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Luoghi e spazi del sacro. Matrici urbane; archetipi architettonici; prospettive contemporanee per la progettazione di spazi per la cristianità

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Agli affetti più cari

A L M A M A T E R S T U D I O R U M – U N I V E R S I T A ’ D I B O L O G N A

D A P T

D I PA R T I ME N T O D I A R CHI T E T T U R A E PI A N I F I CA ZI ON E T E R R I T OR I A L E

Dottorato XX Ciclo

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INDICE GENERALE

- Premessa

……… p. 4

- 1.

Architettura del sacro e sacralità dell’architettura:

note di metodo per una ricerca sui fondamenti della significazione spaziale ………p. 8

- 2.

Il sacro e la struttura della città: centralità urbane e loro carattere fondativo ………p. 21

- 3.

Fondamenti di ordine spaziale nella nozione di sacro a partire dalla ricerca etimologica

………p.39

- 4.

All’origine degli archetipi. Il senso del sacro nell’uomo delle origini

(3)

- 5.

Simboli ed Archetipi dell’Architettura Sacra. Passeggiata trasversale la storia attraverso gli elementi della composizione architettonica.ll’origine degli archetipi. Il senso del sacro nell’uomo delle origini

………p.79

- 6.

Lo spazio sacro nella predicazione di Cristo e nel Cristianesimo delle origini, verso soluzioni formali per il contemporaneo

………p.101

- 7.

Dibattito contemporaneo in materia di spazialità liturgica e possibili nuovi orientamenti progettuali

………p.116

-

Bibliografia generale

(4)

Premessa

E’ a tutti evidente l’attuale crisi dell’Architettura per il culto.

A meno di mezzo secolo dalla conclusione del Concilio Vaticano Secondo, si deve constatare che le positive spinte di rinnovamento e sperimentazione che lo hanno aperto si sono esaurite e consumate in una proliferazione di tentativi, sperimentazioni, architetture di un’originalità stravagante o di riconoscibile firma, di fanciullesche incertezze, o, al contrario, di riesumazioni archeologiche di passati remoti, quando non addirittura di un più recente eclettismo di matrice ottocentesca.

Non vi è insomma necessità di alcuna competenza in ambito estetico od architettonico per percepire il disagio che l’architettura contemporanea esprime davanti al tema del religioso, specie quando codificato nelle forme religiose tradizionali. La ricerca che presento si occupa di evidenziarne criticamente le ragioni.

La locuzione “spazio sacro”, lungi dall’intersecare un insieme definito enumerabile di casi di studio, propaga la ricerca continuamente oltre, continuamente ad altro, in una moltitudine di luoghi e spazi che l’assenza di una sacralità condivisa dilata secondo le molteplici direttrici di ogni particolare soggettivismo.

Gli edifici della chiesa cattolica, in meno di un secolo, da centri di rappresentatività collettiva e motori di identità urbana, sono divenuti poli tra gli altri, in una più vasta rete di spazi urbani per una moltitudine di religioni e per un ancor più frastagliato numero di culti personali, che non afferiscono ad alcuna tradizione religiosa codificata e si devono annoverare tra i culti privati frutto di quella parcellizzazione ed individualizzazione del Sacro che la ricerca sociologica oggi registra.

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Accanto all’emergere di una società multietnica e multiculturale, si deve poi considerare, specie in relazione alla antica popolazione autoctona, il progredire di una desacralizzazione od agnosticismo di fatto che interviene soprattutto nella chiesa cattolica a corroderne il sentimento di attiva appartenenza.

In primo piano dunque la ricerca propone una analisi critica della città contemporanea che evidenzia nella scala urbana la caduta degli spazi centrali e della loro valenza simbolica, per procedere, per successive specificazioni, all’architettura e ai suoi dettagli.

Metodo della ricerca è l’analisi del dato compositivo, inteso come ciò che cade sotto gli occhi, spazi, loro modulazione, elementi di dettaglio e di separazione. Dato compositivo, dunque, come nudo fatto architettonico, assolutamente metastorico: l’insieme dei dati fisici e sensibili che cadono nell’esperienza di un contemporaneo ed ipotetico viator.

Un approccio siffatto è privilegiato per istituire analogie trasversali rispetto ai separati prodotti delle storia e per non dimenticare che tali oggetti diventano fenomeni solo in ragione di un soggetto atto a percepirli, permettendoci così di ritrovare sempre come autentico centrum attributionis l’essere umano, che è anche, per altro, la sola condizione effettiva per cui uno spazio sacro si dia, nonché l’utente finale per il quale un nuovo spazio sacro potrebbe darsi, quando la presente ricerca ne ritenesse teoricamente possibile e funzionalmente necessaria l’edificazione.

Lo spazio sacro è per l’uomo e dall’uomo. Nel soggetto umano il sacro trova la propria origine e la giustificazione della propria necessità. La prima manifestazione di processi “sacrali” è di ordine spaziale, esattamente come, viceversa, l’ordine spaziale è stato, alla sua origine, un processo di acquisizione sacrale. Vi è dunque un carattere originario empirico ed eminentemente spaziale del Sacro, sedimentato sia negli usi linguistici, sia in un vocabolario vasto di segni e simboli apotropaici, che strutturati in lingue e grammatiche si sono codificati in manifestazioni architettoniche, a metafora di percorsi iniziatici che le religioni hanno via via reso canonici nei riti e nei culti.

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Tuttavia si dà spazio sacro anche senza religione. Il sacro in qualche modo precede la religione e si manifesta prima di forme cultuali e rituali socialmente più complesse. Il sacro è la via peculiare attraverso la quale la nostra specie si è appropriata dello spazio, spezzandone l’originaria isotropia percettiva con la recinzione di luoghi significanti atti a trasformare il mondo da caos a cosmos. Il sacro è dunque prova e soprattutto mezzo del logos.

Il sacro è dunque la manifestazione empirica, sensoriale, spaziale di un più vasto orizzonte di ricerca ontologica, la forma concreta di quella curiosità metafisica tipica della natura umana.

Il processo sacrale che configura lo spazio, al progredire della storia e delle forme sociali, articola luoghi ed elementi puntuali. Nella necessità di sorreggere, dividere, collegare, l’artefice adotta elementi di valenza simbolica: nasce l’architettura.

In riferimento a forme religiose evolute quali le religioni rivelate, e in particolar modo a quella cristiana, il nodo centrale della ricerca che attiene strettamente all’ambito compositivo, è dunque ancora una particolare declinazione della celebre questione del secondo Concilio di Nicea, ossia del dibattito inesausto sull’iconoclastia: è opportuno dunque, rivestire la vocazione liturgica e assembleare di un luogo con la sacralità fondamentalmente pagana e comunque allogena dell’architettura?

E’ questa la questione che la contemporaneità manifesta sia nel dibattito teologico-liturgico che, empiricamente, nell’architettura degli spazi ecclesiali.

Così come la più densa congerie figurativa, anche la più violenta nudità aniconica si deve considerare manifestazione di un piano simbolico e significante. La nudità estetica non meno del trionfo e della ridondanza dei segni è simbolo di una precisa concezione del divino. Ma quando la nudità estetica si fa nudità tecnologica, come accade nel contemporaneo, l’esibizione della “meccanica” dell’architettura, del suo scheletro e della sua pelle, veicola ancora i valori connessi alla già nota nudità?

In ultima analisi, analizzati separatamente i parametri che influiscono sull’architettura di culto, dalla sedimentazione psichica dei simboli

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apotropaici, alle moderne tensioni cinetiche assorbite dall’architettura, la domanda alla quale si propone una risposta tendenziale, come l’individuazione di una privilegiata direzione di ricerca estetica e compositiva, è dunque se vi sia una via privilegiata alla composizione architettonica dello spazio sacro per la tradizione cattolica latina, aderente alle istanze tecnologiche ed estetiche della modernità.

(8)

1.

Architettura del sacro

e sacralità dell’architettura:

note di metodo per una ricerca sui fondamenti

della significazione spaziale

Sono alcuni anni che, in relazione ad una iniziativa di studio, ricerca e progetto sull’architettura Sacra che sto curando presso il Dipartimento di Architettura e Pianificazione Territoriale dell’Università di Bologna, mi impegno in un approfondimento sui temi della significazione e simbolica spaziale, tanto alle origini dell’Architettura sacra, quanto della sacralità dell’Architettura.

Ebbene, la prima difficoltà nella quale mi sono imbattuto e che tento qui di enunciare, riguarda la stessa definizione dello specifico tema e la sua “invisibilità” rispetto ai metodi descrittivi e di analisi che siamo soliti adottare nello studio dell’architettura. Nella sua nudità affermare che l’ espressione “spazio sacro”, quand’anche fosse comprensibile sul piano della ordinaria comunicazione, fatica a delineare in modo specifico un insieme preciso di architetture sulle quali tentare un’analisi. Sostanzialmente l’espressione “spazio sacro” perde il suo oggetto se sottoposto al moderno cannocchiale scientifico.

Il panorama del sacro in architettura oggi, si presenta frammentato in una molteplicità di casi che non paiono riconducibili a classi di omogeneità linguistica o tipologica, e puntando invece l’attenzione non sulla funzione, ma su eventuali analogie formali e linguistiche, ci si trova a considerare architetture che corrispondono a usi e funzioni distanti, in un caso, semmai, attinenti al religioso e al trascendente, in un altro, forse, all’espositivo e al

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commerciale, fatto salvo, naturalmente, riscontrare anche in queste ultime funzioni l’oggettivazione di attitudini comportamentali di tipo sacrale. Dal secondo ‘800 e nel progressivo avvicinarsi al contemporaneo, l'architettura sacra in senso proprio, quella delle chiese, dei monasteri, dei cimiteri e delle cappelle sparse, ha subito tali stravolgimenti da non poter più in alcun modo essere riconducibile a un numero limitato di schemi tipologici o a regolari grammatiche di usi linguistici.

Lo spazio dell'indicibile, secondo la nota espressione di Le Corbusier, si fa dunque altrettanto invisibile, o, almeno, irriconoscibile, non prestandosi in alcun modo a criteri di analisi sintetica.

La frattura è storica e, peraltro, evidente.

La città contemporanea occidentale conserva le reliquie del passato che risorgono ancora a nuove funzioni agli angoli delle piazze: castelli, palazzi, le chiese. Di queste ultime in particolare, la storia civica ne consegna una moltitudine innumerevole, testimonianza evidente di una dimensione sacrale assai più dilatata rispetto al nostro quotidiano contesto, in cui, i riti si sono gradualmente spostati in ambito profano (il rito della spesa, quello del caffè, l’amata sigaretta) e i codici cultuali di una specifica confessione religiosa sono sempre più consapevole patrimonio di una minoranza che, per la tradizionale confessione latina, si dimostra numericamente inadeguata all’ampiezza e al numero dei luoghi di culto ereditati dalla storia. La città è così costellata di spazi che continuano a testimoniare la loro originaria funzione liturgica nel decoro e nella eleganza della chiara riconoscibilità tipologica, quand'anche abbiano perduto l’essenza della loro connotazione sacrale e dell'uso liturgico: siano stati, cioè, sconsacrati.

A contrasto con queste architetture del Sacro sconsacrate, la grande libertà compositiva che ha seguito il Concilio Vaticano II ci ha consegnato nuovi edifici sacri per un suo e funzione che si leggono tuttavia come architetture profane, e la città diventa così il teatro di questa polarità dicotomica, tra antiche architetture sacre sconsacrate e nuove architetture profane consacrate…

Il nostro tempo non ha elaborato una autonoma architettura religiosa e spesso si è piegato su questo tema, meno vincolato da regole e norme, per sperimentare se stesso e le possibilità tecniche, linguistiche ed emozionali delle nuove pratiche costruttive e dei nuovi materiali: nella percezione

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diffusa del comune sentire, certamente lo spazio sacro è qualcosa di attinente al passato.

La città contemporanea palesa dunque il volto del sacro in un ventaglio quantomai dispersivo di casi, costituito da edifici che si leggono come luoghi di culto ma che essenzialmente non lo sono più; da edifici che faticano a riconoscersi come luoghi liturgici e che invece ne accolgono le funzioni; ed ancora, edifici che assumono i caratteri e gli stilemi della storica edilizia di culto per vestirne poli di interesse pubblico e istituzionale; e, infine, più moderni edifici che nella tecnica del ferro, del cemento e del vetro cercano armonie ed equilibri per farsi latori di valori spirituali.

Questo insieme vasto e disorientante è tuttavia il riflesso di un complesso peregrinare dei caratteri formali dell'architettura sacra da un primo contesto tipicamente liturgico e cultuale ad una progressiva diaspora verso ambiti profani in cui elementi testimoniali di realtà eterne, sono stati man mano evocati per eternare realtà umane.

Riferendoci, per esempio, al secondo ‘800, la maniera neoclassica è il vestito di decoro ed eleganza che viene posto tanto alle chiese e ai santuari, quanto ai palazzi delle nuove istituzioni proto-democratiche. La cortina di pietre che si organizza in un fraseggio neoclassico per recingere l’assemblea dei fedeli nella Chiesa di St. Vincet de Paul, è la medesima che l’architetto Jacques Hittorff, evoca per presentare ai francesi il nuovo idolo trinitario della modernità: il treno, la stazione e la velocità. Il fronte urbano della Gare du Nord di Parigi è di fatto la facciata di una cattedrale del progresso, quella stessa cattedrale laica che, ad opera di Lyonel Feininger sarà copertina, nel 1919, del manifesto del Bahuaus.

Per tutto l’ottocento, il movimento è sostanzialmente univoco: ai nuovi poli delle centralità urbane (parlamenti, musei, stazioni) si impone il vestito delle più antiche forme autoritarie, secondo la retorica di stilemi e simboli che avevano già senz’altro perduto il proprio significato culturale condiviso, ma ancora raccoglievano un comune consenso di natura estetica. Alle conquiste della modernità si attribuiva così il carattere dell'eternità evocando le architetture delle speranze più radicate nell'uomo, ossia le forme del sacro e della fede. Anche il simbolo semovente del progresso, l’automobile, fonda la propria autorità sulla forma universale di un elemento sacrale, e sul fronte della Rolls Roys troneggia senza equivoci l’eterno profilo del Partenone.

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E’ il novecento che interviene gradualmente a stemperare la retorica delle vuote forme eclettiche. Lo fa prima di tutto con l’igiene e la tragedia del sangue, poi, da qui, in una stanchezza delle forme tronfie verso una purificazione estetica ed una progressiva semplificazione dell’architettura, alla ricerca di una originaria purezza, di uno stato assimilabile alla primordiale nudità edenica. L’ornamento, semmai, è ciò che è concesso dalle possibilità intrinseche della materia: dalla fluidità del cemento, dalla snellezza e resistenza del ferro e dalla malleabilità bidimensionale del vetro. La progressiva semplificazione e svelamento delle forme archetipe promuove il carattere dei singoli materiali, ne esalta le proprietà tecniche, componendo architetture di elementi semplici, di segni apotropaici, nello schema del trilite o di archi spogli. E’ l’estetica della macchina, del motore, della meccanica… L’architettura palesa le nuove speranze dell’umanità: le sue magnifiche sorti e progressive.

Il nuovo credo è dunque fede nella scienza, e genera spazi che si costruiscono sull’orditura grafica di queste stesse certezze, che si fanno, cioè, tessuto discreto, scientifica articolazione di parti distinte, rifiutando fascinazioni metafisiche o trascendenti, in un movimento che emula la precedente diaspora dell’antica architettura sacra di pietra, in un modo, tuttavia che, sebbene analogo, è ad esso opposto e simmetrico: ancora dal sacro al profano, dunque, ma a partire dalla nuova sacralità scientifica che assume come dogmi i principi, e accorda verità alle scienze sperimentali, esiliando le speranze, gli argomenti e i riti della fede tradizionale nei territori dell’irrazionale e, dunque, del profano.

Estrapolando una legge che pare universale, l’architettura si configura dunque come trasposizione materica, simbolica e spazialmente argomentativa della particolare (e sacrale) gerarchia valoriale del contesto umano di sua origine.

Così, nel contemporaneo, le forme pure di geometrie perfette, planari, stereometriche e scientifiche, da un apparente disordine, si organizzano ad evocare una unità perduta o auspicata che è, tuttavia, perennemente oltre l’architettura, a suscitare l’emozione di un ordine o di un equilibrio tendenziale, che si può solo intuire oltre la struttura atomica delle parti, all’origine della loro radice ontologica.

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L’architettura rifiuta la statica tradizionale e promuove una tensione puramente estetica, mai ontogenetica o teleologica, (come era accaduto, invece nel gotico), verso una unità di senso e significato che non trova compiutezza nel gesto architettonico, ma che da tale gesto promana come tensione emotiva inesausta, riflesso di un equilibrio non raggiunto, ma istante per istante provvisorio e precario, che solo all’infinito può essere ricomposto e stabilizzato.

La velocità, con la quale il secolo breve si è aperto e altrettanto rapidamente concluso, diventa così un elemento intrinseco dell’architettura, parte della sua logica di crescita e propagazione, motore di spazi urbani che vengono concepiti come nuove scenografie del provvisorio, fasi temporanee della modificazione territoriale. Anche l’emersione di termini quali durata dell’architettura e vita utile di un edificio, testimoniano l’innestarsi in architettura, per la prima volta, di una estetica della fragilità.

La capacità dello spazio costruito di farsi latore di valori spirituali, anzi, di più, il carattere estremamente coercitivo dell’architettura, che, se condotta abilmente, attraverso i propri percorsi, giunge ad imporre al suo fruitore una precisa weltanshaung, complica infinitamente lo studio dell’architettura sacra, perché, è proprio di fronte all’unicità di questa funzione, per sé stessa evocativa, che l’architettura si concede la massima espressività artistica, sovrapponendo alla sacralità che è chiamata a custodire, quella che inevitabilmente essa stessa esprime.

L’architettura del sacro è così la più autorevole testimone della sacralità dell’architettura.

E la gran parte del dibattito contemporaneo relativo alla architettura delle chiese, è sintetizzato nel rapporto dialettico tra sacralità custodita e sacralità espressa, rapporto che ha l’architettura come membrana osmotica a delimitare da un lato un rito fissato e rigido nelle sue determinazioni canoniche, e dall’altro i codici semantici liberi delle figure, dei simboli e dei segni espressi, che attingono alla più profonda e lontana dimensione conoscitiva, agli archetipi della significazione spaziale.

Un parere autorevole e fondato che porti almeno parzialmente a risolvere l’odierno dibattito e la comune insoddisfazione per l’architettura sacra contemporanea, non può prescindere dall’esaminare le forti connessioni tra fede e simbolo, tra religione professata e forma impressa, insomma, tra

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architettura del sacro che si celebra e sacralità dell’architettura in cui si celebra.

La questione si appunta dunque nell’individuazione di un metodo di analisi che sia adeguato a cogliere il rispecchiarsi dell’architettura sacra sulla sacralità dell’architettura nelle reciproche connessioni e problematiche interdipendenze.

La risposta a questa ricerca complessa, comporta ovviamente sia una analisi di ciò che si intende per “sacro”, sia, una considerazione sullo strumento scientifico che si intende usare per avviarsi efficacemente a questa analisi. Nel primo caso occorrerebbe sporgersi sui fondamenti epistemologici della fenomenologia delle religioni con considerazioni che non riteniamo pertinenti in questa sede; piuttosto è forse qui più interessante considerare il secondo aspetto del problema, esaminando quale possa essere lo strumento scientifico sensibile al particolare tema in oggetto, affinché lo “spazio sacro” possa essere messo a sbalzo senza omissioni semplificanti.

Tuttavia, messa per un momento da parte l’occasione specifica di queste considerazioni, che vertono su un tema dalle evidenti peculiarità e delicatezze, si deve pur considerare che le osservazioni di metodo relative allo spazio sacro, si possono benissimo estendere all’architettura tout-court se si riconosce che questa si distingue dalla comune edilizia non solo per la qualità del dettaglio, la riconoscibilità dell’oggetto e una qualche più o meno evidente pretesa estetica, ma per significati che prendono forma dal concento e dall’armonia delle parti, in una eufonia corale in cui spesso ciò che è inutile risulta massimamente significante1.

L’architettura, e massimamente quella del sacro, si distingue dunque dalla più comune edilizia dall’emergere di un principio che compete al tutto ed alle singole parti e tutto amalgama in unitarietà, in una unica sinfonia, in cui la melodia principale articola e plasma scene diverse, benchè tutte animate da uno stesso spirito, da uno stesso principio2. In ultima analisi ciò che distingue l’architettura dalla più comune edilizia, non è un insieme di

1

F.L.Wright, “ Io e l’Architettura” (tit. originale “ An Autobiography”), Mondadori ed., Milano 1955

2

cfr. F.L.Wright, “ Io e l’Architettura”, op. cit. E’ lo stesso autore che afferma che molti dei suoi clienti lo avvicinavano per aver visto nella sua architettura la chiara espressione di un principio

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accorgimenti pratici, ma un motivo essenzialmente spirituale che fa della necessità dell’abitare l’occasione per l’espressione di una poetica.

Per queste ragioni quanto ci permettiamo di dire in occasione di un’indagine sullo spazio sacro, vale analogamente a partire da considerazioni sull’architettura tout-court.

Rispetto al particolare tema di indagine, all’architettura sacra in particolare, uno strumento metodologico di osservazione scientifica che possa dirsi buono, deve permettere di guardare alla singolarità delle parti senza perdere di vista l’unità del tutto, deve spingersi fino al dettaglio tecnico, senza mai dimenticare la complessiva armonia alla quale anche il dettaglio collabora. Uno sguardo positivo in questo senso, non può essere che uno sguardo “secondo il tutto”, contemporaneamente proporzionato all’intero e alle sue parti.

La ricerca relativa ad uno specifico “fatto architettonico” è foriera di importanti risultati solo a patto di non tradirne la singolarità, l’unità individuale, attraverso un’indagine scientifica che discerna e distingua il coagularsi degli elementi non solo materiali che costruiscono la singolare unità dell’oggetto, senza tuttavia decomporne l’aspetto, ma al contrario tendendo, nel processo scientifico di conoscenza, a recuperarne la singolarità nella intersezione dei suoi aspetti intellegibili.

Non si può cioè in alcun modo tradire l’unità trascendentale dell’oggetto stesso, la sua individualità concreta, il suo porsi come UNO che si presenta indiviso prima e oltre ogni proposta di sezione metodologica, di ordine di indagine, di approccio disciplinare.

Principio e fine della ricerca sulla architettura è pertanto riconoscerne il suo porsi come fatto: il suo essere presente è motivo di ricerca, la descrizione della sua unità è la tensione di ogni corretta prospettiva di investigazione. A questo scopo dunque, qualsiasi particolare prospettiva conoscitiva, frutto semmai della odierna specializzazione gnoseologica e tecnica, se considerata nella sua singolarità, è destinata a fallire. La comprensione dell’oggetto è piena solo ponendolo al centro di una rete di sguardi convergenti, assediandolo da ogni possibile punto di vista, non lasciando deserta alcuna via di esplorazione: dominando la violenza dittatoriale dell’architettura e costringendola, almeno intellettualmente, a cessare di

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comprenderci, per essere, una buona volta, essa stessa compresa, circoscritta da ogni lato, assediata, e quindi, infine, conosciuta.

Ebbene, solo una “scienza cattolica”1 (nel suo senso etimologico), solo un “dominio spirituale smisuratamente vasto”2, una ritrovata tensione ad un sapere universale, può raggiungere questo scopo. Ogni altro acuminato ed unilaterale tentativo di esplorazione, inevitabilmente seca l’oggetto di analisi, ne dimentica la dimensione complessiva e ne rompe la sostanziale unità individuale, e quindi, infine, lo falsifica.

Tuttavia, oltre ciò che queste considerazioni possono lasciare ben sperare, indipendentemente dalla scala alla quale l’oggetto motore del nostro interesse si collochi, sia che si tratti di interi sistemi urbani, o di singoli edifici, dobbiamo con nostra buona pace ammettere che la restituzione piena della loro stessa unità resta un obiettivo sempre oltre le nostre possibilità di speculazione, e si può mantenere solo come positiva tensione asintotica, non solo in vista di una prevedibilità che potrebbe essere conveniente a sistemi complessi quali quelli urbani, ma anche in ragione della descrizione dell’esistente.

La semplice e cava unità dell’oggetto di architettura, nella sua concreta singolarità, si pone quindi irriducibile al mondo delle parole e dei concetti, trovandosi sempre ad un più alto livello di densità semantica di quanto non lo sia la corrispondente produzione critica.

In questo senso e a tutti gli effetti, architettura è opera d’arte e come tale, sempre, opera aperta3.

Il discorso di cui un’opera si fa promotrice, per il fatto stesso di esistere, per il modo con cui essa stessa è fatta4, si prolunga oltre ogni possibile contributo della critica, che sposta l’oggetto divenuto concetto in un altro piano, quello di una dimensione culturale astratta, anche essa, per altro, figlia delle suggestioni del proprio tempo, della personalità del suo autore,

1

Nel suo senso etimologico e primigenio, di χαθολιχός , con cui il vocabolo appare in Sant’Ignazio di Antiochia (Lettera agli Smirnesi, 8,2)

2

J. Burckhardt, “ La civiltà del Rinascimento in Italia”, Sansoni ed, Firenze 1984 3

cfr. U. Eco, “ Opera Aperta”, Gruppo editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas s.p.a., Milano 1962

4

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dei procedimenti di lettura e di analisi che paiono essere irriducibili ad uno schema generalissimo non formale che pretenda di comprenderli tutti1. Quell’unità e quella densità che abbiamo dunque rinvenuto nel fatto architettonico e che ci preoccupiamo l’indagine conoscitiva non venga a tradire, costituiscono una ricchezza spiritualmente inesauribile, che deve essere trattata con la stesse cautele e delicatezze alle quali va sottoposto l’uomo o la collettività umana che ne hanno curato l’addensarsi in una unità architettonica concreta che, attraverso le singole parti, nella giustapposizione materica, atomica e quantitativa, esprime nella molteplicità dei segni significanti, l’unità di un universo simbolico.

«La scrittura è architettura. Il tempio di Salomone, per esempio, non era la semplice rilegatura del libro santo, ma era esso stesso il libro santo. In ciascuna delle sue cinte concentriche, i sacerdoti potevano leggere il verso tradotto e manifestato ai loro occhi[…] E non soltanto la forma degli edifici, ma ancora la loro posizione rivelava il pensiero che essi dovevano significare[…] e ciò è talmente vero che non solo ogni simbolo religioso, ma anche ogni pensiero umano ha la sua pagina in questo libro immenso di monumenti. Ogni civiltà incomincia dalla teocrazia per finire nella democrazia. Questa legge della libertà che succede all’unità è scritta nella architettura.[…]L’architettura è stata fino al XV secolo il quaderno dell’umanità; in tutti i secoli anteriori non è apparso sul mondo un pensiero di una qualche complessità che non si sia fatto edificio,[…] ogni idea popolare come ogni legge religiosa ha avuto i suoi monumenti; il genere umano, infine, non ha pensato nulla di importante senza averlo scritto sulla pietra»2.

Ogni architettura è in qualche modo la «concreta struttura dell’esistere in atto»3, in essa si coagulano le forme dell’abitare e le concezioni dell’esistere rispetto all’ideale antropologico della società nella particolare

1

L. Anceschi, “ Della critica letteraria e artistica”, in “ Progetto di una sistematica dell’arte”, Mucchi editore, modena 1983, pag. 32

2

V. Hugo, “ Notre Dame de Paris”, Newton&Compton ed., Roma 1996, pag. 126 e ss. 3

Giovanni Klaus Koenig, „ Il concetto di Spazio Architettonico”, in “ Architettura del Novecento”, Saggi Marsilio, Venezia 1995, in cui Klaus Koenig ricorda la citata

definizione di Sergio Bettini, in “ Opere dell’Architetto Daniele Calabi”, “ L’architettura”, n.19, 1957

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mediazione del suo autore, con un diverso bilanciamento di quest’ultima a favore della prima nel progressivo avvicinarsi alla contemporaneità e all’emersione della moderna figura dell’autore.

Non è pertanto la determinazione dimensionale, materica e quantitativa a contraddistinguere l’indentità della particolare architettura: in questo senso l’unità dell’oggetto è sempre collazione di parti, di pietre, di malte, di elementi lignei e metallici, esattamente come «una città e una campagna, da lontano sono una città e una campagna, ma quanto più ci avviciniamo, sono case, alberi, tegole, foglie, erba, formiche, zampe di formiche e via all’infinito»1. Ciò che ricade nell’attenzione dello studioso, non è la giustapposizione degli elementi distinti, ma la loro disposizione in una unità individuabile e riconoscibile.

Una città è assai più ragionevolmente «il segno delle relazioni sociali integrate, poiché il tracciato e la forma della città esprimono in modo visibile gli sviluppi della vita associata, e perpetuano in forma stabile gli sviluppi transeunti della storia»2.

La insufficienza di una determinazione quantitativa alla individuazione di una architettura, alla completezza di una sua descrizione, o alla qualità di una sua analisi, non significa affatto trascurare i metodi o i risultati ottenibili dall’odierna specializzazione scientifica e dallo studio delle tecnologie costruttive: si tratta piuttosto di implementare anche questi apporti nel quadro di un più vasto numero di variabili, ciascuna delle quali mai risulta indipendente dalle altre.

L’orizzonte di queste considerazioni, ad una prima valutazione, può forse condurre a privilegiare una prospettiva di ricerca storica, che, pure, si dimostra insufficiente non appena pretenda di essere l’esclusivo orizzonte di speculazione.

Il costruito, registra, infatti, come già si è detto, l’intero carattere di un’epoca e il particolare sguardo del suo autore, in una distinzione sempre difficile, tra edifici che tacciono, che parlano o che cantano3, in un confine

1

B. Pascal, “ Pensieri”, Garzanti editore, 1994, pensiero 61 2

L. Mumford, “ La cultura delle città”, Milano, Ed. Comunità, 1954 3

P. Valery, “ Eupalino o L’architetto”, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Roma, 1986 pag.20 e ss.

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che si fa labile tra architetti “specchio” del proprio tempo e altri che vi agiscono da protagonisti tanto da poter esserne definiti “coscienza”1.

La privilegiata prospettiva di ricerca che assume come proprio parametro la segmentazione temporale, ha il vantaggio di permettere l’agevole stesura di un quadro sinottico degli eventi storico – filosofico – culturali senz’altro imprescindibile nel determinare il carattere complessivo di un’epoca nella diversità dei suoi aspetti e delle sue manifestazioni, pur restando, come metodo e tecnica di ricerca, innegabilmente anch’essa figlia del proprio tempo: prima del romanticismo e poi, della visione Hegeliana della storia, prassi di studio in Italia con la riforma Gentile.

In modo particolare, ad esempio, il fascino che tutti subiamo di fronte ad un’architettura storica “originaria”, e il disprezzo in cui conseguentemente è ritenuta la sua copia2, sono retaggio di una sensibilità romantica che si è acuita in seguito alla percezione dell’ormai avvenuta irrimediabile frattura con una età primigenia e bucolica che si è compreso essere del tutto perduta al profilarsi all’orizzonte dei fumi della rivoluzione industriale, degli ingranaggi del treno e di quelli dell’industria.

L’apprezzamento che si manifesta nell’odierna società per tutto ciò che è originale3, è d’altra parte un sentimento a tal punto radicato nella cultura contemporanea, da poter facilmente crederlo una autentica invariante antropologica, propria dell’umanità di sempre, quando, in realtà, ad un’analisi appena più approfondita, emerge con chiarezza che questo atteggiamento verso tutto ciò che è nuovo, è per la gran parte figlio di un sentimento di salvaguardia dell’individualità di fronte alla minaccia invasione dei nuovi sistemi di produzione: si tratta insomma di un sentimento morale, non estetico4.

1

Cfr. F. De Sanctis, “ Storia della Letteratura Italiana”, ed. Orsa Maggiore, Forlì 1994, 2

“ Se si potesse dare ad un fiore artificiale l’apparenza della natura con l’inganno più perfetto, se si potesse spingere l’imitazione dell’ingenuo nei costumi fino all’illusione massima, la scoperta che si tratta di una imitazione distruggerebbe completamente il sentimento [estetico] di cui si sta parlando.” Da F. Schiller, “ Saggi Estetici”, Torino Utet, traduzione di C. Baseggio, s.d.

3

cfr. P. N. Evdokimov, “ Teologia della Bellezza”, ed Paoline, Roma, 1971. 4

“ Da ciò appare che questo genere di compiacimento della natura non è estetico, ma morale; perché viene procurato mediante un’idea, non già prodotto immediatamente dall’osservazione, inoltre esso non si dirige affatto alla bellezza delle forme”, da F. Schiller, op. cit.

(19)

Un approccio all’architettura che ne privilegi invece il dato compositivo si configura come prospettiva di ricerca aperta, capace di indurre piani di lettura trasversale nella classificazione storica e tipologica, in filoni di ricerca legati alla comparsa e giustapposizione di forme archetipe, che sono, di fatto, i simboli ineliminabili attraverso i quali l’architettura fraseggia. «Non è affatto necessario, rispetto alla portata spirituale del lavoro, che la forma dell’opera sia più o meno complessa, ossia “artistica” nel senso [attuale] comune e superficiale del termine; il compiersi di un’opera originale e geniale rappresenta il frutto spontaneo di una determinata realizzazione interiore più che un mezzo per raggiungerla. D’altro canto il genio dell’artista iniziato non si manifesta tanto nella ricchezza immaginativa, quanto nell’intelligenza intuitiva e nella semplicità dell’operazione quando si tratta di applicare un prototipo “ideale” a una materia e a determinate circostanze.»1

L’estrema varietà dei piani di realtà a cui rimanda l’ordine simbolico intrinseco al dato compositivo, innesta l’edificio nel proprio luogo, nel proprio contesto culturale, nell’orizzonte figurativo e mitologico di un popolo, e ne palesa la funzione, in un linguaggio di segni codificato, che solo dalla prossimità fisica con altri lemmi, ornamenti, scanalature, e immagini, contribuisce alla costruzione di una frase aperta che solo quell’architettura, nella sua singolarità, può arrivare a proferire.

«Questa molteplicità di interpretazioni fa parte del carattere del simbolo; è qui che risiede la sua superiorità rispetto alla definizione concettuale. M entre quest’ultima integra un determinato concetto in un contesto logico e di conseguenza lo determina a un certo livello, il simbolo resta aperto, senza tuttavia essere impreciso; è innanzitutto una “chiave” che dona l’accesso alle realtà che oltrepassano la ragione»2.

Intendendo allora l’architettura come dato compositivo, ci si avvia a decodificarne il complesso ordine simbolico, mediante l’applicazione ad essa di un metodo profondamente interdisciplinare, che rifiuta l’univocità di

1

T. BURCKHARDT, “ Considerazioni sulla conoscenza sacra”, ed. SE SRL, Milano 1989, pag. 30

2

T. Burckhardt, “ Considerazioni sulla conoscenza sacra”, ed. SE SRL, Milano 1989, pag. 65

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una qualunque indagine quantitativa o temporale o in ogni altra direzione unilaterale.

La ricerca in architettura presuppone dunque un orizzonte culturale vasto, che radicalmente rifugge dai recinti delle scienze particolari perché solo in una ritrovata dimensione universale del sapere può essere efficacemente espresso il suo oggetto, e recuperato nell’orizzonte delle idee quell’unità intrinseca e simbolica che attiene al suo porsi come fatto.

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2.

IL SACRO

E LA STRUTTURA DELLA CITTA’:

CENTRALITÀ URBANE E LORO

CARATTERE FONDATIVO

Non è lecito neppure cominciare una ricerca su “Luoghi e Spazi del Sacro” senza che si palesi con evidenza un problema intrinseco allo stesso oggetto di ricerca: pare insomma che quel “del Sacro”, quella specificazione che vorrebbe intervenire a limitare lo spettro della nostra analisi e osservazione, contribuisca invece piuttosto a complicarlo, sia in rapporto alla sua estensione che in rapporto alla sua natura.

A destare dubbi e perplessità, ancor prima dell’itinerario metodologico da seguire nella ricerca, è dunque la determinazione del suo oggetto iniziale. Quali sono dunque “spazi e luoghi del sacro”? Che cosa è Il Sacro?, quali luoghi gli sono peculiarmente propri?

Se relativamente ai concetti di “Spazio” e “Luogo”, oltre ad un facile abbinamento eufonico ricorrente in un’innumerevole serie di titoli, si dà effettivamente una determinazione semantica e scientifica che in qualche modo ne individua il senso ed il significato, per quanto invece attiene il termine “SACRO”, esso è ambiguo anche nel suo valore di senso, sfuggente secondo alcuni, pervasivo secondo altri: in ogni caso a tal punto soggetto ad una variabilità soggettiva da parere irriducibile ad una trattazione scientifica.

L’oggetto della presente tesi, l’insieme descritto dall’espressione “Luoghi e Spazi del Sacro” non è pertanto costituito e determinato a priori, ma la sua determinazione è parte dell’itinerario di questa ricerca che quindi ha la

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peculiarità di avere tra i suoi obiettivi quello di determinare il suo stesso oggetto.

Il sacro, divenuto autonomo e crescente oggetto di ricerca a partire dalla fondazione della sociologia, è tra i parametri che meglio misurano il relativismo culturale del nostro tempo. Gli orizzonti per i quali cose, spazi e tempi si dicono “sacri” sono molteplici, e ciò che per taluni si mostra in tal senso significativo, può essere del tutto trascurabili e privo di interesse per altri.

A carattere del tutto introduttivo, per avvicinare la complessità del tema Non vi è dubbio invece che, nella gran parte delle società storiche, la convergenza su elementi sacrali condivisi, fosse all’origine della stessa possibilità del vivere sociale.

La vastità del tema delle centralità urbane e la diversità con cui lo stesso fenomeno “città” di presenta nei diversi paesi e nelle culture, impone da subito una limitazione all’indagine qui proposta che al contempo ne chiarifichi il punto di vista.

Si intende quindi fare prevalentemente riferimento alle città del nostro occidente, cioè alle città europee, le sole per le quali resti oggi opportuno parlare in senso fisico di un centro, eccezion fatta per le città dell’america latina che sono tuttavia, come è ben noto, per fondazione la riproposizione del modello europeo in un contesto di colonizzazione culturale.

Ogni realtà urbana europea, di qualsiasi dimensione in termini di popolazione od estensione, è sempre resa riconoscibile dall’individuazione univoca di uno spazio fisicamente circoscrivibile denominato centro rispetto al quale la restante parte dell’abitato sembra essere generata per emanazione e occupare una subalterna posizione in un intuibile ordine gerarchico.

Ad individuare questo luogo fisico, indipendente dal baricentro della distribuzione urbana, collabora la tessitura del reticolato viario o la presenza di un “vuoto” di ampio respiro circondato da edifici di peculiare carattere architettonico, sede monumentale delle attività che fondano, regolano e descrivono la particolare comunità umana, forma concreta delle relazioni sociali, culturali, economiche, e religiose il cui intersecarsi genera il fenomeno “città”.

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Considerando quindi la struttura urbana, prima ancora che come luogo costruito, come sistema di relazioni e scambi interpersonali, è motivo di interesse osservare che il centro cittadino non si contraddistingue mai per l’apparire di particolari edifici di carattere privato, ma piuttosto per il trionfo della architettura pubblica, contrassegnata dall’emergere del municipio e della cattedrale. Il fatto che in particolari contesti il municipio o palazzo del popolo sia sostituito dal palazzo reale, non muta il carattere degli edifici che appaiono sulla piazza principale dell’abitato cui è comunque delegato il compito di rappresentare l’intera cittadinanza: si tratta quindi ancora di edifici pubblici.

Le facciate storiche di queste architetture sono l’affermazione dell’individualità e dell’unicità dell’intero sistema urbano: per parlare agli occhi del cittadino e del forestiero esse necessariamente si compongono in un complesso sistema scenografico che ricerca spesso il simbolo e la interrelazione e che, per manifestarsi, si fa largo tra le case, per rimettere ai cittadini in forma architettonica codificata l’insieme delle relazioni urbane ricondotte a fatto concreto.

Il legame tra abitato e abitante è stato in Europa fino alla modernità un legame forte, di natura sostanziale. Cercherò di mostrarne alcune esemplificazioni significative.

La piazza è lo spazio pubblico per eccellenza, il luogo in cui le tensioni sociali e politiche ricondotte ad architettura nella tipologia del municipio e della cattedrale vengono nuovamente restituite al cittadino ordinate in una gerarchia di forme tanto comunicativa da essere vero e proprio linguaggio1. E’ solo con la modernità e la diffusa alfabetizzazione che i caratteri della lingua scritta vengono ad avere un significato di maggiore immediatezza rispetto a quello dei simboli e delle immagini. In precedenza ed in modo particolare per tutto il medioevo, le immagini esprimevano per via simbolica concetti che in larga parte oltrepassavano la nuova verniciatura che aveva loro dato il cristianesimo per rituffarsi nel loro oroginale significato pagano riacquisito e reinterpretato nella civiltà cattolica come forma del sacro ma anche del magico esoterico o di superstizione popolare.2

1

Sul valore semantico degli spazi pubblici nelle città italiane, è interessante quanto R. Bernardi afferma per la città di Firenze in “ Della città dei Fiorentini”, op. cit. 2

Cfr. Johan Huizinga “ L’autunno del Medioevo”, in special modo il capitolo 15° su Il simbolismo sfiorito, quanto alla storia dell’interpretazione simbolica di alcune

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Il fatto che l’architettura dei luoghi e specie delle costruzioni sacre sia, oggi come allora, oggetto di progetto e quindi fatto numerabile, era immediatamente occasione per una serie infinita di dipendenze ideali che, è vero, oggi hanno il sapore di giochetti aritmetici, ma che invece innervavano il singolo cittadino nella universale storia umana sottraendolo da ogni possibile ansia di inutilità e di anonimato e salvando il tempo della sua personale esistenza in un ordine cosmico secondo il quale non diversamente dai suoi giorni si susseguivano i mesi, le raccolte, le stagioni. I mesi infatti sono dodici come gli apostoli, e quattro sono le stagioni come gli evangelisti: compiere l’anno significa compiere questo tempo, dimodocchè l’anno è simbolo del tempo compiuto, l’anno è Cristo.1

Gli edifici e gli spazi che costituiscono il cuore della città sono quelli che salvano la vita dell’uomo e contribuiscono a descriverne e garantirne il senso.

La piazza, prima soprattutto prolungamento a cielo aperto dello spazio Sacro della cattedrale, è il palcoscenico cittadino testimone dell’evoluzione sociale, il “ring” pubblico sul quale si affrontano i poteri e le forze sociali per trovare ogni giorno un nuovo equilibrio che permetta il sopravvivere del sistema urbano. Non si deve tuttavia immaginarsi la piazza solamente come luogo dell’arringa, dell’oratoria o dello scontro tra popolino e oligarchia dominante: i momenti in cui questo dialogo avveniva al di fuori di un copione già scritto, erano in realtà pochi e pericolosi per la stessa realtà cittadina. In realtà, per la gran parte, l’affermazione e lo sviluppo di tutti i rapporti tra le masse umane ed i poteri che intervenivano sulla città si misuravano nella piazza principale in un sistema ben codificato di liturgie laiche, nelle quali le interazioni tra nobiltà, popolo e clero erano regolate minuziosamente da un preciso copione, la cui lenta evoluzione assorbe e sintetizza ogni stato del progresso socio-politico della comunità civile.2 rappresentazioni scultoree ed iconografiche interessante il confronto con Fritz Saxl, “ La storia delle immagini”, op. cit., specialmente cap. I

1

Sicari, Ministrale sive de officiis ecclesiasticis summa, MIGNE, t. CCXIII, c.232, in Huizinga, op. cit.

2

queste affermazioni sono suffragate da una florida letteratura specialistica che affronta da un lato feste e tradizioni di cui si trova riscontro in tutto il territorio europeo, dall’altro eventi rituali di carattere locale oggi per lo più perduti. In riferimento al bacino culturale bolognese segnalo a tal proposito un recente lavoro ben documentato di Lorena Bianconi

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Il fatto che vorrei sottolineare come estremamente rilevante è che il sistema di luoghi pubblici che si addensa nel centro della città, principale eredità dell’urbs latina, non perde per secoli il valore della propria centralità, ma, al contrario, la ribadisce per ogni età della storia e per ogni stile architettonico. Nel susseguirsi delle generazioni il centro urbano resta unico: riconoscibile e fondamentale impronta sul territorio che concretizza e assicura il perpetuarsi della realtà urbana dichiarandone solennemente i principi nelle forme dei suoi edifici pubblici.

L’unicità e la riconoscibilità fisica di questo nucleo centrale generatore ed estremamente significante, è quanto di più proprio distingue le strutture urbane del vecchio continente rispetto alle derivate americane.

Nel nuovo continente si sostituisce all’unicità del centro la pluralità dei centri, in realtà urbane frutto della sovrapposizione di distinti ambiti funzionali i cui baricentri solo per caso o per singolari rapporti simbiotici si trovano vicini o sovrapposti, senza mai arrivare a generare uno spazio che possa considerarsi il corrispondente di quello descritto per le città europee. Pur presentando edifici che si ergono in altezza a simbolo della intera realtà urbana, nel nord america non si ha nulla di paragonabile al sistema degli spazi pubblici europei e ancor più radicalmente non esiste alcun corrispondente del centro urbano se con questo intendiamo il luogo che concretizza e riconduce ad unità il separato abitare dei suoi cittadini.

La città americana è policentrica in un modo assai più radicale di quanto non sia lecito cominciare ad affermare ciò anche per le città europee. Essa è a tal punto ricca di separati centri urbani da non poterne riconoscere alcuno come primo in ruolo gerarchico o generatore, tanto che il disegno della città utopica, è una visione di una non–città, Broadacre city, la città libera, che grazie all’elettrificazione, alla mobilità meccanica e nel linguaggio dell’architettura Organica disperde nell’enorme territorio americano quanto nella città si trova ora addensato e soffocato1.

“ Alle origini della festa bolognese della Porchetta” che può considerarsi una buona esemplificazione di quanto qui accennato.

1

Frank Lloyd Wright, “ La città vivente”, Piccola biblioteca Einaudi, torino 1991, in particolare pag.64 e seguenti.

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La proposta utopica di Frank Lloyd Wright in Europa non sarebbe stata ammissibile neppure come utopia.

Sul piano dei legami tra cittadino e città, tra abitato e abitante, il vivere in un organismo urbano casualmente addensato, o densificato in ragione delle prevalenti logiche del profitto e dell’economia, non può che generare un tipo di cittadinanza molto diversa da quella che popola il vecchio continente ed in particolare l’Italia; un concetto di cittadinanza nuovo contraddistinto da legami deboli, assai più facilmente disposto al nomadismo, in una concezione della vita come prevalente fatto individuale, in cui poco contribuisce all’essere il nascere in un certo luogo piuttosto che in un altro, in cui alla conquista della propria individualità non collabora il carattere del luogo di nascita, ma solamente il proprio quotidiano sforzo di operare per autodeterminarsi.

Il self-made-man è un mito necessario per il popolo americano: la coscienza del proprio esistere non è un carattere al quale la propria provenienza possa suggerire qualche determinazione, ma è in tutto un prodotto del proprio agire.

E’ chiaro che, per quanto ci si possa diffondere in tentativi di descrizione, l’importanza della differenza tra questi due modelli di città e di abitare non può che continuare a sfuggire, tanto è incisiva sugli aspetti fondamentali della persona umana.

In controcorrente con il modello americano, è invece di grande interesse notare come proprio il luogo di origine abbia, specie nel nostro Paese, una tale importanza nella vita individuale da contribuire in modo determinante alla formazione di ciò che l’uomo ha di più personale: il proprio nome. Nell’Italia dei comuni, tempo nel quale la maggior parte degli storici è concorde nel collocare la diffusione dell’uso del cognome in senso moderno, la gran parte di queste specificazioni che venivano apposte ai nomi propri a dissiparne la totale equivocità, erano determinate in gran parte dal nome del padre o dal luogo della propria origine.

Assai più significativamente e con una tradizione viva fino agli anni ’60 del XX secolo, nell’ordine cappuccino si era soliti adottare dopo la professione solenne, accanto al nome del santo di cui particolarmente ci si proponeva l’esempio, una sorta di cognome basato sulla propria provenienza: e così la

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storia ha conosciuto fra Bonaventura da Bagnoregio o fra Lorenzo da Brindisi, per non parlare di p Pio da Pietralcina e così via…

Se la città di provenienza era chiamata nel nome a sigillare l’identità di un uomo per tutta la sua vita, ciò non poteva avvenire se non in forza di un legame profondo tra abitato e abitante che, nella sicurezza territoriale della propria origine, fondava gran parte della costituzione essenziale della persona, introducendola in un preciso ethos.

“Ethos […] non è affatto ciò che noi oggi intendiamo per “etico” né tanto meno per “morale”. Ethos non indicava comportamenti soggettivi; indicava la “dimora”, l’abitare in cui ogni uomo si trova dalla nascita, la radice a cui ogni uomo appartiene. In questo senso un greco […] apparteneva a un ethos, a una stirpe, a un linguaggio, a una polis che non era stato lui a scegliere”1

Il centro della città è dunque il motore dell’identità personale e collettiva dei cittadini considerati nella loro singolarità e nel loro insieme.

“ La città è il segno delle relazioni sociali integrate, poiché il tracciato e la forma della città esprimono in modo visibile gli sviluppi della vita associata, e perpetuano in forma stabile gli sviluppi transeunti della storia”2

Il modo con cui questo radicamento al luogo e alle forme della vita civile si manifesta e si tramanda non è dogmatico e non impedisce l’evoluzione della struttura sociale, perché l’educazione a questi valori avviene non in modo diretto ed immediatamente razionale, ma in modo lento e progressivo proprio attraverso l’articolazione spaziale.

Il modo con cui l’architettura concretizza e trasmette in eredità i valori sociali come fatto urbano è estremamente efficace, poiché la fruizione dello spazio avviene continuamente nella distrazione da parte della collettività. La comprensione degli ordinamenti gerarchici di una struttura sociale è trasmessa dalle forme dell’organizzazione urbana non nel momento di attenzione dell’utenza, ma nel momento della sua distrazione, non secondo

1

Da un’intervista a Massimo Cacciari del Settembre 1993 riportata in “ Gli “Adelphi” della dissoluzione” di Maurizio Blondet, op. cit.

2

L. Mumford, “ La cultura delle città”, in Giovanni Klaus Koenig, “ Architettura del Novecento Teoria, storia, pratica critica”, op. cit.

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logiche di razionale insegnamento, ma producendone la naturale assuefazione.1

L’architettura collabora alla formazione dell’intera cittadinanza nella misura in cui la stessa architettura ne sia universalmente il prodotto.

M a la presenza di edifici in questo senso universali è proprio ciò che nella modernità scompare.

“Nel corso del diciannovesimo secolo gli antichi temi unitari cessano completamente di dominare”2 ed il primo che radicalmente perde il suo livello di rappresentatività è proprio quello a cui precedentemente era assegnata non solo la funzione di rappresentare, ma addirittura di consacrare l’intera città come coesa unità sociale non nell’orizzontale universo umano, ma in una precisa collocazione tra la terra ed il cielo.

Ciò che dopo la rivoluzione francese non riesce più a trovare la sua forza simbolica e comunicativa è la chiesa, la cattedrale, il tempio cittadino del quale Leon Battista Alberti affermava che la sua cura ed il suo ornato fosse indubbiamente il vanto maggiore e più nobile che una città potesse avere.3 All’inizio dell’ottocento l’incertezza linguistica che si registra nella progettazione degli spazi di culto rispecchia evidentemente una più grave crisi nella loro concezione: la vittoria dei “neo” ( neo-gotico, neo-romanico, neo-bizantino) ed il loro confuso assemblaggio nell’età della macchina, del motore a scoppio, del transatlantico e del cemento armato, segna con evidenza che, nel progresso dell’intera società, il tema della chiesa resta ancorato al passato, qualcosa di statico di fronte al canto della velocità e del progresso.

Pur non potendosi più appellare alla religione cristiana come fattore di riduzione della cittadinanza ad un solo corpo, non per questo viene a mancare nella pianificazione urbana la tendenza ad uno spazio centrale che, tuttavia, dopo la rivoluzione francese, raccoglie le separate vie degli uomini non più in un punto che li inserisce in modo metafisico e misterico nella direzione di una trascendenza possibile, ma in nuovi templi di una religiosità immanente: la comune ragione umana elevata a divinità.

1

cfr Walter Benjamin, “ L’Opera d’arte nel tempo della sua riproducibilità tecnica”, op. cit.

2

Hans Sedlmayr, “ Perdita del Centro, le arti figurative del XIX e XX secolo come sintomo e simbolo di un’epoca”, op. cit., p. 23

3

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“I pensatori e i costruttori, in egual misura, continuavano ad essere ossessionati dal problema del centro attorno al quale lo spazio delle future città doveva essere organizzato in maniera logica, per rispondere così alle condizioni di trasparenza fissate dalla ragione impersonale.[…] per tutto il secolo essi non fanno altro che reinventare sempre la stessa città”1

Sostanzialmente è questa la cornice entro la quale si deve collocare anche Le Corbuisier e la sua “M aniera di pensare all’urbanistica”: pur diffondendosi in una moltitudine di schizzi rappresentativi la pianta e lo “sky line” di una pluralità di centri urbani europei, egli, uomo entusiasta del suo tempo e delle possibilità introdottevi dalla tecnologia e dal canto dei nuovi materiali, non riesce tuttavia a comprendere che l’uomo, per abitare, deve prima accorgersi di risiedere, di appartenere ad uno spazio, e che, a questo concetto di appartenenza gli insalubri e non funzionali quartieri storici, con i loro muri vecchi e sgretolati, o con gli illustri palazzi di precedenti ordinamenti politici, collaborano in modo radicale e non sostituibile, a meno di non fare dell’antico cittadino europeo un nuovo nomade.

Per arrivare alla nostra contemporaneità si devono tuttavia sovrapporre ai grandi slanci di Le Corbusier e alle visioni di moderne città utopiche i risultati della scuola del restauro, e le riflessioni di Norberg Schulz sul genius loci, di modo che il valore del suolo e la storia delle sue modificazioni sono ritenute nella modernità un bene da preservare e tramandare. Tuttavia, in questo, non è stato possibile recuperare la frattura che si è aperta nella modernità con il progredire della rivoluzione industriale, e il legame che sostiene l’abitante con il centro storico nella contemporaneità non è più lo stesso che assai più saldamente incastonava il cittadino nella sua comunità urbana in età premoderna.

In particolar modo proprio la consapevolezza della radicale frattura intervenuta nei rapporti con la terra e con il lavoro ha segnato una smagliatura non recuperabile nella continuità dell’evolversi della storia umana, per cui è implicito nell’attuale habitus vivendi che tutto quanto l’uomo ha prodotto prima della rivoluzione industriale appartenga ormai ad

1

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un altro tempo, ad un’altra stagione dell’età umana che vediamo irrimediabilmente perduta e verso la quale usiamo il passato remoto, per i suoi limitati legami con il presente.

Risultato della coscienza di questa intervenuta frattura è l’esasperato atteggiamento conservativo che ferma, musealizzandolo, ogni forma in cui rintracciamo le tracce del nostro passato.

Questo atteggiamento verso il passato, ritengo sia illuminante verso due abiti comportamentali che trovano riscontro nell’uomo moderno e che vale qui la pena mettere in luce.

Da un lato infatti, nel trovarsi con legami sfilacciati rispetto al proprio passato, il moderno cittadino è portato a conservare tutto ciò che contribuisce a qualificare la sua memoria tentando di colmare con gli oggetti che colleziona la sua ansia identitaria, dall’altro canto, però, sono proprio gli oggetti che colleziona e la modalità con cui ne entra in possesso a divenire misura della sua lontananza da un legame più ingenuo e naturale con la sua storia ed il suo territorio.

Il fenomeno della musealizzazione mette in luce dunque il paradosso secondo il quale tanto più si provvede alla tutela del patrimonio storico con una logica strettamente conservativa per istituire con esso un vivo legame, e tanto più, proprio a motivo di questo atteggiamento conservativo, proprio dal passato se ne evidenzia in modo amplificato la radicale distanza, distruggendone la lettura della continuità con il presente.

Ebbene, il legame che si propone oggi all’abitante nei riguardi del centro urbano, testimoniato da precise scelte politiche e di pianificazione, è un legame di tipo museale, e di esso porta tutti i pregi e gli inevitabili limiti. E’ dunque ancor vero certamente che sono gli esigui recinti di case dei nostri centri storici a dare un nome ed un luogo a vasti bacini periferici che annegherebbero altrimenti nel più caotico anonimato, eppure questo legame che si instaura è di tipo museale, e cioè conservativo, in cui la città non si può registrare come realtà urbana unitaria in quanto il suo nucleo storico e significativo, quello che le da il nome, è confinato nella geometria precisa delle vecchie mura o dei viali di circonvallazione.

M entre il fenomeno urbano, nei primi anni del dopoguerra, è cresciuto a dismisura con l’inurbamento, la città a scala umana, quella che si è evoluta tenendo conto di tutte le dimensioni dell’uomo e non solo di ciò che

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nell’uomo è misurabile, è rimasta asserragliata nelle sue mura ed ha coperto con la densità della sua presenza spirituale, luoghi che altrimenti non avrebbero avuto storia e quindi nemmeno un “dove”.

L’opportunità di queste considerazioni non ha oggi bisogno di prove, essendo quotidianamente verificata dalla stampa: non appena si segnalano fatti di cronaca o avvisaglie di insicurezza sociale nel centro storico è l’intera città ad esserne rammaricata e colpita, quando invece le medesime condizioni si verificano in un quartiere periferico, la cosa è sempre letta come un problema locale e addirittura è spesso motivo per innescare processi di pregiudizio e segregazione.

Eppure questo legame periferia-centro storico, che da queste considerazioni potrebbe apparire un legame forte e vitale, non è altro che un legame museale e conservativo: dona ai cittadini un senso di appartenenza, ma non li conforta in questo con un legame vitale.

I vecchi edifici pubblici, quelli che determinano il carattere dell’intero abitato, sono simboli vuoti, in cui la forma architettonica non si interseca più con l’uso, perché, con una tendenza che imperversa in Europa e di qui a poco colpirà anche la città di Bologna, le istituzioni della vita pubblica non saranno più ospitate nel palazzo comunale, ma in un nuovo municipio, le cui pareti sottili, high tech, trasparenti e leggere non saranno più in grado di reggere la pesante tradizione dell’istituzione, esattamente come, simmetricamente, le cortine murarie degli antichi palazzi civici trionferanno di affreschi di cui sempre più scarsi esperti sapranno rintracciare la corrispondenza con le liturgie della vita politica della città democratica. Quest’ultimo descritto fenomeno è d’altra parte ciò che già da molti anni avviene per l’architettura sacra: l’ingresso a pagamento in molte chiese ne palesa la prevalente funzione museale, e questa nuova modalità di fruizione dello spazio depista la lettura della tipologia e delle forme artistiche in esso contenute decontestualizzandole dalla liturgia cristiana che ne aveva promosso l’origine. In questo modo un complesso apparato di simboli e l’eufonia finale dell’accordo generato dall’intero apparato artistico decorativo, dall’architettura e da ciò che in essa veniva celebrato, è un sinolo apprezzato e compreso da nuclei sempre più ristretti di persone alle quali, per lo più, il simbolo riesce ancora a parlare per la conoscenza che essi manifestano della liturgia cattolica.

(32)

Il cuore della vita urbana, tradizionalmente costituito dalla triade Piazza – Chiesa – M unicipio si avvia sempre più a diventare un fiabesco relitto al centro del sistema urbano, massa ornata, megalitica e cava, che per la cura delle sue forme e il fascino sempre vivo del rudere continuerà ad essere motore di interesse nell’arbitrio assoluto dei suoi possibili contenuti.

Il centro urbano perpetua la sua valenza attrattiva sempre più in ragione della sua estetica e sempre meno in ragione delle sue funzioni: la vita politica, economica e didattica della città migra in aree periferiche second criteri che ricercano la maggiore funzionalità, dimenticando l’aspetto simbolico e di significazione.

Si tratta di una progressiva “disintegrazione delle reti protettive che i legami umani intessono, nell’esperienza, psicologicamente devastante, dell’abbandono e della solitudine, cui si sommano il vuoto interiore […] e l’alfabetismo morale nell’affrontare scelte autonome e responsabili”1.

Se facciamo riferimento alla storia della cultura civica italiana ed europea, è in assoluto la prima volta che si manifesta questa caduta dello spazio pubblico2.

La sovrapponibilità della città pubblica alto-medioevale con le corrispondenti strutture urbane latine del foro, della basilica e del templum, nella difformità del costume sociale e degli ordinamenti giuridici, testimonia tuttavia la vitalità del centro urbano ed il preservarsi della sua unicità come testa e cuore dell’organizzazione civica.

La riduzione dell’intera città e della sua cittadinanza allo spazio generato da queste sole architetture significative è una realtà sociologica di straordinaria rilevanza che si può dimostrare verificata almeno fino alla prima metà del secolo appena trascorso.

Anche il regime fascista, per incentivare la sottomissione al dominio dello Stato, necessita ancora dello stesso sistema centrale disegnato dal recinto sacro che circonda la piazza: il municipio, il suo balcone (che sempre chiaramente individua chi sta sopra e chi sta sotto) e la chiesa. Quando si tratta di fondare nuove città è questa l’impronta che si imprime sul territorio; quando la maestà delle vecchie architetture in antichi centri storici

1

Z. Bauman “ Dentro la Globalizzazione”, op. cit., p.52 2

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