• Non ci sono risultati.

"Non può mancare la vitale Civiltà di una Nazione, quando tenace persiste la sua Favella". La lingua dell'Italia unita nel pensiero di Giambattista Giuliani e Niccolò Tommaseo

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi ""Non può mancare la vitale Civiltà di una Nazione, quando tenace persiste la sua Favella". La lingua dell'Italia unita nel pensiero di Giambattista Giuliani e Niccolò Tommaseo"

Copied!
10
0
0

Testo completo

(1)

VALENTINA PETRINI (Università del Piemonte Orientale)

«Non può mancare la vitale Civiltà di una Nazione, quando tenace persiste la sua Favella» La lingua dell’Italia unita nel pensiero di Giambattista Giuliani e Niccolò Tommaseo

1. PURISTI, CLASSICISTI E NEOTOSCANISTI

Fin dai tempi di Dante, la “questione della lingua” ha caratterizzato la storia linguistica italiana, portando a sviluppare teorie e modelli che nel corso dell’Ottocento conobbero un periodo di particolare fervore.

Al cosmopolitismo settecentesco, che affondava le sue radici in fattori di diversa natura, il XIX secolo si contrappose da subito per il suo sguardo italocentrico, rivolto a quel culto delle radici nazionali promosso dal Romanticismo che coinvolse anche lo strumento linguistico.

Particolarmente ostile alla proliferazione dei forestierismi, fu padre Antonio Cesari, capofila del movimento purista, secondo cui, anziché guardare altrove, era necessario volgere l’occhio alla Toscana di quel «benedetto tempo» in cui «tutti […] parlavano e scrivevano bene»: il Trecento. Cesari (2012: 11) Proponendo tale modello di lingua, Cesari non solo si scagliava violentemente contro quelle spinte europeiste considerate la principale fonte di corruzione dell’italiano, ma dimostrava la sua piena avversione anche nei confronti dell’uso vivo toscano.

Un ideale linguistico differente fu quello abbracciato da Vincenzo Monti e dagli altri classicisti, i quali, anziché ritenere la lingua del Trecento toscano “naturalmente pura”, la consideravano un «patrimonio intellettuale, non solo dei letterati, ma anche di filosofi e scienziati». Serianni (2003: 101) Il modello linguistico cui aspirava Monti era quello di una lingua non toscana, non fiorentina, ma più apertamente italiana: una lingua scritta e comune alla (non ancora nata) nazione d’Italia. Una concezione italianista, quindi, derivata dal De vulgari eloquentia.

Fortemente convinti della toscanità dell’italiano, propugnatori di un modello linguistico vivo e popolare da confrontare sistematicamente con quello degli scrittori del Trecento furono invece i neotoscanisti. In questo mio saggio tratterò nello specifico di due tra i più importanti rappresentanti di questa teoria linguistica, Niccolò Tommaseo e Giambattista Giuliani, amici per lungo tempo ed entrambi cultori della lingua popolare toscana.

(2)

2. TOMMASEO E GIULIANI

2.1. Lo studio di Dante

Se per la riflessione linguistica di Tommaseo fu determinante l’incontro con Manzoni, avvenuto tra il 1824 e il 1825, Giuliani arrivò al toscano del popolo tramite un’altra via: Dante.

Proprio l’aureo trecentista è uno degli innumerevoli elementi che congiunge i due studiosi: a Tommaseo, oltre al commento alla Commedia del 1865, si devono i saggi dei Nuovi studi, ma, come ricorda Ettore Caccia, «giudizi e accenni a Dante sono frequenti in tutta l'opera dello scrittore, nell’epistolario, nel Diario intimo, mentre a Dante sono dedicati […] articoli di vario genere: nel 1857 pensa nuovamente a un lontano progetto fiorentino, cioè a conferenze dantesche; nel 1865 pensa a un volume celebrativo su Dante.» Caccia (1970) D’altro canto, Giuliani iniziò a pubblicare i suoi studi danteschi fin dal 1844 (era nato a Canelli, in provincia di Asti, il 4 giugno 1818) quando dette alle stampe il saggio Dei pregi e di alcune nuove applicazioni dello Orologio di Dante immaginato e dichiarato da Marco Giovanni Ponta. Gli studi su Dante valsero a Giuliani la cattedra di “Esposizione della Divina Commedia” presso l’ateneo fiorentino (quello stesso insegnamento che quasi cinque secoli prima era stato affidato a Boccaccio) e, tra le altre onorificenze, la nomina per acclamazione a socio onorario della Deutsche Dante-Gesellschaft, fondata da Karl Witte nel 1865. Nonostante i numerosi commenti alla Vita Nuova, al Canzoniere, al De Monarchia e alle opere minori di Dante pubblicati, Giuliani, a differenza di Tommaseo, non stampò mai un commento integrale alla Commedia, per il quale rimangono le fittissime annotazioni della copia del poema da me ritrovata presso il Seminario Vescovile di Padova.

Non mi addentrerò oltre per quanto riguarda l’interpretazione di Dante da parte dei due studiosi, ma particolarmente interessante, per comprendere l’inteso scambio tra Tommaseo e Giuliani non solo in ambito linguistico, è una lettera del 18 marzo 1857, oggi conservata presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, in cui Giuliani chiedeva delucidazioni a Tommaseo in merito ad alcuni passi dell’Epistola a Cangrande:

Non voglio tardare a renderle grazie delle cortesi ed amorevoli parole, onde s’è affrettata di confortarmi ne’ faticosi studi che a sé richiamano ogni mia cura. […] E dacchè è tanto gentile, la prego a continuare l’esame del mio lavoro e giudicarlo poscia colla maggiore severità e pubblicamente. Per me sarà sempre bastante onore e consolazione l’esser fatto degno della critica di tal maestro. In ispecial modo io amerei m’illuminasse sul sententia votiva (p. 34), e se in luogo de allegoricus sive moralis sia meglio leggere allegoricus sive mysticus (p. 18) ovvero allegoricus sive moralis sive anagogicus, come propongo alla pag. 78 in nota. La voce transumptivus Le pare a dirittura che vogliasi intendere al modo che

(3)

richiederebbero i retori, oppure altramente per abbreviativo? (pp. 28 e 49). Ho cacciato via la parola polisensa perché è un brutto miscuglio di greco e latino, e poi viene come ad aggettivare un sostantivo, che non parmi uso nostro. Laddove polisema mi sembra meglio formata ed acconcia, e chiarisce l’errore de’ copisti che nel commento del Boccacci[…] lessero polisenno in luogo di polisemo già usato nella Geneaologia degli Dei.

Giuliani (1857)

Le pagine cui Giuliani fa riferimento sono quelle di una delle sue opere più importanti che innescò un lungo dibattito tra l’autore, Marco Giovanni Ponta e Filippo Scolari, pubblicata a Savona l’anno precedente: Del metodo di commentare la Divina Commedia. Epistola di Dante a Cangrande della Scala.

2.2. La riflessione linguistica: il toscano dell’uso

Volgendo l’attenzione al problema linguistico, la ricerca di una lingua viva e comune si concretizzò, per Tommaseo, durante gli anni fiorentini, quando lo studioso ebbe modo di stringere amicizia con alcuni dei più importanti letterati e linguisti dell’epoca (Raffaello Lambruschini e Gino Capponi, per citarne alcuni) e di avvicinarsi sempre di più al toscano parlato sulle montagne e nelle campagne. Lo stesso avvenne per Giuliani che, nel 1853, iniziò a compiere una serie di viaggi in Toscana per poi stabilirsi definitivamente a Firenze, a partire dal 1859, alternando alla permanenza nel capoluogo lunghi soggiorni estivi a Cozzile in Valdinievole. Entrambi gli studiosi si avvicinarono al toscano con la bramosia di parlanti “stranieri”, Tommaseo da dalmata, Giuliani da piemontese, ambedue con lo stesso obiettivo: l’acquisizione di una lingua vera, pura, degno modello per la nazione italiana che si stava allora costituendo.

Nel 1825, con Il Perticari confutato da Dante, Tommaseo dette alle stampe lo scritto in cui per la prima volta veniva esposto il cuore del suo pensiero linguistico, sviluppato ulteriormente in seguito nella Prefazione al Dizionario dei sinonimi (1830) e nella Nuova proposta di correzioni e di giunte al dizionario italiano (1841).

Le idee di Giuliani in fatto di lingua furono invece affidate alle lettere e alle ricreazioni filologiche raccolte a partire dal suo primo viaggio nella ragione dell’Arno. Il nucleo principale si compone di trenta lettere, indirizzate all’amico Francesco Calandri, che furono pubblicate per la prima volta nel 1858 con il titolo di Sul moderno linguaggio della Toscana. Lettere. Seguirono altre due edizioni, ugualmente intitolate Sul vivente linguaggio della Toscana, notevolmente accresciute rispetto alla precedente, in cui gli scritti dapprima divennero sessanta (1860) per poi giungere al numero definitivo di novanta (1865). La forma definitiva dell’opera si ebbe soltanto nel 1880 con la pubblicazione di Delizie del parlare toscano. Lettere e ricreazioni, due volumi comprendenti le

(4)

lettere del 1865 e le ricreazioni filologiche di Moralità e poesia del vivente linguaggio della Toscana, stampate nel 1869, 1871 e 1873. Fondamentale per Giuliani fu l’appoggio di Tommaseo destinatario di diverse missive inserite in Sul vivente linguaggio della Toscano fin dal 1860 e fugatore di dubbi riguardo il titolo dell’opera:

Il Crocco mi dice che quel titolo delle mie Lettere v’offende nella parola moderno: vi parrebbe meglio vivo o vivente linguaggio e del popolo toscano, in cambio della Toscana? Giuliani (s. d.)

Ecco dunque il primo problema che si presenta: la lingua modello deve essere una lingua viva, dell’uso, di questo Tommaseo è assolutamente certo, e in totale distacco dalle teorie che sostenevano il contrario:

Del resto gli spregiatori dell’uso toscano non possono non condannare col fatto il proprio disprezzo. Taluni di loro son anzi ligi seguaci de’ modi toscani; se non che l’uso vivo confondono col morto; tra le varietà degli stili una sola forma conoscono e imitano, e con quella trattano ogni materia d’argomento. Altri poi che l’uso toscano non degnano, vediam cadere nel fiacco, nello sguaiato, nel ruvido, ch’è una pietà.

Tommaseo (1851 [1830]: XXIV)

Dello stesso avviso è Giuliani che, fin da Sul moderno linguaggio della Toscana, sostenne l’importanza di rifarsi alla lingua parlata:

Quivi (in Toscana) s’ode parlare con la facile eleganza e nativa grazia e collo schietto candore come scrivevasi dagli aurei trecentisti […] e sì mi restringo ad avvisare, che quella viva lingua italica non vuol essere pure studiata nelle parole proprie e significative delle cose spettanti ai bisogni del vivere civile, ma altresì e più ancora nelle forme di dire, negli agevoli costrutti e in quelle figurate espressioni […] de’ costumi toscani. Al che singolarmente io rivolsi i miei pensieri, favellando coi popolani del contado di Pisa, di Siena, di Pistoia e di Firenze.

Giuliani (1858: Prefazione)

Per entrambi gli studiosi appare dunque chiaro che la fonte cui attingere è la Toscana, terra dei grandi autori del Trecento: «il fiore dell’Italiano è il Toscano: senza lo studio de’ toscani modelli non può nel nostro secolo attingersi la migliore eleganza.» Tommaseo (1825: 68)

(5)

A questo punto però si pone un altro quesito: bisognerà parlare di toscano, di fiorentino, secondo il modello manzoniano, o di lingua italiana? Tommaseo risponde nella sua Nuova proposta di correzioni e di giunte al dizionario italiano:

Chiamatela italiana, e rimarrà sempre a sapere quali siano i migliori modi d’apprenderla: chiamatela toscana, e rimarrà sempre agl’Italiani il diritto di scriverla, come la scrissero il Caro, l’Ariosto, l’Alfieri. – Pure chi volesse sciolta la questione del nome, potete rispondere: poiché tutti gl’Italiani la scrivono, certamente la può e deve chiamarsi italiana. Tommaseo (1841b: 101)

D’altro canto, la lingua cui guardano sia Tommaseo che Giuliani non è solo la variante fiorentina, ma è quella parlata in ogni area della regione, laddove si ritrova la purezza incontaminata del linguaggio usato da Dante. Ciò è ben espresso da Giuliani in una lettera del 30 giugno 1853:

Lascerò di confessarvi, che in qualsiasi più rimoto angolo della Toscana e presso l’infima gentuccia riconobbi tanta bontà di linguaggio e sì leggiadre fattezze, che poco maggiore di troverebbe a Firenze. […] Ciò non di manco, rispetto alla purità del parlare, la gente fiorentina si mostrano men cauti e gelosi. […] La lingua vera, degna d’essere parlata da un popolo maestro di civiltà, quale si vorrebbe che fosse il popolo d’Italia, s’ha da eleggere com’è parlata da tutta la Toscana, e toscana la chiameremo per gratitudine noi.

Giuliani (1858: 47)

Per i non toscani la distanza da colmare è grande: «io sono e mi sento forestiero in questo sì caro paese, e tale fui sempre giudicato alla parlata» Giuliani (1860: 188), così affermava Giuliani, e le parole di Tommaseo rispecchiano lo stesso sentimento di estraneità:

Gli scritti sono arte, il parlare è natura: lo straniero educato al toscano dialetto è fatto quasi cittadin di Toscana; lo straniero educato alle toscane letture, riman sempre straniero: l’uno possede la lingua, l’altro l’ha in prestito: l’uno sa il toscano, l’altro sa di toscano: il primo trae di sua mano fuori della miniera il metallo; l’altro convien che s’appaghi di quello che gli vien porto, segnato com’è d’altrui stampa.

Tommaseo (1825: 28)

«Un toscano, a parità d’ingegno e di studio, sarà sempre scrittor più felice di qualsiasi altro italiano» Tommaseo (1825: 31), ma per far sì che lo strumento linguistico giovi a tutti gli Italiani e che davvero si raggiunga una lingua comune, senza più differenze tra parlato e scritto, bisognerà che

(6)

anche gli scrittori toscani comincino a comporre libri «di utili cose, scritti davvero nell’ingenuo linguaggio del loro popolo.» Giuliani (1858: Prefazione)

Pur non rendendosene conto, sono dunque i contadini e gli artigiani a possedere la «gentile favella» italiana. Sia Tommaseo che Giuliani dedicarono gran parte dei loro studi alla raccolta di quei fiori di buona lingua dispersi sulle montagne e nelle campagne toscane: ciò che attraeva entrambi gli studiosi non era solo la proprietà delle frasi e dei costrutti o la ricchezza dei vocaboli (esemplari per questo aspetto sono i dialoghi con gli artigiani riportati da Giuliani), ma anche la poeticità sottesa all’idioma popolare toscano.

2.3. I canti popolari: Beatrice di Pian degli Ontani

Assai noti sono i Canti popolari di Tommaseo il quale, nel volume dedicato alla Toscana, raccolse le canzoni che aveva avuto modo di ascoltare a partire dal 1832 sulla montagna pistoiese. In particolare, l’illustre lessicografo menziona tra le sue fonti poetiche «la moglie d’un pastore, che barda anch’essa alle pecore, che non sa leggere, ma sa improvvisare ottave; e se qualche sillaba è soverchia, la mangia pronunziando, senza sgarrare verso quasi mai» Tommaseo (1841a: 5): Beatrice di Pian degli Ontani.

La stessa Beatrice compare anche nelle tre lettere (LVI-LVIII) che Giuliani indirizza a Tommaseo nel luglio 1858 e che vengono inserite a partire da Sul vivente linguaggio della Toscana del 1860:

L’aria di montagna spira proprio giocondità e salute; la gente […] s’ingegnano di stornellare, e parecchi ve n’ha ch’e’ cantano di poesia per fluida ed elegante maniera. […] In cotale arte di natura porta anch’oggi il vanto la Beatrice di Pian degli Ontani. […] Ella rende festanti quest’amene selve, dov’io troppo a lungo vi trattengo, amico, e non ve ne incresca. […] Qui non si ritrovano cose nuove per voi; ma sol che ve ne siano delle piacevoli a ricordare, mi prometto v’appagherete.

Giuliani (1860: 284-285)

Giuliani s’intrattenne con la stornellatrice di Cutigliano alcuni giorni, facendosi raccontare, rigorosamente in ottave, la storia della sua vita. Lo studioso tornò diverse volte a intrattenersi con i versi di Beatrice, non mancando di riportare i suoi saluti al comune amico Tommaseo:

San Marcello il 28 di agosto 1864 Prima di lasciare questa beata montagna, vo’ mandarvi i miei affettuosi saluti e quelli della nostra Beatrice di Pian degli Ontani. È veramente ammirabile costei, che basta sola a rivelare la divina virtù di questo linguaggio. Del quale, non ch’io possa sazi

(7)

armi, sento ognora più vivo il desiderio. E d’ora mi piace di trasmettervene pochi fiori che, se non altro, vi faranno fede, che in ogni luogo, dove m’han richiamato i miei piacevoli studi, io ho pensato a voi.

Giuliani (1864)

2.4. La «viva lingua» dei contadini e gli «aurei trecentisti»

Non bisogna dimenticare che la lingua popolare toscana fu quella che gli scrittori antichi del Trecento adoperarono nelle loro opere, ormai divenute patrimonio comune a livello di lingua scritta. Di questo Tommaseo e Giuliani erano ben consci ed entrambi erano convinti che «ciò che tanto donò di nitore e di purezza al toscano idioma, si è che quivi dal popolo tratte furono le eleganze de’ primi scrittori; poscia dagli scrittori nella bocca del popolo ripurgate tornarono novellamente.» Tommaseo (1825: 29)

Per tale ragione diveniva indispensabile confrontare l’uso vivente con quello dei Trecentisti e viceversa. Giuliani mise costantemente in atto tale precetto all’interno dei suoi commenti danteschi, laddove per comprendere appieno le parole di Dante spesso si rifaceva «al libro che il popolo tien sempre dischiuso.» Un caso esemplare di questa continua ricerca di corrispondenze è rappresentato dalla lettera XIX di Sul moderno linguaggio della Toscana, in cui Giuliani trascrive il dialogo intercorso con un contadino di San Gimignano:

Nel continuarsi del nostro discorso d’una cosa in altra, ho potuto accorgermi che qui sono usitati adoppare per mettere o star dopo, serotino per tardivo, sfogliato per assottigliato o

dimagrato, le schianze per le macchie del legno ed altri somiglianti vocaboli, che mi fanno

vieppiù fede che Dante adoperò veramente il linguaggio in cui il volgo e le femminette comunicano. E debbo io a quel mezzaiolo il preciso intendimento del vocabolo grotta in più luoghi della Commedia, e segnatamente al trentesimo quarto dell’Inferno (1). Perchè, non appena intesi colui a dire, come «nel maggio eran venute di molte piogge che

rovinarono le grotte pe’ campi» ed immantinente io volli sapere che fossero quelle grotte:

«Da noi, mi fu risposto, si dice grotte i ripari che si fanno alla terra smottata; ne

conviene? gli argini, perchè tengano, s’hanno da aggrottare, che le piogge a volte non li mandino a rovina». Or non dovrò io stupirmi se, dopo avere stancata la pazienza su d’un

libro, assai frequente m’incontra di sentirmelo chiarire da chi non sa punto di lettera e mal vi ripeterebbe poche notizie di catechismo apprese dal Pievano?

(1) Per lo vento mi ristrinsi retro — Al duca mio: che non v’era altra grotta. Giuliani (1858: 46)

(8)

2.5. La compilazione del Tommaseo - Bellini

Il verbo “aggrottare” permette di introdurre un ultimo, interessante, elemento di analisi ovvero il rapporto tra Tommaseo e Giuliani nella compilazione del Dizionario della lingua italiana, altrimenti noto come Tommaseo-Bellini.

Giuliani fu invitato a partecipare alla compilazione del vocabolario fin da subito, il 15 febbraio 1858. Lo studioso piemontese si premurò di inviare periodicamente all’amico liste di vocaboli o di espressioni idiomatiche tratti dalla viva voce dei popolani da lui intervistati durante le sue peregrinazioni linguistiche. Dei 112 lemmi riportati nelle lettere conservate presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, solo 44 confluirono effettivamente nel Dizionario, ma non mancarono gli spogli dalle opere linguistiche, come nel caso di “aggrottare”, per l’appunto, per un totale di 102 voci firmate da Giuliani.

L’importanza di un vocabolario come uno dei mezzi principali per diffondere la lingua italiana in Italia era ben nota a Manzoni quando nel 1868 pubblicò la sua Relazione dell’unità della lingua e de’ mezzi di diffonderla. Tuttavia, la proposta manzoniana non trovò concorde Giuliani, il quale era convinto che «il Vocabolario per il popolo ci convien trarlo tutto dal popolo, tanto in rispetto ai vocaboli, quanto e meglio ancora per le definizioni de’ vocaboli stessi.» Giuliani (1858: 68) e affermava che un

vocabolario dell’odierno uso fiorentino, riguardo l’unità della lingua, oltre all’essere difficile e lunga opera d’assai dubbia importanza, non riuscirebbe che a disturbare quell’unità, la quale può solo nascere dalla conoscenza della corretta lingua omai accreditata e dalla sua maggiore e proporzionata diffusione in tutti gli ordini di popolo, insino all’infima plebe.

Giuliani (1870: 293)

2.6. Unità di lingua, unità di nazione

La questione della lingua nell’Ottocento era dunque un problema sociale. Di ciò erano specchio i libri, in particolar modo quelli tecnici e quelli destinati ai fanciulli, troppo spesso scritti in un linguaggio difficile da comprendere per coloro che non avevano una cultura adeguata. Tommaseo pone l’accento su questo nella Prefazione al Dizionario dei sinonimi in cui si rivolge apertamente agli autori di tale genere di scritti:

Scrittori gravissimi, e terribili di maestà, qui v’aspetto. Scrivetemi con la vostra lingua un trattatello agronomico, tecnologico; e se da quella trarrete tanto tesoro di modi da esprimere tutte le cose della natura e dell’arte con proprietà, con franchezza, con

(9)

uniformità, potremo allora conceder alcuna cosa agli sforzi della vostra eloquenza. E il medesimo dicasi de’ libri destinati al popolo ed a’ fanciulli. Un’uomo d’ingegno (Taverna) […] scrisse a uso de’ fanciulli parecchi libri per il suo tempo, assai buoni; e li scrisse non senza cura d’inserirvi alla meglio i modi famigliari toscani: ma ignaro siccom’egli era dell’uso vivente, che renderebbero oscuro e ridevole il dire di chi nel famigliare discorso li adoperasse.

Tommaseo (1851 [1830]: XXV)

Dello stesso avviso era anche Giuliani, dal quale la problematica sociale era particolarmente sentita a causa della sua particolare condizione di Chierico Regolare Somasco, da un lato, e di sostenitore del partito neoguelfo dall’altro.

La condivisione delle opinioni in fatto di lingua, il reciproco aiuto negli studi danteschi e in quelli linguistici, permisero a Tommaseo e a Giuliani di portare avanti la loro amicizia fino al 1874, anno della morte di Tommaseo. A due anni prima risale il discorso tenuto da Giuliani all’Accademia della Crusca, Dante e il vivente linguaggio toscano, in cui è presente una riflessione che, a mio avviso, può essere considerata una summa del pensiero linguistico di entrambi gli studiosi:

Nobile sentimento umano, se non orgoglio di Nazione e dignitosa coscienza di Cittadino ci costringe ad amare, a serbar gelosamente questo Linguaggio […] perchè non può mancare la vitale Civiltà di una Nazione, quando tenace persiste la sua Favella. E tale da secoli e secoli persiste la Favella italica; nè potrebbe oggimai più disnaturarsi e svigorire, da che stà registrata con arte eterna nel Volume di Dante e vive, vive inseparabile da questo Popolo che ne tramanda continuo le divine armonie.

(10)

Bibliografia

Caccia, Ettore (1970), Tommaseo Niccolò, voce in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana.

Cesari, Antonio, Piva, Alessandra (a cura di) (2002), Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana, Roma/Padova, Antenore.

Giuliani, Giambattista (1870), Arte patria e religione, Firenze, Successori Le Monnier.

Giuliani, Giambattista (1872), Dante e il vivente linguaggio toscano, Firenze, Stamperia Reale. Giuliani, Giambattista (s.d.), Lettera a Niccolò Tommaseo, ms., Firenze, Sezione Manoscritti, Biblioteca Nazionale Centrale.

Giuliani, Giambattista (1857), Lettera a Niccolò Tommaseo, ms., Sezione Manoscritti, Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze.

Giuliani, Giambattista (1864), Lettera a Niccolò Tommaseo, ms., Firenze, Sezione Manoscritti, Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze.

Giuliani, Giambattista (1858), Sul moderno linguaggio della Toscana. Lettere, Torino, S. Franco. Giuliani, Giambattista (1860), Sul vivente linguaggio della Toscana. Lettere, 2ᵃ ed., Torino, S. Franco.

Serianni, Luca (2003), Storia dell’italiano nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino.

Tommaseo, Niccolò (1841a), Canti popolari toscani corsi illirici greci, Venezia, Stabilimento Tipografico Enciclopedico.

Tommaseo, Niccolò (1825), Il Perticari confutato da Dante, Milano, Sonzogno.

Tommaseo, Niccolò (1841b), Nuova proposta di correzioni e di giunte al dizionario italiano, Venezia, Tipi del Gondoliere.

Tommaseo, Niccolò (1851 [1830]), Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana, 2ᵃ ed., Milano, Reina.

Riferimenti

Documenti correlati

Contiene liriche vecchie e nuove: Confessioni vi trasmigrano quasi nella loro integralità (trentadue poesie su trentaquattro), così i sette Versi facili (compresa La

Cetra del mio dolore (p. 92): quattro strofe di cinque versi, quattro settenari e un endecasillabo tronco, di schema ababT. La seconda strofa è carente del quarto e quinto

Nella prima parte vi sono non poche versioni dal latino, soprattutto da Virgilio, Orazio e Properzio, poi compaiono canzoni sacre (di ascen- denza biblica e manzoniana, come ad

Il confronto fra questi due fi loni di ricerche risponde all’esigenza comune alla storia e alle scienze sociali di mettere in discussione le categorie proprie dei processi

La cultura in Vico assume, inoltre, un ruolo centrale nella caratterizzazione della lingua stessa: «siccome han guardato le stesse utilità o ne- cessità della vita umana come

Giambattista Vasco ebbe per fratelli il primogenito Dalmazzo Fran- cesco * _ il maggiore e più radicale seguace subalpino delle lumières, al quale sarà legato da stretti

However, similar to the literature on the economic impacts of MNCs, insights from the business and human rights literature reviewed in this paper, reveal that the