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Legge-rapporto e relativismo in Montesquieu

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Legge-rapporto e relativismo in Montesquieu

di Paolo Romeo

(Università di Bologna)

This paper revolves around the great figure of Montesquieu; the problems considered by the philosopher, that, as is known, are those of liberty, equality and power, are not only limited the legal-political field, but also the moral field. To understand the work of Montesquieu, therefore it seems necessary not to separate these two areas.

So the thought of Montesquieu appears, as a great attempt to reconcile moral and politics.

No doubt the concept of law that he has reveals a similar desire: the law, for him, not only has a role in social and political life, is not only an expression of purpose, values and particular traditions, but also a moral content universally valid. Here we relied on the following books: De l’Esprit des lois by Montesquieu, l’Essai sur les causes qui peuvent affecter les esprits et les caractères by Montesquieu, Introduzione a

Montesquieu by D. Felice, and Lo spirito della politica, edited by D. Felice. Keywords: Politics, Moral, Power, Law, Relativism, Liberalism, Despotism.

1. È ben nota l’importanza di Montesquieu all’interno della storia del pensiero politico moderno; tra gli studiosi è ancora vivissimo, dopo oltre due secoli dalla scomparsa del Président, l’interesse verso i suoi scritti, in particolar modo, verso la sua opera capitale che è, senza dubbio, lo Spirito

delle leggi (1748).

Nel presente lavoro, ci occuperemo di mettere a fuoco alcune delle numerosissime innovazioni teoriche contenute in questo celeberrimo trattato.

Innanzitutto bisogna comprendere che, per cogliere le molte sfaccettature del pensiero di Montesquieu e per avere una visione compiuta della sua opera, non è sufficiente collocarla all’interno della grande corrente del liberalismo europeo. Nonostante il filosofo francese sia sicuramente uno dei padri del liberalismo, la sua speculazione non rimane confinata all’interno dei temi della libertà politica; abbraccia, invece, fondendoli in un’unica grande visione, i diversi campi del sapere.

È opportuno precisare che Montesquieu non si limita a distaccarsi dalle premesse e, in generale, dal sistema di Hobbes, teorico dello Stato assoluto, ma, prende le distanze anche verso il liberalismo poiché non esita a criticare anche quei pensatori che, come lui, teorizzano lo Stato

moderato.

L’indipendenza di pensiero guida dunque il filosofo bordolese verso posizioni del tutto originali, conducendolo a soluzioni mai escogitate all’interno della tradizione liberale; per fare solo un esempio, a lui si deve la formulazione rigorosa della divisione del potere politico in legislativo, esecutivo e giudiziario.

L’aver posto queste premesse non significa dimenticare che il principale avversario di Montesquieu resta comunque Thomas Hobbes: le concezioni politiche del pensatore francese confliggono con particolare asprezza con quelle del filosofo inglese, avendo quest’ultimo affermato la necessità di uno Stato assoluto.

L’assolutismo politico, la concentrazione del potere, la mancanza di libertà civili appaiono, dunque, agli occhi di Montesquieu, assolutamente ingiustificabili. Per il Président, infatti, Stato

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2 assoluto e Stato moderato non possono avere alcun punto in comune.

Per poter capire come i due autori siano approdati a tali posizioni antitetiche, occorre cominciare dai princìpi filosofici dei rispettivi sistemi; è evidente, infatti, che la distinzione tra queste due concezioni non è soltanto politica, ma investe anche un altro e più vasto piano, che è quello filosofico.

La politica, del resto, non può regolare efficacemente la vita associata senza una concezione della natura umana, ragione per cui la filosofia (intesa come conoscenza dei meccanismi che scatenano le passioni) non è affatto estranea al mondo dell’agire politico, anzi, è uno strumento necessario per poterlo comprendere a fondo.

Qual è dunque la visione dell’uomo propria di Montesquieu? In che cosa tale concezione si differenzia rispetto a quella hobbesiana?

La critica all’autore inglese è particolarmente esplicita nel primo libro dello Spirito delle

leggi:

Quello che ritiene Hobbes, e cioè che gli uomini proverebbero sin dal principio il desiderio di sottomettersi a vicenda, non è ragionevole. L’idea dell’impero e del dominio è talmente complessa e dipende da tante altre idee che non sarebbe certo quella che viene in mente per prima1.

Hobbes ritiene che l’uomo non possa sottrarsi al vortice di violenza cui la sua natura lo indirizza; a giudizio di Montesquieu, invece, i rapporti fra gli uomini non sono così crudeli, almeno inizialmente; la guerra esiste, ma solo in società, mai nello stato di natura.

Come suggerisce Domenico Felice nella sua Introduzione a Montesquieu, la guerra viene a perdere, nello Spirito delle leggi, la priorità ontologica sulla pace che invece gli era stata precedentemente attribuita da Hobbes.

È, ancora una volta, Felice a sottolineare opportunamente che le differenti concezioni dello Stato di Hobbes e di Montesquieu derivano appunto dalla differente visione che i due filosofi hanno della natura umana:

Sia per Hobbes sia per Montesquieu il punto di partenza per elaborare il concetto di “politico” è, dunque sempre la natura umana: ma per il primo è una natura intrinsecamente bellicosa, per il secondo lo è solo socialmente, con il risultato che nell’uno tale natura, appunto perché strutturalmente bellicosa, deve essere, per così dire, “stritolata”, negli ingranaggi di quella grande macchina che è lo Stato illimitato o assoluto (dove c’è il

monstrum dello Stato-Leviatano, non c’è più la natura umana costitutivamente libera e

passionale); nell’altro invece, essendo pacifica (o solo socialmente bellicosa), essa deve essere “protetta” e “valorizzata” [...] attraverso quel complesso e sofisticato sistema di “spartizione” e di controllo reciproco dei poteri che è il governo moderato o limitato2.

Il riferimento a una comune natura degli uomini, rappresenta, senza dubbio, per i tutti i filosofi, un efficace sistema per dotare di fondamento le varie dottrine politiche. È sufficiente, infatti, prendere in esame la concezione che un filosofo ha della natura umana per individuare le caratteristiche della sua concezione politica.

Dunque, se, in questo nostro contributo, si sta insistendo sul concetto di natura umana, è proprio perché tale concetto ha una grande rilevanza politica.

Analizzando le opere di Hobbes e di Montesquieu, ci si trova al cospetto di presupposti differenti, e, forse, persino antitetici, presupposti, che, come si è visto, sono ricchi di implicazioni e conseguenze.

È ovvio che le distinzioni tra due autori come Hobbes e Montesquieu sono numerose e

1 Montesquieu, Lo spirito delle leggi, 2 voll., tr. it. di B. Boffito Serra, intr. e commento di R. Derathé, pref. di G.

Macchia, Milano, Bur, 2011, vol. I, p. 150 (libro I, cap. 2).

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3 sarebbe ingenuo pensare che il concetto di natura umana rappresenti l’unico punto sul quale i due non concordano. Come abbiamo già accennato, invece, le differenze presenti all’interno delle loro complesse e articolatissime reti concettuali sono molteplici.

Tra le tante categorie e tra i tanti concetti di cui ci si potrebbe servire per mettere a confronto tali autori, spicca senza dubbio quello di legge.

È utile aggiungere che è proprio su questo fronte che si manifesta apertamente la modernità di Montesquieu rispetto a Hobbes.

Quest’ultimo, infatti, ritiene ancora che le leggi civili debbano coincidere con la volontà stessa del sovrano, ossia con le disposizioni di quell’autorità che i sudditi sono obbligati a rispettare, anche se ritenute da loro stessi ingiuste3.

Montesquieu, al contrario, definendo le leggi come rapporti esistenti tra le cose4, ne mette in rilievo il carattere di indipendenza dall’autorità, dal detentore del potere, sia esso il monarca o il popolo: se infatti le leggi derivano da una serie di rapporti e relazioni preesistenti e indipendenti da qualsiasi volontà umana, esse non devono coincidere nemmeno con quella del sovrano o di chiunque si trovi ad essere, da solo, o meno, alla guida di uno Stato.

Per la prima volta, nella storia del pensiero, vi è un pensatore che ritiene che a guidare l’operato dell’autorità politica non sia qualcuno, bensì qualcosa: infatti nell’insieme dei fattori che lo costituiscono, è proprio la realtà climatico-ambientale che, benché inanimata, riesce ad influenzare, in modo rilevante, le attività degli uomini.

Le idee, il comportamento degli individui, le istituzioni, le leggi e persino le forme di governo vengono, in tal modo, ricondotte alle condizioni climatiche, all’estensione e alla morfologia del territorio.

Ma c’è di più: infatti, poiché le leggi derivano dai molteplici rapporti tra le varie caratteristiche che un territorio più o meno esteso presenta, esse non si sottraggono mai alla sfera del particolare. Tutte le leggi civili sono, secondo il filosofo, particolari: nessuna è universale. Del resto, se le condizioni climatico-ambientali, da cui Montesquieu ritiene che derivino le leggi, cambiano da luogo a luogo, perché vi dovrebbero essere leggi universali? Le leggi, dunque, derivano, secondo il filosofo francese, dai rapporti tra le varie condizioni caratterizzanti il territorio (clima, fertilità della terreno, estensione del paese ecc.).

È proprio dall’insieme di queste concezioni, presenti nello Spirito delle leggi, che possiamo dedurre che Montesquieu è un teorico dello Stato moderato.

Certo, è ovvio che il pensiero politico di Montesquieu si rivela esplicitamente critico, sin dalle prime pagine dell’opera, nei confronti dei regimi «dispotici» (basterebbe, in verità, questo a fare di lui un pensatore moderato), ma ciò che il filosofo considerava veramente un atto di negligenza e indice d’arbitrarietà da parte di chi detiene le redini dello Stato è il legiferare senza premurarsi di adeguare le leggi alle caratteristiche morfologiche e fisico-climatiche del territorio.

Possiamo, in tal modo, affermare che le leggi sono valide, a giudizio del pensatore bordolese, solamente nel momento in cui esse risultano strettamente legate alle particolarità strutturali del territorio cui si riferiscono.

Da quanto appena esposto, è possibile dedurre che l’impronta lasciata da Montesquieu, almeno nell’ambito specifico dei problemi legati alla ricerca del fondamento della legge, sia essenzialmente relativistica: non ci sono leggi giuste in assoluto, ma solo leggi che sono in armonia con il contesto storico-geografico cui si riferiscono.

Fondamentale importanza assume, in questa prospettiva, l’osservazione della realtà; è proprio da essa, come già si è precedentemente accennato, che vanno ricavate le leggi.

Montesquieu, in altre parole, ritiene che ogni paese si distingua per le sue caratteristiche

3 Data la natura delle relazioni umane, contestare il sovrano, significa, secondo Hobbes, ostacolare l’operato di colui

senza il quale non vi sarebbe più ordine nella società. Da questo punto di vista, il potere sovrano deve restare assoluto perché contrastarlo significa privare la società di una figura importante, il cui compito non è altro che quello di dare ordine e sicurezza alla società. Ne consegue che, per Hobbes, sono pericolose quelle forme di governo che mirano a limitare il potere del sovrano.

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4 specifiche e che occorra, perciò, dare la giusta importanza ad ognuna di esse. In questa prospettiva, grande è, secondo il Président, il pericolo che uno Stato corre non appena vengono emanate leggi che non si armonizzano con tali caratteristiche. Come afferma Isaiah Berlin a proposito del filosofo bordolese, «gli individui e gli Stati decadono quando violano le regole della loro specifica costituzione “interna”»5.

Da questo aspetto estremamente rilevante del pensiero montesquieuiano che Berlin, tra l’altro, mostra di condividere6, deriva un’importante conseguenza, ossia, che il compito della politica sia quello di comprendere quali siano le caratteristiche di uno Stato, o meglio di un’organizzazione socio-politica, al fine di stabilire «le regole che sole la preserveranno e rafforzeranno»7.

Ma se le leggi non sono altro che una risultante delle diverse condizioni che caratterizzano gli Stati, che cosa ci tratterrà dall’etichettare troppo semplicisticamente Montesquieu come un relativista?

Senza dubbio, egli ritiene che non vi siano leggi positive universali; si rende perfettamente conto del fatto che non è l’autorità costituita a dettare le regole del gioco, ma sono queste ultime, che, di volta in volta, come guidate da un principio intrinseco alla morfologia del territorio, si originano e si sviluppano. Tuttavia, questo non fa di Montesquieu un relativista tout court; egli, infatti, dà per certo che esistano dei rapporti di giustizia oggettivi: «Bisogna dunque ammettere rapporti d’equità anteriori alla legge positiva che li determina»8.

Ci troviamo, dunque, di fronte ad un autore che, da una parte, reputa che le leggi positive dei diversi paesi debbano essere tutt’altro che uniformi e, dall’altra, crede fermamente nell’esistenza di rapporti oggettivi di giustizia.

Ciò potrebbe essere interpretato come un’incoerenza. Tuttavia, un filosofo e politologo di grandissime capacità e cultura qual è stato Berlin, reputa assolutamente possibile conciliare questi due poli, in apparenza contrastanti, del pensiero montesquieuiano; a suo giudizio, infatti, le concezioni del Bordolese non presentano, almeno per quanto riguarda questo aspetto, alcuna contraddizione:

può non esistere, è vero, una contraddizione propriamente logica tra il ritenere che le leggi siano una funzione dell’evoluzione sociale e la credenza in criteri fissi di giustizia accompagnata dalla richiesta di una loro specifica codificazione e rigorosa applicazione, giacché il criterio può essere concepito come una relazione invariante tra fattori sociali mutevoli9.

Questo è il nocciolo del relativismo di Montesquieu: la convinzione che non esista un unico sistema di valori e princìpi applicabile a tutti gli uomini in ogni luogo, né un’unica soluzione dei problemi sociali e politici adatta a tutti i paesi, proprio perché, come Berlin afferma,

Montesquieu riteneva che il suo personale, originale contributo all’argomento consistesse nello spiegare le cause “organiche” dell’ascesa o del declino degli Stati o delle società, e che la sua specifica conquista stesse nell’aver dimostrato l’impossibilità di soluzioni universali, nell’aver chiarito che quanto era buono per alcuni in determinate situazioni non era necessariamente altrettanto buono per altri in situazioni diverse, a causa di differenza riguardanti non solo i mezzi, ma i fini10.

5 I. Berlin, Un nuovo Aristotele, in D. Felice (a cura di), Lo spirito della politica, Milano-Udine, Mimesis, 2011, p. 23. 6 Montesquieu non è, a giudizio di Berlin, uno scettico morale, un filosofo incapace di trovare uno standard oggettivo

per il comportamento morale o politico. Al contrario, è un pensatore che crede in princìpi morali universali e oggettivi e che, nello stesso tempo, si rende conto del fatto che essi vanno applicati a realtà differenti e per di più mutevoli e in costante evoluzione.

7 I. Berlin, Un nuovo Aristotele, cit., p. 23.

8 Montesquieu, Lo spirito delle leggi, cit., vol. I, p. 148 (libro I, cap. 1). 9 I. Berlin, Un nuovo Aristotele, cit., p. 36.

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5 Giunti a questo punto, è chiaro che uno dei concetti-chiave nello Spirito delle leggi è quello di rapporto o relazione; Montesquieu, infatti, si dimostra, come abbiamo accennato, un pensatore convinto che idee come giustizia e libertà consistano in alcune relazioni invariabili. La giustizia, ad esempio, è un rapporto di equità. Le legge positiva stessa è ciò in virtù di cui gli uomini riescono a relazionarsi e a convivere pacificamente11. Tali relazioni esistono ancor prima di essere scoperte

dall’uomo; a questo proposito, Montesquieu, già nel primo capitolo dello Spirito delle leggi, afferma testualmente: «dire che non vi sia niente di giusto né d’ingiusto al di fuori di quello che prescrivono o proibiscono le leggi positive, è come dire che prima che venisse disegnato il circolo, i suoi raggi non erano tutti uguali»12.

Dunque, come il mondo fisico è governato dalla regolarità dei fenomeni, ossia dall’invariabilità di certi rapporti, così anche la dimensione spirituale (che è anche quella a causa di cui l’uomo è portato a sperimentare forme di convivenza molto più complesse di quelle degli animali) dell’esistenza non è priva di regole. Il problema è che l’uomo, in quanto essere limitato, può decidere di non seguirle13.

È proprio per tale motivo che gli uomini danno vita alle leggi positive. Esse sono state create al fine di ricondurre gli uomini ai loro doveri originari. Vi sono, insomma, dei rapporti fissi stabiliti dalla natura non solo nel mondo fisico, ma anche nel mondo dei valori. Il pensiero di Montesquieu affonda, infatti, le sue radici nella tradizione stoica, cioè in quella corrente di pensiero secondo la quale il caso non può esistere perché la ragione (il logos) compenetra tutte le cose: a suo giudizio, come per gli stoici, non c’è nulla di materiale, né di concettuale, né di animato, né di inanimato, che si sottragga all’influenza di questo principio razionale. Ogni cosa è in relazione con tutto il resto grazie a tale principio, che agisce su tutto l’universo.

Se, in altre parole, il mondo è governato da un principio razionale, i rapporti tra le cose non possono essere casuali, ma devono poter rispondere a quel principio. Avvalendosi di questa chiave interpretativa, com’è stato correttamente osservato,

si risolve alla radice anche il problema della fonte della nozione legge-rapporto, nel senso che essa altra non può che essere la filosofia stoica, per la quale – come è risaputo –, poiché lo stesso logos si ritrova nella natura, nella comunità e nella ragione individuale, tutti gli esseri e gli eventi del cosmo sono in relazione, in rapporto, concatenati tra di loro14.

Persino il destino degli Stati e dei popoli, a giudizio del Président, non è mai determinato da eventi casuali; l’Impero romano15 non decadde a causa di singoli errori, che pure non mancarono; Roma, agli occhi di Montesquieu, iniziò a decadere nel momento stesso in cui gli imperatori cominciarono a mettere al centro non gli interessi generali, ma la loro persona stessa. Ciò vuol dire che il declino dell’Impero fu determinato dal sovvertimento dei suoi valori primari e tradizionali che consistevano nell’amore per la patria e nella partecipazione attiva del cittadino sia sul campo di battaglia sia nella vita politica. Alla virtù politica, che è – nella visione montesquieuiana – il «principio» della Repubblica, ossia a ciò che fa funzionare il dispositivo dei governi moderati a

11 In quanto essere non meramente fisico, l’uomo è soggetto a leggi che non sono solo quelle fisiche. Alle leggi fisiche

si aggiungono, quindi, le leggi religiose, le leggi morali e, in ultimo, le leggi civili. Le prime, scrive il Président, hanno la funzione di regolare i rapporti con Dio, le seconde con se stessi e le terze con gli altri componenti della comunità politica (cfr. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, cit., vol. I, p. 149 [libro I, cap. 1]).

12 Montesquieu, Lo spirito delle leggi, cit., vol. I, p. 148 (libro I, cap. 1).

13 Su debolezza e fallibilità umane (e, nel contempo, sulla libertà umana), il filosofo bordolese sostiene che «il mondo

intelligente è […] lungi dall’essere governato come lo è il mondo fisico; perché quantunque abbia anch’esso leggi, invariabili per natura, non le segue costantemente come il mondo fisico segue le sue. E ciò perché i singoli essere intelligenti sono, per loro natura, limitati e quindi soggetti all’errore; e d’altra parte è proprio della natura loro che operino da sé medesimi» (Montesquieu, Lo spirito delle leggi, vol. I, p. 148 [libro I, cap. 1]).

14 D. Felice, Introduzione a Montesquieu, cit., p. 95.

15 Ampiamente studiato dall’autore transalpino soprattutto nelle Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani

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6 larga partecipazione, si sostituì la paura (o il terrore), che è – secondo il Bordolese – il «principio» del dispotismo, vale a dire la «molla» dei governi monocratici e oppressivi. Certo, il processo di dissoluzione fu lungo, ma sempre costante.

Come poteva Roma resistere ancora, se, già con la nascita dell’Impero, importanti istituzioni come il senato cominciarono a indebolirsi, e la figura dell’imperatore andava assumendo sempre di più i tratti di quella di un despota? Come poteva un regno così vasto essere controllato, difeso e ben governato? La caduta dell’Impero romano, insomma, è un ottimo esempio di come la storia, non diversamente dalle scienze esatte, sia regolata da princìpi inviolabili. L’esempio dell’Impero dimostra, dunque, che la loro violazione conduce a grandissimi disastri; Roma, infatti, cominciò a decadere nel momento stesso in cui venne meno il principio su cui si fondava: la virtù politica.

2. Montesquieu è considerato anche uno dei padri della sociologia16. Egli infatti riconduce la diversità dei costumi e delle istituzioni dei vari paesi al mutare delle cause; le leggi positive non vanno, a suo giudizio, considerate semplicemente come una riproduzione imperfetta delle leggi universali (giustizia e libertà), né come un mero comando del legislatore, ma al contrario esse sono strettamente collegate (rapporto di causalità) alle condizioni del paese cui si riferiscono:

Montesquieu cerca dunque delle leggi causali che rendano conto delle leggi-comando […]. Lo “spirito delle leggi” è precisamente l’insieme dei rapporti che le leggi-comando delle diverse società umane hanno con i fattori suscettibili di influenzarle o di determinarle. Lo “spirito delle leggi” è l’insieme di rapporti di causalità che spiegano le leggi-comando17.

A una lettura superficiale della sua opera maggiore, Montesquieu non sembra servirsi di princìpi universali per dar conto dell’infinita varietà dell’agire umano, ma guardare piuttosto ai costumi e alle istituzioni con distacco, rinunciando a esprimere giudizi di valore su di essi. In effetti, perché esprimere tali giudizi se si è convinti che le istituzioni siano il prodotto inevitabile delle condizioni climatiche e ambientali? Come afferma il filosofo e sociologo Raymond Aron, «la logica del suo pensiero comporterebbe soltanto tre elementi, l’osservazione della diversità delle leggi positive, la spiegazione di tale diversità con le cause multiple, e infine i consigli pratici dati al legislatore in rapporto alla spiegazione scientifica delle leggi»18. Tuttavia, a suo parere, il Président non rinuncia a princìpi universali come l’idea di giustizia, e non lo fa perché egli desidera servirsene per esprimere un giudizio in merito alle diverse istituzioni umane. La filosofia montesquieuiana verrebbe a situarsi, in tal modo, tra il determinismo assoluto, scartato, perché impedisce di esprimere giudizi di valore, cioè di riflettere sul bene e sul male insito nelle istituzioni dei vari popoli, e l’altrettanto assoluta affermazione di princìpi morali universali, che, soli non potrebbero mai spiegare l’infinita varietà degli usi, costumi, delle istituzioni e forme di governo effettivamente esistenti.

Se tali opposte posizioni sono solo in parte abbracciate e condivise dal Président, non rimane, allora, che una possibilità: quella del compromesso tra di esse. Come afferma Aron, Montesquieu «vorrebbe semplicemente trovare una filosofia che gli permettesse di combinare la spiegazione deterministica delle particolarità sociali con giudizi morali e filosofici universalmente

16 È uno dei primi a ricondurre i vari governi, istituzioni e costumi non a princìpi astratti, bensì a cause e condizioni

empiriche come quelle climatico-ambientali, e a valorizzare, in tal modo, l’osservazione come strumento conoscitivo. È dunque un precursore della moderna sociologia, in quanto – proprio come farà Comte, un secolo dopo – studia e classifica le società a partire dai loro rapporti interni, senza alcun riferimento a princìpi metafisici. Inoltre, può essere, legittimamente, considerato un precursore della sociologia, dal momento che si interessa allo sviluppo e ai mutamenti che le società registrano nel tempo, mostrando quindi di valorizzare quella branca della sociologia, o della «fisica sociale», che Comte successivamente chiamerà «dinamica».

17 R. Aron, Per una scienza universale dei sistemi politico-sociali, in D. Felice (a cura di), Lo spirito della politica, cit.,

p. 76.

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7 validi»19.

Dunque, è possibile rilevare la presenza di una fortissima tensione all’interno del pensiero dell’autore settecentesco. Alludiamo all’attrito derivante, da una parte, dalla profonda credenza in una legge morale universale (conoscibile in quanto tale da tutti gli esseri umani a prescindere dalla loro cultura di provenienza) e, dall’altra, dalla stima per la diversità, l’eterogeneità dei costumi, dei governi e delle leggi positive nei vari stati del mondo.

Certo, come abbiamo già chiarito, non vi è, in questo atteggiamento, una vera contraddizione: «La costanza e l’uniformità delle regole della legge fisica e dell’equità non richiedono che agli uomini vengano ovunque imposte leggo costanti e uniformi»20. Certo è, però,

che assistiamo, leggendo lo Spirito delle leggi, a una sorta di sdoppiamento dell’autore, il quale, mentre si rivela saldamente ancorato ai valori della tradizione occidentale (tra cui primeggiano senza eccezioni, almeno nei paesi europei, libertà, giustizia ed eguaglianza), vorrebbe invece allo stesso tempo staccarsi da essi e aprirsi a sistemi culturali del tutto diversi.

È importante comprendere l’atteggiamento di Montesquieu.

Vero è che una delle ragioni per cui, accanto a monarchia e repubblica, è stata da lui creata la categoria del dispotismo risiede nell’esigenza di classificare (condannandolo?) il mondo orientale. Tuttavia, dove vi è spiegazione del processo che ha determinato certi usi, costumi, idee e governi, di certo, la condanna non è mai profonda, bensì essa appare mitigata dalla comprensione, dalla consapevolezza dell’ineluttabilità di comportamenti e tradizioni diverse.

Il filosofo bordolese, infatti, non manca mai di affermare che una delle cause della condizione di schiavitù in cui versano i popoli orientali nei confronti del sovrano è da attribuirsi a fattori ambientali quali il clima. I climi caldi non fanno che fiaccare gli individui, ragion per cui è possibile affermare che «schiavitù e libertà sono geograficamente limitate o circoscritte»21. Proprio per questo motivo, Africa, America centro-meridionale e gran parte dell’Asia presentano, secondo Montesquieu, governi dispotici.

Il pensatore transalpino, per concludere, benché esitante se continuare a difendere una legge morale universale o se accettare i fatti, le tradizioni e gli usi nella loro profonda diversità, guarda ormai alle nuove scienze come l’antropologia, la sociologia e l’economia, e adotta appunto i metodi di queste ultime per studiare le diversissime realtà culturali, sociali e politiche del pianeta:

la presenza, in Montesquieu, di questi due ordini di rapporti ha potuto essere considerata come un’incoerenza, e come il segno di un’epoca di transizione esitante ad abbandonare i postulati della teologia razionale, ma già foriera di quelli del razionalismo scientifico, della sociologia, del relativismo storicista22.

Non bisogna, però, credere che l’influenza delle cause oggettive sia assoluta; il collegamento tra il clima, le forme di potere e i caratteri degli individui stessi, è, a giudizio del Bordolese, effettivamente esistente, tuttavia, accanto a cause fisiche, il filosofo bordolese riscontra l’esistenza di cause morali.

Coerentemente con tale visione dell’uomo che di certo risente dell’influenza del dualismo cartesiano, egli dà vita a una nuova categoria che, nell’opera maggiore, chiamerà esprit général

d’une nation23, il quale si produce in due modi: mediante le cause fisiche che dipendono dal clima, e mediante «le cause morali che consistono nella combinazione delle leggi, della religione, dei costumi e delle usanze»24. Anzi, Montesquieu afferma che «le cause morali contribuiscono a

19 R. Aron, Per una scienza universale dei sistemi politico-sociali, cit., p. 82.

20 J. Starobinski, Uniformità e diversità, in D. Felice (a cura di), Lo spirito della politica, cit., p. 177. 21 D. Felice, Introduzione a Montesquieu, cit., p. 119.

22 J. Starobinski, Uniformità e diversità, cit., p. 180.

23 L’insieme delle caratteristiche che una data comunità presenta – o, meglio – delle idee e degli obiettivi su cui un dato

popolo si concentra maggiormente; stando all’interpretazione fornitaci da Raymond Aron, l’esprit general d’une nation è una risultante che permette di afferrare ciò che costituisce l’originalità e l’unità di una determinata collettività (cfr. R. Aron, Per una scienza universale dei sistemi politico-sociali, cit., specie pp. 72-73).

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8 formare il carattere generale di una nazione, e determinano la qualità del suo spirito, in misura maggiore rispetto alle cause fisiche»25, e aggiunge anche che le cause morali (usi, abitudini, leggi religiose ecc.) sono qualche volta tanto forti e radicate da distruggere quelle fisiche26. Ciò, secondo il filosofo francese, risulta manifesto non appena si confrontino i popoli che abitano a ridosso dell’Equatore con popoli che, invece, ne sono molto distanti:

bisogna riconoscere che i popoli timidi, i quali rifuggono la morte per godere dei beni concreti – come la vita, la tranquillità, i piaceri – sono nati con un cervello di miglior tempra rispetto agli insensati del Nord, i quali sacrificano la loro vita per una gloria vana, preferendo cioè vivere a proprio modo piuttosto che in pace con se stessi. Tuttavia, siccome lo spirito sano di quelli si trova, per avventura, ad aver come conseguenza la schiavitù, e la cattiva tempra di quello degli altri la libertà, accade che la schiavitù umili, prostri e distrugga lo spirito, mentre la libertà lo formi, lo elevi e lo fortifichi. La causa morale distrugge dunque la causa fisica, e la natura è a tal punto ingannata che i popoli cui essa aveva dato lo spirito migliore hanno minor senno, mentre quelli cui aveva concesso minor senno possiedono lo spirito migliore27.

Alla luce di quanto è stato finora esposto, non ha senso affermare che Montesquieu cada nel determinismo climatico.

Vero è che alcuni fattori ambientali sono in grado di condizionare i nostri comportamenti, tuttavia, sono i legislatori, le abitudini e gli usi, che, se buoni, possono condurci alla conquista della libertà, mentre, se cattivi, rendono gli uomini vulnerabili e facili prede di un governo dispotico.

Il Président, osserva, come abbiamo già visto, che le popolazioni svantaggiate e appesantite da sfavorevoli condizioni ambientali, sviluppano, a causa dei continui sacrifici che devono fare per sopravvivere in un ambiente ostile, un grande coraggio e una grande forza d’animo: doti, queste, indispensabili per conquistare e mantenere la libertà, la giustizia e l’eguaglianza. Sembra, dunque, che le idee del filosofo siano incompatibili col determinismo climatico. A giudizio di Montesquieu, infatti, le popolazioni che si allontanano maggiormente dall’Equatore e si avvicinano ai poli, pur essendo svantaggiate rispetto a quelle il cui territorio si approssima alla linea equatoriale, sono molto più attive, resistenti e forti. Questo vuol dire che egli ritiene che la morale, i costumi, l’opera dei legislatori e la religione influiscano sui comportamenti individuali più di quanto possa fare il

clima.

Pertanto, non bisogna credere che i popoli del Nord siano i soli a sviluppare qualità come la forza, la resistenza, la tenacia. Infatti, sebbene Montesquieu, reputi che i climi caldi favoriscano vizi come l’indolenza, la codardia e l’ozio, rimane tuttavia salda in lui la convinzione che i legislatori possano, attraverso disposizioni intelligenti, contrastare gli effetti negativi prodotti dal clima: «per vincere la pigrizia del clima», scrive ad esempio, «bisognerebbe che le leggi cercassero di eliminare tutti i modi di vivere senza fatica»28. A questo proposito, il filosofo bordolese scrive nel libro XlV dello Spirito delle leggi:

I legislatori cinesi furono i più sensati [di quelli indiani] quando, considerando gli uomini non nello stato di tranquillità in cui saranno un giorno o l’altro, ma in quello d’azione atto a far loro eseguire i doveri della vita, fecero praticissime la loro religione, la loro filosofia, e le loro leggi29.

In tal modo, si dissolve l’idea, diffusasi a partire da Comte, che Montesquieu sia un determinista: «la filosofia di Montesquieu non è la filosofia deterministica semplificata che gli

73.

25 Montesquieu, Saggio sulle cause che possono agire sugli spiriti e sui caratteri, cit., p. 75. 26 Montesquieu, Saggio sulle cause che possono agire sugli spiriti e sui caratteri, cit., p. 78. 27 Ibidem.

28 Montesquieu, Lo spirito delle leggi, cit., vol. I, p. 391 (libro XIV, cap. 7). 29 Montesquieu, Lo spirito delle leggi, cit., vol. I, p. 390 (libro XIV, cap. 5).

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9 attribuisce, per esempio, Auguste Comte, né una filosofia tradizionale del diritto naturale, ma un tentativo di combinare le due»30.

Inoltre, poiché determinismo e relativismo sono strettamente interconnessi, viene meno, nello stesso tempo, il sospetto che Montesquieu sia un puro relativista. Relativista, infatti, è colui che ritiene che non esista alcun principio morale universale, e che gli usi, i costumi, e le leggi, proprio per tal motivo, non possano essere né giuste né ingiuste. È colui che constata le differenze, la particolarità degli usi senza giudicarli. Tutti gli aspetti della vita sociale, a giudizio dei relativisti, si originano spontaneamente, dunque in maniera autonoma rispetto alla volontà; le differenze degli usi e dei costumi tra i vari popoli derivano, infatti, per coloro che abbracciano tale modo di pensare, dalle diverse condizioni ambientali che caratterizzano il pianeta, il che rende impossibile a chiunque emettere un giudizio sia positivo sia negativo su qualunque forma del vivere sociale di una data comunità. Il relativista, in altre parole, è un determinista in quanto è persuaso che l’uomo non possa sottrarsi all’influenza dell’ambiente. Ora, è evidente che il pensatore bordolese non sia completamente estraneo al determinismo, e cionondimeno la sua filosofia va ben oltre questo limitato orizzonte: «in realtà, alcuni superano la filosofia deterministica appellandosi all’avvenire, altri ricorrendo a criteri universali di carattere formale. Montesquieu ha scelto la seconda strada per superare la particolarità»31.

30 R. Aron, Per una scienza universale dei sistemi politico-sociali, cit., p. 84. 31 R. Aron, Per una scienza universale dei sistemi politico-sociali, cit., p. 82.

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