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LA LOMBARDIA CONTESA (1733-1736). L'occupazione sabauda del Milanese durante la guerra di successione polacca.

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Premessa

La guerra di successione polacca, conflitto combattuto dal 1733 al 1735 e conclusosi formalmente nel 1738, scoppiò a seguito della morte del re polacco Augusto II1. Le vicende militari di questo scontro sono note2. In vita il monarca ebbe come rivale Stanislao Leszczyńsky3 il quale, alla sua morte, fu collocato sul trono polacco non senza l'aiuto dei francesi e con il beneplacito della Dieta polacca ansiosa di porre a guida della Polonia un autoctono. Tuttavia la triplice alleanza, Russia anzitutto, oppose un suo concorrente al trono nella persona di Federico Augusto II, elettore di Sassonia. L'abile primo ministro francese, il cardinale Fleury4, riuscì nel suo piano di mettere Leszczyńsky sul trono, ma ciò durò solo fino a che l'intervento militare russo non costrinse il candidato alla fuga permettendo a Federico Augusto di insediarsi. L'umiliante partenza precipitosa del candidato polacco spinse la Francia ad intraprendere un'azione militare volta a colpire l'Austria, sua eterna nemica ed alleata della Russia. Le operazioni militari procederono fiaccamente e senza alcun progresso. Carlo VI, infatti, aveva bisogno anzitutto del riconoscimento della Prammatica Sanzione proprio dai Borboni di Francia e Spagna, con i quali era in guerra, per garantire il passaggio di consegne alla figlia Maria Teresa.

Alleati della Francia furono la Spagna ed il Piemonte, accomunati entrambi dalla brama di estendere i propri domini sulla penisola italiana sottraendoli agli Asburgo. Le operazioni belliche, protrattesi per circa un biennio, ossia dal 1733 al 1735, si svolsero maggiormente in Italia. Carlo Emanuele III, al comando delle truppe alleate in Italia, occupò rapidamente il territorio del Ducato milanese, ad eccezione di Mantova. Prima di procedere ad un'eventuale espugnazione, il sovrano sabaudo avrebbe voluto conoscere con certezza quali sarebbero state le sorti geopolitiche della città una volta terminate le ostilità: sarebbe valsa la pena combattere per acquisirla, se solo l'acquisto ed il conseguente inglobamento nel Regno di Sardegna fosse stato realmente garantito. Per di più,

1 August II Mocny detto il Forte nacque a Dresda il 12 maggio 1670 e morì a Varsavia il 1° febbraio 1733. Augusto fu duca e principe elettore di Sassonia con il nome di Federico Augusto I. Eletto Re dalla Dieta dei nobili polacchi, succedette a Jan III Sobieski nel 1697, anche grazie all'influenza dell'Austria.

2 Le opere di GUIDO QUAZZA sono tra le più note per l'aver trattato questo argomento: Il problema italiano e

l'equilibrio europeo, 1720 – 1738, Torino, Deputazione Subalpina di Storia Patria, 1965; La decadenza italiana nella storia europea. Saggi sul Sei-Settecento, Torino, Einaudi, 1971; Il Regno di Sardegna fino al 1848, Firenze,

Leo Olschki Editore, 1971.

3 Stanislao Leszczyński, noto anche come Stanisław Bogusław Leszczyński, nacque a Leopoli nel 1677 e morì a Luneville nel 1766. Fu un nobile polacco, divenuto Re di Polonia e granduca di Lituania, dapprima nel corso della Grande Guerra del Nord (1704 – 1709), poi nuovamente (1733 – 1736) nel vuoto di potere avutosi alla morte di Augusto II di Sassonia e alla guerra che ne seguì. La parentela con Luigi XV gli procurò il ducato di Bar e di Lorena che, alla sua morte, furono incorporati nel Regno di Francia.

4 André-Hercule de Fleury nacque a Lodève nel 1653 e morì a Issy-les-Moulineaux nel 1743. Cardinale e politico francese. Nel 1716 fu nominato dal Duca d'Orléans precettore dell'erede al trono, il giovane Luigi XV, del quale seppe guadagnarsi la piena fiducia. Riassestò le finanze con severe misure economiche, promosse un fiorente sviluppo commerciale, diminuì le imposte e consolidò la moneta sino al momento della Rivoluzione.

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l'energica Elisabetta Farnese, moglie di Filippo V e madre dell'Infante Carlo di Borbone, non sarebbe stata soddisfatta di ottenere, in caso di esito favorevole del conflitto, la Toscana e le Due Sicilie per i figli Filippo e Carlo: avrebbe voluto assicurarsi anche il possesso della Lombardia. Ma stando alle assicurazioni dei francesi, questo territorio, Mantovano compreso, seppur in forma dubitativa, era stato promesso a Carlo Emanuele III.

Mentre le operazioni alleate stagnavano nei pressi di Mantova, 30.000 spagnoli sbarcarono a Livorno entrando in Toscana. Si unirono quindi alle forze provenienti da Parma e Piacenza comandate dal Conte di Montemar5. Si mossero ad occupare Napoli il 15 maggio 1734. Dieci giorni dopo, a Bitonto, l'esercito spagnolo guidato dal Montemar si scontrò con le truppe austriache comandate dal Principe di Belmonte. L'esito della battaglia fu positivo per gli iberici ai quali si aprì la strada per occupare tutto il Regno di Napoli6. Il successo della Spagna non significò tuttavia che la disputa tra gli alleati sul mantovano fosse risolta. Allo stesso tempo l'Austria non poté guadagnare nulla di significativo da questo dissidio: il 29 giugno gli imperiali furono difatti sconfitti a Parma e, nel 1735, Königsegg-Rothenfels, nuovo comandante delle forze austriache, avrebbe preferito ritirarsi oltre l'Adige dato l'imminente arrivo degli spagnoli.

Fu solo nel luglio 1735 che Carlo VI riconobbe la necessità di porre fine al conflitto ed intraprese le trattative di pace con la Francia. I negoziati vennero condotti in gran segreto a Vienna conducendo alla firma dei preliminari di pace nell'ottobre 1735. Il 1° dicembre dello stesso anno, a Mantova fu stipulato un armistizio tra le forze francesi ed imperiali. A questi accordi dovette piegarsi Carlo Emanuele III, il quale fu costretto a rinunciare alle sue pretese sulla Lombardia. Parimenti, anche la Spagna si rassegnò al fallimento del suo piano egemonico in Italia. La pace fu firmata solo due anni dopo, il 18 novembre 1738, a causa di una controversia tra Vienna e Parigi circa il trasferimento a Leszczyński della sovranità della Lorena, destinatagli in vitalizio al momento dei preliminari a Vienna. Di fatto i francesi avrebbero preferito che ciò avvenisse il prima possibile, mentre gli imperiali intendevano subordinare questo trasferimento di sovranità solo alla morte dell'ultimo membro dei Medici, permettendo quindi a Francesco di Lorena la permuta con la Toscana. Con la morte di Gian Gastone, nel 1737, fu possibile accontentare entrambi insediando sia Stanislao sia Francesco. Il primo, rinunciando al trono polacco, ottenne comunque il titolo di re, il

5 José Carrillo de Albornoz conte di Montemar. Nato a Siviglia nel 1671, dopo la guerra di successione spagnola comandò le forze iberiche in Italia e a Bitonto, battendo gli austriaci assicurò a Carlo di Borbone il Regno di Napoli meritandosi il titolo di Duca (1735). Cadde in disgrazia dopo una sconfitta subita successivamente ad altre operazioni militari in Italia alle quali era contrario. <http://www.treccani.it/enciclopedia/jose-carrillo-de-albornoz-conte-de-montemar/>

6 Battaglia di Bitonto: combattuta il 25 maggio 1734 nell'omonima città tra l'esercito spagnolo, guidato dal Montemar, e quello austriaco al cui capo v'era il Principe di Belmonte. La vittoria degli spagnoli fu doppiamente importante: non solo assicurò il Regno di Napoli a Carlo di Borbone, ma l'esito fu raggiunto senza l'ausilio dell'alleato francese. <http://www.ilportaledelsud.org/bitonto_battaglia.htm>

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Ducato di Lorena, Nancy e la Contea di Bar, tolte al duca di Lorena. Quest'ultimo venne ripagato con il Granducato di Toscana. Fu stabilito, inoltre, che, con la morte di Leszczyński, la Lorena sarebbe passata alla Francia che, a tal fine, riconobbe la Prammatica Sanzione. In Italia intanto l'Austria perse Napoli, la Sicilia e lo Stato dei Presidi a favore di Carlo di Borbone. In compenso dovette accontentarsi del Ducato di Parma, mentre Carlo Emanuele III estese i propri domini fino al Ticino con l'acquisto di Novara e Tortona ottenendo, non senza ostacoli, i feudi delle Langhe.

Nonostante la delusione giunta alla termine della guerra con la stipula degli accordi di pace, il conflitto concesse a Carlo Emanuele III l'opportunità, seppur effimera, di concretizzare l'ambizione sul Milanese7: aspirazione radicata da tempo nelle menti dei regnanti sabaudi, sostenuta dall'alleanza con i francesi, i quali, però, avrebbero tratto molti più vantaggi dei piemontesi a conflitto concluso. Lo spregiudicato cardinale Fleury, facendo buon viso a cattivo gioco, ottenne per la Francia tutto quello che desiderava, mentre il re di Sardegna dovette accontentarsi di ben poco e, soprattutto, non ottenne ciò che più sperava, ovvero di aggregare tutto il territorio lombardo a quello piemontese. Malgrado ciò gli anni dell'occupazione congiunta franco-piemontese, studiati poco e sommariamente, costituiscono un interessante periodo della storia settecentesca europea ed italiana. Ciò non solo per le deplacement de souveraineté, come ha posto in rilievo nella sua opera lo storico del diritto pubblico Irenée Lameire8, ma anche per le scelte operate dagli occupanti ed il loro muoversi in un contesto per lo più ostile al governo sabaudo. Il motivo fondamentale di tanta avversità nei confronti dei piemontesi risiedeva nel fatto che il controllo sul territorio sarebbe stato più efficace, articolato e rapido per via della vicinanza geografica di Torino. Inoltre gli esponenti del patriziato milanese, avvezzi a detenere il controllo degli uffici e delle cariche più importanti del Ducato9, temerono che l'amministrazione sabauda avrebbe minato alla radice le loro prerogative affidandole a uomini più vicini alla corte subalpina. Questo timore si rivelò nettamente infondato: invero Carlo Emanuele III aveva in mente di conservare il più possibile lo status quo circa la distribuzione degli uffici, onde appunto evitare ostracismi e produrre esclusivamente nuovi problemi nel Ducato10. Era una strategia semplice, ma doveva risultare efficace al fine di governare 7 I diritti spesso rivendicati sul milanese possono essere consultati all'interno di un manoscritto del 1726 intitolato

Dimostrazione patente ed oculare della ragione che compete a S. M. sullo Stato di Milano del giorno della morte del re di Spagna Carlo II alla mente del diploma del 1549, in ASTo, Milanese, Città e Ducato, mz. 4, I. Inoltre,

coeve e recanti le medesime intenzioni, sono diverse consultazioni legali presenti nello stesso mazzo. 8 Cfr. I. LAMEIRE, Le deplacement de la souveraineté en Italie pendant les guerres du XVIIIe siècle, Paris, A.

Rousseau Éditeur, 1911.

9 A. CASATI, Milano e i Principi di Savoia. Cenni storici, Torino, Tipografia Ferrero & Franco,, 1853, p. 115 – 116. 10 Ibid. Casati rileva con costernazione la scelta di Carlo Emanuele non tanto di affidare la reggenza a uomini del

territorio, quanto piuttosto l'aver dato loro l'assenso nel procedere esattamente come accadeva prima del suo arrivo in Lombardia. Il suo avvilimento deriva dall'analisi che fece in precedenza del disordine e della terribile situazione economica in cui dapprima gli spagnoli posero il paese, ai quali gli austriaci non riuscirono a porre rimedio. La reggenza fu di fatto affidata ad una Giunta di Governo così composta: v'era il Gran Cancelliere marchese Giorgio Olivazzi, il Presidente del Senato marchese Carlo Castiglione, il Presidente del Magistrato Ordinario (finanze) conte Trotti, il Presidente del Magistrato Straordinario (finanze) conte Stefano Gaetano Crivelli, il senatore

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in pace il milanese, se solo non avessero avuto più peso del dovuto le azioni diplomatiche dell'alleato.

Risulta difficile credere che questo periodo, questo scontro ed i suoi esiti abbiano potuto stimolare uno scarso interesse per gli storici. La storia moderna europea vanta numerosi insigni studiosi che, con grande dedizione ed un faticoso lavoro, hanno dato vita a capolavori della storiografia. Sono stati scandagliati quasi tutti i periodi, i paesi, quasi tutte le dinastie, ogni movimento culturale, rivoluzionario, frammenti del passato che senza il loro sforzo non avrebbero potuto riemergere con tanta chiarezza. Si è cercato di mostrare il nesso fra peculiari situazioni economiche, sociali, militari, politiche in ogni epoca. Sono stati elencati numeri per dimostrare la veridicità dell'una o dell'altra ipotesi. Molte parole sono state spese sulle guerre che hanno sconvolto l'intero Settecento, sugli eserciti che vi hanno partecipato scontrandosi e sulle loro conseguenze. Non molto è stato scritto invece proprio sulla guerra di successione polacca, che non diversamente dalle altre ha comportato uno sconvolgimento notevole all'interno del panorama geopolitico europeo dell'epoca.

Questo lavoro si propone nel suo piccolo di esaminare lo scontro delle truppe franco-piemontesi con quelle imperiali in territorio italiano. L'attenzione è focalizzata soprattutto sull'aspetto contributivo, in natura e finanziario, legato all'occupazione del Ducato di Milano ed ai conseguenti screzi scaturiti per queste ragioni tra gli alleati. Vi è da premettere che un simile lavoro ha un deficit di fondo quale può essere l'esistenza di una bibliografia scarna strettamente legata all'oggetto di questo studio. In molti casi mi sono trovata di fronte a frequenti rimandi ad episodi collaterali o meno a quanto da me trattato, tuttavia, nella scarsità di materiale bibliografico non sono mancati spunti interessanti mediante i quali sarà possibile trarre ampliamenti di questo scritto. Per quanto concerne invece l'effettivo studio svolto in questa sede, preziosissime si sono rivelate le fonti manoscritte custodite presso gli Archivi di Stato di Torino e Milano. E' anche vero che per poter prendere in esame la totalità dei punti di vista delle parti impegnate nel conflitto avrei dovuto vagliare anche il materiale custodito a Parigi, a Vienna ed a Madrid, ma è una limite alla ricerca che per il momento non mi è stato possibile sormontare. In questo senso il lavorio si sofferma quindi alle fonti italiane contemplando quindi le sole prospettive lombarda e sabauda. Tuttavia nonostante l'eterogeneità delle tematiche ricorrenti nella documentazione, l'argomento potrebbe e meriterebbe d'essere trattato con maggiore dedizione per poter sfruttare proprio l'ampio ventaglio di soggetti che offre anche solo il caso lombardo. Infatti dai documenti emergono, oltre ai problemi di contribuzione, questioni quali l'aumento della criminalità e di conseguenza le misure prese per

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contrastarla, controversie familiari all'interno dello stesso patriziato milanese legate alle politiche matrimoniali, la sempre presente piaga del contrabbando di tutti i generi maggiormente ricercati fino alle dispute giurisdizionali con il clero.

Tra il materiale edito nello scorso secolo che tocca l'argomento in questione v'è un'opera breve e dalle linee un po' romanzate, scritta da Ezio Viarana la quale offre un affresco dettagliato quanto meno dell'assedio di Milano. Questo libro non è annoverato solitamente tra la modesta bibliografia relativa al conflitto in questione, probabilmente per il suo contenuto più cronachistico che accademico. Eppure a causa della scarsità di testi sull'argomento, in esso si possono sempre scorgere elementi interessanti per la ricostruzione delle vicende11. Informa anzitutto i lettori della piacevole serata che gli illustri cittadini milanesi stavano vivendo in casa Borromeo, dove l'anziano Maresciallo Villars danzava con la principessa Trivulzio. Non era una serata come le altre, quantomeno per i cittadini senza particolari onori e privilegi: era la notte tra il 20 ed il 21 dicembre del 1733, nottata in cui le batterie franco-sabaude non lasciarono un attimo di respiro alla guarnigione austriaca asserragliata nel Castello di Milano al cui comando v'era Annibale Visconti. L'autore, solo a seguito di una rapida esposizione dei motivi per i quali i Savoia erano interessati al milanese e due capitoli trattanti esclusivamente della formazione ed ascesa al trono di Carlo Emanuele III, inizia a narrare le vicende della guerra, l'ingresso del re nel milanese e le battaglie salienti del conflitto, Parma e Guastalla, fino alla Pace di Vienna. Le ambizioni sabaude sul milanese, come ben ricorda Viarana, sono vanificate con il trattato di Worms del settembre 174312 e citando Casati13 volle dimostrare che, in fin dei conti, Carlo Emanuele aveva tutto il diritto di reclamare il territorio lombardo. L'autore disse anche che «Carlo Emanuele III pagava puntualmente ogni cosa, non tollerava furti o truffe, e non permise mai saccheggi e vandalismi (era solito dire che “avrebbe voluti i suoi soldati Cappuccini” e poiché “era costretto a far la guerra, farla voleva da cristiano”)14». Che si cercasse di perseguire i colpevoli di simili atti, militari o meno, è testimoniato da diverse lettere inviate all'Ormea, soprattutto quelle inviate dal Marchese Castiglione.

Rifacendosi al volume ottocentesco di Casati, Viarana ricorda come i preparativi

11 E. VIARANA, Carlo Emanuele III di Savoia. Signore di Milano (1733.1736), Milano, Casa Editrice Ceschina, 1939.

12 Il trattato di Worms siglò un'alleanza politica tra la Gran Bretagna, l'Austria ed il Regno di Sardegna, firmata il 13 settembre 1743. Fu un ambizioso tentativo di politica estera condotto dal governo britannico nel tentativo di allontanare l'imperatore Carlo VI dall'influenza francese e, nel contempo, di risanare la vertenza tra l'imperatore, l'arciduchessa Maria Teresa d'Austria ed il re Carlo Emanuele III di Sardegna. Secondo i termini del trattato, Maria Teresa accettava di trasferire al re di Sardegna, la città di Piacenza e parte del Ducato di Parma e Piacenza, il Vigevanese, l'Oltrepò pavese, con le contee di Voghera e Bobbio assieme a parte del Principato di Pavia, alla contea di Angera e di reclamare in Liguria il marchesato di Finale. L'arciduchessa si impegnava a mantenere 30.000 uomini in Italia sotto il comando dei Savoia-Sardegna.

13 A. CASATI, Milano e i Principi di Savoia. Cenni storici, Torino, Tipografia Ferrero e Franco, 1833,. 14 E. VIARANA, op. cit., p. 79.

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dell'invasione franco-sabauda del milanese furono interpretati malamente dagli imperiali che, anzi, credettero che i piemontesi stessero preparando una resistenza contro i francesi15. Dopo la fuga del governatore Daun, il Consiglio della Città di Milano deliberò, in data 20 ottobre 1733, la composizione della giunta di governo la quale sarebbe stata formata «dai Signori: Marchese Reggente Senatore Olivazzi, vice presidente del Senato, Marchese Carlo Castiglione, presidente del Magistrato Ordinario, Conte Senatore Trotti e Conte Crivelli presidente del Magistrato Straordinario...»16.

Bisognava però che, una volta in territorio lombardo, i piemontesi distribuissero accortamente le cariche per non apportare maggiore scompiglio all'interno di un contesto già smosso dall'occupazione. Fin dal principio dell'occupazione il governo sabaudo provvide ad assegnare le maggiori cariche al patriziato milanese e ciò era necessario per accattivarselo ed evitare che sorgessero ulteriori problemi con l'occupazione. Viarana riporta uno stralcio del libro dei verbali in cui si assegnano alcune cariche: don Attilio Lampugnano, il marchese Agostino Cusani ed il conte Marco Arese avrebbero assistito al “rimplazzo”17; il marchese Pozzobonelli assieme al conte Pecchio e don Carlo Litta si sarebbero occupati dell'approvigionamento di legnami e quant'altro utile all'assedio; il marchese Roma con il conte De Capitani, il conte Giorgio Rainoldi ed il marchese Busca avrebbero avuto responsabilità circa gli alloggi degli ufficiali; per i quartieri delle soldatesche, invece, il conte Anguissola, il marchese Pozzobonelli ed il conte Arese si sarebbero occupati del lazzaretto di S. Angelo e delle vicinanze; don Carlo Litta assieme al marchese Cusani ed al conte Girolamo Casati avrebbero avuto responsabilità circa le vicinanze di S. Marco, S. Simpliciano, S. Carpoforo e l'Incoronata; in ultimo, il marchese Bussetti con il marchese Roma ed il conte De Capitani si sarebbero occupati di S. Damiano alla Scala, S. Giovanni quattro facce, Ponte Vetro e i luoghi limitrofi a S. Raffaele ed al Carmine. La milizia urbana venne affidata al conte della Riviera e, per l'arrivo del re venne disposta da Porta Romana fino al Palazzo ed il Consiglio, assieme al Tribunale di Provvisione18.

Durante l'assedio della città pare diversi uomini notarono la poca cordialità che intercorreva tra i francesi e le truppe del re di Sardegna. Luchino del Maino lo annotò nel volume Vicende

militari del Castello di Milano ma, testimoni di questo rapporto poco sereno sono anche delle

lettere, una dell'intendente generale Fontanieux, l'altra del maresciallo Villars. Nella lettera del

15 Ivi. p. 37. 16 Ivi. p. 38

17 Il rimplazzo consisteva nell'affidamento del carico dell'alloggiamento dell'intero esercito presente in Lombardia ad un unico impresario generale degli alloggiamenti. In merito a questa realtà si consulti A. BUONO, Esercito,

istituzioni, territorio. Alloggiamenti militari e «case herme» nello Stato di Milano (secc. XVI e XVII), Firenze,

Firenze University Press, 2009. 18 E. VIARANA, op. cit., p. 44.

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primo, datata 12 dicembre 1733, si riferì che il comportamento dell'Ormea era volto a screditare i francesi e a far ricadere su di loro tutte le colpe delle contribuzioni richieste al popolo. Anche il Villars indicò nell'Ormea l'elemento destabilizzante: scrisse infatti che, recatosi dal Re, il ministro fece di tutto per farlo attendere il più possibile di modo che sembrasse più un cortigiano che un maresciallo19.

L'assedio della città iniziò nella nebbiosa notte tra il 15 ed il 16 dicembre 1733. Violenti colpi d'artiglieria partirono da ambo le parti le quali soffrirono numerose perdite. Il 29 dicembre il re offrì condizioni onorevoli per la resa. La sera si presentarono a Palazzo Reale Buzzaccherini ed il Capitano conte Carlo di Membourg. Alle tre di notte, dopo lunghe trattative, fu firmata la capitolazione. Secondo l'opinione di Pietro Verri riportata da Viarana, Annibale Visconti decise di arrendersi solo perché molti dei suoi erano morti, molti altri feriti o ammalati e non aveva alcuna speranza d'essere soccorso nell'immediato. Il castello venne consegnato già dal 30 dicembre, ma iniziarono ad evacuarlo dal 2 gennaio 1734. Nell'uscire molti disertarono e passarono a servizio di Carlo Emanuele. Il giorno successivo le truppe destinate a Milano presero il Quartiere d'Inverno; le altre si diressero verso Novara, Tortona e Serravalle per assediarle. Viarana ci ricorda come, poco dopo, Villars fu richiamato in Francia – morendo prima di giungerci – e fu sostituito dai Marescialli De Coigny e De Broglie.

Il libro narra anche le battaglie di Parma e di Guastalla. Nella prima si scontrarono le truppe del maresciallo De Coigny con quelle imperiali comandate da Mercy. Questa battaglia fu peraltro raccontata nelle sue memorie da Carlo Goldoni che vide lo svolgersi dello scontro dalle mura della città20. Gli austriaci in difficoltà si ritirarono ordinatamente mentre, arrivato in ritardo, Carlo Emanuele si lanciò all'inseguimento del nemico occupando Guastalla. L'autore riporta quindi un episodio avvenuto in settembre al maresciallo De Broglie, aneddoto del quale v'è un accenno nelle lettere conservate presso l'Archivio di Stato torinese. L'ufficiale venne infatti sorpreso dagli imperiali nel suoi alloggiamenti sul fiume Secchia, nei pressi di Quistello, ed suo campo fu saccheggiato: non solo tende e bagagli, ma anche armi, munizioni e l'argenteria degli ufficiali. Pare inoltre che, nel bottino fatto dagli austriaci ci fosse anche una lista delle spie che i francesi inviarono in campo nemico. La realtà delle spie, è bene ricordarlo, coinvolse anche gli imperiali i quali sovente inviavano in territorio avverso frati e contadini che si mostravano desiderosi d'arruolarsi, ma che altro non erano se non spie21. Tuttavia, al di là di questo sciagurato episodio, l'armata franco-sabauda seppe rifarsi sul nemico qualche giorno dopo quando, il 19 settembre si combatté a Guastalla ottenendo la desiderata vittoria.

19 Ivi. p. 52. 20 Ivi. p. 57. 21 Ivi, p. 58

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Il 1735, come ricorda l'autore, fu un anno non segnato da fatti d'arme di rilievo ed anzi, dato il molto favore goduto in guerra, Carlo Emanuele non attese altro che essere finalmente proclamato signore di tutto il milanese, così come stabilito nel Trattato di Torino. Invece, a insaputa dei piemontesi, Fleury iniziò le trattative di pace con Vienna che si rivelarono svantaggiose per i piemontesi anche solo paragonate allo sforzo bellico che questi avevano sostenuto. All'imperatore si lasciavano e si davano la Lombardia, Parma, Piacenza e Mantova; ai Lorenesi la Toscana; a Don Carlo di Borbone la Sicilia e Napoli. A Carlo Emanuele invece si diedero il Tortonese ed il Novarese oltre altri territori a sud di Alessandria. La pace di Vienna firmata il 18 novembre 1738 e riconosciuta da Carlo Emanuele III il 3 febbraio 1739 pose fine alla guerra di successione polacca, ma per via del malcontento suscitato, fu terreno fertile per nuovi contrasti.

Attraverso le opere di Quazza è possibile invece conoscere meglio l'epoca e le vicende coeve della guerra di successione polacca. Basterebbe prendere come esempio un lavoro quale Il

problema italiano e l'equilibrio europeo, 1720 – 173822 per scovare elementi importanti per comprendere al meglio quegli anni. A Torino, infatti, nel 1732 crebbe il timore di un possibile sbarco spagnolo a Livorno poiché si era sempre più consapevoli delle mire di Elisabetta Farnese sui territori padani per suo figlio, don Carlo. Se i timori legati all'eventuale sbarco poterono essere dimenticati, l'anno successivo si palesò concretamente il pericolo che don Carlo potesse effettivamente ottenere dei territori23. Nel frattempo i francesi tentarono in tutti i modi di smuovere il sovrano sabaudo dall'inazione coinvolgendolo in un'alleanza: ricorda infatti il maresciallo Villars che non sarebbe stata efficiente nessuna lega se non vi avesse aderito il Piemonte; Chauvelin24 invece chiese l'assenso spagnolo per l'alleanza con il Piemonte mediante la cessione di parte o di tutto il milanese. Lo stesso ministro, che chiese cautela ed attenzione nell'operare con l'Ormea ritenendolo bifronte, credette opportuna l'offerta del milanese perché avrebbe indubbiamente scosso la cautela sabauda. Ma l'alleanza franco-piemontese sarebbe stata proposta da Fleury a Carlo Emanuele solo quando divenne chiaro il raffreddamento dei rapporti tra la Spagna e l'Impero. È

22 G. QUAZZA, Il problema italiano e l'equilibrio europeo, cit. 23 Ivi, pp. 180-181.

24 Germain Louis Chauvelin (1685 – Parigi,1762) politico francese discendente da una ricca famiglia di avvocati vicini al Parlamento di Parigi e spostatasi a Parigi nel1530. Nel secolo successivo la famiglia si unì tramite matrimoni con le famiglie di Michel Le Tellier e François-Michel Le Tellier de Louvois. Il padre di Germain-Louis, Louis III Chauvelin, fu intendente in Franca Contea (1673-1684) ed in Piccardia. Dopo una brillante carriera politica che lo vide persino avvocato generale del Parlamento ed un matrimonio con una ricca ereditiera, Germain-Louis venne presentato al cardinale Fleury, precettore e poi primo ministro di Luigi XV, che lo chiamò al governo. Il 17 agosto 1727 divenne guardasigilli reale.In seguito Chauvelin divenne ministro della guerra di Luigi XV ed esortò il re, contro la politica di pace di Fleury, ad entrare in guerra contro l'Austria degli Asburgo e l'Impero Russo nella guerra di successione polacca. La fine degli scontri vide uscire la Francia vittoriosa con la conquista del ducato di Lorena, che venne affidato al suocero del re, Stanislao Leszczyński. Tuttavia, con la pace, Fleury costrinse il suo vecchio protetto Chauvelin a lasciare gli incarichi governativi. Chauvelin visse così lontano dalla vita politica sino alla fine dei suoi giorni. <http://en.wikipedia.org/wiki/Germain_Louis_Chauvelin>

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anche vero che le istruzioni date da Chauvelin all'ambasciatore furono ancor più specifiche: bisognava compensare l'eventuale cessione del territorio lombardo con la cessione della Savoia o altre soluzioni parziali, l'importante restò comunque il concretizzare un allontanamento di Torino tanto da Vienna quanto da Londra25. Il 1732 tuttavia si concluse senza un pieno abbandono alle pressioni francesi26.

Quando all'improvviso restò vacante il trono polacco per la morte del regnante Augusto II27 la questione degli schieramenti andò complicandosi. La Francia sosteneva la candidatura alla successione di Stanislao Leszczyński28 alla quale si opposero sia l'Impero che la Russia, proponendo

da parte loro Federico Augusto di Sassonia, figlio del defunto re. La necessità per i francesi di ottenere l'alleanza sabauda risiedeva nella volontà di formare finalmente un solido blocco antiasburgico sognato fin dal 173129. Ma a seguito delle ponderate discussioni tenutesi a Torino tra

il re ed i ministri, Carlo Emanuele si dichiarò pronto ad allearsi solo nel qual caso gli fosse ceduto l'intero milanese, nulla di meno. La corte sabauda rispose allo stesso modo anche successivamente: si sarebbe alleata esclusivamente in cambio di tutto il milanese, senza che vi fossero fatte detrazioni per don Carlo e senza corrispettivi per la Francia30. La stessa diffidenza spagnola e l'atteggiamento

adottato dalla corte ispanica limitarono molto le iniziative francesi nei confronti di Torino31. La

Francia tuttavia fu pronta a dar prova della sua volontà di opposizione all'Impero, sicché assunse il compito di indurre la Spagna ad acconsentire all'assegnazione di tutto il milanese – compresi cremonese e lodigiano – a Carlo Emanuele32. Fu solo il 26 settembre 1733, che a seguito di un fitto

scambio di progetti d'intesa, venne firmata l'alleanza a Torino. Allo stesso tempo furono anche convalidate le rispettive e concordanti proposte riguardo alla misure logistiche e strategiche per gli spostamenti delle truppe francesi33. Ma la firma di questo trattato non fece altro che irritare la Gran

Bretagna di Walpole34. Inoltre la Francia non tardò, all'inizio di novembre, a siglare con la Spagna il

Trattato dell'Escorial35, nettamente diverso dal trattato siglato con il sovrano sabaudo36. 25 G. QUAZZA, Il problema italiano, cit., pp. 185-187.

26 Ivi, p. 191.

27 Morì il 1° febbraio 1733.

28 Stanislao I Leszczyński, (Leopoli, 20 ottobre 1677 – Lunéville, 23 febbraio 1766) nobile polacco, divenuto re di Polonia e granduca di Lituania, prima (1704 - 1709) nel corso della Grande Guerra del Nord , poi nuovamente (1733 – 1736) nel vuoto di potere conseguente alla morte di Augusto II di Sassonia e alla guerra che ne seguì. La sua parentela di suocero del re di Francia Luigi XV gli procurò infine i ducati di Lorena e di Bar, che alla sua morte furono incorporati nel regno di Francia. <http://www.treccani.it/enciclopedia/stanislao-leszczynski_(Dizionario-di-Storia)/> 29 G. QUAZZA, Il problema italiano, cit., p. 200.

30 Ivi, pp. 202-204. 31 Ivi, pp. 206-207. 32 Ivi, pp. 211-212. 33 Ivi, p. 223. 34 Ivi, p. 226. 35 Firmato il 7 novembre 1733.

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Tuttavia già da prima si era pronti a muovere le truppe. Il maresciallo Villars, posto a capo dell'armata francese, ritenne sarebbe stato opportuno marciare fino al Mincio ed all'Adige di modo che potessero essere tagliati i soccorsi imperiali provenienti dall'Austria attraverso il Trentino. Ma gli altri generali e politici scelsero una linea diversa, più prudente, ritenendo di dover iniziare dall'assedio delle piazze del milanese37. Vigevano fu occupata senza lotta e furono raggiunte anche

Pavia e Milano. Daun, governatore del milanese, riparò prima su Mantova per poi rientrare a Vienna. Coigny assediò il castello di Milano, il marchese di Caraglio attaccò Novara ed il conte della Perosa fu destinato a Tortona. La maggioranza dell'esercito pose l'assedio a Pizzighettone che si arrese il 30 di novembre. A seguito di questa resa fu semplice per gli alleati occupare Sabbioneta e Cremona iniziando a fortificare l'Oglio. Al principio di dicembre Carlo Emanuele entrò finalmente a Milano, ma la resa del castello sarebbe avvenuta solo il 29 e l'occupazione completata il 5 di gennaio con la presa di Serravalle, Novara, Arona e Tortona38.

Grande motivo di dissenso tra i due alleati fu la ripartizione delle spese di guerra. Emergerà tutto ciò chiaramente nella documentazione riguardante la diaria, ma occorre ricordare che nel Trattato di Torino venne fissata, con l'articolo 14, la divisione delle rendite ordinarie e straordinarie dello Stato di Milano a metà fra i due alleati, dedotte le spese dei carichi ordinari del paese. Si trattava di circa 13 milioni di lire per le dieci province lombarde. Ma le resistenze fatte da Carlo Emanuele affinché la diaria non fosse aumentata, secondo quanto era invece la richiesta francese, durarono poco: i lombardi infatti si trovarono addossati carichi quali la fornitura dei quartieri d'inverno ed anche il pagamento del tributo del quieto vivere, ovvero di quell'imposta che avrebbe dovuto garantire l'assenza di molestie da parte dei soldati. Al tempo dell'editto del maggio 1734 già erano presenti cospicui arretrati, nell'ordine di due milioni di lire39. Ma gli arretrati sarebbero maturati sino alla cifra di quattro milioni40 e Carlo Emanuele sarebbe dovuto ricorrere prima ad un prestito volontario in aprile e, fallito questo, fu costretto ad imporre un prestito forzoso a 188 persone tra patrizi, mercanti ed affaristi per somme che variarono dalle 3 alle 50.000 lire41. Questo fu un ennesimo motivo di attrito con i francesi i quali cercarono in ogni momento di farsi valere come alleato più forte. Per questa ragione fu permesso all'Arconati ed al Visconti di andare a Parigi per perorare la causa di una riduzione di imposizione sulle spalle dei lombardi. La missione parigina fu però inutile perché gli inviati non furono neppure ricevuti e nel frattempo continuarono gli screzi tra l'Ormea ed il Fontanieu: l'intendente francese continuò a chiedere che fossero rinnovate le

37 Tra chi si oppose all'idea avanzata da Villars v'erano l'Ormea, il marchese di Breglio, Vaulgrenant, Pezé, il marchese di Broglie e Cadrieux. Alla loro idea non aderì il maresciallo Rhebinder, il più alto ufficiale sabaudo. Ibid., p. 238. 38 G. QUAZZA, Il problema italiano, cit., pp. 238-239.

39 Ivi, p 251.

40 Dato riferito al periodo di febbraio 1735.

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forniture per tutti i quartieri invernali che sarebbero seguiti42.

Il peso gravante sui sudditi lombardi non li rese certamente entusiasti del governo piemontese, anche se alcuni nobili fuggiti a Vienna credettero opportuno il rientro in Lombardia onde evitare la confisca dei beni. Altri non temerono le confische e restarono a Vienna. Tra i patrizi presenti a Milano durante l'occupazione v'erano indubbiamente dei filoasburgici, ma l'unico che lo fu apertamente, il marchese e commissario generale Litta, alla fine fu destituito per le nostalgie manifestate tanto apertamente. È pur vero che gli sforzi di Carlo Emanuele di non intaccare il vertice politico del vecchio ducato non valsero a molto. Quel che temevano più di tutto i lombardi era la vicinanza geografica del nuovo padrone rispetto alla lontananza dell'imperatore. Non pochi uomini designati anche alle più alte cariche amministrative non mancarono di protestare senza timore sia contro le turbolenze delle truppe francesi che contro l'imposizione fiscale eccessiva. Obiettivamente, ricorda Quazza, il danno della politica fiscale sarda fu notevole e Carlo Emanuele non fece nulla neppure per accattivarsi i sudditi meno ricchi43.

I contadini furono continuamente spogliati di ogni bene e molestati continuamente da truppe per nulla disciplinate e Carlo Emanuele che, quanto meno in un primo tempo, non frenò la condotta tenuta dai francesi. Quazza ricorda infatti le istruzioni date dal re al conte Majno di Pettinengo perché non si opponesse alle trattative del banchiere Menafoglio per cedere ai francesi parte del grano destinato alle truppe sabaude. Ed infatti oltre alla questione finanziaria divenne problematica ben presto anche la questione granaria, soprattutto con il sopraggiungere delle complicazioni per le forniture44. Villars inoltre, chiese di poter far acquartierare le proprie truppe in zone che la guerra non aveva ancor toccato. Ma la richiesta presupponeva che le truppe piemontesi potessero essere invece poste laddove poco prima i francesi avevano saccheggiato e razziato tutto quanto era stato possibile45. Neppure le vittorie ottenute a Bitonto e Parma servirono ad appianare il disaccordo fra gli alleati. Inoltre la rapida e vittoriosa campagna di don Carlo all'interno del Regno di Napoli permise agli spagnoli di accrescere le proprie pretese nei confronti dei franco-piemontesi46.

Ancor più crebbe l'acrimonia quando si venne a conoscenza dell'avvio delle trattative di pace tra Parigi e Vienna ad insaputa della corte torinese. Scoperte le carte da parte francese, Carlo Emanuele poté constatare quanto i preliminari fossero distanti dalle aspettative create con la sigla del Trattato di Torino47. Tuttavia il sovrano sabaudo, col crescere delle insistenze da parte francese,

42 Ibid.

43 Ivi, pp. 253-254. 44 Ivi, pp. 256-257. 45 Ivi, p. 259. 46 Ivi, pp. 271-278.

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finì col cedere alle condizioni proposte48. Come ha scritto Quazza «il ripiegamento sabaudo su richieste di piccola portata è un'implicita confessione di grave debolezza, sulla quale le maggiori Potenze non possono non speculare»49.

Fondamentali per l'abbondanza di informazioni che recano sono alcuni saggi tratti da un volume della collana curata da Giuseppe Galasso sulla Storia d'Italia, sull'esperienza sabauda. I lavori ai quali mi riferisco sono stati quello di Geoffrey Symcox, circa l'epoca di Vittorio Amedeo II, e quello di Giuseppe Ricuperati, relativo all'esperienza governativa di Carlo Emanuele. Symcox analizza ogni aspetto del regno di Vittorio Amedeo II e quel che è stato illuminante riguarda anzitutto alcune figure dell'amministrazione sabauda che opereranno anche durante gli anni di occupazione del milanese. È questo il caso relativo alla figura dell'intendente, ruolo che negli anni della guerra di successione polacca fu ricoperto da De Gregori per i sabaudi e da Fontanieu per i francesi. Lo studioso ci permette infatti di fare mente locale su quelli che erano i doveri ed i poteri di un intendente sabaudo che però, sottolinea, conserva differenze sostanziali rispetto ai colleghi francesi50. Originariamente in Piemonte la carica fu venale ed il territorio da loro amministrato era meno esteso di quello affidato agli omonimi francesi. In pratica non erano altro che gli esecutori degli ordini ricevuti dall'alto. Questa figura divenne però, con il passare degli anni, cruciale per l'amministrazione sabauda poiché le fu assegnata l'esazione dei tributi, «ma anche di sovrintendere ai lavori pubblici, di mantenere le scorte di grano per il periodo di emergenza e di amministrare le terre del demanio ducale. […] doveva periodicamente far rapporto al Generale delle Finanze, da cui riceveva tutti gli ordini»51.

Symcox smentisce però anche quanto affermato da Quazza ed altri autori circa la nascita dell'intendenza verso il 1696 rifacendosi a quanto affermato invece da Enrico Stumpo, ovvero «niente ci impedisce di concludere che già nel 1624 l'ufficio di intendente era ben definito ed estremamente importante»52. D'altronde Vittorio Amedeo II non fece altro che estendere a tutto lo Stato quella che fino ad allora era stata un tendenza puramente piemontese. Inoltre i conflitti avrebbero stimolato la crescita delle intendenze locali e lo specializzarsi delle loro competenze e con essi sarebbe cresciuta la rete di controllo e si sarebbe amplificata la centralizzazione statale. Ricorda infatti Symcox che «La funzione originaria degli intendenti, relativa all'esazione delle tasse, si era ampliata; essi erano ora gli strumenti tramite i quali il governo centrale attuava le

48 Ivi, p. 318. 49 Ivi, p. 326.

50 G. SYMCOX, L'Età di Vittorio Amedeo II in Storia d'Italia. Il Piemonte sabaudo, a cura di G. Galasso, UTET, 1994, Torino, p. 315.

51 Ibid..

52 E. STUMPO, La vendita degli uffici nel Piemonte del Seicento, estratto da “Annuario dell'Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea”, vol. 25.-26. (1973-1974), Roma, 1976, p. 196.

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riforme fiscali e amministrative e concentrava maggior potere nelle sue mani. Il ruolo strategico degli intendenti come punta avanzata della centralizzazione e della riforma trova una miglior illustrazione nella loro attività in Savoia o nella contea di Nizza»53.

Vittorio Amedeo II perseguì la razionalizzazione dei ministeri centrali mediante una serie di riforme che trovarono completamento nel 1717 attraverso un provvedimento di riordino dell'amministrazione finanziaria. Il rinnovamento toccò il Consiglio delle Finanze al cui vertice fu posto il Generale delle finanze il quale fu affiancato dal presidente della Camera dei Conti, dal Controllore Generale ed anche dal Segretario di Guerra. Non solo Vittorio Amedeo previde un accentramento, ma anche un riordino dei ministeri sottoposti i quali, da quel momento, fecero riferimento a un membro del Consiglio delle Finanze. I ministeri vennero raggruppati in quattro Aziende, ognuna diretta da un funzionario: l'Azienda del Soldo, diretta dal contadore generale; l'Azienda che gestiva la Real Casa, diretta dal gran ciambellano; l'Azienda dell'artiglieria e delle fortificazioni che era gestita dall'intendente generale; infine, l'Azienda preposta all'amministrazione generale, alla riscossione dei tributi, includeva tutti i precedenti tesorieri ed esattori54.

Tornando agli intendenti ed al loro ruolo nel Piemonte del Settecento, vedremo che sotto Carlo Emanuele III assumeranno caratteristiche ancor più specifiche. Symcox ne nota la “duttilità” e sottolinea come con l'Editto sulla Perequazione del 1731 venne affidata loro «una grande responsabilità di fatto e di diritto, legata in pratica al compito di realizzarla, trasferendo il discorso sul piano fiscale e vincendo tutte le resistenze locali, della nobiltà, del clero, dei ceti che avevano rendite sulla terra»55. Gli intendenti operanti all'epoca di Vittorio Amedeo furono definiti da Symcox come avventurosi burocrati, mentre quelli che furono designati sotto Carlo Emanuele furono scelti spesso tra la nobiltà di servizio. I loro compiti, oltre che alle canoniche competenze fiscali, amministrative e d'informazione, riguardavano la gestione della politica economica: infatti erano tenuti a sollecitare la vendita di terreni comuni con una resa agricola, a intervenire sulle tipologie di colture da attuare, a predisporre lavori infrastrutturali. L'intendente che svolse il suo ruolo durante il conflitto analizzato in questo lavoro, Giuseppe De Gregori, è definito da Symcox come un'abile creatura dell'Ormea il quale, giunto ai vertici del potere, scelse di circondarsi di persone fidate.

Allo stesso modo, il saggio di Giuseppe Ricuperati56 ci pone di fronte ai cambiamenti avvenuti durante il regno di Carlo Emanuele III, anni nei quali il Piemonte avrebbe affrontato la dispendiosa guerra di successione polacca ed avrebbe dovuto da gestire il conflitto con la Santa Sede, quest'ultimo affidato alle abili mani del marchese d'Ormea, uomo potente e con un certo 53 G. SYMCOX, Op. cit., pag. 316.

54 Ivi. p. 400.

55 G. SYMCOX, L'Età di Vittorio Amedeo II, p. 453.

56 G. RICUPERATI, Carlo Emanuele III e il ministro Ormea: un difficile esordio fra due guerre in Storia d'Italia. Il

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ascendente sulla politica sabauda. Per la personalità estremamente forte ed i modi di fare, spesso, poco ortodossi non tutti esultarono nel vederlo ascendere ai vertici del potere57 e, a questo proposito Ricuperati riporta quanto sostenuto dall'ambasciatore veneziano a Torino in merito all'Ormea58.

Tuttavia la scelta fu presa e motivata affidandosi (cambiare!) diritti di successione ed il comando delle truppe franco-sabaude venne affidato a Carlo Emanuele III che fu affiancato dal maresciallo Rhebinder, dal marchese d'Aix e dal segretario di guerra Fontana. A guidare le truppe francesi furono posti François Franquetot duca di Coigny, François-Marie di Broglie ed il maresciallo Claude-Louis Hector duca di Villars. Gli austriaci furono colti alla sprovvista. Erano impreparati ad una svolta simile delle vicende. Pian piano persero tutte le loro piazze: Pavia fu la prima municipalità a consegnare le chiavi al re di Sardegna. Gli spagnoli però non avrebbero acconsentito alla perdita del milanese senza contropartite e come corrispettivo chiesero che fossero loro garantite Parma, Piacenza, Mantova e mantovano, Napoli e la Toscana. Tuttavia l'esito della guerra avrebbe fatto svanire il sogno di conquista del milanese tanto nutrito a Torino: l'accordo dell'ottobre 1735 ridimensionò le pretese sabaude tanto quanto quelle spagnole59.

Il problema principale che rileva Ricuperati risiede nell'amministrazione del milanese da parte di forze esterne le quali, per via della vicinanza con il Ducato avrebbero governato con maggiore attenzione degli austriaci. Conscio della possibilità di non ottenere i consensi necessari all'amministrazione, con la preoccupazionione che si creassero nuovi problemi, Carlo Emanuele pensò bene di non sconvolgere il contesto più di quanto già non facesse l'occupazione. Per questa ragione evitò in ogni modo possibile lo scontro con le tradizionali classi dirigenti locali, ovvero con il clero e con la nobiltà. Ai membri di quest'ultima furono dunque affidati gli uffici di maggior rilievo durante il triennio sabaudo ed inoltre, con maggior vigore rispetto al tentativo austriaco, fu eseguita la perequazione. Tuttavia, questi sforzi non sopirono l'avversione nutrita per il modello di governo piemontese, il quale per il suo carattere accentrato continuò a suscitare profonde diffidenze nelle classi dirigenti lombarde60. Uno dei membri del patriziato lombardo ad essere investito con una carica importante fu il marchese di origini alessandrine Giorgio Olivazzi di cui abbiamo numerosissime lettere ricche di ossequiosi inchini dirette alla segreteria dell'Ormea. A costui Carlo Emanuele III affidò la carica di gran cancelliere. Olivazzi, legato al ceto senatorio, si servì della collaborazione dell'abile fiscale di origini finalesi Martino De Colla – anch'esso ricorrente nei mazzi di lettere – per disegnare le riforme degli organi amministrativi. Uno dei provvedimenti che

57 Ivi, p. 477.

58 Secondo l'ambasciatore veneziano Marco Foscarini, il marchese d'Ormea era un “soggetto d'aliena natura e molto

indietro nelle conoscenze politiche”, Cfr. M. FOSCARINI, Storia arcana ed altri scritti di Marco Foscarini, in Archivio Storico Italiano, V, Firenze, Vieusseux, BLB, p. 187.

59 G. RICUPERATI, Carlo Emanuele III e il ministro Ormea, p. 481. 60 Ibid. p. 481.

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quest'ultimo propose fu l'eliminazione della carica di Governatore e del Consiglio Segreto: come dimostra Ricuperati, ciò avrebbe rafforzato le magistrature locali e, al tempo stesso, avrebbe segnato un innegabile progresso rispetto al modello asburgico. La giunta di governo designata all'indomani dell'inizio dell'occupazione prevedeva, come già ricordato dall'opera di Viarana, il marchese senatore Olivazzi, il conte senatore Giovan Battista Trotti, il conte Stefano Gaetano Crivelli, il marchese Carlo Castiglione, il marchese senatore Diego Ordogno de Rosales, Martino De Colla e l'avvocato fiscale Carlo Maria Cavalli.

Molto utile al fine di comprendere appieno l'epoca, la corte e le modalità di azione politica è stato anche il volume I Savoia, una raccolta di saggi curata da Walter Barberis61. Interessanti per il loro contenuto e di supporto al mio lavoro sono stati i saggi di Christopher Storrs ed Andrea Merlotti. Il testo di Storrs62, incentrato sul ruolo politico ricoperto dai Savoia all'interno del contesto internazionale, fornisce degli spunti circa l'epoca di Carlo Emanuele III. Non si limita a citare il cambiamento di strategia nelle alleanze durante il regno di Carlo Emanuele63, con la conseguente disapprovazione di alcuni ministri ed uomini dell'apparato militare com'è il caso del maresciallo Rhebinder che, per le sue posizioni, fu esiliato nel suo governatorato di Pinerolo. Certo è che, a seguito dell'esperienza maturata durante la guerra degli anni Trenta, sia Carlo Emanuele che i suoi ministri, tornarono a preferire il tradizionale schieramento a fianco dell'Inghilterra piuttosto che dei francesi64.

Il saggio di Andrea Merlotti ci offre invece uno sguardo sul giuramento tenuto nel 1730 nei confronti di Carlo Emanuele III, l'ultimo del genere avvenuto in Antico Regime.65 Difatti, questa promessa solenne vide notevoli innovazioni se paragonata a quanto era accaduto sino ad allora. Anzitutto venne stravolto l'ordine con il quale giuravano i nobili e le comunità, ovvero, accadde che, per la prima volta, si prestasse giuramento sulla base dell'organizzazione provinciale. Inoltre venne seguito un ordine puramente alfabetico, eliminando così tutte le contese circa la precedenza dell'uno o dell'altro66.

Innegabile il contributo di più di un'opera di Paola Bianchi, prima fra tutti Onore e

mestiere67. Attraverso questo lavoro ricco nei particolari sono introdotta alla dimensione prettamente militare propria dello Stato sabaudo. Per poter meglio cogliere ed interpretare gli sviluppi futuri in

61 W. BARBERIS (a cura di), I Savoia. I secoli d'oro di una dinastia europea, Torino, Einaudi, 2007.

62 C. STORRS, La politica internazionale e gli equilibri continentali in I Savoia, cit. (VEDI PAGG. SAGGIO) 63 Ivi, p. 27.

64 Ivi, p. 28.

65 A. MERLOTTI, I Savoia: una dinastia europea in Italia in I Savoia. I secoli d'oro di una dinastia europea, a cura di W. Barberis, Torino, Einaudi, 2007.

66 Ibid. p.122.

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materia militare, è stato necessario, come nel caso del saggio di Symcox, dare uno sguardo all'epoca di Vittorio Amedeo II con la quale viene inaugurata l'opera. Il Settecento sabaudo si aprì all'insegna di tentativi atti a consolidare la posizione che, da poco, lo Stato ricopriva all'interno del contesto europeo. Questa entità territoriale e giuridica costituiva anzitutto, proprio a livello militare, una “Piedmontese exception”68. Infatti, vagliando anche i dati elaborati da Gregory Hanlon, si deduce che, dal periodo post-tridentino a quello napoleonico, il Piemonte si sia tenuto lontano dal crepuscolo della vocazione militare. Se infatti gli storici francesi definirono lo Stato subalpino come “État semi militaire”69, sottolineandone i debiti contratti a favore della politica militare, Geoffrey Parker inscrisse il caso piemontese nelle zone di massima concentrazione della Rivoluzione Militare70. A proposito di ciò Jeremy Black71 afferma che, dalla metà del Seicento, nei principali eserciti europei si avviarono trasformazioni decisive che, fino al tramonto dell'Antico Regime, si sarebbero gradualmente perfezionate72.

All'inizio del ducato di Vittorio Amedeo lo stato sabaudo gravitava ancora nell'orbita francese. Fu anche per questa ragione che l'esercito amedeano in quegli anni era modesto, altrimenti non si sarebbero evitate frizioni con i francesi. Il sovrano peraltro volle che fossero arruolati esclusivamente coloro che potevano garantire un duraturo ed efficace servizio. Il distacco dalla Francia maturò quando l'ingerenza di quest'ultima negli affari statali divenne insostenibile: Vittorio Amedeo fu spinto da Luigi XIV ad estendere gli effetti della revoca dell'Editto di Nantes (1685) anche in Piemonte. Ciò avrebbe causato un'ondata migratoria di valdesi non solo dalla Francia, ma anche dallo stato sabaudo. Quattro anni dopo la revoca del noto Editto, difatti, il “glorioso

rimpatrio73” causò un'acuta crisi, volutamente ricercata dallo stesso sovrano sabaudo74. Se le guerre di successione combattute lungo la prima metà del Settecento ebbero il merito di stemperare le tensioni interne allo Stato, restò comunque irrisolto il problema della gestione e del controllo delle

68 G. HANLON, The twilight of a military tradition. Italian aristocrats and European conflicts, 1560 – 1800, London, UCL Press, 1998.

69 P. BIANCHI, Op. cit., p. 31.

70 G. PARKER, The military revolution, Cambridge, Cambridge University Press, 1996. Mettere Luogo edit. Anno e pag di riferimento vedi libro paola a pagina qst cit

71 J. BLACK, European warfare. 1660 – 1815, Yale Press 1994. 72 P. BIANCHI, Op. cit., p. 34.

73 Il glorioso rimpatrio è così chiamato perché simboleggia il ritorno alla terra natale ed alla libertà di professare la propria fede. Ebbe inizio la notte del 26 agosto 1689, tre anni dopo l'esilio forzato a seguito della revoca dell'Editto di Nantes. Circa un migliaio di uomini, seguendo la costa del Lago di Ginevra, si incamminarono verso la Savoia nutrendo la speranza di ritornare ad abitare le proprie valli in Piemonte. Il viaggio durò tredici giorni. Prima di questo avvenimento, nel 1686 i valdesi presenti in Val Germanasca ed in Val Pellice erano circa 13.000. A seguito delle pressioni francesi legate alla revoca dell'Editto di Nantes, molti cercarono di resistere alle conversioni forzate, ma furono massacrati o imprigionati. Coloro che riuscirono a riparare in Svizzera furono solo 2.500. Tre anni dopo, con gli stravolgimenti della politica internazionale, che in quegli anni volse a favore di Guglielmo III d'Orange il quale ricostituì il fronte antifrancese, Henri Arnaud ministro del culto organizzò una marcia attraverso le Alpi passata alla storia come la “Glorieuse Rentrée”.

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periferie che erano infestate dai banditi e dai contrabbandieri. Tuttavia, come ricordato precedentemente nel saggio di Symcox, non mancò la buona volontà di attuare delle riforme: si pensi al ricorso agli intendenti, figura di ascendenza francese, ma anche alla creazione di un Consiglio di Guerra separato da quello di Stato. Fu durante la guerra della Lega di Augusta che Vittorio Amedeo II introdusse la carica dell'Intendente generale di guerra il quale aveva il compito di tenere viva la rete di contatti tra i commissari, gli ufficiali del Soldo e gli impiegati. Fino alla fine del Seicento infatti, gli uffici preposti alla gestione delle truppe erano rimasti fossilizzati a quella struttura conformata sul modello spagnolo creata a suo tempo da Emanuele Filiberto: una Contadoria, una Tesoreria ed una Veedoria affiancate da un tribunale militare75. Nel primo ventennio del Settecento, sotto una spinta decisamente centralizzatrice, venne rafforzato l'Ufficio del Soldo e vennero redistribuiti i compiti più funzionali alla politica anche se restò ancora un punto debole il controllo delle riviste delle truppe. Questi anni videro la riforma anche di diversi uffici quali il Consiglio di Artiglieria, Fabbriche e fortificazioni e la Segreteria di Guerra e la militarizzazione delle maestranze fino ad allora usate nei presidi.

Figura indispensabile all'esercito era l'ingegnere. Essi vennero iscritti nel Consiglio di Artiglieria, Fabbriche e Fortificazioni, riformato nel 1711 e soppresso nel 1730, e se in precedenza furono impiegati per i lavori presso le piazzeforti, sino dal secondo decennio del secolo del Settecento avrebbero posseduto ognuno un proprio grado militare76. Inoltre, se inizialmente il corpo degli ingegneri era unito a quello degli artificieri, dagli anni cinquanta del Settecento, venne inquadrato in gerarchie proprie mentre già dalla guerra di successione spagnola il loro ruolo crebbe all'interno dell'esercito e aumentarono esponenzialmente le richieste di esperti in architettura militare.

Per quel che concerne più specificatamente l'arruolamento, nel caso di carenze di organico nei reggimenti “nazionali”, si ricorse all'arruolamento degli stranieri i quali, nel primo decennio del Settecento, potevano essere al massimo in cinque per ogni compagnia77. Quando poi si verificò un minore afflusso di soldati dalla penisola, il bacino di reclutamento al quale ci si rivolse fu quello del Nord Europa, con un'ovvia e costante presenza di protestanti tra i militi78. Vanto sabaudo è la creazione dei reggimenti provinciali, per la quale la Bianchi sottolinea come questa precedesse di un ventennio il Kantonsystem prussiano, riprendendo lontanamente il modello svedese dell'Indelta

75 Ibid. p. 44. 76 Ibid. p. 57. 77 Ivi. p. 81.

78 Uno degli uomini più noti alle dipendenze di Vittorio Amedeo fu il barone Otto von Rhebinder. Costui fu dapprima governatore di Biella; assunse poi la direzione della fanteria, quindi venne creato governatore di Pinerolo e maresciallo dell'armata.

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istituito alla fine del Seicento da Carlo XI79.

In merito al periodo di Carlo Emanuele III l'autrice mostra come una certa storiografia non abbia esitato a spendere parole sul sovrano riportando in auge il topos del re guerriero, colui che partecipò alla dispendiosa guerra di successione polacca. Carico di speranza e fiducioso nei confronti dei suoi alleati, non seppe riconoscere quale fossero i veri intenti del cardinale Fleury, né tanto meno poté immaginarsi che il così strenuamente ambito milanese non sarebbe divenuto parte integrante dei suoi domini. Conclusa questa guerra tuttavia sarebbe stata inaugurata nel 1739 la scuola di artiglieria a Torino nella quale avrebbe operato Alessandro Papacino d'Antoni80 e diversi membri della famiglia Quaglia i quali, meritatamente, compirono un salto nelle gerarchie. Le carriere di d'Antoni e dei Quaglia sono utili a tracciare un profilo tutto nuovo dell'ufficiale piemontese: erano uomini maturi che avevano vissuto le guerre degli anni Trenta e Quaranta e che stabilirono rapporti diretti o quasi con le scuole di artiglieria della capitale sabauda. Durante l'epoca di Carlo Emanuele III accadde comunque che l'età media delle reclute si abbassò, variando dai diciotto ai trentacinque anni. E non v'era molta comprensione per coloro che, decisi a sottrarsi alla coscrizione, si industriavano nel sostituire la propria persona con chiunque altro. Gli unici esentati dal servizio militare erano gli indigenti. Resta il fatto che dopo la guerra di successione polacca, il modello militare di riferimento non fu più la Francia, bensì la Prussia81.

Lameire nella sua opera82 tratta lo spostamento di sovranità in Italia durante le guerre del Settecento, spostamento difficolto da seguire per via della difficoltà di definire la nozione di sovranità nel contesto italiano. Nel Settecento, riconosce l'autore, il Piemonte subì diverse influenze, anzitutto quella francese. Lo scontro con il vicino, sostiene Lameire, avrebbe determinato una modificazione della superiorità territoriale senza però comportare uno spostamento della sovranità. Invece, per quel che riguardava Venezia nello stesso periodo, pur se questa rientrava nella sfera d'influenza asburgica, la sua neutralità la tenne al riparo da ogni accidente. Le uniche imprese belliche intraprese all'epoca dalla Serenissima furono le guerre contro i turchi.

Al tempo dell'occupazione sarda del milanesato, nonostante l'invasione fosse fatta assieme ai francesi, non si sarebbe verificato uno spostamento di sovranità verso la parte francese poiché il suo intervento era ausiliario a quello del Regno di Sardegna. Per Lameire, la storia delle occupazioni militari in Italia nel XVIII secolo si condensa tra la guerra di successione polacca e quella austriaca. La differenza tra queste constava nel fatto che durante la prima guerra la Francia era uno Stato 79 P. BIANCHI, Op. cit., p. 96.

80 Ibid. p. 116.

81 F. VALSECCHI, Un fallito progetto di alleanza tra Carlo Emanuele III di Sardegna e Federico II di Prussia

(1749), «Archivio storico italiano», CV (1947), pp. 64 -74.

82 I. LAMEIRE, Le deplacement de la souveranetè en Italie pendant les guerres du XVIII siécle, Paris, A. Rousseau,

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pienamente sovrano, alleato ad un aggregato composito quale era il Piemone, la cui sovranità era quindi ridotta tra diverse entità; invece, durante la guerra di successione austriaca (detta anche guerra della Prammatica Sanzione) fu vantaggiosa la superiorità territoriale83. L'occupazione della Lombardia, secondo l'autore, fornirebbe diversi tipi di spostamento della sovranià, non solo a vantaggio dei Savoia ma anche della Francia. Lameire aggiunse che «Le déplacement de souveraineté et, faut-il ajouter, de superiorité territoriale, s'étant effectué diversement en raison même des variations des institutions locales, il import de s'arréter un moment sur le droit coutumier administratif des régions occupée»84. Con l'occupazione si sarebbe verificato anche lo spostamento della sfera d'influenza feudale in quanto l'occupante diveniva competente ed autorizzato a vendere i feudi. Era gli invasori coloro ai quali si rivolgevano i milanesi per simili questioni. Non solo, l'occupante acquisiva il diritto di nomina e revoca dei funzionari locali e, per quanto concerneva i rapporti con la Chiesa, gli occupanti si arrogavano il diritto di registrare gli indulti, di approvare tramite placet reale l'elezione dei provinciali. Inoltre in quegli anni si presentò sovente la questione delle tangenti, ovvero di quella che Lameire definisce come un'istituzione giuridica a vantaggio degli amministratori, sia militari che civili. Lo stesso maresciallo Maillebois era uno degli uomini più in vista che vi ricorreva.

Ad inizio conflitto la situazione giuridica dei belligeranti era differente. La Francia era uno Stato pienamente sovrano esattamente come la Spagna (anche se le pretese farnesiane la riconducono alla sfera d'influenza imperiale). Il Regno di Sardegna invece era vassallo dell'Impero. L'occupazione del milanese avvenne con l'aiuto della Francia. Tuttavia la sovranità fu trasferita totalmente nelle mani di Carlo Emanuele III85 e lo spostamento di sovranità avvenne in blocco su tutto il milanese86. Infatti prima di lasciare Milano, agli inizi dell'occupazione, il re sabaudo non volle lasciare la città senza “regolare” la sua giurisdizione e stabilire gli incarichi87. Con la creazione del governo questo fu tenuto al giuramento contenuto in Minute di giuramenti che deono

prestare gli Uffiziali del Senato di Milano in caso di promozione (1734, n.6)88.

Seguirono quindi le promozioni, come nel caso del marchese reggente gran cancelliere Giorgio

83 Lameire sottolinea che la nozione di superiorità territoriale, tra il 1732 ed il 1735, non si differenziava molto da quella di sovranità.

84 Ibid., p. 15.

85 Ovviamente delle “postille” ponevano un preciso limite alla sovranità esercitata dal re sabaudo. 86 Ibid., p. 23.

87 Ibid., p. 41.

88 Ibid., p. 42. «Introscriptus … preses Senatus huius Mediolanensis Domiinii ac Suæ Maiestate Domini Regis Sardinie condecoratur, hodie in ordine ad adipiscendam dicti muneris possessionem, actis sacrosanctis Dei Evangelys in libro municipali existentibus, debium et consuetum maiestatis sue prestit fidelitatis iuramentum, assistente, [...]». L'autore sottolinea come questa non sia la forma canonica di giuramento, essendoci uno spostamento a posteriori di sovranità per com'è posto il re di Sardegna.

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Olivazzi, senatore e vicepresidente del Senato89.

L'occupazione, come ben rileva Lameire, non impedisce ai funzionari di litigare su questioni banali come i palchetti per il teatro: proprio il gran cancelliere pretese di dover avere, in ogni teatro dello Stato, il primo posto alla destra del governatore90.

Essendo un'operazione congiunta gallo-sarda, entrambi cercarono di sfruttare al massimo l'occasione. Ma come già sottolineato da Quazza, sorsero ben presto problemi in merito alle imposte riscosse. La questione relativa alle spese ordinarie e straordinarie nello Stato di Milano fu dibattuta in una relazione inviata dalla corte torinese a quella francese. Il sovrano sabaudo nutriva il profondo desiderio di vivere in perfetta armonia con l'alleato francese affinché non si creassero situazioni che avrebbero impedito di perseguire l'obiettivo comune. Al fine di garantire un clima armonioso, Carlo Emanuele ricordava all'alleato quanto fu stipulato chiaramente all'interno del Trattato di Torino. Soprattutto, sottolineava il re, il milanesato sarebbe dovuto appartenere a lui. Per giungere a questo possesso, grazie anche all'aiuto delle truppe francesi, Luigi XV non avrebbe però dovuto permettere che le truppe esigessero né il quartiere d'inverno né contribuzioni poiché Carlo Emanuele avrebbe fatto il possibile affinché le truppe francesi avessero tutto il necessario. Inoltre prometteva che sarebbero state pagate a tutti i commissari e agli altri burocrati le contribuzioni ordinarie e straordinarie relative allo Stato di Milano91.

La modalità di occupazione presentò più problemi di quelli facilmente immaginabili. Già dalla presa di Pizzighettone i francesi ebbero da reclamare per la propria cavalleria la scarsità dei foraggi. È pur vero che in questo preciso momento storico non furono esclusivamente imposte tasse di ogni sorta, poiché all'interno dello stato venne immesso anche denaro da parte dei francesi. Tuttavia la risposta sarda alle richieste degli alleati fu non permetteva alle truppe di pretendere un quartiere a Milano, dati gli accordi precedenti. Vaulgrenant a proposito si disse offeso mentre l'ambasciatore nega che l'Ormea abbia mai loro offerto del foraggio92. Con il sopraggiungere dell'inverno si presentò la necessità di stabilire i quartieri e, gli accordi firmati con il Trattato di Torino affermavano che lo Stato di Milano vi avrebbe dovuto contribuire entro le proprie possibilità. Carlo Emanuele promise al re di Francia il 50% dei tributi straordinari di modo che rinunciasse ad esigere tributi dal milanese. Alcuni allora vollero portare a termine di paragone l'occupazione francese del milanese del 1701, ma l'ambasciatore fece notare che allora accadde per 89 Ibid. «Marchese Regento Don Giorgio Olivazzi promesso da Sua Maestà che Dio guardi della carica e vicepresidente del Senato alla dignità di Gran Cancelliere in questo Stato e Consigliere del Consiglio Segreto» La formula “che Dio guardi” era una forma spagnola riservata al sovrano e conservata nello Stato di Milano.

90 Ibid. Vi sono diverse lettere tra le tante vagliate nei sei mazzi visionati all'Archivio di Stato di Torino, datate 1735, dove Olivazzi strepita per l'ottenimento di questi palchetti.

91 Ibid., p. 47. 92 Ibid., p. 48.

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motivi di difesa, mentre in quei frangenti si trattava di una conquista. Per l'ambasciatore e l'intendente francese, la conquista del milanese in questi anni era una conquista francese, nonostante la sovranità ricadesse su casa Savoia. La risposta sarda alle pretese francesi fu che «Le Roy de Sardaigne ne peut se dépouiller des sentimens d'équité, de justice pour un païs trop affligé. L'article 14 est absolu et non sous condition suspensive»93.

Carlo Emanuele meditò profonde riforme amministrative per il governo del milanese. Anzitutto non avrebbe lasciato troppo campo libero al governatore, un po' come accadde nei precedenti governi spagnolo ed austriaco: difatti tutto quel potere era quasi giustificato dalla distanza geografica dalla corte. Torino invece era a un tiro di schioppo se paragonata a Madrid o Vienna. Milano sarebbe potuta essere ridotta ad un'altra provincia del regno sardo, ma le intenzioni non furono quelle. Alcuni aspetti delle precedenti amministrazioni sarebbero stati conservati di modo che non fosse stato alienato tutto ai lombardi, comprese le prerogative di governo che le strutture patrizie temevano di perdere più d'ogni altra cosa. Le difficoltà con l'amministrazione francese comunque si moltiplicarono assieme ai problemi dell'occupazione e si protrassero fino alla fine del conflitto. Un comandante francese, ad esempio, fece sequestrare tutti i grani di Monza; il brigantaggio non mancava e dieci soldati svizzeri invasero e saccheggiarono una casa privata mentre gli zingari invasero la Lomellina94.

Mediante le fonti archivistiche conservate a Torino e Milano e grazie alla bibliografia ho voluto, meglio, ho tentato di ripercorrere gli anni dell'occupazione sabauda del milanese, soprattutto il triennio 1733 – 1736. Quel che ho cercato di fare non è stata una mera cronologia degli eventi, piuttosto ho creduto opportuno sottolineare un aspetto di primaria importanza in situazioni di guerra com'é nel caso delle contribuzioni. Ho scelto questa tematica perché, pur nell'immensa mole di lettere e nella loro eterogeneità, ho scorto un filo conduttore dal quale è possibile dedurre quali fossero le condizioni di partenza e di arrivo del territorio lombardo prima, durante e dopo la guerra. La voglia di approfondire altri temi legati a questa vicenda per poter infine tracciare un quadro esaustivo certamente non manca.

93 Ivi.

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Guerra e pace

1. 1 Guerre, truppe e strumenti di controllo delle frontiere tra Seicento e Settecento: il Piemonte, la Lombardia e l'Europa.

Lo Stato sabaudo costituì una realtà, un soggetto politico assai peculiare nel contesto italiano ed europeo95. Se le vicende peninsulari seicentesche influenzarono le scelte politiche sabaude, con l'avvento del nuovo secolo e l'acquisizione del titolo regio (Sicilia, 1713; Sardegna, 1720) il Piemonte si caratterizzò come un vero e proprio protagonista sulla scena europea. Nonostante il suo coinvolgimento in diverse guerre fin dalla fine del Seicento e tenuti in conto anche gli ultimi sforzi del 1748, il Ducato di Savoia non potrebbe essere ascritto tra quelle realtà politiche dell'epoca che posero meno attenzione al fattore militare96. Questo Stato, da diverso tempo, si caratterizzava per un elemento peculiare, quello militare. Infatti il legame tra esercito e ceti dirigenti sarebbe rimasto vitale sino alla fine del XVIII secolo ed oltre: entro certi limiti verrebbe quindi smentita la tesi secondo la quale vi fu, all'inizio del Settecento, una crisi di vocazioni militari all'interno della nobiltà italiana97. Nel concreto, per confutare quest'ultima tesi potrebbe essere presa ad esempio la 95

P. BIANCHI, Sotto diverse bandiere. L'internazionale militare nello Stato sabaudo di antico regime, Franco Angeli, Milano, 2012, p. 55.

96

Ibidem, p. 56. 97

G. HANLON, Twilight of a military tradition: Italian Aristocrats and European Conflicts, 1560 – 1800, Taylon & Francis Group, 1998, pp. 250-251. Alle tesi di Hanlon mi sembra opportuno far seguire una riflessione di Piero Del Negro focalizzata sull'esperienza veneziana. Infatti Hanlon, in merito a Venezia, si espresse dicendo che questa decadenza fu la conseguenza di una «prolongued peace», dell'abbandono delle carriere militari da parte dei patrizi lagunari, ma nell'affermare ciò ignorò tutti quei patrizi che detenevano il monopolio del corpo ufficiali dell'armata e della marina da guerra. Certamente la “vocazione guerresca” si disperse durante il Settecento in ambito veneziano, ma probabilmente ciò avvenne per via di una precisa scelta politica della classe dirigente. Si veda a questo

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