere, infatti, accadeva anche a Roquentin: è stato l’altro-da-sé – la compagna di una vita, ma anche il bicchiere di birra tiepida, la radice del castagno45– a dirgli dell’astrattezza della sua vita

44 L’espressione paciana è da rintracciare in E. Paci, Relazione forma e processo

sto-rico, in “aut aut”, 11, 1952, pp. 409-417, ma è uno degli elementi-chiave, se non il

principale, di tutta l’argomentazione relazionistica. A tal proposito si rinvia almeno a E. Paci, Dall’esistenzialismo al relazionismo, Messina, D’Anna, 1957.

45 Si fa qui riferimento ad alcuni degli episodi rivelatori del romanzo, in virtù dei quali al protagonista non resterà che afferrare le cose così per come esse sono, nella loro apodittica e spesso assurda datità. Infatti sarà Anny, la compagna perduta di Roquentin, a svelargli, al termine del romanzo, che i “momenti perfetti”, da lei sem-pre cercati e da lui semsem-pre disattesi, in realtà non esistono: “Ecco. Credevo che l’odio, l’amore o la morte scendessero su di noi, come le lingue di fuoco del Venerdì santo. Credevo che si potesse raggiare di odio o di morte. Che errore! Sì, davvero, pensavo che ‘l’Odio’ esistesse, e che venisse a posarsi sulle persone e ad elevarle al di sopra di loro stesse. Naturalmente non ci son che io, io che odio, io che amo. E allo-ra questo io è sempre la stessa cosa, una pasta che s’allunga, s’allunga…e si allo- rassomi-glia talmente che ci si domanda come la gente abbia avuto l’idea di inventare nomi, fare distinzioni.” (J.-P. Sartre, La nausea, cit., p. 202). E, poco oltre: “L’essenziale, per tutti noi, era il buco nero che ci stava davanti, in fondo al quale c’era della gente che noi non vedevamo; a questa evidentemente era offerto un momento perfetto. Ma sai, il pubblico non viveva dentro, gli si svolgeva davanti. E noi attori, credi che vivessimo dentro? Insomma, non era né da una parte né dall’altra della ribalta, non esisteva, e tuttavia, tutti pensavano ad esso. E allora, tu capisci, piccolo mio, – dice in tono sarcastico e quasi volgare, – ho mandato tutto a farsi benedire” (Ivi, p. 204). L’episodio della radice del castagno, per altro verso, corrisponde alla rivelazione del-la cosa stessa. Osservando del-la radice di un castagno che fuoriesce dal terreno, in un parco, Roquentin ritrova la nausea per l’assurdo essere delle cose: “Oh! Come potrò spiegare questo con parole? Assurda: in rapporto ai sassi, ai cespugli d’erba gialla, al fango secco, all’albero, al cielo, alle panche verdi. Assurda, irriducibile; niente – nemmeno un delirio profondo e segreto della natura – poteva spiegarla. Natural-mente, io non sapevo tutto, non avevo visto il germe svilupparsi e l’albero crescere. Ma davanti a quella grossa zampa rugosa, né l’ignoranza né il sapere avevano impor-tanza: il mondo delle ragioni e delle spiegazioni non è quello dell’esistenza. Un cer-chio non è assurdo, si spiega benissimo con la rotazione d’un segmento attorno ad

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– “s’era sbagliato di mondo” – mostrandogli la possibilità di un nuo-vo senso.

A riprova, forse, del fatto che la narrazione letteraria, oltre a rap-presentare in maniera straordinariamente incalzante e profonda la verità dell’uomo, può farsi essa stessa esperienza vissuta. Un’espe-rienza vissuta che al lettore attento si offre come vera e propria occa-sione formativa non appena egli ne intraveda la possibilità di darsi come una relazione feconda. Una relazione, a sua volta, che interroga la propria tensione disvelante anche al di là della stessa pagina lette-raria.

Di qui l’idea che tra l’esistenza come situazione, l’esperienza come vissuto, l’epoché come ricerca di senso e la relazione come matrice ori-ginaria, ricorre sempre la medesima fatica educativa, tesa a decostrui-re la sottigliezza del pdecostrui-regiudizio e l’ottusa sedecostrui-renità dell’innocenza.

Dall’esigenza di senso al lavoro educativo

Che cosa succede, infine, alla nostra esistenza alla luce dell’educa-zione come esperienza vissuta?

La vita diventa allora la zona d’ombra che interrompe ciò che chiamia-mo vita e che, con strabischiamia-mo erotico, guarda-alla-vita, quasi che tutta l’esistenza non ci si possa presentare se non nella percezione lacerante della nostra scissione interiore. Una vita, insomma, che guarda alla vita come a ciò che s’insinua nelle pieghe segrete della nostra intimità, nella distanza che ci separa, sempre, da ciò che siamo46.

Infatti, la consapevolezza della relazione radicale tra esistenza ed educazione sembra rinviare sempre, come ogni relazione

significati-una delle sue estremità. Ma pure il cerchio non esiste. Quella radice, al contrario, esi-steva, e in modo che io non potevo spiegarla. Nodosa, inerte, senza nome, essa mi affascinava, mi riempiva gli occhi, mi riportava continuamente alla sua propria esi-stenza. Avevo un bel ripetermi: ‘È una radice’ – non attaccava più” (Ivi, p. 175). Per una lettura formativa del romanzo sartreano, si veda I. Oggero, Il sapore del mondo.

Sul senso formativo de “La nausea” di Jean-Paul Sartre, in AA.VV. (a cura di A. Erbetta), Il corpo spesso, cit., pp. 109-132.

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va, all’ulteriorità di senso che in essa si annida e che attende, come avrebbe detto Paci, di essere svelata. Guardare alla propria vita come ad un compito, quindi, significa decidersi definitivamente al progetto. Se, con Sartre, il progetto non può che essere la risposta impegna-ta e responsabile alla condizione originaria negativa che ci fa “getimpegna-tati nel mondo”, esso diviene non già la chiave di soluzione dell’enigma dell’uomo, o, peggio ancora, la consolazione definitiva di una “cosa tra cose” che finalmente si riscatta nell’assunzione perentoria di ‘un’idea di sé’ da perseguire. Piuttosto, il progetto corrisponde all’esercizio di comprensione del limite attraverso la viva presenza nel mondo.

In questa chiave, a partire dalla scissione interiore che ci separa dalla nostra vita per poterla davvero vedere e sentire, gettarsi-verso la propria esistenza è intervenire nella situazione – magari modifican-dola – nell’orizzonte di quella tensione verso la scoperta di ciò che davvero siamo. Anche il telos, dunque, è potenziale nell’uomo: atten-de di essere svelato.

Ciò significa forse che per imparare a riconoscere ciò che siamo è necessario invocare l’esperienza, praticare l’epoché ed accogliere la relazione?

Si tratta di un equivoco non di poco conto. Un equivoco per il quale la consapevolezza del limite si trasfigura facilmente nel delirio egoico che ci vorrebbe, ancora una volta, più o meno esplicitamente, liberi da qualunque radicale responsabilità e figli, invece, di un mec-canismo conoscitivo autonomo e regolatore. Eppure, per non correre questo rischio, sarà sufficiente rievocare l’intransigenza lucida e disincantata di Sartre, quando, a proposito del progetto, non lascia spazio a dubbi: “l’uomo non è altro che ciò che si fa”47. Dove

“diven-tare ciò che si è”48non coincide, per l’appunto, con l’esercizio di una

47 Cfr. J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, cit., p. 51, corsivo nostro. 48 L’evocazione nietzscheana è ampiamente ripresa, proprio per la sua portata pedagogica, da Antonio Erbetta in: A. Erbetta, Nietzsche come educatore, in Id., Il

para-digma della forma, cit., pp. 49-64; Id., Educazione ed esistenza, cit.; Id., Sii te stesso! La controvocazione pedagogica di Friedrich Nietzsche, in AA.VV. (a cura di A. Erbetta), In forma di tragedia, cit., pp. 3-26. Della valenza pedagogica del pensiero nietzscheano

si è occupato, in Italia, anche Giovanni Maria Bertin. Di questo Autore si vedano almeno: G.M. Bertin, Nietzsche. L’inattuale, idea pedagogica, Firenze, La Nuova Italia, 1977; Id., Nietzsche e l’idea di educazione, Torino, Il Segnalibro, 1995.

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volontà assiomatica figlia di un destino già segnato quanto scono-sciuto, ma, viceversa, è proprio la rivelazione di sé nel suo effettivo farsi. Vale a dire che il soggetto non è prima qualche cosa che dopo egli scopre di essere, ma il soggetto è, appunto, “ciò che si fa”, scoprendo

che egli stesso si fa come è, in situazione e in direzione di un telos.

Sicché il “nucleo originario” soggettivo, che attiene alla condizio-ne esistenziale di ogni soggetto condizio-nella sua individualità, non precede l’esistenza, ma, al contrario, la segue passo dopo passo, come esito par-ziale e disvelante di un nuovo senso. Come ha ben evidenziato Enzo Paci in una nota diaristica secca e illuminante, è necessario

Non confondere l’originario con il barbarico. L’originario è dopo

l’epo-ché e si raggiunge con l’educazione e la civiltà49.

Così, se “l’originario, l’autentico, non è il ritorno al punto di par-tenza, non è un ritornare indietro”50, ma è invece il frutto ricco e

sem-pre immaturo dell’educazione come esperienza vissuta, allora esso rinvia proprio a quel movimento in avanti che chiamiamo progetto, nel quale ad essere perseguito non è il desiderio di corrispondere ad un’idea di sé, ma la tensione interrogante che chiede rivelazioni. E che, ancor più, nel chiedere rivelazioni, intrattiene con l’esistenza incarnata e situata una relazione fatta di scelte consapevoli, di intrec-ci problematiintrec-ci, di faticose intraprese con l’altro.

Certo: la progettualità che connota l’esistenza soggettiva fa i conti con la frammentarietà della situazione contingente, con i suoi limiti e le sue possibilità, con l’alterità che ha a disposizione, e ciò decide, in qualche modo, dello spettro d’azione effettivo. Ma è anche vero che il progetto, trascendendo e superando il contingente, va oltre la pro-spettiva lineare della pianificazione progressiva, la quale, sostanzial-mente, si ridurrebbe ad un riordino razionale di ciò che, nell’espe-rienza, è disorganico e separato.

Se, infatti, la precondizione esistenziale non cessa di essere – né può farlo – quella di una mancanza che anela ad una compensazione, allora l’intervento in situazione costituisce, per un verso,

l’irrinuncia-49 Cfr. E. Paci, Diario fenomenologico, cit., p. 45. 50 Ibidem.

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bile risorsa di comprensione del mondo, e, per altro verso, la più deci-siva delle possibilità di concretamento della propria presenza nel mondo.

Nell’esistenza, dunque, il lavoro progettuale ed educativo – così lo chiamano sia Sartre che Paci51– diventa cogente impegno di trasfor-mazione – questa, infatti, è la funzione del lavoro – capace di

restitui-re senso a ciò che ne nasce o ne risulta privo, e che, allo stesso tempo, rifiuta l’improntitudine di credere davvero di poter superare, una vol-ta per sempre, il limite costitutivo.

Con ciò: a che cosa si lavora con il progetto? Come può il lavoro educativo dare forma all’esistenza?

Il telos fenomenologico, ossia la ricerca del senso come approssi-mazione alla verità, costituisce la risposta più incisiva a simile domanda. E lo è proprio per la portata che assume, a tale riguardo, l’intenzionalità del soggetto, ossia la sua azione disvelante, la sua attenzione sospensiva, il suo ingaggio nelle cose del mondo.

Lavorare all’esistenza, dunque, significa tendere verso un senso nuovo, complessivo e intersoggettivo, assumendo in sé e con sé esat-tamente il senso del limite, così come si custodisce la più preziosa delle verità. Dove, allora, il bisogno originario di senso – ciò di cui il soggetto manca – viene riconquistato nell’orizzonte del lavoro edu-cativo – la fatica dell’impegno nelle cose del mondo –, e dove, per ciò stesso, a dare forma all’esistenza è proprio quel “diventare ciò che si è” per il quale al di là del fatto c’è la possibilità del senso.

Da una parte, infatti, quel che noi chiamiamo vita è in verità ciò che noi comprendiamo della vita, mentre, dall’altra parte, questa nostra possibi-le comprensione si carica di una ultimativa vapossibi-lenza pedagogica. Perché se la vita è ciò che di essa noi fondamentalmente comprendiamo (anche quando non lo ‘sappiamo’), questo significa che a noi non resta che far-ci ermeneuti della vita, per tentare di fare di essa un ‘destino’. E se que-sto è tutto quello che in fondo noi possiamo chiamare vita, tutto queque-sto già ci dice, allora, che il senso pedagogico della vita non può stare che in quella ‘critica della vita’ che abbiamo detto essere veramente vita. O

51 Cfr. J.-P. Sartre, Critique de la raison dialectique (1961), trad. it. Critica della

ragione dialettica, Milano, Il Saggiatore, 1963; E. Paci, Funzione delle scienze e significa-to dell’uomo, cit.

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qualcosa d’altro da sé che, in quanto più-che-vita, riesce in ultimo a donarci un orizzonte di senso52.

È proprio simile fronteggiamento del limite – quel senso del tra-gico che inesorabilmente costituisce ogni esistenza e che solo può far-si incipit di qualfar-sivoglia “ermeneutica pedagogica della vita”53– a

det-tare l’esigenza formativa dell’esistenza come lavoro; così come è solo la spaesante esperienza dell’ovvietà del mondo ad offrire la consape-volezza del bisogno di senso. E se, con ciò, la vita stessa si rivela nella comprensione soggettiva che ciascuno ha della propria vita, l’intrec-cio insl’intrec-cioglibile di immanenza e trascendenza, le ragioni di quel fitto lavorare per prendere una forma, quale che essa sia, si annideranno nel proprio quotidiano incedere nel mondo, con la tenacia della necessità, ciascuno alle prese con il proprio straordinario ‘mondo da fare’.

Di qui, allora, la significatività sia della comprensione del vissuto, sia della riflessione che esso implica nell’orizzonte del progetto. Che alla riflessione, infatti, sia consegnato il destino ultimo dell’educazio-ne, non potrà stupire, almeno se ad essa verrà rimandato l’esercizio della relazione come modalità d’intendere e di affrontare la frammen-tarietà incipiente dell’accadere. Perché, laddove all’esperienza vissuta siano consegnati l’origine e il farsi dell’evento che forma, lì alla rifles-sione viene affidata la possibilità estrema di congedarsi dalla de-for-mazione, per orientarsi, invece, all’assunzione della più profonda capacità di mettere in relazione il reale con l’ulteriore, il frammento di vita con il complessivo orizzonte progettuale. Un’impresa di responsabilità, dunque, misurata nell’ordine della sovraesposizione diretta e della tangibilità del proprio percorso esistenziale.

Per questo, ricorrendo ancora alla limpidezza della scrittura paciana:

La riflessione vive nel tempo e si proietta davanti a sé, intenziona sem-pre qualcosa al di là di sé. Ciò che scosem-pre è la verità, una verità che era in me, ma addormentata, obliata. Lo sguardo proiettato nel futuro è lo

52 Cfr. A. Erbetta, Educazione ed esistenza, cit., p. 25.

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