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Guarda .“Ingannare l’archivio”: l’‘estetica del riciclo’ di John Akomfrah e del Black Audio Film Collective come pratica di ‘contro-memoria’ nell’Inghilterra postcoloniale

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Academic year: 2021

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“Ingannare l’archivio”:

l’‘estetica del riciclo’ di John Akomfrah

e del Black Audio Film Collective

come pratica di ‘contro-memoria’

nell’Inghilterra postcoloniale

diPaola Valenti

ABSTRACT: Individuando nello sbarco dall’Empire Windrush del primo vero flusso migratorio, proveniente prevalentemente dalle Indie Occidentali, un episodio centrale nella storia dell’Inghilterra postcoloniale, il saggio intende portare alla luce varie tematiche che legano le opere di John Akomfrah e del Black Audio Film Collective (BAFC) alla realtà sociale e storica della Londra della seconda metà del Novecento e di oggi. Nei lavori realizzati come membro del collettivo, così come nei suoi film e nelle sue videoinstallazioni più recenti, Akomfrah ha fatto largo uso di immagini e di footage d’archivio per dare nuove possibili risposte ad alcune “domande perenni” intorno alle quali ha costruito la propria poetica: che cosa è un migrante? Quali tracce memoriali conserva una città come Londra delle vite dei suoi immigrati? Considerando l’archivio tanto una sorta di monumento che si limita ad attestare l’esistenza delle vite dei migranti quanto un custode dei documenti sui quali si costruisce il discorso ufficiale sull’immigrazione, Akomfrah si propone di “ingannarlo” al fine di costringerlo a “dire qualcosa” della soggettività, dei desideri e delle identità dei nuovi

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cittadini. Il saggio intende, altresì, mettere in relazione la poetica e la produzione filmica e artistica di Akomfrah con gli studi nel campo della “contro-memoria” e del postcolonialismo, prendendo in esame alcune rilevanti affermazioni dell’artista e analizzando film come Handsworth Songs e The Nine

Muses, nonché videoinstallazioni come Mnemosyne and Vertigo See, per

riflettere sul modo in cui le principali tematiche in essi affrontate entrano in contrasto con le molteplici rappresentazioni culturali della Londra contemporanea come metropoli cosmopolita e inclusiva.

ABSTRACT: “To Trick the Archive”: John Akomfrah’s and Black Audio Film Collective’s ‘recycling aesthetic’ as a practice of ‘Counter-memory’ in Postcolonial England.

By recognizing in the disembarking from the Empire Windrush of the first actual migratory flow, mainly from the West Indies, a central episode in the history of postcolonial England, the essay intends to highlight various themes that bind the works of John Akomfrah and the Black Audio Film Collective (BAFC) to the social and historical reality of London in the second half of the twentieth century up to today. In the works he realized as a member of the Collective as well as in his more recent films and video installations, Akomfrah recurrently worked with found images and footage, mainly from BBC Archives, to try to answer some “perennial questions” which are central issues in his poetics: What is a migrant? Does a city like London preserve memorial traces of the lives of its immigrants? Considering the archive both as a sort of monument that merely attest to the existence of diasporic lives and as a shrine of materials used to build the official discourse about immigrants, Akomfrah aims to “trick it” in order to force it to tell something about the subjectivity, the desires and the identities of post-migrants. This essay also aims to connect Akomfrah’s poetic and film/video production with the studies in the field of Counter-memory and Postcolonial Studies, reflecting on some relevant statements by the artist and analyzing films such as Handsworth Songs and The

Nine Muses, as well as video installations such as Mnemosyne and Vertigo See,

in order to investigate the way in which their major issues reflect or rather contrast the various cultural representations of contemporary London as a cosmopolitan and inclusive metropole.

PAROLE CHIAVE: John Akomfrah; Black Audio Film Collective (BAFC); postcolonialismo; contro-memoria; archivio.

KEY WORDS: John Akomfrah; Black Audio Film Collective; Postcolonialism; Counter-memory; Archive.

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Il 22 giugno 1948 l’Empire Windrush, salpata dall’Australia alla volta dell’Inghilterra, approda nel porto di Tilbury, nei pressi di Londra, dopo aver fatto scalo a Kingston, in Giamaica, per prendere a bordo altri 492 passeggeri, tutti caraibici e quasi tutti uomini, ai quali era stato offerto un biglietto a basso costo per favorire l’arrivo di nuova forza lavoro nel Regno Unito profondamente segnato dalle devastazioni della seconda guerra mondiale.

Sebbene l’appena emanato British Nationality Act del 1948 riconoscesse a tutti gli abitanti dei paesi del Commonwealth lo status di British subject, con il conseguente diritto di entrare e di stabilirsi in Gran Bretagna, l’arrivo del primo vero flusso migratorio suscita immediatamente diffidenze, preoccupazioni e dissenso, come documenta l’articolo dal titolo “Why 492 West Indians came to Britain. Not all intend to settle here”, apparso su The Guardian il 23 giugno 1948, il giorno successivo a quello dello sbarco: l’anonimo Special Correspondent da Tilbury – dopo avere ricordato come il parlamentare laburista Mr. Isaacs, in una seduta della House of Commons, avesse affermato che “those who organised the movement of these people to this country did them a disservice in not letting us know” – pone domande e offre risposte che, seppur sotto traccia, annunciano una frattura nella narrazione, allora dominante, secondo la quale tutti i figli dell’Impero erano uguali agli occhi del Re:

What manner of men are these the Empire Windrush has brought to Britain? This morning, on the decks, one spoke with the following: a builder, a carpenter, an apprentice accountant, a farm worker, a tailor, a welder, a spray-painter, a boxer, a musician, a mechanic, a valet, a calypso singer, and a law student. Or thus they described themselves.

And what has made them leave Jamaica? In most cases, lack of work. They spoke independently, but unanimously, of a blight that has come upon the West Indies since those who served America and Britain during the war returned home. The cost of living is high, wages are low. Many can earn no wages. Some had been unemployed for two years. […] They are, then, as heterodox a collection of humanity as one might find. Some will be good workers, some bad. Many are ‘serious-minded persons’ anxious to succeed. […] Not all intend to settle in Britain; a 40-year-old tailor, for example, hopes to stay here for a year, and then go on and make his home in Liberia.

Their arrival has added to the worries of Mr. Isaacs and the trade union leaders. But the more worldly-wise among them are conscious of the deeper problem posed. Britain has welcomed displaced persons, has given employment to Poles who cannot go home. ‘This is right,’ said one of the immigrants. ‘Surely then, there is nothing against our coming, for we are British subjects. If there is – is it because we are coloured?’

L’articolo da Tilbury termina così, con una domanda destinata a diventare epocale, inconsapevolmente rivolta da uno dei nuovi arrivati a una intera nazione.1

1 Proprio mentre questo saggio era in fase di revisione, e all’approssimarsi del settantesimo anniversario dello sbarco a Tilbury, è esploso in Gran Bretagna il cosiddetto ‘Windrush Scandal’, diretta

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La risposta, di segno opposto a quello atteso dall’immigrante appena sbarcato, non tarda a giungere: nel maggio del 1955 l’antropologa Sheila Patterson, a passeggio per il quartiere di Brixton in South London, si sente all’improvviso sopraffatta “with a sense of strangeness, almost of shock” quando si rende conto che “almost everybody in sight had a coloured skin” (Patterson 1963: 3). Patterson pone il ricordo di quell’esperienza così ‘strana e scioccante’ in apertura del suo Dark Strangers. A Sociological Study of the

Absorption of a Recent West Indian Migrant Group in Brixton, in un paragrafo

significativamente intitolato ‘Colour Shock’ and ‘Strangeness’:

waiting near the employment exchange were about two dozen black men, most in the flimsy suits of exaggerated cut that, as I was later to learn, denoted their recent arrival. At least half of the exuberant infants playing outside the pre-fab day nursery were café noir or café au lait in colouring. And there were coloured men and women wherever I looked, shopping, strolling, or gossiping on the sunny street-corners with an animation that most Londoners lost long ago.2 (ibid.)

Le bonarie parole con cui Patterson cerca di mitigare la restituzione del proprio sconcerto rivelano come, nel giro di pochi anni, in quella frattura nella narrazione dominante provocata dall’arrivo della Empire Windrush si fosse ormai insinuata la percezione di una sostanziale differenza tra gruppi sociali basata, di fatto, sul colore della

conseguenza del provvedimento varato nel 2012 da Theresa May, allora Segretario di Stato per gli Affari Interni del governo Cameron, con l’intento di creare nel Regno Unito “a really hostile environment for illegal migration” (May in Kirkup-Winnett 2012). Tale provvedimento ha avuto drammatiche conseguenze anche per quei cittadini britannici che, come i passeggeri della Empire Windrush, non possiedono documenti ufficiali che testimonino la legalità del loro arrivo nel Regno Unito o che ne certifichino la residenza: oltre cinquantamila di loro si sono visti negare diritti basilari (al lavoro, alla casa, alle cure mediche) e, in molti, hanno subito minacce di espatrio coatto. Il 29 aprile 2018, a seguito di una serie di rivelazioni pubblicate dal Guardian circa l’esistenza di obiettivi minimi del governo inglese quanto all’espulsione di immigrati ‘clandestini’, Amber Rudd, Segretario di Stato per gli Affari Interni del governo May, è stata costretta a dare le dimissioni, mentre Theresa May ha dovuto scusarsi pubblicamente per quello che è stato definito “institutional racism at work” (Muir 2018). Da allora il governo inglese pare impegnato a porre rimedio alla situazione: il 24 maggio 2018 è stata annunciata una “new legislation to allow Windrush citizens to have their British citizenship applications processed faster and free of charge” (Marsh-Grierson 2018), ma le storie di deportazioni, oltraggi e soprusi subiti dalla popolazione britannica d’origine caraibica ed emerse nell’ambito del ‘Windrush Scandal’ rappresentano una ferita che non potrà in alcun modo essere sanata (Halliday 2018).

2 Il volume di Sheila Patterson è diviso in sei sezioni: la prima delinea il contesto dell’insediamento della comunità caraibica a Brixton; la seconda esplora le possibilità di inserimento lavorativo degli immigrati; la terza affronta il problema dell’abitazione; la quarta informa sulla natura dei rapporti con la popolazione bianca; la quinta prende in esame l’organizzazione interna del gruppo sociale dei West Indians; la sesta tira le somme e propone possibili azioni per favorire il graduale passaggio da una situazione di ‘accomodamento’ a una effettiva ‘assimilazione’ dei soggetti diasporici: “Mrs. Patterson has used the familiar term 'accommodation' to describe the interaction between the West Indian migrants and the host society. She regards this as a transitional stage of mutual adaptation and limited acceptance on both sides which may lead on to 'integration' and cultural pluralism or to a more complete 'assimilation' in due course” (Richmond 1964: 81).

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pelle (Miles 1984: 260-262). Alcune recensioni al libro di Patterson, pubblicato solo nel 1963, otto anni dopo quella ‘passeggiata’, rivelano come tale percezione fosse ormai alla base di un esteso dibattito politico e culturale incentrato sul complesso paradigma delle ‘relazioni razziali’, in atto già dalla seconda metà degli anni quaranta:3 se sulle pagine del

British Journal of Sociology Anthony H. Richmond si limita a evidenziare certe differenze

nei costumi, soprattutto sessuali, degli immigrati che renderebbero difficoltoso il processo di ‘assimilazione’ auspicato da Patterson (Richmond 1964: 81-82), nella lunga recensione pubblicata su Race Harold Pollins ‘rimprovera’ all’autrice di avere quasi passato sotto silenzio gli scontri avvenuti tra fine agosto e inizio settembre del 1958 a Notting Hill, lasciando intendere che tale lacuna sarebbe scaturita dalla volontà di oscurare i pregiudizi (razziali) che avevano portato a quegli scontri (Pollins 1963: 79-81). È, invece, intriso di scientific racism (Miles 1984: 260) il commento al volume che G. C. L. Bertram consegna a The Eugenics Review, lamentando che “biological or genetic repercussions of immigration are not within the compass of the book” (Bertram 1963: 175).4 Sebbene nell’Inghilterra postbellica la maggior parte degli intellettuali e dei politici ripudiasse il ‘razzismo scientifico’, “their attempt to separate biological from cultural criteria of racial difference was not easy: […] while they denied the biological reality of ‘race’, they counter-asserted that ‘races’ still existed as ‘natural’, socially defined groups, again reproducing notions of essential difference between groups of people based on their skin color” (Waters 1997: 219). Del resto, come osserva McLeod, la stessa Patterson scivola in questa ambiguità e il suo “diplomatic attempt to describe the multiracial children playing outside the nursery with recourse to French […] cannot escape the racializing optic it wishes to eschew, while also raising the issue of miscegenation frequently found in discussions of New Commonwealth immigration at the time” (McLeod 2004: 2). McLeod ravvisa altre contraddizioni che emergono dallo studio condotto dall’antropologa sulla comunità caraibica di Brixton:

On the one hand Patterson made an important attempt to expose and address many of the difficulties facing newcomers to the city, such as their expectations of London nurtured from afar and the prejudicial attitudes they found in employment and housing […]. On the other hand, Patterson’s study also revealed the extent to which, in the 1950s and 1960s, Caribbeans were within, but not a part of, London’s economic and social fabric, while her vocabulary often intimated something of the imaginative assumptions and barriers that would impact centrally upon the lives of London’s newcomers for many years to come. Brixton’s diasporic peoples, like many other new Londoners from countries with a history of colonialism, would be subjected to a series of attitudes which frequently objectified and demonized them,

3 Tale dibattito è puntualmente ricostruito da Waters nell’articolo “‘Dark Strangers’ in Our Midst: Discourses of Race and Nation in Britain, 1947-1963” (Waters 1997).

4 G. C. L. Bertram, membro della Eugenics Society, è stato un convito assertore della necessità di stabilizzare la popolazione mondiale per preservare la Gran Bretagna dal rischio di sprofondare in un “genetic chaos” (Bertram 1958: 18).

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often in terms of race, while questioning their rights of citizenship and tenure in one of the world’s most historically cosmopolitan cities. (ibid.)

Nelle parole di Patterson echeggia, in effetti, quello che Stuart Hall avrebbe definito “inferential racism”, riferendosi a tutte quelle

apparently naturalised representations of events and situations relating to race, whether ‘factual’ or ‘fictional’, which have racist premises and propositions inscribed in them as a set of unquestioned assumptions. These enable racist statements to be formulated without ever bringing into awareness the racist predicates on which the statements are grounded. (Hall 1980: 36)

Proprio tali “unquestioned assumptions” rendono estremamente difficoltoso il processo di fattiva integrazione dei ‘nuovi arrivati’ nel tessuto sociale, così come in quello urbano di Londra:

The perpetual identification of these peoples and their families as ‘strangers’ in, rather than citizens of, London bears witness to the profoundly polycultural character of the city in the postwar years and to a number of reactionary responses at the levels of state and street which refused to accept the newcomers’ legitimacy and rights of tenure. (McLeod 2004: 2)

A generare, dunque, il colour shock provato da Mrs. Patterson – e a svelare, contestualmente, come la narrazione di una Britishness comune a tutti i cittadini dell’impero altro non fosse che una delle tante white mithologies di cui scrive Robert J. C. Young (Young 2004) – è stata, in primis, una ‘dislocazione’ di corpi e di luoghi.5 Come ha evidenziato Gilroy,

contemporary racism has identified black settlers with the cities in which most of them live and their cultural distinctiveness with its urban setting. Black life discovered amidst urban chaos and squalor has contributed new images of dangerousness and hedonism to the anti-urbanism of much English cultural commentary. How much less congruent is a black presence with the natural landscapes within which historically authentic English sensibility has been formed?”. (Gilroy 1993b: 80)

In sostanza, prima dell’arrivo dell’Empire Windrush africani e asiatici vivevano nelle colonie, i bianchi nei centri cittadini o nelle campagne della madrepatria; il fenomeno migratorio postbellico ha stravolto tale equilibrio senza però intaccare la struttura del potere sottesa al discorso coloniale: “as Salman Rushdie has suggested, it is possible to argue that the colonial situation has been simply reversed: instead of the Europeans

5 Sulla ‘dislocazione’ dei soggetti diasporici nelle città dell’occidente e, in particolare, sui connessi processi memoriali, si veda anche Huyssen 2003: 11-29.

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occupying the colonies in order to take advantage of the labour power available, the indigenous inhabitants of the colonies have been brought to Europe to provide cheap labour power there” (Young 2004: 218; Rushdie 1982: 417–21).

Saranno proprio i bambini notati con stupore da Mrs. Patterson – tutti nati tra la metà degli anni cinquanta e i primi anni sessanta e giunti a maggiore età, a migliaia, nel corso degli anni settanta – a maturare la consapevolezza di tale situazione e a promuoverne il ribaltamento sia attraverso l’azione politica e la ribellione, sia attraverso l’impegno in campo culturale.

L’artista, regista e videomaker John Akomfrah rivendica orgogliosamente la propria appartenenza a quella generazione: sebbene la sua infanzia abbia avuto poco o nulla in comune con quella dei figli della cosiddetta Windrush generation6, egli non esita a riconoscere nello sbarco a Tilbury dei primi uomini provenienti dalle Indie Occidentali un momento cruciale della storia dell’Inghilterra postcoloniale, del quale si impegna a preservare sia il valore simbolico sia il senso più profondo, facendo altresì emergere tanto il desiderio di riscatto quanto il sostrato malinconico connessi con il tentativo di negazione delle reali implicazioni storiche, economiche e sociali da parte di quella che Paul Gilroy definisce la white supremacy (Gilroy 2004; Akomfrah 2011: 29-30). Tale intento alimenta fin dell’inizio degli anni ottanta il progetto di Akomfrah di fare della propria produzione filmica un luogo nel quale le narrazioni dominanti cedano il passo ai discorsi non ufficiali di cui gli stessi soggetti diasporici si fanno portatori. A tal fine,

he trolls and reanimates the image archive to produce counter-narratives of black world experience and subjectivity […]. Ventriloquist-like, he strips the patrician ‘voice of God’ from the original footage housed in ‘official’ repositories of record, layering voices and adding supplementary narratives, lyrically rendering an emergent newfound humanity and innate agency for subjects caught on celluloid to serve radically different ends from a past era. (Banning 2015: 136)

Egli cerca così di dare nuove possibili risposte alle ‘domande perenni’ intorno alle quali costruisce il proprio lavoro: che cosa è un migrante? Che cosa è un outsider? Quale è il ruolo della memoria? Quali tracce memoriali conserva una città come Londra della presenza dei suoi immigrati? Bene si comprende, dunque, come l’interlocutore privilegiato non possa che essere proprio l’archivio: un interlocutore che egli si propone di ‘ingannare’ – “in a way, what you have to do is to trick the archive”, afferma Akomfrah

6 Nato nel 1957 ad Accra, in Ghana, da genitori attivamente impegnati nel locale movimento anticolonialista e indipendentista, John Akomfrah arriva a Londra a seguito del colpo di stato che nel 1966 pone fine alla presidenza di Kwame Nkrumah, costando la vita al padre e costringendo la madre a chiedere asilo in Inghilterra. Cresce nella West London, a contatto principalmente con altri esuli dal Ghana e dal Sudafrica, e frequenta inizialmente il South Thames College a Putney, dal quale viene espulso per avere organizzato una occupazione studentesca; grazie all’intervento della madre, insegnante presso il City and East London College a Whitechapel, viene accolto in quella scuola dove, per la prima volta, entra in contatto con coetanei di discendenza afrocaraibica, scoprendo comunanze di interessi e di intenti che si consolideranno negli anni a seguire, diventando elementi centrali della sua poetica.

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durante la Map Marathon del 2010 alle Serpentine Galleries di Londra (Akomfrah 2010) – per costringerlo ‘a dire qualcosa’ delle soggettività, dei desideri e della identità dei

post-migrants: l’inganno si compie attingendo alla sua ‘memoria vergine’, facendo cioè in

modo che siano i materiali stessi a suggerire, passo dopo passo, la rotta da seguire per imbattersi in documenti per i quali non esistono – o, meglio, non sono state previste – categorie (Valenti 2016: 112).

Akomfrah getta le basi del proprio modus operandi già con i primi due progetti realizzati in seno al Black Audio Film Collective (BAFC): Notebook of a Return to My Native

Land (1982), uno slide-tape proiettato su schermi multipli e ‘performato’ nel refettorio del

Politecnico di Portsmouth mediante la recitazione dal vivo di alcuni brani dell’omonimo poema di Aimé Césaire, ed Expeditions (Signs of Empire/Images of Nationality, 1982–1984), ancora uno slide-tape realizzato tra il 1982 e il 1985 e concepito per essere proiettato su più schermi al fine di rendere immediatamente percepibile l’intreccio di molteplici piani temporali e di coinvolgere il pubblico nella costruzione di diversi possibili percorsi di senso. Entrambi i lavori rivelano l’interesse del collettivo per l’immagine d’archivio, per la struttura del palinsesto e per la drammatizzazione della componente visiva mediante suoni, parole e inserti testuali. In Expeditions, in particolare, il gruppo si appropria dell’immaginario del passato coloniale – monumenti e ritratti di colonizzatori, fotografie di colonizzati, particolari di mappe e carte geografiche, cartoline e disegni tratti da libri per bambini – e lo rielabora ispirandosi ai fotomontaggi e al cinema del Costruttivismo sovietico, ossia creando inedite associazioni verbo-visive ed esasperando inquadrature e angolazioni per trasporre quelle memorie in un sistema narrativo frammentato e ambiguo. È interessante notare come “at a time when mainstream films such as Gandhi (Richard Attenborough, 1982) and A Passage to India (David Lean, 1984) seemed to engage in a re-mythification of the great British Empire, the collective chose to appropriate the imagery of the colonial past […] in order to tackle the mythologies around which national identity was forged” (Debuysere 2015: 68).

Al Politecnico di Portsmouth Akomfrah e gli altri futuri membri del BAFC erano arrivati intorno al 1980, dopo avere preso parte alle occupazioni studentesche organizzate in risposta all’aumento delle tasse scolastiche per gli studenti stranieri, un provvedimento che, come ricorda Akomfrah, avrebbe avuto importanti conseguenze soprattutto sul piano sociale:

in fact the major radicalizing issue in student politics in the late 1970s, was the rise in tuition fees for foreign students. It allowed us Brit blacks to connect with all these other emerging diasporas, as many of the foreign students were kids from Nigeria, from India and Pakistan, Mauritius, China, Malaysia, who were our friends in class, but who were suddenly faced with incredible hikes in their fees, with some dropping out as a result. […] The hike in foreign student fees was a seminal moment for us as it taught us about the importance of autonomous organization in which you find a voice and express your own voice. (Akomfrah in Mercer 2015: 82)

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In quel periodo John Akomfrah, Lina Gopaul, e Reece Auguiste, compagni di scuola fin dal 1977 al City and East London College di Whitechapel, frequentano il Southwark College ma la loro formazione avviene soprattutto al di fuori delle mura scolastiche:

there was also a whole extracurricular world, a black space created between political campaigns and the black schools movement where there were bookshops in which you picked up the autobiographies of Malcolm X and George Jackson, texts you couldn’t find on any lecture course but which every black kid would have had access to. And it was that world more than anything that formed us. (ibid.)

Nel corso degli anni settanta, in effetti, erano sorte in Gran Bretagna molte organizzazioni guidate da black activists e legate a una rete di librerie che, oltre a diffonderne pubblicazioni e riviste, si offrivano quali luoghi di incontro e di dibattito privilegiati per i militanti politici e gli intellettuali più radicali, funzionando come “Pan-African sites of resistance” (Beckles 1998: 51).7 Proprio grazie alla frequentazione di quel ‘mondo extracurriculare’, in cui politica, cultura e arte si intrecciano, Akomfrah entra in contatto tra il 1977 e il 1978 con il Race Today Collective, nella cui sede di Railton Road a Brixton egli conosce, tra gli altri, C. L. R. James, Linton Kwesi Johnson, Farrukh Dhondy, nonché il regista di origine italiana Franco Rosso. Nel 1973 Darcus Howe, fondatore del collettivo, aveva assunto la direzione della rivista mensile Race Today sottraendola all’influenza del moderato Institute of Race Relations (IRR), in seno al quale era stata fondata quattro anni prima, e facendone “a beacon for black political journalism, intertwining libertarian Marxism with a radical anti-racism” (Smith 2010: 19). In quel

milieu, sulla scia del pensiero di Howe che non fosse affatto necessario “to build a

vanguard party to lead Blacks to some emancipation” (Howe in Buhle 1986: 147), Akomfrah matura una ancor più radicale consapevolezza dell’importanza dell’autorganizzazione che, sul piano politico, sfocerà nell’abbandono del giovanile progetto di partecipare alla costruzione di una black wing all’interno del Socialist Workers Party e, su quello culturale, guiderà la nascita del BAFC.

La fondazione del BAFC risale al 1982: due anni prima John Akomfrah e Reece Auguiste erano arrivati a Portsmouth, dove avevano conosciuto Edward (Eddie) George, Claire Joseph, Trevor Mathison e David Lawson; l’anno seguente li avrebbero raggiunti Lina Gopaul e Avril Johnson. Per quasi tutti loro quella del Politecnico era stata una scelta praticamente obbligata – “We didn’t really want to go there, but because we’d been involved in the student occupation and had failed most of our exams, Portsmouth was the place that took us” (Akomfrah in Mercer 2015: 82) – ma l’ambiente si sarebbe poi rivelato assai stimolante: “There was a lot of fluidity by the time we were at Portsmouth. There was this sense that you needed to make something happen via the collective route and via the cultural route” (ivi: 83).

7 Tra queste librerie si ricordano Sabarr Bookshop a Brixton, Headstart a Tottenham, Grassroots a Westbourne Grove, Bogle L’Ouverture a Ealing, e New Beacon a Finsbury Park.

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Il dibattito politico è vivace, animato da un forum di discussione sul post-trotskismo e da un gruppo di lettura dedicato a Louis Althusser (che permette ad Akomfrah di continuare una attività avviata già durante gli anni del college a Londra), ma sono i corsi di arte e, soprattutto, quelli dedicati al cinema delle avanguardie a suggerire ai membri del collettivo la strada da percorrere per trasporre il proprio impegno politico in un processo creativo attraverso il quale fosse possibile costruire una inedita narrazione del passato, del presente e dell’identità dei soggetti diasporici. La criticità del momento storico – con l’insediamento di Margaret Thatcher a Downing Street nel 1979 che si ‘innesta’ tra i violenti scontri del carnevale di Notting Hill del 1976 e i drammatici fatti di New Cross e di Brixton del 1981 – rende quanto mai urgente l’esigenza di costruire una nuova estetica per farsi portatori di un inedito discorso sul colonialismo e sul postcolonialismo:

by the time we finish at Portsmouth, after the student activism, having seen the black schools movement, the official indifference to the deaths of thirteen black youngsters who died in the New Cross fire of 1981, we felt we had to do something. We didn’t know what it was necessarily, but one knew it was going to be a hybrid project, that it would be multi-platformed, multimedia, or, multidisciplinary. […] There was a need for a recycling aesthetic. One thing we wanted to do was to comment on the past, because there was just no way forward without that. Tape-slide provided one of the easiest means for doing that because the reproducibility of images from slides, once you had a printer, meant you could reshoot, you could reframe, you could perform something with images. (ivi: 86)

Sono queste, dunque, le esperienze, le riflessioni, le intenzioni che guidano il BAFC nella realizzazione di Return to My Native Land e di Expeditions e che daranno frutti ancora più maturi in Handsworth Songs (Akomfrah J.,1986). Commissionato da Channel 4, il film offre un compiuto esempio di recycling aesthetic, combinando diverse tipologie di materiali: footage d’archivio degli anni cinquanta e sessanta connesso all’immigrazione, fotografie tratte da album di famiglia e filmati amatoriali, prime pagine di giornali dai titoli sensazionalistici, spezzoni di servizi televisivi trasmessi durante e all’indomani dei

riots che tra fine settembre e inizio ottobre 1985 avevano scosso i quartieri di

Handsworth a Birmingham e di Broadwater Farm a Londra. Mentre un estratto dalla famigerata intervista di Gordon Burns a Margaret Thatcher ricorda come già nel 1978 la leader del partito conservatore britannico avesse paventato “reazioni ostili nei confronti dei nuovi arrivati” da parte di “cittadini britannici” impauriti dall’idea di vedere il proprio paese “sommerso” (swamped) da “gente di altre culture” (Burns-Thatcher 1978)8, le drammatiche riprese effettuate durante gli scontri del 1985 dai membri del collettivo (assai diverse da quelle ‘ufficiali’ tramesse dai media) e le voci dei testimoni raccontano sogni, speranze e aspettative andate in frantumi:

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Archival footage of the disembarkation of fashionably dressed young black men and women from the Empire Windrush, alongside the film's repeated cuts to the innocent faces of young black schoolchildren and to cheerful dancehall scenes, testify to this generation's hopes of establishing a new belonging. The poignancy of this bright optimism emerges gradually as the film simultaneously unfolds footage of depressed neighbourhoods, populist nationalist rhetoric, the riots and their aftermath, to reveal aspiration crippled by racism. Much of this emotional affect is quietly transmitted through a spare voice-over that poetically links past with present: ‘For those who have known the cruelties of becoming... let them bear witness to the process by which the living transform the dead into partners in struggle’. (J. Fischer in Eshun-Sagar 2007: 20-22)

Handsworth Songs raccoglie, infatti, la disillusione e la frustrazione dei figli della Windrush generation, cresciuti tra l’indifferenza e il disprezzo da parte della white supremacy, per i quali la risposta con la violenza alla violenza (sia essa quella fisica delle

cariche e delle retate della polizia o della caccia all’uomo, o quella, più subdola, insita in un comportamento discriminatorio o in un commento razzista) diviene l’unico possibile atto di enunciazione del diritto di vedere riconosciuta la loro piena appartenenza alla nazione nel rispetto della loro identità e della loro soggettività. Tale drammatica dinamica è puntualmente colta da Homi K. Bhabha, il quale scrive a commento di

Handsworth Songs: “the symbolic demand of cultural difference constitutes a history in

the midst of the uprising” (Bhabha 1990: 307). Una storia nella quale ritornano le storie del passato, nella quale, appunto, “the living transform the dead into partners in struggle”:

From the desire of the possible in the impossible, in the historic present of the riots, emerge the ghostly repetition of other stories, other uprisings: Broadwater Farm, Southall, St. Paul's, Bristol. In the ghostly repetition of the black woman of Lozells Rd, Handsworth, who sees the future in the past: There are no stories in the riots, only the ghosts of other stories, she told a local journalist: ‘You can see Enoch Powell in 1969, Michael X in 1965’. And from that gathering repetition she builds a history. (Bhabha 1990: 307)

“There are no stories in the riots, only the ghosts of other stories” è un’affermazione che ricorre in Handsworth Songs: come ha osservato Okwui Enwezor, la produzione filmica del BAFC “underscores the importance of the archive as more than a metaphor for archaeology. Rather, the archive is both a residual trace and, as the refrain in

Handsworth Songs suggests, a ghost machine incubating the ghosts of many other

stories” (in Eshun-Sagar 2007: 117). Il riferimento costante ai fantasmi del passato nei film realizzati da Akomfrah (anche dopo lo scioglimento ufficiale del BAFC, avvenuto nel 1998), ha favorito interessanti riflessioni critiche su alcune consonanze con il concetto di

hantologie (hauntology), formulato nel 1993 da Jacques Derrida nel saggio Spectres de Marx e incentrato sull’idea che non esista alcun punto di origine – né per quanto

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tutta la condizione dell’essere dipenda da una serie di preesistenze che, dal passato, tornano a manifestarsi nel presente. Come Derrida, “Akomfrah is gripped by the idea of ghosting, of how the other enters and constructs the self” (Banning 2015: 135),9 ma vicine al suo pensiero sono anche le riflessioni che il filosofo francese sviluppa nel testo a proposito delle guerre interetniche: inseriti tra le dieci piaghe del “nuovo ordine mondiale” prese in esame nel terzo capitolo, intitolato Usures (tableau d’un monde sans

âge), nella visione di Derrida tali conflitti si moltiplicano sotto la guida di un “fantasma

concettuale primitivo” (dello Stato-nazione, della sovranità delle frontiere, della terra o del sangue) e si nutrono di varie forme di radicamento nazionale, le quali, a loro volta, si radicano nella memoria o nell’angoscia di popolazioni dislocate. Concludendo il ragionamento, Derrida richiama un concetto che ricorre nel saggio, ossia quello del “tempo scardinato” – “time is out of joint”, ripreso dall’Amleto di Shakespare e mantenuto in lingua inglese nel testo originale – per affermare che, nel caso dei conflitti interetnici, a essere “out of joint” non è solo il tempo, ma anche lo spazio, “l’espace dans le temps, l’espacement” (Derrida 1993: 136-137).

“Out of joint” sono anche il tempo e lo spazio di Handsworth Songs: proprio attraverso la narrazione non lineare, il film rivela come i fantasmi delle altre storie che infestano, in termini derridiani, Handsworth portino con sé le profonde contraddizioni radicate nel passato coloniale della Gran Bretagna. Significativamente, il film inizia con

footage d’archivio che riprende il black janitor di un museo intento a guardare i

macchinari protagonisti di una rivoluzione industriale la cui complicità con la schiavitù è ripetutamente evocata da immagini e rumori di catene che creano un drammatico contrasto con il refrain “London is the place for me”, intonato davanti alle telecamere dal ‘re del calypso’ Lord Kitchener, appena giunto in Inghilterra a bordo dell’Empire Windrush.

La spettrale presenza dei fiduciosi immigrati sbarcati a Tilbury che aleggia sulle rivolte del 1985 anticipa il senso di malinconia che pervade The Nine Muses, film realizzato da Akomfrah nel 2010 e da lui stesso definito “an epitaph to this generation – really, three generations – of people who came here to find lives for themselves, not just jobs, but lives” (in McGuirk 2012). Concepito anche in una versione ridotta, destinata ai contesti espositivi e intitolata Mnemosyne,10 il film immette lo spettatore nel cuore dell’Inghilterra postcoloniale degli anni cinquanta e sessanta usando in apertura un estratto dal documentario del 1964 The Colony di Philip Donnellan, nel quale le riprese di un operaio di colore al lavoro sono accompagnate dalla voce fuori campo di un immigrato caraibico che, in un inglese incerto, riflette sulle aspettative e le delusioni che hanno accompagnato l’arrivo degli immigrati caraibici nel paese:

9 Per l’influenza del pensiero di Derrida su Akomfrah si veda anche Fisher 2012: 24. Per una contestualizzazione della teoria dell’hauntology in ambito (post)coloniale si rimanda al volume Queer/early/modern di Carla Freccero, in particolare al paragrafo Queer Spectrality (Freccero 2006: 69-104).

10 Nel 2009, grazie al sostegno dell’Arts Council of England e nell’ambito del progetto Made in England (http://www.bbc.co.uk/madeinengland), Akomfrah ha avuto libero accesso agli archivi della BBC, nei fondi dei quali ha raccolto materiali di cui si è servito per la realizzazione dei due lavori.

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Sometimes we think, we shouldn’t blame the people because it’s we who have to come to their country. On the other hand, we think if they in the first place had not come to our country and spread the false propaganda, we would never have come to theirs. And if we had not come, we would not be the wiser. We would still have the good image of England, thinking that they are what they are not. And the English would be as ignorant of us.11

All’origine di tutto, dunque, c’è sempre il passato coloniale ma, diversamente da quanto accade in Handsworth Songs, in The Nine Muses esso agisce non tanto nel contesto sociopolitico quanto sull’identità stessa dei soggetti diasporici, sulle loro memorie, sulle loro esperienze di vita, sui processi di negoziazione del loro spazio di significazione culturale come minoranza all’interno del discorso dominante nella loro stessa ‘madrepatria’. Si potrebbe pertanto ipotizzare che con questo film Akomfrah abbia provato a fornire alcune risposte alle domande poste da Homi K. Bhabha al termine della sua analisi di Handsworth Songs:

How does one encounter the past as an anteriority that continually introduces an otherness or alterity within the present? How does one then narrate the present as a form of contemporaneity that is always belated? In what historical time do such configurations of cultural difference assume forms of cultural and political authority? (Bhabha 1990: 308)

Il diverso intento poetico del film si riverbera anche nelle scelte linguistiche: la tecnica del montaggio diventa una sorta di ‘bricolage evocativo’ in cui il footage d’archivio convive con nuove riprese girate ad alta definizione, effetti sonori immersivi e ricorrenti tableaux vivants che concorrono a conferire al film i toni della poesia epica. Per costruirlo Akomfrah attinge a quattro diversi ‘contenitori di memoria’: gli archivi televisivi, quelli privati, i testi letterari e le testimonianze dirette offerte dagli immigrati della Windrush generation, da lui stesso raccolte nel corso degli anni. In queste ultime individua tre motivi ricorrenti che traduce in potenti metafore visive: il ricordo del freddo provato al momento dell’arrivo in Gran Bretagna, indipendentemente da quale fosse la stagione, è evocato dal paesaggio ghiacciato; il loro sentirsi sempre eccessivamente ‘colorati’ per via degli abiti variopinti e di ‘spiccare troppo’ nel grigiore dominante si fa immagine nelle sgargianti giacche a vento gialle e blu elettrico che celano i volti e le

11 Lasciando la parola a vari rappresentanti della comunità caraibica di Birmingham, tutti ricordati nei credits con il loro nome e l’indicazione del paese di provenienza, il documentario di Donnellan ha scardinato la convenzione che voleva che nelle inchieste televisive e giornalistiche fossero le sole voci dei bianchi a confrontarsi sul ‘colour problem’ (Webster 2007; Schofield 2013, 187): confrontandosi con esso Akomfrah non si limita alla citazione, ma ricorre al prelievo e alla differente contestualizzazione di parti del suo racconto per mettere in discussione la convenzione che vuole che il documentario sia il genere più adatto ad affrontare questioni relative all’immigrazione in virtù della sua presunta aderenza alla realtà (Valenti 2016: 115, n. 52).

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identità di uomini che, senza mai incontrarsi, attraversano fiordi e boschi innevati; il senso ineludibile di solitudine, conosciuto durante e dopo il viaggio che li ha portati nella madrepatria, aleggia sull’inospitale distesa di acqua, neve e ghiaccio (cfr. Akomfrah 2011). In quei racconti, quasi incantatori nel loro ossessivo ripetersi, Akomfrah riconosce una ‘verità storica’ che, ponendosi al di fuori di ogni possibile inquadramento sociologico della diaspora, ne restituisce una percezione ‘dall’interno’, nella quale i ‘fatti’ si fondono con i desideri e l’immaginazione di chi li ha vissuti in prima persona. Come già evidenziato, il montaggio, sorretto dai principi della recycling aesthetic, si rivela ancora una volta la scelta linguistica più adatta per ospitare e legittimare questa narrazione inedita e plurale; nello stesso tempo, però, Akomfrah torna a riflettere anche sul potenziale insito nelle proiezioni multiple ideate per i primi lavori realizzati con il BAFC e decide di servirsene per presentare Mnemosyne nelle sedi espositive:

The three-screen structure is the ultimate reflective engine because you are getting things to talk to each other simultaneously. It’s a format of debate, taking place literally in front of you all the time, not sequentially but almost materially from beginning to end. I love the democratising function of it: no two people at any one time feel the same about what they are watching, because no two people are watching the same thing. (Akomfrah in Buck 2016).

A un trittico di schermi Akomfrah affida anche la proiezione di Vertigo Sea, videoinstallazione prodotta per la mostra All the World’s Future curata da Okwui Enwezor nell’ambito della Biennale di Venezia del 2015: poetica meditazione sul rapporto che unisce l’uomo al mare e, nel contempo, amara riflessione sullo spazio marittimo come luogo di conflitti, migrazioni, traffici di esseri umani e merci, costruzioni di imperi, abusi sull’ambiente, Vertigo Sea torna a proporre il montaggio come uno stile di scrittura e come un metodo di indagine particolarmente adatto a rivelare inattese connessioni tra i diversi racconti (Valenti 2018: 148-149). È suggestivo leggere Vertigo Sea alla luce del ribaltamento e della riappropriazione delle ‘metafore acquatiche’, usate per descrivere le condizioni diasporiche, che hanno fatto seguito alla pubblicazione nel 1993 del saggio di Paul Gilroy The Black Atlantic: Modernity and Double Consciousness (Gilroy 1993a):

The fluidity and flux of the sea across which cultures, peoples and politics move have been appropriated as dynamic tropes of the restlessness, provisionality, adaptability and itinerant character of diasporic (especially black) cultures. In representing diasporic cultures in terms of transatlantic routes and in opposition to the sedentary politics of oppositional nationalist political movements, Gilroy recast aquatic metaphors as figuring the enabling political and cultural possibilities of ‘creolisation, métissage, mestizaje, and hybridity’ (1993a: 2). Prior to such initiatives, the application of aquatic metaphors to the effects of diaspora tended to buttress a sensationalized fear of immigration and settlement. In the postwar decades in particular, migrants have been described as constituting dangerous ‘floods’ and ‘waves’ that threaten the host community. One needs only to think of Powell’s provocative reference to ‘rivers of blood’ or Margaret Thatcher’s terrors of

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immigrants ‘swamping’ Britain as evidence of the centrality of such language in state and popular racism. Whether or not the turn to aquatic metaphors in the 1990s is a conscious appropriation and reinscription of one of racism’s rhetorics […] images of water have proved vitally important in the cultural reimagining of notions of home, belonging and identity, as well as opening up new ways of identifying London’s place on a larger transcultural map. (McLeod 2004:163)

Nella presupposta fluidità (variamente declinata sui concetti di restlessness,

provisionality, adaptability) dell’esistenza diasporica, le culture dominanti hanno trovato

anche un pretesto per attuarne o per giustificarne la sistematica esclusione dai processi memoriali: “there are no monuments that even as ruins attest to your existence, of your passing through a space. […] Lives that are not legitimised in the official monument can then be given a certain kind of legitimacy” (Akomfrah in Trilling s.d.). Evidente, in questa considerazione, è l’eco del pensiero di Derek Walcott, secondo il quale la nozione stessa di ‘diaspora’ era strettamente correlata all’assenza di rovine (Walcott 1962: 12-13), ed è proprio la volontà di colmare tale assenza e di sopperire alla mancanza di monumenti ufficiali che guida, fin dagli esordi, l’attività di Akomfrah e del BAFC. Tutto il loro lavoro è sorretto dall’impegno profuso nella raccolta di frammenti che, sottoposti a differenti processi di ricomposizione, contribuiscano a configurare non solo una counter-memory ma, anche, una counter-cartography che possa attestare la presenza e, soprattutto, la

agency dei soggetti diasporici nell’Inghilterra postcoloniale. Si rende così nuovamente

evidente l’importanza rivestita dall’archivio (come luogo all’interno del quale praticare una vera e propria alternative archeology) e dalla reclycling aesthetic come soluzione linguistica e formale ideale per permettere ai frammenti ‘dissotterrati’ e ‘ripuliti’ di tornare a ‘parlare’ all’interno di nuove narrazioni:

Someone made the point that diasporic lives are characterised by the absence of monuments that attest to your existence, so in a way the archival memory is that monument. But it’s contradictory because the archive is also the space of a certain fabulations and fictions. So there needs to be critical interrogations of the archive. One of the important ways of doing this is to remove the narrative voice. Once you remove the voice, nine times out of ten the images start to say something. If you remove one of the key structuring devices from the archival images, they suddenly allow themselves to be reinserted back into other narratives with which you can ask question. (Akomfrah in Power 2011: 62)

Operando in questo modo Akomfrah e il BAFC promuovono un rinnovamento concettuale e linguistico del genere del documentario che se da un lato, soprattutto agli esordi, incontra difficoltà di ricezione anche tra eminenti teorici del postcolonialismo,12

12 Tra le prime reazioni in difesa delle novità introdotte dal BAFC, in particolare in Handsworth Songs, si ricorda quella di Kobena Mercer (Mercer 1994: 52-66); Mercer riprende puntualmente il dibattito che aveva fatto seguito alla recensione estremamente negativa pubblicata da Salman Rushdie su The Guardian (Rushdie 1987) e che aveva avuto come protagonisti Stuart Hall, che si era espresso a sostegno del BAFC (Hall 1987), e Darcus Howe, che si era invece allineato a Rushdie (Howe 1987).

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dall’altro trova, gradualmente, positiva accoglienza tanto nell’ambito disciplinare quanto negli spazi espositivi dell’arte contemporanea, entrambi interessati a ricerche improntate alla convergenza di differenti media, linguaggi, processi e tese a sollecitare la partecipazione attiva dello spettatore. Come evidenziava Kobena Mercer già a proposito di Handsworth Songs,

the spectator is enlisted as an active discursive partner, sharing subjective responsibility for making cognitive connections between the latent nuclei of meanings inscribed beneath the manifest racial forms of social antagonism. What Handsworth Songs does is activate the psychic reality of social phantasy in shaping our cognition of the real world: the metaphorical and metonymic logics that cut across the signifying chain of the film-work operate at an unconscious level along the lines of condensation and displacement which Freud identified in the symbolic mechanisms of the dream-work. (Mercer 1994: 61)

Akomfrah è sempre stato consapevole delle responsabilità insite nei sogni: nella sua ultima opera, Purple (2017), spettacolare videoinstallazione a sei canali realizzata per The Curve Gallery al Barbican, egli torna a combinare footage d’archivio, scene appositamente girate e suoni ipnotici per fare dialogare lo scioglimento dei ghiacciai, il riscaldamento globale, l’estinzione di varie specie animali e le anonime vittime di disastri ambientali con le antiche logiche politiche ed economiche del capitalismo e, ancora, con la pesante eredità coloniale, perché il passato sempre vive nel presente e lo infesta, come un fantasma, mentre il refrain di Purple Haze di Jimi Hendrix inchioda ogni spettatore alle proprie responsabilità rispetto al finale, aperto, di quella caleidoscopica e polifonica narrazione: “Is it Tomorrow, or just the End of Time?”

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Paola Valenti è ricercatrice in Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Università degli

Studi di Genova, dove insegna, tra l’altro, Metodologie per lo Studio dell’arte contemporanea, Storia della Scultura in età contemporanea e Architettura contemporanea. Si occupa, in particolare, delle arti visive del XX e XXI secolo, dei

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rapporti tra arte, architettura e urbanistica e delle pratiche ritrattistiche e autoritrattistiche connesse con i temi dell’identità e della memoria.

paola.valenti@unige.it

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